GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Accordo nucleare Iran: i dubbi e i sospiri di sollievo

A Vienna, Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Cina, Russia firmano lo storico accordo con l’Iran. L’utilizzo per scopi civili e non militari dell’uranio arricchito da parte di Teheran fa da contraltare alla fine delle sanzioni e dell’embargo. Le reazioni di Israele e dell’Arabia Saudita, nonché le critiche provenienti dalla stampa statunitense, lasciano perplessità sui futuri sviluppi geopolitici nel Medio Oriente.

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Dopo 16 giorni di negoziati, ieri a Vienna è stata raggiunta la storica intesa tra Usa, Ue, Gran Bretagna Russia e Cina, e l’Iran sul programma nucleare. Un accordo di portata storica, come definito dalle parti in causa. Un’intesa che da una parte punta alla riduzione della produzione di uranio di Teheran per i prossimi 10 anni. Dall’altra, pone fine alle sanzioni e all’embargo per quanto riguarda il commercio. Sebbene ponga, in modo formale, fine a decenni di conflitto con l’Occidente, il cui apice c’è stato durante l’amministrazione di George W. Bush, le reazioni negative da parte di Israele e le contraddizioni con le alleanze di Washington con partner del Medio Oriente, Arabia Saudita su tutti, suonano come un campanello d’allarme per la comunità internazionale.

Prendendo spunto dall’intesa dello scorso 3 aprile, l’accordo messo nero su bianco dal ‘5+1’ consta di quattro punti fondamentale. Il taglio del 98% delle scorte di uranio arricchito. L’utilizzo delle centrifughe ridotto a due terzi. La possibilità, non automatica, degli ispettori di Alea di effettuare ispezioni presso gli impianti nucleari iraniani, dietro il consenso del tribunale arbitrario formato dagli stessi Paesi che hanno sottoscritto l’accordo. La graduale riduzione dell’embargo sulle armi entro i prossimi cinque anni. La risoluzione Onu in materia è prevista la prossima settimana, quando si riunirà il Consiglio di Sicurezza.

Punti che mirano al nocciolo della disputa tra Usa e Iran: l’utilizzo dell’uranio arricchito per usi civili e non militari. Ma che hanno anche l’intento di creare un corridoio diplomatico privilegiato con il più grande Stato sciita del Medio Oriente, capace di sostenere il regime di Assad in Siria o gli Hezbollah in Libano e determinante nella riconquista dei territori nord-occidentali iracheni, finiti sotto l’ombra del Califfato.

In più, questa intesa consente di aprire un vaso di pandora enorme dal punto di vista del commercio. Basti pensare al petrolio. L’Iran è il quarto produttore al mondo e, con la fine dell’embargo, è pronto ad aumentare la produzione di greggio, con una conseguente diminuzione del prezzo al barile sui mercati internazionali. Inoltre, fino agli anni Settanta, l’Europa era il primo mercato estero per Teheran.

Sono questi aspetti geopolitici ed economici a spingere le dichiarazioni entusiaste dei protagonisti dell’accordo di Vienna. Il presidente Usa Obama ha affermato che “grazie all’accordo, la comunità internazionale potrà verificare che l’Iran non sviluppi l’arma atomica. È un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica”. E si è detto pronto a porre il veto, presso il Congresso, nel caso in cui i repubblicani “si opponessero all’attuazione della legge”, ha ammonito il capo della Casa Bianca.

“Penso che questo sia un momento storico: l’accordo non è perfetto ma è il migliore che potevamo raggiungere”, ha affermato il ministro degli Esteri iraniano Zarif. Mentre il presidente Rohani ha incalzato dicendo che “nessuno può dire che l’Iran si è arreso. L’accordo è una vittoria legale, tecnica e politica per l’Iran, che non sarà più considerato una minaccia mondiale”.

Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, parte attiva dei negoziati, parla di “nuovo capitolo nelle relazioni internazionali”, mentre per il presidente russo Putin “il mondo tira un grosso sospiro di sollievo”.

Il coro, però, non è stato unanime presso tutta la comunità internazionale. Come prevedibile, la reazione di Israele non si è fatta attendere: “ È un errore di portata storica – ha tuonato il presidente Netanyahu al telefono con Obama-. Questo accordo minaccia la sicurezza di Israele e il mondo intero. Quanto avete concordato con l’Iran gli consentirà di avere armi nucleari entro 10-15 anni se rispetteranno l’accordo. Altrimenti, anche in minor tempo”. Mentre un funzionario del governo dell’Arabia Saudita denuncia la possibilità che l’Iran possa “devastare la regione”.

