GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Libia: in attesa del via libera dell’ONU

Medio oriente – Africa/Varie di

Come annunciato a seguito della Conferenza Internazionale di Roma, le diverse fazioni libiche, Tripoli e Tobruk su tutti, hanno raggiunto a Skhirat (Marocco) l’accordo per il governo di unità nazionale. Il Consiglio di Presidenza, presieduto da Sarraj Fayez, dai tre vicepremier in rappresentanza di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, più altri rappresentanti hanno il compito, entro 40 giorni, di trovare i ministri e formare il nuovo governo. C’è attesa, intanto, per la risoluzione ONU, che dovrà definire i termini dell’intervento militare per mettere in sicurezza Tripoli e addestrare le forze di sicurezza locali: l’Italia è pronta ad assumere il ruolo di guida della coalizione internazionale, mentre la Gran Bretagna invierà circa mille uomini.

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Nella giornata di giovedì 17 dicembre, con un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia, i 90 rappresentanti dell’Assemblea di Tobruk e i 27 del GNC di Tripoli hanno firmato l’accordo, frutto di un’estenuante trattativa durata un anno. Il Consiglio di Presidenza neoeletto, oltre a scegliere i rappresentanti del nuovo esecutivo, dovrà convincere i presidenti dei rispettivi parlamenti ad accettare l’accordo. Tra i nodi da sciogliere, anche la modalità dell’intervento della coalizione internazionale: le diverse fazioni, infatti, caldeggiano l’addestramento delle forze di polizia libiche, piuttosto che un intervento militare straniero classico.

Se le reazioni positive da parte delle più cariche istituzionali globali si sprecano, sul campo iniziano già a vedersi i primi effetti dell’accordo sotto l’egida dell’ONU. La presenza di un esecutivo unico a Tripoli consentirà, dopo la Siria, di aprire in Libia l’altro fronte per la lotta allo Stato Islamico, radicalizzatosi a Sirte e presente in maniera forte in centri importanti come Bengasi.

Un piccolo nucleo di truppe statunitensi è già presente in loco, come riportato da molti media internazionali. Così come Francia e Gran Bretagna sarebbero già arrivati in Libia attraverso i confini meridionali.

E l’Italia? Come trapelato da ambienti vicino alla Difesa, il non interventismo in Siria, l’apporto alla missione NATO in Iraq di 450 soldati a difesa dei lavori presso la strategica diga di Mosul, mostrano chiaramente la linea di Roma: riservare il massimo sforzo, in termini umani e logistici, alla più vicina, e per questo più cruciale, Libia.

La missione militare internazionale in Libia, dunque, è già alle porte.
Giacomo Pratali

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Libia: dubbi sull’accordo preliminare

Medio oriente – Africa di

A quasi un mese dalla fine del mandato di Bernardino Leon, il GNC di Tripoli ha annunciato di avere trovato un accordo preliminare con Tobruk per la formazione di un governo di unità nazionale, al di fuori però della precedente bozza ONU. Essa prevede la creazione di un comitato di dieci rappresentati, divisi equamente tra i due esecutivi in carica, i quali eleggeranno il nuovo premier e i due vicepresidenti.

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Un accordo che, seppure fuori dalla bozza Onu dell’ottobre scorso, è stato salutato in maniera positiva dallo stesso Kobler e dall’Italia. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, pur frenando su un intervento militare in Libia nel breve termine, ha affermato che il proprio Paese “è pronto a fare la propria parte”.

A partire dalla prima conferenza internazionale sulla Libia, in programma il prossimo 13 dicembre a Roma. Un po’ come accaduto con il vertice di Vienna sulla Siria dopo gli attentati di Parigi e la reazione francese sul suolo siriano, l’Italia cerca di guadagnarsi un ruolo di primo piano in quest’altro contesto geopolitico caldo, avendo al suo fianco gli Stati Uniti, ma anche la Russia, la quale, attraverso il proprio ministro degli Esteri Lavrov, ha dichiarato che Mosca “è pronta ad aiutare l’Italia sulla Libia”.

