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Il Regno Unito, dopo le elezioni che non rafforzano la May

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Il ricorso alle elezioni anticipate, per la premier britannica Theresa May, si è rivelato un boomerang.   Il 18 aprile aveva annunciato la sua decisione sul voto, nonostante la legislatura fosse iniziata soltanto due anni fa e i Tories avessero ancora numeri sufficienti per governare, proprio nell’intento di ottenere una maggioranza ancora più ampia che le consentisse di affrontare il negoziato di uscita dall’Unione Europea in una posizione più forte, per ottenere condizioni più favorevoli.   Ha ottenuto, invece, un risultato esattamente contrario.   I Tories hanno vinto, sì, ma di stretta misura e senza ottenere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni. Né possono contare, al momento, su un possibile sostegno dei liberaldemocratici – di cui a suo tempo si era giovato Cameron – che hanno visto aumentare i propri seggi, ma non sembrerebbero più disponibili ad un’alleanza con i Tories.

May si trova oggi con una maggioranza relativa che, teoricamente, non le consentirebbe di governare e anche se qualche alchimia parlamentare rendesse possibile l’insediamento di un nuovo esecutivo a guida Tory, questo sarebbe probabilmente soggetto a continui e stringenti condizionamenti parlamentari e dovrebbe sottoporsi a frequenti ed estenuanti negoziazioni interne, anche per la definizione di termini e condizioni delle trattative “esterne” per l’uscita dall’Unione Europea.   E quest’ultimo negoziato appare, già di per se stesso, assai complicato, considerando l’atteggiamento in qualche modo “risentito” ” – in termini politici, naturalmente – che Brexit sembra, talvolta, aver suscitato nei vecchi partners europei e nelle leadership di Bruxelles.

Quindi la May si verrebbe a trovare, di fronte alle autorità dell’Unione Europea e ai governi dei paesi membri, proprio nella condizione opposta a quella vagheggiata, al momento di decidere il ritorno alle urne. Una condizione di complessiva debolezza, con margini limitati di discrezionalità politica, tanto nei confronti degli ex partners europei, tanto di fronte all’opinione pubblica di casa sua, spaccatasi prima sulla Brexit e ora sulle consultazioni politiche.   Il voto si è svolto, peraltro, in un’atmosfera di tensione e preoccupazione innescata dalla vittoria della Brexit stessa nel referendum di un anno fa e dai recenti drammatici episodi di terrorismo che hanno colpito il Paese.

Lo psicodramma indotto dalla storica decisione popolare di abbandonare l’Unione Europea si rivela tuttora incombente e alimenta le incognite sui destini economico-finanziari del Paese e, più in generale, sul suo ruolo futuro nello scacchiere internazionale e nei rapporti con l’Unione Europea.   Permane, probabilmente, in larga parte dell’opinione pubblica, la sensazione del salto nel buio, di un azzardo che, ancorché agevolare la soluzione dei nodi più insidiosi, abbia posto il Paese di fronte a nuove sfide e nuove insidie.    Ed è su questo scenario di persistente attenuazione di equilibri e di certezze che è calato di nuovo, sul Paese e sulla sua Capitale, l’incubo della minaccia terroristica e della sfida dell’estremismo fondamentalista, riflesso dei tormentati conflitti mediorientali, ma anche delle insufficienze rivelate dai processi di integrazione delle comunità di immigrati di più generazioni.

In questo scenario, tra i più cupi nella storia recente dell’isola che in passato ha esercitato un ampio dominio sui mari e su molte popolazioni del mondo, la risposta del Paese all’appello del Primo Ministro ad una investitura popolare che ne consolidasse la delicata missione si è rivelata alquanto tiepida, confermando la condizione di netta frattura politica, già evidenziata dal voto su Brexit.   Anzi, forse il trauma della Brexit ha alimentato la freddezza verso la leadership della May che, dopo un tiepido consenso al “remain” durante la campagna referendaria, è ora decisa fautrice di una “hard Brexit”.

In un’epoca di pesanti incognite sul fronte dello sviluppo economico, della conservazione del welfare e delle diseguaglianze sociali, il rischio di desertificazione della City e di perdita di quel ruolo di massimo crocevia della finanza internazionale rappresentato da Londra, ha indotto parte della popolazione e molti giovani, in particolare, a rifuggire quell’attrazione dell’euroscetticismo che nel Regno Unito sembrava irresistibile e riscoprire quelle istanze di solidarietà e di condivisione che sembrano incarnate proprio dal principale avversario della May, il leader laburista Jeremy Corbyn. Con il suo programma, nettamente distinto e contrapposto a quello conservatore,   che segna una sorta di discontinuità rispetto alla linea tendenzialmente centrista dei laburisti, inaugurata da Blair negli Anni Novanta, Corbyn rilancia i temi originari della sinistra radicale, propugnando la nazionalizzazione delle imprese operanti in determinati settori di pubblico interesse (energia e trasporti), l’imposta patrimoniale sui grandi redditi, imposte più alte per le società e pesanti stanziamenti per la spesa sociale e per l’edilizia popolare.