Le contraddizioni in seno all’accordo, come la contemporanea alleanza degli Stati Uniti con la coalizione saudita nello Yemen contro gli Houtii (fazione sciita appoggiata da Teheran), portano dietro di sè una strategia di ben più ampio respiro. La chance data dagli Stati Uniti e i suoi alleati più che all’Iran è diretta alla società civile iraniana. L’apertura verso l’esterno e un’auspicabile e sempre più progressiva responsabilizzazione della classe politica dirigente, potrebbe portare al ritorno al dialogo e alla distensione tra gli sciiti e i sunniti del Medio Oriente. Questo nuovo equilibrio potrebbe essere un’arma efficace contro l’espansionismo dello Stato Islamico.

I critici sull’accordo non mancano, come detto. Negli Stati Uniti, aldilà del Partito Repubblicano, è stata parte della stampa stessa a sollevare ben più di un’ombra. Sul Wall Street Journal, ad esempio, l’editoriale di Bret Stephens tuona dicendo che “l’accordo fa acqua da tutte le parti” e che difficilmente la politica estera iraniana cambierà. Anzi, l’intesa di Vienna potrebbe rivelarsi un boomerang per gli Stati Uniti.

Giacomo Pratali

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Libia: l’accordo è monco

Primo passo nelle trattative per la costituzione di un esecutivo di unità nazionale, dirette dal mediatore Onu Leon. Il governo di Tobruk e i rappresentanti delle altre fazioni hanno ufficializzato il proprio consenso dopo mesi di trattative. Ma manca ancora l’adesione indispensabile di Tripoli.

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Domenica 12 luglio, è stato messo nero su bianco l’accordo per il governo di unità nazionale libico. A Skhirat (Marocco) il governo di Tobruk e i rappresentanti di Zintan, Misurata e di altre fazioni hanno sottoscritto il patto già nell’aria dal 3 luglio scorso. Un passo in avanti, visto il lungo lavoro del mediatore Onu Bernardino Leon. Ma un’intesa monca, visto che manca il consenso dell’esecutivo di Tripoli.

Le reazioni, tuttavia, sono state positive. Per Leon e e per i rappresentanti di Tobruk si tratta di “un primo ed importante passo verso la pace”. Mentre il governo italiano, attraverso il ministro degli Affari Esteri Gentiloni, saluta l’accordo come “un motivo di speranza e ci incoraggia a proseguire nell’impegno negoziale. Tocca adesso a Tripoli compiere un gesto importante e responsabile, aderendo all’accordo proposto dal Rappresentante Speciale ONU Bernardino Leon, con il pieno sostegno anche dell’Italia”, conclude il titolare della Farnesina.

Intanto, sul fronte interno, Derna, città portuale della Cirenaica, è ormai stata “persa dallo Stato Islamico”, come ha ammesso un miliziano dal volto coperto in un video diffuso sul web. Mentre gli Stati Uniti stessi, consapevoli dell’impasse politico-istituzionale del Paese, hanno deciso di rompere gli indugi e, in accordo con altri Stati africani, sarebbero pronti ad impiegare droni contro le roccaforti del Daesh in Libia. Sia il presidente Obama sia il premier della Gran Bretagna Cameron hanno evidenziato, nelle uscite pubbliche di questi giorni, che l’Isis si può sconfiggere. Ma, al tempo stesso, hanno entrambi escluso l’impiego di forze militari tradizionali a vantaggio di tecnologie che non implichino l’utilizzo diretto di truppe.
Giacomo Pratali

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Yemen: sì del governo alla tregua

Medio oriente – Africa di

Il Presidente accoglie le richieste dell’Onu. La pace con il movimento Houtii è comunque legata ad alcune garanzie. Sono più di un milione i profughi dopo tre mesi di conflitto.

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Il governo yemenita ha comunicato il proprio assenso alla tregua chiesta dalle Nazioni Unite. Una pace provvisoria, su cui sembra concordare la parte antagonista alla coalizione saudita che da tre mesi sta bombardando il Paese, il movimento Houtii. Una decisione che, come ammesso da un portavoce dell’esecutivo, sarà vincolata rispetto ad alcune garanzie.