Un modo, dunque, per rimettersi in gioco dopo l’attendismo dimostrato a seguito dei fatti di Parigi. In più, la notizia riportata da un’agenzia stampa iraniana, ancora non confermata, della presenza del califfo al Baghdadi a Sirte, roccaforte dell’Isis in Libia, pone il problema della presenza dell’organizzazione jihadista a 300 chilometri dalle coste italiane. Una risposta comune dall’Europa è ora quanto mai necessaria.
Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Mar Cinese Meridionale: la grande disputa

Asia/Sud Asia di

Gli attori principali di questa storia sono 4: La Cina, le Filippine, gli USA e il Giappone. La posta in gioco è enorme: il controllo delle acque del Mar Cinese Meridionale, dove si incrociano gli interessi delle potenze in gioco.

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Ormai da mesi, gli Stati uniti sono impegnati in una escalation verbale con la Cina. Pechino, infatti, non nasconde le proprie mire espansionistiche sulla porzione di oceano che bagna le sue coste meridionali e sta costruendo isole artificiali per spostare in avanti di alcune decine di chilometri i limiti delle proprie acque territoriali. Un allargamento forzato dei confini che mette in agitazione anche Vietnam, Filippine e Malesia, che su quello stesso tratto di mare avanzano le proprie rivendicazioni.

La Cina ha più volte intimato agli USA di non esacerbare il clima sorvolando gli isolotti artificiali con i propri apparecchi e portando le navi della flotta a navigare in prossimità delle loro coste. Gli Stati Uniti hanno risposto seccamente, appellandosi al diritto marittimo internazionale, ed hanno assicurato ai propri alleati regionali la collaborazione della marina americana per il controllo delle posizioni cinesi.

Va tenuto a mente che, in questa zona di mondo, il controllo delle acque e la possibilità di mettere i propri vessilli su porzioni anche piccolissime di terra galleggiante ha un valore tutt’altro che simbolico. Di fatto, assicurarsi la possibilità di pattugliare determinate vie di comunicazione marittime, attraverso la costruzione di basi militari, permette di controllare direttamente il commercio navale e le vie di accesso a risorse fondamentali sul piano economico e strategico. Dal controllo di uno scoglio isolato o di un tratto di barriera corallina possono scaturire serie ripercussioni sul fronte della crescita economica e della stabilità politica.

Per la Cina è, prima di tutto, una questione di sovranità regionale, con inevitabili ripercussioni globali. Per gli Stati Uniti, la preoccupazione principale è rappresentata dalla libertà di navigazione nel Pacifico, dove gli USA hanno costruito la propria supremazia, dopo la fine della Guerra Fredda, grazie anche all’aiuto degli alleati regionali, in primis Giappone e Corea del Sud. La Cina ha però da tempo messo in discussione questo assunto, emergendo come nuova potenza nel Mar Cinese Meridionale ed esplicitando le proprie mire egemoniche sull’area. Una ridefinizione degli equilibri che per Washington rappresenta un serio problema.

La supremazia sulle acque è da sempre un elemento fondamentale della strategia americana sul piano globale. Il controllo dei mari, assicurato dal primato militare della US Navy, garantisce vie di commercio rapide e sicure per i beni diretti o provenienti dai porti americani e permette di spostare rapidamente ingenti quantità di truppe in caso di necessità, anche a grande distanza. Ma queste stesse esigenze sono diventate ormai vitali anche per la Cina, una potenza globale la cui economia è sempre più votata all’esportazione e che dunque necessita di un maggiore controllo sulle vie commerciali marittime, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, ricco di risorse ittiche e di gas naturale. La Cina sta dunque tentando di rimodellare lo status quo, approfittando della debolezza degli avversari regionali, incapaci di fronteggiare il gigante asiatico sul piano militare e delle incertezze del rivale americano, che non sembra disposto ad usare la forza per contenere le sue mire espansionistiche.