Particolare attenzione ha suscitato nei giovani, in particolare, il proposito di questo “New Old Labour” di eliminare la retta per l’iscrizione all’Università e ridurne comunque i costi assai elevati.   Questo programma ha consentito al partito di Corbyn di recuperare terreno, rispetto ai Tories, nei sondaggi delle ultime settimane che hanno preceduto il voto.     Il risultato elettorale però ha superato i sondaggi più favorevoli al Labour, piazzandolo due punti di percentuale al di sotto dei conservatori.   Il recupero, realizzatosi in seguito alla divulgazione di un programma che potremmo definire, appunto, di sinistra radicale, può ritenersi rivelatore di una diffusa stanchezza del Paese, rispetto alle politiche di questi anni e, in particolare, all’involuzione indotta dalla Brexit che a molti settori della società e, in particolare, ai giovani, è apparsa come un fenomeno di retroguardia e di potenziale decadenza.

Il risultato deludente della May, il sensibile incremento di un Labour tornato su posizioni di sinistra tradizionale, l’avanzata dei liberali – come Corbyn, contrari alla scelta del “leave” -, il totale insuccesso dell’UKIP, il partito che dell’uscita dall’Unione aveva fatto la sua ragion d’essere, evidenziano una ricerca di certezze, di soluzioni positive, di costruzione di un futuro che non possa esaurirsi nei muri, nelle regressioni, nelle discriminazioni, nelle chiusure.   Il voto evidenzia un’aspirazione a riforme migliorative ed inclusive che garantiscano un futuro ed esorcizzino gli incubi dello scenario presente.   Non sappiamo se le ricette prospettate dal New Old Labour siano quelle risolutive per il Paese, ma almeno hanno suscitato delle speranze in aree sfiduciate del tessuto sociale.

Si pone ora un serio problema di governabilità.   Theresa May ha voluto le elezioni per trattare una “Hard Brexit”, per la quale si sentiva troppo debole e precaria con i suoi 15 deputati di maggioranza.   Ora non ha più nemmeno una maggioranza parlamentare. Difficilmente potrà insistere per una “Hard Brexit”.     La mancata acquisizione di quella maggiore legittimazione popolare per una dura trattativa dovrebbe spingere la leader ad un negoziato che prescinda da atteggiamenti rivendicativi o di rivalsa, o da striscianti risentimenti ed ostilità – e questo vale, naturalmente, anche per le controparti di Bruxelles, che, a volte, tradiscono un’inutile e controproducente “reattività”, nei confronti degli ex partners che hanno dato forfait (per ora) dal disegno europeo – ma persegua un accordo equo che, comunque, garantisca libero scambio e cooperazione sui grandi temi della sicurezza, delle migrazioni, della formazione e della cultura, senza inutili e anacronistiche penalizzazioni, dall’una e dall’altra parte, lasciando che la grande isola continui a rappresentare un’opportunità per tanti cittadini del continente e non solo e l’Europa, nel suo complesso, resti anch’essa un’occasione preziosa per i cittadini britannici.

Elezioni UK: vincitori, vinti e affari futuri

ECONOMIA/EUROPA/POLITICA/Varie di

“Hanging on in quite desperation is the english way – Sopravvivere in una quieta disperazione è il modo all’inglese”, così cantavano i mitici Pink Floyd nel lontano 1972, versi che descrivono alla lettera l’attuale situazione emotiva dei laburisti inglesi nel post voto popolare del 7 maggio scorso. Il Regno Unito rimane decisamente conservatore e spiazza ogni previsione di “sfida all’ultimo voto”. Hanno vinto i Tories.