Due in particolare. La prima è il rilascio dei prigionieri, in special modo del Ministro della Difesa, da parte degli Houtii. La seconda, invece, è che lo stesso movimento d’ispirazione sciita lasci le quattro province occupate.

Una squarcio di sereno, dunque, in un contesto geopolitico caldo come quello dello Yemen. Dalle stesse Nazioni Unite, così come da molte organizzazioni non governative, sono arrivate continue denunce sugli orrori a cui è stata sottoposta la popolazione yemenita.

I numeri parlano chiaro. Più di 1500 morti tra i civili, oltre un milione di profughi. E gli stessi centri d’accoglienza presi di mira dai caccia della coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, che la tregua, seppure flebile, appare indispensabile per portare aiuto agli sfollati, creando corridoi umanitari.

 

Giacomo Pratali

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Usa-Russia: Obama conduce il gioco

EUROPA di

Dal G7, passando per il tour di Putin in Italia, finendo con gli allarmismi di una possibile degenerazione del conflitto in Ucraina. Il banco dei rapporti tra Nato e Russia sta rischiando più volte di saltare, anche se la palla, al momento, sembra essere nelle mani di Obama.

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Se la strategia di Washington in Medio Oriente nell’ultimo anno è stata quella di non fare emergere uno Stato predominante in termini di forza economica e leadership nel mondo arabo, in Europa le mosse sono state diverse. L’esclusione di Putin dal G7 e le dichiarazioni dei leader europei sul vincolo di nuove sanzioni verso Mosca se non venissero rispettati gli accordi di Minsk nascono da una precisa volontà.

Sulla disputa in Ucraina, sul nucleare in Iran, sui rapporti con l’Occidente, sotto il profilo dell’aumento delle postazioni Nato nei Paesi confinanti con la Russia, la strategia statunitense è una sola. Ovvero, Mosca deve trattare direttamente con Washington. E, quindi, tornare a quel bilateralismo conciso tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Con l’Europa, divisa anche sulle questioni di politica estera, costretta ancora di più ad un ruolo marginale. Con Stati come la Polonia o i Paesi Baltici che trovano negli Stati Uniti i primi difensori della propria sovranità nazionale. Con la stessa Casa Bianca che utilizza la crisi del Rublo e la forte inflazione russa come capi di imputazione nei confronti del Cremlino.

E l’Europa? Se la Cina costituisce un corridoio per non bloccare del tutto i rapporti commerciali con la Russia danneggiati dalle stesse sanzioni, dall’altra sta divenendo sempre di più un partner privilegiato per quanto concerne le questioni energetiche. Recente è, infatti, il secondo accordo, denominato “Western Route”, consistente nella costruzione di un gasdotto che colleghi la Siberia Occidentale a Pechino.

Se l’Europa ha, come si evince dal G7, accettato il ruolo di comprimario degli Stati Uniti, è ancora più evidente che il danneggiamento dei rapporti commerciali bilaterali ma, soprattutto, il possibile degenerare della questione del gas, potrebbero fare cambiare rotta politica ai leader del Vecchio Continente.

In questo senso, l’Ucraina, dove gli scontri sono ripresi ad un livello quasi pari alla fase precedente agli accordi di Minsk, diviene ancora una volta il pomo della discordia: “Se la crisi in Ucraina si aggrava – dichiara Maros Sefcovic, Vicepresidente della Commissione Europea e Responsabile Energy Union – e se la Russia chiude i gasdotti destinati all’Europa, possiamo resistere per 6 mesi. Ma credo che non convenga a Mosca, visto che siamo il loro principale cliente”, rivela ancora.

Le somme si tireranno verso settembre, con l’inverno ormai alle porte. Ma, al netto del sangue che continua a scorrere nel Donbass, il parziale riconoscimento delle autonomie delle regioni filorusse, a cominciare dalla Crimea, potrebbe, come in parte lasciano intendere gli accordi di Minsk, esse il motore per porre fine alla guerra civile in Ucraina, quindi alle sanzioni contro il Cremlino, quindi al braccio di ferro in stile guerra fredda tra Stati Uniti e Russia.

Il viaggio di Putin in Italia ha, in questo senso, un significato politico importante. Se con Renzi è stato ribadito l’importanza di un ritorno agli storici rapporti commerciali ed economici tra Roma e Mosca, ancora più rilevante è stata la visita presso Papa Francesco. Il leader russo spera di trovare u n appiglio nel Pontefice e nella sua volontà di una distensione tra mondo cattolico e ortodosso.