Ad ogni modo, le attività costruttive cinesi nel mezzo del Mar Meridionale hanno provocato la fortissima irritazione dei vicini del sud-est asiatico, a partire dalle Filippine che rivendicano la propria sovranità su molte delle piccole isole cementificate dalle attività costruttive cinesi. La Cina pensa però di poter tenere sotto controllo i paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, agendo direttamente sull’organizzazione a livello politico ed azionando le proprie leve di influenza economica e militare nei confronti dei singoli interlocutori. Pechino confida altresì di poter gestire le reazioni di Washington, nella convinzione che gli USA eviteranno ogni escalation, temendo un conflitto diretto nelle acque del Mar Cinese Meridionale. I fatti, fino ad oggi gli anno dato ragione.

Resta da capire qual è la posizione del Giappone all’interno di questo puzzle. La potenza del Sol Levante è forse l’unico avversario che la Cina teme davvero, in questo momento. Per la prima volta dopo decenni, il Giappone sembra deciso ad assumere un ruolo più attivo nel pacifico e nel Mar Cinese Meridionale. Recentemente Tokio ha stretto nuovi accordi con Manila e con altri paesi dell’ASEAN per condurre operazioni congiunte e per facilitare le operazioni di rifornimento della sua flotta e dei suoi velivoli. Come contropartita, ha offerto alle Filippine e al Vietnam navi e velivoli per la marina e la guardia costiera. Il Giappone ha anche raggiunto un accordo con gli USA per svolgere operazioni congiunte di pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale, a partire dal prossimo anno.

Perché questo inedito attivismo? Il Giappone è un isola e dispone di poca terra e di poche risorse naturali. Tokio deve dunque necessariamente salvaguardare i propri interessi sui mari, per garantire la sussistenza dell’economia nipponica, ed ha compreso che il nuovo espansionismo cinese rappresenta una minaccia che non può restare senza risposte.

Dal punto di vista di Pechino, la nuova politica di Tokio rappresenta un problema di difficile soluzione, sopratutto se il Giappone agisce in sinergia con gli Stati Uniti per la creazione di una forza congiunta nel Mar Cinese Meridionale. La risposta per ora è diplomatica. Attraverso diversi canali Pechino sta cercando di convincere Washington a non impegnarsi a fianco del Giappone, suggerendo che Tokio starebbe perseguendo unicamente i propri interessi nell’area. In prospettiva, la Cina paventa anche una possibile escalation militare con le Filippine, sostenute dal Giappone, per il controllo delle isole contese. Uno scenario che metterebbe gli USA nella spiacevole condizione di dover scegliere se intervenire o meno a fianco del proprio alleato, con tutte le conseguenze che la scelta comporterebbe sul piano militare e politico.
Luca Marchesini

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Turchia-Usa: accordi paravento

Medio oriente – Africa di

Sono almeno 75 i combattenti addestrati da Stati Uniti, forze britanniche e turche, entrati in Siria e collocati nelle zone a nord della città di Aleppo. A sostenerlo, l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani con sede a Londra. La nuova immissione di combattenti è conseguente alla presa di coscienza da parte degli Usa del fallimento del programma di addestramento rivolto ai ribelli siriani moderati “arruolati” nella cosiddetta “Divisione 30” per contrastare il governo Assad ed ora i terroristi dell’Isis. I 15.000 uomini che la dovevano comporre, una sorta di filiale Usa in Siria, si sono via via disgregati. La convinzione che servano uomini e sicuramente in numero maggiore di quanti non ne siano rimasti ora è supportata da una altra presa di coscienza che coinvolge direttamente i rapporti con la Turchia. Il 22 luglio scorso, gli Usa hanno firmato con lo stato guidato dal presidente Erdogan un accordo di cooperazione militare nel quale emerge la possibilità da parte degli americani di utilizzare la base aerea di Incirlik, a nord del confine con la Siria, possibilità fino a quel momento preclusa. Sensazioni e risultati stanno convincendo la comunità internazionale che l’ago della bilancia di Ankara viri verso la repressione destinata principalmente non a Isis, come dovrebbe, ma ai curdi, considerati i reali oppositori del Califatto. A dimostrarlo, i 300 attacchi inferti dai Turchi alle basi del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan fondato da Ocalan, rispetto ai 3 indirizzati contro Isis. La Turchia avrebbe concesso una maggiore collaborazione spinta dal desiderio, alimentato dall’avanzata dei curdi siriani, di sbagliare coscientemente mira e colpire, fra i pochi sgherri del Califfato, molti curdi, soprattutto dopo la vittoria, alle elezioni di giugno, dell’Hdp di Salahattin Demirtas, evoluzione moderata del PKK e restare comunque impunita. Anche gli Stati Uniti stanno giungendo a questa convinzione. La volontà di salvaguardare le strette relazioni con gli stati sunniti di Arabia Saudita, Pakistan, monarchie del Golfo e la stessa Turchia, conservata fin da quando, dopo l’11 settembre, è iniziata l’offensiva contro Al Qaeda, sta giocando un ruolo decisivo perchè sono quegli stessi Stati ora che favoriscono o comunque tollerano la presenza di Isis. Per non giocarsi alleanze preziose, gli Stati Uniti fingono di non vedere. E la Turchia continua a “giocare” offrendo concessioni per evitare interferenze.

