GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Turchia - page 2

La partita russa tra Ucraina e Turchia

Varie di

Il fronte ucraino torna ad essere caldo. Mercoledì 16 dicembre, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato il decreto (già annunciato in precedenza) che sospende l’accordo di libero scambio tra Kiev e la CSI. La sospensione arriva a seguito dell’accordo di libero scambio tra Ucraina e Unione Europea, in vigore dal 1° gennaio. Il capo del Cremlino ha motivato la decisione spiegando che tale patto lede gli interessi economici russi.

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Di fatto, come citato da molte fonti internazionali, la guerra nell’Est europeo non è ancora finita. In primis, per la conferma, arrivata da Putin nel corso della conferenza stampa di fine anno, della presenza di truppe russe all’interno del territorio ucraino. Poi, a causa del’ostacolo continuo da parte dei separatisti al lavoro dell’OSCE nel Donbass, dove il blocco degli aiuti umanitari, denunciato da Unicef e Medici Senza Frontiere, e la violazione del cessate il fuoco stanno mettendo in pericolo la sopravvivenza degli accordi di Minsk/2.

Un pericolo denunciato dallo stesso segretario generale NATO Jens Stoltenberg nel corso della conferenza stampa di giovedì 17 dicembre con il presidente ucraino Petro Poroshenko: “Ci sono stati progressi negli ultimi mesi. Tuttavia, recentemente, abbiamo registrato l’aumento delle violazione degli accordi di pace. Esiste un reale rischio di un ritorno alla violenza”.

La conferenza stampa congiunta si è tenuta il giorno dopo la firma del piano di cooperazione tra NATO e Ucraina, altro fattore che potrebbe rendere vani i progressi fatti a Minsk lo scorso febbraio e portare ad un ennesimo raffreddamento dei rapporti tra Occidente e Mosca. Il piano prevede la riconfigurazione del settore Difesa ucraino e il miglioramento del potenziale delle sue forze armate, e la partecipazione di Kiev ai progetti atlantici sulla “Difesa Intelligente”.

Con il continuare delle sanzioni europee ai danni della Russia fino a quando la situazione non andrà stabilizzandosi, come annunciato dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, e con la possibilità dell’ingresso della Turchia in Europa, il Sud-Est europeo si è fatto rovente in questo finale di autunno.

Sempre nel corso della conferenza stampa di fine anno, oltre a definire “atto ostile” l’abbattimento del caccia russo lo scorso 24 novembre, il capo del Cremlino ha parlato di una evidente volontà dei turchi “di mostrarsi compiacenti con gli americani”.

Pur essendo conciliante con gli Stati Uniti sul fronte siriano (“faremo il possibile per trovare il modo di superare questa crisi”) e appoggiando la linea italo-americana in Libia (appoggio del governo di unità nazionale e dell’intervento militare ONU), i rapporti tra Russia e Occidente destano ancora motivi di preoccupazione.

Soprattutto perché, oltre al tema dell’allargamento NATO e alla crisi di rapporti con Ankara, dobbiamo aggiungere la crisi economica russa “troppo dipendente – come dichiarato dallo stesso Putin – da fattori economici esterni, come il drastico calo del prezzo del petrolo” e, come denunciato nei mesi scorsi, dalle sanzioni inflitte da Stati Uniti e Unione Europea.
Giacomo Pratali

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Armi occidentali e terrorismo jihadista

Varie di

Il quesito è aperto e si propone con urgenza quando il terrore colpisce nel cuore dei nostri paesi occidentali dove produzione e vendita dovrebbero essere regolamentate da ferree regole di controllo: il traffico internazionale illegale di armi.  Chi produce, chi vende, chi ne fruisce, chi perisce?

Un articolo de 2013 del New York Times rapportava uno schema allora consolidato di vendita di armi croate in Giordania, con un passaggio successivo in Siria e con i ribelli anti Assad come utilizzatori finali. Uno schema deliberato e acconsentito dalla stessa CIA, secondo il quotidiano statunitense. Cosa sono diventati gran parte di quei ribelli, lo sappiamo bene: esercito jihadista dell’autoproclamato Califfato.

Le lobby delle armi non conoscono crisi. Lungi da complesse tesi complotiste senza fondamenta investigative, un dato semplice e recentissimo ci da un segno da non trascurare: l’indomani della dichiarazione ufficiale di guerra contro il terrorismo jihadista da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande, le borse viaggiavano a gonfie vele. Fiducia cieca nell’intensificazione delle operazioni militari o cosa?

L’entrata della Russia nel conflitto indirizza ancora meglio la via delle armi. Uno studio internazionale del 2014, Conflict Armament Research, patrocinato dall’UE, illustrava come gran parte degli armamenti utilizzati nei conflitti in Medio Oriente sono di produzione USA, Russia e Cina. Armi che in caso di avanzata jihadista nei territori finiscono nelle mani dei terroristi. Per ora solo la Cina esporta ufficialmente armi ai regolari governi siriano e iracheno.