I rapporti con il Vaticano, la necessità di mantenere l’Europa come primo partner per la fornitura di gas, l’ostacolo delle sanzioni ad una ripresa economica russa. Se da una parte ci potrebbe essere un riconoscimento a livello internazionale delle autonomie delle regioni filorusse in Ucraina, la fine delle ostilità con Kiev e il rapporto diretto con Washington saranno determinanti per Putin affinché la Russia esca da questo isolamento.

Giacomo Pratali

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AIIB: USA contro Cina

AMERICHE/Asia/ECONOMIA di

Ovvero la competizione Cino – americana per la governance dell’economia mondiale

Nelle prossime settimana verra’ definita la Carta Fondativa dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la Banca asiatica di investimento promossa dalla Cina che sta destando un intenso dibattito in tutto il mondo.

Bretton Woods, un sistema al tramonto

L’iniziativa cinese trae le mosse dall’insoddisfazione che l’attuale governance mondiale dell’economia suscita nei paesi emergenti.

Il sistema di Bretton Woods nasce durante la Seconda Guerra Mondiale su iniziativa degli Stati Uniti per definire un sistema multilaterale in grado, dopo la conclusione del conflitto, di garantire un assetto condiviso per il governo dell’economia.

Sono nate cosi la World Bank e l’International Monetary Fund (IMF), istituzioni che per 70 anni sono state lo strumento con cui americani e i soci minori europei hanno ricostruito e guidato le economie del dopoguerra, con il resto del mondo a seguire.

Ma la travolgente crescita economica dei paesi BRICS ha determinato un epocale spostamento degli equilibri mondiali, e la conseguente richiesta da parte di questi ultimi di rivedere il sistema.

Oggetto di approfondito dibattito e’ stato in particolare proprio l’IMF, il cui Board gia’ dal 2010 si e’ impegnato a modificarne la Carta Fondativa nel senso di attribuire maggiore peso nelle decisioni ai nuovi leader dell’economia.

Basti pensare che oggi la Cina, che si avvia a diventare la prima economia del pianeta, possiede una quota di diritti di voto inferiore alla Francia. La riforma tuttavia, si e’ arenata nel 2014 a seguito della mancata ratifica da parte del Congresso di Washington.

Iniziativa cinese

La risposta di Pechino e’ stata rapida e concludente, con il lancio di diverse iniziative  fra le quali il New Development Fund, il Silk Road Fund e, appunto, l’AIIB.

Una banca destinata a finanziare le opere infrastrutturali di cui l’Asia e’ affamata per un fabbisogno stimato in 8 trilioni di dollari.

Basata a Pechino, la Banca avra’ un capitale sottoscritto iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui il 50% cinese, e sara’ guidata da Jin Liqun.

La reazione iniziale degli USA e’ stata fortemente critica, in quanto ritenuta uno strumento “doppione” dell’IMF.

L’amministrazione Obama in un secondo momento ha invece preso una posizione piu’ blanda, limitandosi a criticarne la capacita’ di essere al passo con le “best practice” consolidate in materia di investimenti allo sviluppo.

Nel frattempo la diplomazia cinese ha agito silenziosa ed efficace, incassando molte adesioni fra la fine del 2014 e l’inizio del 2015.

La svolta arriva nel Marzo di questo anno, quando, a sorpresa, la Gran Bretagna annuncia la propria partecipazione in qualitè di socio fondatore, suscitando aspre reazioni americane. Seguono quasi immediate le adesioni di Francia, Germania e Italia.

Infine, a pochi giorni dalla scadenza dei termini, anche l’Australia decide di entrare come socio fondatore. Ad oggi, fra le grandi economie del mondo, rimangono fuori solo gli Stati Uniti e il Giappone, che si riserva di decidere cosa fare in un secondo momento.

Gli Europei rompono il fronte occidentale

Forte di riserve valutarie stimate alla fine del 2014 in 3,8 trilioni di dollari, la Cina ha saputo dimostrare la propria capacita’ di leadership e contrasto dell’egemonia a stelle e strisce.