 

Monia Savioli

Kunduz, distruzione ospedale MSF: scuse e accuse

19 morti e circa 30 tra feriti e dispersi. È questo il bilancio del raid aereo condotto per errore sabato 3 ottobre dalla coalizione guidata dagli Usa contro l’ospedale di Kunduz, Afghanistan, dove aveva sede Msf. L’attacco segue altri interventi delle forze speciali Usa che, nel corso di questa settimana, sono riusciti ad uccidere 200 talebani di Mansour. Tuttavia, i jihadisti, scacciati dal centro cittadino, controllano ancora alcune zone periferiche.

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Medici Senza Frontiere, di cui 12 operatori sono rimasti uccisi, ha negato che dentro l’ospedale ci fossero talebani: “Tutte le parti in conflitto, comprese Kabul e Washington, erano perfettamente informate della posizione esatta delle strutture MSF  – ospedale, foresteria, uffici e unità di stabilizzazione medica a Chardara (a nord-ovest di Kunduz). Come in tutti i contesti di guerra, MSF ha comunicato le coordinate GPS a tutte le parti del conflitto in diverse occasioni negli ultimi mesi, la più recente il 29 settembre. Il bombardamento è continuato per più di 30 minuti da quando gli ufficiali militari americani e afghani, a Kabul e Washington, ne sono stati informati. MSF chiede urgentemente chiarezza per capire esattamente cosa sia successo e come sia potuto accadere un evento di questa gravità”, si legge nel comunicato diffuso dalla Ong.

Istituzioni, dunque, sotto accusa. In special modo, Stati Uniti e Nato: “Il ministero della Difesa ha lanciato un’inchiesta completa e aspetteremo i risultati prima di dare un giudizio definitivo sulle circostanze di questa tragedia – ha chiarito il presidente degli Usa Barck Obama -.  “Ho chiesto al dipartimento di tenermi al corrente delle indagini e mi aspetto un resoconto completo dei fatti e delle circostanze. Michelle e io preghiamo per tutti i civili colpiti da questo incidente, le loro famiglie e le persone care. Continueremo a lavorare a stretto contatto con il presidente Ghani, il governo afgano e i nostri partner internazionali per sostenere le forze di difesa nazionale afghane che lavorano per garantire la sicurezza al loro Paese”, ribadisce il capo della Casa Bianca.

Anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg esprime cordoglio: “Sono profondamente amareggiato per i tragici eventi che hanno coinvolto la struttura di Medici Senza Frontiere a Kunduz. Rivolgo le mie condoglianze a tutti coloro che ne sono rimasti coinvolti. Il lavoro di Msf in tutto il mondo è straordinario, incluso in Afghanistan. Essi giocano un ruolo importante nella creazione di un futuro migliore per la popolazione afghana”.