Circa 11 milioni e 300 mila voti per 331 seggi su 650, ovvero 24 in più rispetto al 2010, sono una conferma piena al mandato di Cameron. Quelli che hanno determinato la vittoria dei Tories e la disfatta dei Lab sono stati i cosiddetti swing voters, ovvero coloro che cambiano schieramento politico e che decidono per temi, argomenti o vantaggi volta per volta. Nel sistema elettorale inglese uninominale questo atteggiamento è decisivo alla conta finale. In definitiva, i conservatori sono cresciuti del 0,7% e i laburisti del 1,5% rispetto al 2010, quindi chi ha deciso vincitori e sconfitti sono stati i voti raccolti dalle altre formazioni politiche “secondarie” quali UKIP con il 12,6% e soprattutto l’ SNP di Nicola Sturgeon con il loro 4,6%. I scozzessi hanno spazzato via i laburisti guadagnando 56 seggi su 59 previsti per loro in Parlamento. Il linguaggio empatico, indipendentista e molto più di sinistra dei laburisti ha premiato. Non pervenuti i lib-dem di Nick Clegg fermi a soli 8 seggi, 49 in meno rispetto al 2010, crollo clamoroso.

Come funziona il sistema elettorale inglese del “first-past-the post”?

I parlamentari britannici vengono eletti attraverso il sistema dell’uninominale maggioritario secco. I partiti si contendono 650 collegi su tutto il territorio ed in ognuno di essi a vincere, ovvero a guadagnarsi un seggio in Parlamento è il candidato che prende più voti. Gli elettori possono esprimere una sola preferenza e a governare è il partito che si è aggiudicato il maggior numero di parlamentari. Sistema imperfetto : Il candidato deve assicurarsi solo la maggioranza semplice ed è possibile quindi che la maggioranza di persone in quel collegio abbia in realtà votato anche per altri candidati. Succede che un partito che in molti collegi non arrivi primo, possa aggiudicarsi, sì un gran numero di voti, ma conquistare pochi seggi. E’ successo a UKIP proprio in questa tornata elettorale. Allo stesso modo, il partito che alla fine forma il governo potrebbe in realtà aver ricevuto meno voti del suo rivale. Ogni collegio, inoltre, è diverso, a cominciare dal numero di elettori che lo compongono: un candidato che vince in un piccolo collegio può quindi aver ottenuto molti meno voti di uno che ha invece perso in un collegio molto imponente, ad esempio i grandi centri urbani, le città. Esattamente quello che è successo ai laburisti, vincenti nelle città più importanti, ma perdendo nei centri non urbani.

I britannici votano la promessa dell’economia e il ridimensionamento del tasso di disoccupazione, mentre penalizzano la “speranza”, l’equità e l’attenzione alle classe lavoratrici, tanto proclamata dai candidati del Partito Laburista in campagna elettorale. Votano un Cameron pragmatico e penalizzano un timido Miliband, troppo impacciato, troppo serioso, troppo “senza polso”, almeno nell’immaginario mediatico rappresentato.

Votano anche un probabile futuro fuori dall’Europa?

David Cameron ha dichiarato all’indomani del voto, “Possiamo fare della Gran Bretagna un luogo dove il buon vivere è alla portata di chiunque abbia voglia di lavorare e fare le cose in modo giusto”,- e ha aggiunto, “ però, si, ci sarà un referendum sul nostro futuro in Europa”. Il Brexit, questa volontà degli inglesi di ufficializzare le distanze dal continente politico, potrebbe prendere forma nel 2017, probabile anno del referendum. Jean-Claude Juncker ha definito “non negoziabili i fondamenti dell’Unione, come la libera circolazione di persone”, punto debole fisso dei rapporti con Londra. Centro nevralgico della finanza europea, la City significa troppo per l’UE e di certo non sarà una passeggiata affrontare un eventuale ricorso per separazione. I negoziati in corso per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partenership) che vedono il Regno Unito protagonista saranno decisivi in questo di mediazioni tra USA e UE.

Tories o Lab? Il Regno Unito all’ultimo dilemma

EUROPA/POLITICA di

Due giorni al voto per i cittadini del Regno Unito e il mistero s’infittisce. Mai come a questo giro di elezioni generali si è raggiunto tale grado di imprevedibilità. Votare o non votare Tory? Votare o non votare Labour? A proposito, ci risiamo con i testardi scozzesi!

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Quinta potenza economica mondiale, il Regno si interroga sulle priorità che la politica dovrà inserire e affrontare nella prossima agenda quinquiennale. Al civico 10 di Downing Street continuerà ad avere le chiavi il conservatore Cameron o il laburista Miliband? Una cosa è certa, sta per finire l’era del monopolio di governo anche a Londra. I due leader dovranno provvedere ad alleanze estese per poter garantire la governabilità. Quasi una “normalità” per il resto d’Europa, Germania in primis con un modello di alleanze che “funziona” e Italia con qualche “problemino” in più, ma totalmente una novità per i britannici i quali si vedono alternare i governi laburisti o conservatori dal lontano 1922. Una simile situazione era venuta a crearsi già nel 2010 con i Lib Dem di Nick Clegg, con i quali Cameron mise su la coalizione.