Il successo dell’offensiva diplomatica, che ha suscitato vivaci discussioni in tutto il mondo, consiste nell’essersi saputa incuneare fra i punti di faglia degli alleati occidentali, agendo in primis su quel Regno Unito che ha sempre vantato una “special relationship” con gli Stati Uniti. Stretti fra le esigenze di mantenere il primato finanziario di Londra, gestire le spinte autonomistiche scozzesi e rimodellare il rapporto con la UE, i britannici non hanno voluto rischiare di rimanere fuori dal ricco mercato asiatico. A quel punto, secondo consolidata tradizione del Vecchio Continente, gli altri non hanno voluto esser da meno. L’Italia si e’ accodata, supinamente.

La (non) posizione italiana

Fa notizia la totale mancanza di dibattito pubblico del nostro paese, che si e’ limitato ad uno striminzito comunicato stampa del Ministero dell’Economia e delle Finanza e a qualche “breve” su internet.

Eppure, il potenziale accesso delle nostre imprese ad un mercato immenso avrebbe dovuto dar luogo a ben altra “narrazione” da parte del Governo Italiano.

Sembra di capire che, nonostante la decisione di aderire, i nostri esponenti politici non vogliano dare ulteriori dispiaceri all’alleato americano, gia’ piccato per la nostra condotta verso la Russia.

Come contropartita, mentre alle porte di casa la Libia e tutto il Mediterraneo bruciano, il Governo continua a garantire la costosa presenza di un contingente militare in Afghanistan.

La vicenda dell’AIIB fa il paio con la questione del TTIP, una delle principali issue in materia di governance dell’economia attualmente in discussione in sede di Unione Europea, di cui in Italia si parla a malapena, aggiungendo indifferenza alla confusione che circonda questo trattato dai contenuti misteriosi.

Prima ripresa cinese, in attesa della reazione USA

Nel frattempo, Pechino brinda al successo, consapevole di aver dimostrato al mondo la propria capacita’ di leadership e aggregazione attorno al progetto.

L’amministrazione americana, tuttavia, ha ancora molte opzioni da percorrere.

Infatti, rimane tutta da verificare la concreta operativita’ della Banca, in quanto sembra che la Cina sia disposta a rinunciare, a differenza di quanto avviene nell’IMF a trazione USA, al diritto di veto all’interno del Board.

In questo caso, sostengono molti analisti, la capacita’ dei paesi occidentali guidati da Washington di influenzarne ed eventualmente paralizzarne le decisioni sarebbe molto alta.

Cosi come una mancata adesione del Giappone, che e’ gia’ azionista di maggioranza della concorrente Asian Development Bank, sarebbe un altro limite, e non da poco.

Infine il Congresso potrebbe sempre tornare sulle proprie posizioni e ratificare una riforma del diritto di voto all’interno dell’IMF, che a sua volta potrebbe nominare un esponente dei BRICS come successore di Christiane Lagarde, vanificando il successo cinese.

Sembra che la partita sia solo all’inizio.

di Leonardo Pizzuti

 

Libia: governo Tobruk colpisce petroliera a largo di Sirte

L’esecutivo riconosciuto a livello internazionale si è reso protagonista di una azione militare simile a quella contro il mercantile turco l’11 maggio scorso. I servizi segreti britannici, intanto, rivelano che la Francia e l’Italia sono diventate le corsie preferenziali dei foreign fighters che si arruolano tra le fila dell’Isis in Libia. Sullo sfondo, a sorpresa, si prospetta un intervento di ispezione e sequestro per i barconi partenti dalle coste libiche, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

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Ancora un bombardamento, stavolta contro una petroliera vicino a Sirte. Dopo l’attacco contro un mercantile turco l’11 maggio scorso, alcuni caccia del governo di Tobruk hanno colpito la nave che, secondo l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale, stava trasportando il greggio per un centrale elettrica in mano ad un gruppo terrorista vicino al governo di Tripoli. In più, c’era il sospetto che l’imbarcazione trasportasse con sé armamenti per i ribelli. Due componenti dell’equipaggio sono rimasti feriti.

Intanto, i foreign fighters, secondo il rapporto pubblicato dall’intelligence britannica, hanno sviluppato una nuova strategia per arruolarsi nello Stato Islamico in Libia. Per evitare i rigidi controlli aeroportuali, questi aspiranti jihadisti giungono in Francia via mare e, una volta in Italia, partono alla volta di Tunisi via traghetto. Da qui, poi, raggiungono Sirte e Derna, le città controllate dall’Isis.