Mentre l’Onu è decisa ad aprire un’inchiesta, la Ong è stata costretta a spostarsi in altre strutture cittadine. Tuttavia, le spiegazioni e le inchieste annunciate dalla varie autorità non bastano a dare una spiegazione di quanto successo: “Questo attacco è ripugnante ed è una grave violazione del Diritto Internazionale Umanitario” ha detto Meinie Nicolai, presidente di MSF che oggi si trova in Italia. “Chiediamo alle forze della Coalizione completa trasparenza. Non possiamo accettare che questa terribile perdita di vite umane venga liquidata semplicemente come un ‘effetto collaterale’.”

Se l’intervento militare russo in Siria e il sostegno al presidente Assad hanno incontrato il dissenso di Washington, l’errore umano che ha portato alla morte di numerosi pazienti e operatori di Msf mettono gli Stati Uniti in grave imbarazzo di fronte alla comunità internazionale, soprattutto dopo i gravi fatti dello Yemen in cui, le bombe sunnite contro i campi profughi, di qualche mese fa, provenivano dall’equipaggiamento dell’esercito americano.

Giacomo Pratali

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Trattato anti proliferazione nucleare, USA e Russia per l’aggiornamento

AMERICHE/EUROPA di

La  Russia si sente sempre più vincolata dal trattato INF (Intermediate Nuclar Forces) di disarmo nucleare siglato negli anni 80, che nonostante sia firmato da entrambe le gradi potenze non ha impedito loro di modernizzare i propri arsenali nucleari e le difese missilistiche.

Il patto IFN è una parte fondamentale del trattato di disarmo nucleare bilaterale che ha fermato la proliferazione di tetsate a medio aggio in Europea negli anni 80 con un pericolo di incidenti molto alto.

Le spinte a rivedere e modificare gli accordi sono oggi molto forti sia in campo statunitense che in campo sovietico con il percolo che venga abbandonato del tutto.

Lo scorso 23 settembre la ussia ha criticato aspramente il dispiegamento del modello aggiornato delle testate B61-12 in Germania alzando ancora i toni della discussone minacciando di ritirarsi dal trattato.

. L’INF vieta la presenza di armi nucleari in deposito a terra  o missili a medio raggio convenzionali (da 500 a 5.500 chilometri, o da 300 a 3.400 miglia). Anche se la distribuzione statunitense di B61-12 armi nucleari in Germania non viola il Trattato INF, viene percepita da Mosca come una prova di forza nei suoi confronti e si sente limitata nella reazione dal trattato.

Nessuna delle due super potenze vuole ritirarsi dal trattato ma è chiaro che in questo periodo di forte instabilità geopolitica entrambe sono portate a flettere i muscoli spingendo per una rivisitazione del trattato che permetta una difesa dei propri territori.