Sistema elettorale e composizione del Parlamento

First past the post- così è chiamato il sistema maggioritario uninominale a norma del quale il territorio del Regno Unito è diviso in 650 circoscrizioni elettorali. La suddivisione delle circoscrizioni è divisa in questo modo: 523 in Inghilterra; 59 in Scozia; 40 in Galles; 18 in Irlanda del Nord. Da ciascuna circoscrizione verrà espresso un rappresentante da mandare alla Camera dei Comuni che assieme alla Camera dei Lord, composta da membri nominati, andrà a comporre il futuro Parlamento. La maggioranza assoluta è quantificata in 326 seggi. Un numero però improbabile da raggiungere da entrambi i partiti.

David Cameron ha dalla sua il cosiddetto” establishment” anche e soprattutto per la ripresa veloce del Regno Unito nell’economia dopo il fermo imposto dalla crisi globale. Culla del capitalismo liberale, il Regno Unito ha dato un forte segnale di rilancio, ma i frutti di questa ripresa, ad oggi, si segnalano a livello macro, la classe media deve ancora attendere le future buste paga per poterla verificare su di se.

Ed Miliband, dopo aver vinto al fratello David la leadership del Partito Laburista, Ed “il nerd” o Ed “il rosso” per i conservatori, sta guadagnando punti nei sondaggi in maniera decisiva e costante. Partito sfavorito all’inizio della campagna elettorale, ha saputo giocare molto sull’immagine, puntando all’autoironia, valore aggiunto come sempre nell’animo inglese.

I Lib Dem di Nick Clegg, voto di protesta nel 2010, oggi hanno perso la loro genuinità e vengono visti come parte del sistema. Lo Ukip di Nigel Farage, dopo l’exploit delle elezioni europee di un anno fa rimane l’anima indomata del panorama politico britanico, ma la sua portata antieuropeista e populista non si prevede possa essere determinante il 7 maggio prossimo. Infine troviamo  verdi che, con l’aiuto delle spinte da sinistra, puntano a qualche seggio.

Chi confonde le acque di tories e lab è l’SNP, il Partito Nazionale Scozzese con a capo il Primo Ministro donna, Nicola Sturgeon. Dopo aver perso il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito a settembre 2014 la popolarità della Sturgeon non è che aumentata. Una ventata di parole “di sinistra” e di grinta che fanno  la differenza. Escludendo ogni punto d’incontro con Cameron, si presume che l’SNP possa coalizzarsi con i laburisti di Miliband in caso di vittoria di questi, ma solo due giorni fa, lo stesso Miliband ha negato questa possibilità. Partendo dal presupposto che nessuno dei leader ha mai parlato o reso esplicite le possibili alleanze, pare inverosimile la chiusura totale della possibilità di alleanze tra questi due partiti.

Battaglia di seggi, battaglia di news. Lo schieramento dei grandi quotidiani, The Guardian e Financial Times in testa, rispettivamente per i laburisti e i conservatori è altrettanto un aspetto fondamentale. Il potere mediatico anglosassone determina più di una manciata di voti e si svolge ad altissimi livelli. Una copertura invidiabile dell’argomento su tutti i fronti, la City della finanza, le città operaie, le periferie del Regno vengono battute come in un trekking mainstream delle intenzioni di voto.

In sintonia con le ventate dal basso nel mondo occidentale, anche nel Regno Unito si continua ad auspicare una politica inclusiva con pressioni dal basso e sopratutto dai “giovani disillusi”, vedendo in questi il veicolo tramite il quale attingere a una nuova politica, più vera, più reale, più tangibile, fuori dall’establishment.

Europa: Should I stay or should I go?

Pochissima Europa in questa campagna elettorale da tutte le forze politiche coinvolte. David Cameron, in caso di vittoria indirà un referendum se rimanere o meno nell’UE. Miliband non lo farà. Stranota la posizione dell’UKIP, altre invece sono le priorità del SNP. Non è un mistero lo scetticismo britannico nei confronti dell’Europa unita, ma in caso di vittoria di Cameron e di eventuale uscita del Regno Unito dall’UE a indebolirsi sarà quest’ultima,  in caso contrario con presumibile rafforzamento del SNP a dover fare i conti con l’indebolimento interno sarà lo stesso Regno Unito.

Appuntamento, il 7 maggio dalle 7.00, Greenwich Mean Time.

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Sabiena Stefanaj

Sabiena Stefanaj
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