Oltre alla partita dei combattenti di origine occidentale reclutati dal Califfato, l’altro fronte caldo è quello relativo all’immigrazione. Mercoledì 20 maggio, il governo di Tobruk ha spedito una lettera alle Nazioni Unite in cui apre ad un’azione comune assieme all’Unione Europea “al fine di sviluppare un piano d’azione per affrontare la crisi degli immigrati nel Mediterraneo”.

Una sostanziale ammissione di “incapacità della Libia di ridurre le migrazioni illegali”. Ma anche parole importanti, che vanno ad assecondare quello che la risoluzione Onu in materia dovrebbe dire: no al bombardamento e sì all’ispezione dei barconi prima che partano dalla Libia.

Una missione che, secondo fonti diplomatiche, dovrebbe avere il consenso di tutte le
parti in causa libiche e, quindi, anche del governo di Tripoli. In questo senso, la missione del mediatore Bernardino Leon di ricucire lo strappo istituzionale libico diventa cruciale.

Il futuro della Libia e la questione migratoria appaiono dunque correlati. “Il punto principale è decidere le operazioni europee in mare per smantellare le reti criminali e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. L’accordo tra i due governi è essenziale”, ha affermato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini, in missione a New York per sollecitare la comunità internazionale a prendere una decisione rapida sulla politica da attuare nel Mediterraneo.

La partita interna al Consiglio di Sicurezza sarà decisiva nei prossimi giorni. Anche se, forse, già segnata. Tra i membri permanenti, la Russia è quella che si è opposta ad un intervento militare. Ma il Cremlino, così come Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina, hanno dato il benestare ad un’operazione di polizia internazionale la quale, con solide basi legali, dia la “possibilità di ispezionare, sequestrare e neutralizzare le barche che sono sospettate di essere utilizzate per il traffico di migranti”, come recita il capitolo 7 della Carta Onu.
Giacomo Pratali

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Ucraina: soldati russi catturati “erano armati, ma non avevano ordine di sparare”

EUROPA di

L’Osce rende noti i dettagli della missione dei militari di Mosca, sorpresi a combattere con i ribelli del Donbass. Nonostante la quotidiana inosservanza del cessate il fuoco, la guerra civile appare in una fase di stallo. Mentre la Casa Bianca e il Cremlino fanno prove di disgelo, il prossimo inverno appare decisivo per le sorti del conflitto.

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“Erano armati, ma non avevano l’ordine di sparare. Uno di loro ha detto di avere ricevuto ordini dalla sua unità militare di andare in Ucraina”. È quanto comunicato dall’Osce dopo che, lunedì 18 maggio, due soldati russi erano stati catturati sul suolo ucraino mentre combattevano a fianco delle milizie filorusse. Dopo l’arrivo dei convogli militari lo scorso inverno, intercettati dai satelliti Usa, questa è la conferma definitiva di un’ingerenza esterna nella guerra civile nel Donbass. Un’ingerenza che fa seguito al video, risalente al gennaio 2015, in cui un soldato americano è stato filmato tra le fila dell’esercito di Kiev.

Ma la crisi in Ucraina, tuttavia, sembra essere ancora in fase di stallo. Malgrado i continui scontri, soprattutto nei pressi dell’aeroporto di Donetsk e attorno alla città portuale di Mariupol, confermino la fallacia del cessate il fuoco decretato dagli accordi di Minsk di febbraio. La vera resa dei conti sembra essere rinviata al prossimo inverno, quando tornerà in gioco la questione delle forniture di gas da parte di Mosca.

La guerra fredda che ne consegue ha intanto dato i primi, timidi segnali di disgelo. Gli incontri di metà maggio tra il segretario di Stato Usa Kerry e il presidente Putin, la prima visita ufficiale sul suolo russo dall’inizio della crisi ucraina, mostrano la volontà di dialogo tra le due parti.

Oltre ad avere parlato del caso Siria, della possibile vendita dei missili russi S-300 all’Iran e del conflitto in corso in Yemen, il futuro dell’Ucraina è stato al centro del dialogo intercorso tra le due amministrazioni. Gli Stati Uniti vogliono entrare a tutti gli effetti nel tavolo delle trattative composto da Russia, Ucraina, Francia e Germania, che ha portato al Protocollo di Minsk di febbraio.

Nell’incontro con il ministro degli Affari Esteri Lavrov, Kerry si è dimostrato concorde nell’evidenziare che, il rispetto di tali accordi, dovrebbe portare alla fine del conflitto civile nel Donbass. Ma altrettanto evidente è stato l’imbarazzo sulla volontà di Kiev di riprendersi manu militari Donetsk, nonché sulle sanzioni economiche imposte a Mosca.