A Dubai il nuovo centro di anti propaganda Isis

Medio oriente – Africa di

Antipropaganda è il termine magico al quale viene affidato il nuovo fronte della lotta contro Isis. Nessuna arma fisica in questo caso, ma semplicemente la forza che immagini e parole riescono a esercitare sulle volontà e a dominarle. La guerra combattuta dal Califfato non prescinde, fin dalle origini, dal potere di condizionamento esercitato da una comunicazione mirata e strutturata per far leva sulle vulnerabilità dei singoli che, opportunamente stimolate, possono trasformarsi negli strumenti necessari per asservirne le menti. Attirati da miraggi e sedotti dalla violenza, volontari provenienti da ogni parte del mondo hanno raggiunto e affiancato i combattenti della jihad vestendo le nere divise del califfato. Stati Uniti ed Emirati Arabi hanno ora deciso di confrontarsi con lo Stato Islamico sul comune terreno della comunicazione. Abu Dhabi è stata scelta come sede del centro media “Sawab Center”, parola araba – sawab – che significa “il modo giusto e corretto”, nel quale saranno concepite le azioni di contrasto alla propaganda firmata Isis, diffuse attraverso media tradizionali e soprattutto web tramite i canali social. L’obiettivo è di “invertire la narrativa” sul gruppo Isis. Il centro, in corso di strutturazione, si avvarrà della collaborazione di circa una ventina di dipendenti a tempo pieno provenienti dagli Emirati e sarà supportato finanziariamente in particolare dal paese che lo ospita. Gli Stati Uniti nel frattempo si stanno attrezzando per rendere ancora più strutturato ed efficace il CSCC, Centro di comunicazione strategica per l’antiterrorismo (Center for Strategic Counterterrorism Communications), istituito nel 2011 e artefice della campagna “Think Again , Turn Away” (Rifletti, allontanati) diffusa su Facebook , Twitter e Tumblr . “L’esercito virtuale on line” di Isis è composto da 90.000 account sparsi in tutto il mondo dai quali vengono diffusi messaggi di testo e video attraverso la rete. Una ramificazione che fa capire quanto il Califfato ritenga importante ai fini del reclutamento, le campagne promozionali e i canali che le supportano. Un primo tentativo di contropropaganda è stato realizzato nel maggio scorso dal Dipartimento di Stato americano che ha diffuso su You Tube, un video dal titolo “Welcome to the “Islamic State” land” costruito per mettere in evidenza le vittime musulmane del terrorismo islamico oltre alla foga distruttrice del movimento. Le immagini sono precedute da una breve prefazione: “Correte, non camminate, verso la terra dell’Isis”, dove imparerete “utili nuove doti” quali “crocifiggere e uccidere musulmani”, “far saltare moschee”, divenire suicide bomber all’interno dei luoghi di culto e sprecare risorse primarie mentre scorrono le immagini delle atrocità compiute dai jihadisti. Il finale offre la punta più alta del sarcasmo che lo governa. “Il viaggio è economico – si legge mentre si vede un cadavere buttato da una altura. “Non avrete bisogno del biglietto di ritorno”. Nonostante le proteste per l’eccessiva violenza rilevata da alcuni e le accuse di maldestra imitazione dei video prodotti dalla controparte, il video è presto diventato virale con migliaia di visualizzazioni. Anche l’Unione Europea ha deciso di muoversi sul fronte dell’antipropaganda dichiarandosi pronta a dare vita ad un gruppo di consiglieri in Belgio per contrastare i messaggi dei jihadisti dello Stato islamico (Isis). Anche in questo caso la via prescelta è quella della contronarrazione ai messaggi postati dai jihadisti sui social media. Di fronte a questa mobilitazione, la rete non è rimasta in silenzio. I militanti di Anonymous, cyber-movimento noto per le sue azioni dimostrative ed i suoi attacchi informatici, ha impiegato le sue capacità per mettere a punto due interventi di sabotaggio informatico che hanno colpito account Twitter, Facebook ed email dei fiancheggiatori della jihad islamica.
Monia Savioli

Iran, stop sanzioni: i riflessi geopolitici ed economici

Con il sì del Consiglio di Sicurezza Onu, finisce l’embargo imposto a Teheran. Per il governo statunitense è “l’unica chance per fermare il piano nucleare”, mentre per l’Europa e l’Italia si apre un’importante opzione commerciale.

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Grazie alla risoluzione Onu del 20 luglio, il Consiglio di Sicurezza ha detto sì all’accordo e alla fine delle sanzioni contro l’Iran decise dalla stessa assemblea nel 2006. Via libera dunque al patto siglato tra il 5+1 e Teheran a Vienna il 14 luglio scorso. Il documento entrerà in vigore non prima di 90 giorni.

Un accordo storico per l’Occidente dal punto di vista geopolitico ed economico. Geopolitico in particolar modo per gli Stati Uniti, come ricordato il 23 luglio dal segretario di Stato Kerry: “Non potevamo di certo aspettarci la capitolazione dell’Iran – ha riferito al Congresso -. Ma era l’opzione migliore. Spero che il Congresso (rivolgendosi al Partito Repubblicano, ndr) approvi perché questa è l’unica chance per fermare il piano nucleare ed evitare il rischio di uno scontro militare”, ha poi concluso.

Ma oltre agli aspetti geopolitici e strategici nel mondo arabo, gli sbocchi sono anche commerciali. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale di Saras (azienda italiana di raffinazione del petrolio) Dario Scaffardi, in un summit su business e finanza, oltre a sottolineare i benefici che il calo del prezzo del petrolio ha già portato sul mercato internazionale, ha riferito che, a seguito della fine dell’embargo, il proprio gruppo è stato contattato dall’Iran, tornatoad essere attore protagonista del mercato di greggio internazionale. Come già prospettato dopo l’accordo di Vienna, il ritorno alla produzione di greggio da parte di Teheran “potrà portare un milione di barili di greggio al giorno sul mercato una volta tolte le sanzioni. Con la possibilità di aggiungere altri 0,5-1 milione di barili abbastanza velocemente”, ha affermato il manager dell’industria della famiglia Moratti.

Sul fronte italiano, inoltre, i prossimi 4 e 5 agosto, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni e il titolare dello Sviluppo Economico Federica Guidi si recheranno in Iran assieme ai rappresentati dei più grandi gruppi industriali italiani. Il fine è quello di mettere nero su bianco un interscambio commerciale significativo con Teheran. Infatti, prima della rivoluzione del 1979, l’Europa era il primo partner in termini di import-export dell’ex Persia. Primato che, al momento, dagli anni’90 appartiene alla Russia, la quale, oltre ai rapporti geopolitici di amicizia, ha effettuato importanti investimenti nei settori petrolifero e gasifero del Paese mediante la società Gazprom.

 

Giacomo Pratali

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Ramadi: presto l’offensiva Usa-Iraq

Medio oriente – Africa di

Il conto alla rovescia dovrebbe essere ormai giunto al termine. L’offensiva targata Usa e Iraq per riprendere il controllo di Ramadi, capoluogo della grande provincia di Al-Anbar a 70 miglia a ovest di Baghadad, strappato nel maggio scorso dalle forze del Califfato è stata annunciata come prossima a inizio luglio dal presidente Usa Barak Obama. Una manciata di giorni in cui il servizio antiterrorismo iracheno avrebbe dovuto perfezionare il piano che vede coinvolti al momento i circa 5.000 soldati della polizia e dell’esercito federale iracheno schierati con l’appoggio della rappresentanze sunnite nel controllo delle zone circostanti la città. L’interesse per la provincia di Anbar risiede nella sua posizione geografica, al confine con l’Arabia Saudita e la Giordania e nella sua composizione sociale, basata su importanti tribù sunnite, ritenute fondamentali nella lotta contro lo stato islamico. La caduta di Ramadi, preceduta ad aprile dall’esodo che, secondo le fonti Onu, avrebbe portato alla partenza di 114.000 iracheni in cerca di rifugio lontano dalle milizie Isis, era stata considerata come l’apertura di un pericoloso corridoio verso la conquista della capitale irachena. La situazione è peggiorata ulteriormente nelle ultime settimane. I miliziani Isis, dopo aver liberato tutti i carcerati e issato le bandiere nere tappezzandone la città, hanno deciso di chiudere i condotti della diga di Radami costringendo ad una brutale siccità le zone di Khalidiyah e Habbaniyah, , baluardi del governo iracheno ai margini della diga e a poca distanza da Falluja. L’obiettivo sarebbe quello non tanto di minacciare la sopravvivenza delle popolazioni quanto di abbassare il livello del fiume Eufrate per consentire alle truppe Isis spostamenti più rapidi e sicuri verso Khalidiyah e quindi altri territori ancora in mano governativa. In risposta alla richiesta di aiuto lanciata dal premier iracheno Haider Al Abadi, gli Stati Uniti hanno recentemente implementato con l’invio di 450 soldati scelti le attività addestrative organizzate presso il nuovo centro realizzato nella base militare aerea di Taqaddum. Ora il numero complessivo dei militari Usa è salito a oltre 3.000 unità e non è escluso per il futuro, il prestito di elicotteri Apache alle forze irachene per supportare l’offensiva contro Isis. L’arrivo dei rinforzi Usa è stato affiancato dall’invio deciso dal Governo italiano di un contingente di 30 incursori del Col Moschin con compiti ufficialmente solo addestrativi. Al momento i militari italiani impegnati in Iraq nell’ambito dell’Operazione “Prima Parthica” finalizzata all’addestramento del personale delle KSF, Kurdish Security Forces, sono circa 200.

Monia Savioli
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