La presenza, in questo caso ufficiale, delle truppe militari statunitense nella base Nato di Javorov (vicina al confine con la Polonia) è motivo di frizioni con la Russia. Qui, da aprile, sono in corso l’addestramento di quasi 1000 milizie dell’esercito ucraino. Ed è proprio questo punto a frenare una vera e totale distensione tra Washington e Mosca.

Se a questo, aggiungiamo le continue dichiarazioni antirusse del presidente ucraino Poroshenko e del premier Yatseniuk, vediamo che la definizione di questa crisi geopolitica appare distante. Da una parte, Kiev accusa il Cremlino di avere mire antioccidentali e chiede aiuti economici e militari a Stati Uniti ed Unione Europea. Dall’altra parte, Mosca non intende rinunciare alle regioni russofone in territorio ucraino (Donetsk, Lugansk e la Crimea), che considera la risposta allo schieramento di forze e armamenti militari Nato negli Stati un tempo facenti parte del Patto di Varsavia.
Giacomo Pratali

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Europa e Usa a sostegno dell'unità nazionale della Libia

BreakingNews/Varie di

I Governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro forte impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia, e affinché le risorse economiche del Paese siano utilizzate per il benessere della popolazione libica.

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Il primo riferimento è alle trattative tra i governi di Tobruk e Tripoli condotte dal mediatore Onu Bernardino Leon: “In un momento in cui il processo di dialogo guidato dalle Nazioni Unite fa segnare progressi verso una soluzione durevole del conflitto in Libia, esprimiamo la nostra preoccupazione per i tentativi di dirottare risorse libiche ad esclusivo vantaggio di una delle parti in conflitto e di dividere istituzioni economico-finanziarie che appartengono a tutti i cittadini libici”.
Nessuna interferenza nelle istituzioni e nell’economia libiche: “Affermiamo nuovamente l’auspicio che coloro che rappresentano le istituzioni libiche indipendenti, vale a dire la Banca Centrale di Libia (CBL), la Libyan Investment Authority (LIA), la National Oil Corporation (NOC) e la compagnia delle Poste e Telecomunicazioni libiche (LPTIC), a qualsiasi campo appartengano, continuino ad operare nell’interesse di lungo termine del popolo libico, in attesa di un chiarimento circa le strutture di governance sotto il Governo di unità nazionale”.
L’unità nazionale è l’unica possibile soluzione per combattere lo Stato Islamico: “Ribadiamo che le sfide che la Libia deve fronteggiare possono essere affrontate soltanto da un esecutivo che possa supervisionare e proteggere in maniera efficace le istituzioni indipendenti del Paese, il cui ruolo è di salvaguardare le risorse della Libia a beneficio di tutta la popolazione. I terroristi stanno approfittando del conflitto in corso per radicare la propria presenza nel Paese e intendono impadronirsi della ricchezza della Libia per portare avanti la propria agenda transnazionale”.
Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno ai cittadini libici: “La Libia possiede le risorse necessarie per creare una nazione pacifica e prospera, in grado di esercitare un forte ruolo positivo nel più ampio contesto regionale. I terroristi traggono beneficio da questo conflitto poiché il loro scopo è far avanzare i loro progetti in Libia e nel mondo. Esortiamo con forza tutti i cittadini libici a sostenere l’indipendenza di queste istituzioni dalle influenze politiche”.

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Yemen: la coalizione saudita prende di mira i civili

Medio oriente – Africa di

I morti dall’inizio dei bombardamenti sunniti sono in constante crescita. Nonostante questo, gli sciiti Houti tentano a tutti i costi di conquistare Aden. Un intervento della comunità internazionale, in special modo degli Usa, è necessario affinché questa strage, che sta prendendo di mira anche i campi profughi, cessi.

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Si fa sempre più cruento il conflitto nello Yemen. Da una parte, i ribelli Houti continuano la loro avanzata verso il centro di Aden. Dall’altra, la coalizione sunnita, guidata dall’Arabia Saudita e supportata dagli Stati Uniti, ha preso di mira Sanaa, roccaforte sciita.

I numeri sono impietosi. Oltre 200 morti (74 bambini) e almeno 1300 feriti dall’inizio del conflitto due settimane fa. Cifre di uno scontro recente tra ribelli locali ed aviazione saudita, cifre che diventano drammatiche se pensiamo che la guerra civile tra sciiti ed esercito regolare degli anni Duemila ha portato quasi 13mila persone a vivere nei campi profughi. Gli stessi campi profughi colpiti dai bombardamenti aerei dei sunniti.

Mentre sono in corso le consultazioni presso il Consiglio di Sicurezza Onu, è necessario una ricomposizione del conflitto a livello internazionale. Nel giorno di Pasqua, i dirigenti Houti si sono detti pronti a trattare la pace se la coalizione sunnita cesserà il forcing via terra e via mare. Di contro, il re saudita Salman ha aperto, a parole, al cessate il fuoco. Frasi subito smentite dai fatti.

Il ministro della Difesa del Pakistan Asif ha riferito, ai media internazionali, che l’Arabia Saudita ha fatto esplicita richiesta di aiuti militari. Mentre è Riyad stessa ad appoggiare l’esercito regolare yemenita nel tentativo di frenare l’avanzata sciita presso Aden.

Il ruolo decisivo è ancora una volta degli Stati Uniti. Lo Yemen è sì incontrollabile e simile al caso Afghanistan. Tuttavia, questa guerra, non più solo civile, potrebbe rilanciare le ambizioni sunnite su tutta l’area mediorientale e dare benzina all’offensiva dello Stato Islamico in Siria, Iraq, Libia e Nigeria. Infine, non è accettabile che questa palese “violazione dei diritti internazionali e delle leggi di guerra”, citando il rappresentante Ue Mogherini e il segretario generale Ban-Ki Moon, sia in atto con il rumoroso silenzio-consenso di Washington.

Giacomo Pratali

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Usa, tra l’accordo sul nucleare con l’Iran e i possibili retroscena

Medio oriente – Africa di

Raggiunto l’accordo tra i Paesi “5+1” e l’Iran. Stabiliti i punti base. Le sanzioni contro Teheran saranno revocate. L’intesa con lo Stato sciita sembra, però, stonare con la contemporanea offensiva di alcuni Stati sunniti nello Yemen. Sembra perché questo quadro geopolitico caotico va a vantaggio degli Stati Uniti.

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Giovedì 2 aprile Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno trovato l’intesa storica sul nucleare con l’Iran, il quale vede cessare l’embargo impostogli. I parametri di base sono da stabilire entro il 30 giugno, ma i punti dell’accordo sono chiari. L’attività di Teheran sarà tenuta sotto controllo per i prossimi dieci anni (prorogabili a 25), periodo entro il quale dovranno essere ridotte a 6 mila (75%) le centrifughe in azione. Le riserve di uranio già presenti saranno portate all’estero o diluite. Infine, il capitolo delle sanzioni finanziarie e petrolifere: Stati Uniti ed Europa le revocheranno dopo la verifica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Se Obama parla di più sicurezza “per il nostro Paese e i nostri alleati”, dello stesso tenore sono le dichiarazione del rappresentante Ue Mogherini (“Questo accordo garantisce che l’Iran non svilupperà il nucleare”) e del ministro degli Esteri di Teheran (“Abbiamo trovato le soluzioni per i parametri chiave”).

Ma se l’accordo è senz’altro un cambio radicale dopo anni di rapporti freddi tra Stati Uniti e Iran, lo stesso non si può dire per altri Paesi. Il presidente israeliano Netanyahu attacca parlando di “errore storico” a favore di un Paese che sta commettendo “atroci azioni in Siria, Iraq, Libano e Yemen”.

Ed è proprio il caso Yemen a stonare con questa intesa. In queste ultime ore, infatti, la coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita, con il consenso e il conseguente l’appoggio logistico degli Stati Uniti, sta sferrando una massiccia offensiva militare contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dallo stesso Iran.

Questo sembra andare nella direzione opposta rispetto all’accordo sul nucleare, così alla collaborazione nella lotta allo Stato Islamico in Siria e Iraq. Ma è solo apparenza. L’obiettivo degli Stati Uniti in Medio Oriente, come riportato nel rapporto della National Security americana di febbraio, è quello di non fare emergere nessun attore geopolitico di primo piano in quest’area. E, al tempo stesso, non prendere parte in maniera attiva alle azioni militari: vedi i casi già citati in Yemen, Iraq e Siria. Un obiettivo finora raggiunto.

Giacomo Pratali

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