D’altra parte, una situazione estremamente complessa è quella del traffico illegale internazionale d’armi leggere. Facendo riferimendo all’ultimo rapporto Illicit Small Arms and Light Weapons elaborato dall’ European Parliamentary Research Service in collaborazione con le Nazioni Unite, si stimano in 875 milioni le armi leggere circolanti a livello mondiale ed appartenenti a privati cittadini.

Una delle vie più gettonate al traffico d’armi leggere è la rotta dei Balcani. Il dissolvimento delle ex Repubbliche jugoslave, la guerra in Bosnia, la crisi albanese del 1997, la guerra in Kosovo nel 1999, hanno facilitato il procuramento illecito da parte di privati o di bande criminali territoriali, dalle riserve degli eserciti governativi . Armi vendute in massa e di continuo alle grandi organizzazioni criminali e oggi anche ai jihadisti radicalizzati negli stessi paesi. V’è una produzione di alta qualità di armi nei Balcani, necessità degli anni della Guerra fredda. Calcolare oggi il numero esatto di armi in circolazione nel Sud Est europeo è difficilissimo. Nel 2012 si stimavano circa 4milioni di armi leggere illegalmente in mano ai privati, 80% delle quali provenienti dai conflitti degli anni ’90. Tuttavia, la continua produzione di armi prevista nei programmi di questi paesi non sono destinati al rafforzamento delle proprie forze armate, cosa che andrebbe a preoccupare seriamente l’UE viste le recenti adesioni di Croazia e Slovenia e delle prospettive future di stabilità nell’area, ma sono ufficialmente destinate all’export internazionale. Pertanto, aldilà di ogni proposito aconfittuale dei suddetti paesi, tali armi spesso finiscono in mani pericolose, com’è naturale che sia, potremmo ben dire. Nel 2013 armi provenienti dalla guerra bosniaca finirono nelle mani di Al-Qaeda vendute da scocietà serbe e montenegrine.

Quanto all’Italia, secondo ultimi rapporti stilati anche dalla Rete per il Disarmo, si stima che circa 28% delle armi italiane sono destinate in Nord Africa e in Medio Oriente a cavallo dell’exploit della crisi siriana. La L. 185/1990, che detta il Divieto di esportazione di armamenti verso quei Paesi in stato di conflitto armato, disciplina il traffico di armi definite “militari”: le armi staccate in pezzi, le munizioni e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, che eludono qualsiasi controllo. Fuori da questa norma rimangono le armi leggere, che possono essere smontate e vendute al pezzo. Traffico che può essere effettuato trasportando armi smontabili con semplice bolla di accompagnamento.

Questo scenario sommerso e cruento continua a complicarsi e ad espandersi in più direzioni, anche prevedibili. Poche ore fa è stato bloccato un carico di 800 fucili al porto di Trieste proveniente dalla Turchia e destinato in Germania e forse, Belgio e Olanda.

Armi occidentali in mano ai jihadisti e poi Parigi. Colpita al petto per la seconda volta in 10 mesi, checché se ne dica, la ciptale francese scatena la nostra empatia europea e occidentale, naturale, immediata, senza filtri. Parigi forse ci chiede etica e coscienza; con ciclicità la Ville Lumiere, ogni tanto, ci chiede di illuminarci.
Lungi da ogni moralismo stagnante e retorica impoverita, un richiamo ai fatti: per “liberare” i paesi arabi dai loro carnefici, ne abbiamo sollecitato le primavere, lo abbiamo fatto con armi e denaro.

Voilà, cosa diavolo c’entrano armie denaro con la Primavera?!

Mustang, Un inno alla vita e alla libertà

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di Marco Cacioppo

Mentre la Turchia conservatrice esce vittoriosa dalle ultime elezioni, c’è chi come la regista Deniz Gamze Ergüven si fa portavoce di un messaggio progressista e bramoso di cambiamento, in nome di una libertà di espressione e modi di essere che il suo Paese conosce benissimo, ma che la direzione sempre più radicale della politica di Erdogan sembra reprimere.

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Fin dal titolo scelto per il suo esordio al lungometraggio, dopo il diploma alla Fémis di Parigi e due cortometraggi, la Ergüven reclama a squarciagola il superamento di certi tabù e vincoli culturali particolarmente restrittivi ma ancora in voga soprattutto nelle aree più provinciali e isolate della nazione, e che nulla hanno da invidiare alla tradizione più tipicamente islamista di alcuni Paesi mediorientali limitrofi. “Mustang”, infatti, è il nome con cui viene chiamata una particolare specie di cavalli selvatici, e ad avere un’indole selvaggia sono anche le cinque giovani protagoniste del film della Ergüven, che dopo l’incetta di premi ottenuti in giro per i festival di tutto il mondo, a cominciare da Cannes, si appresta a rappresentare la Francia – co-produttrice del film – all’edizione degli Oscar 2016 come miglior film straniero.

La cultura cui si oppone Mustang è quella dei matrimoni combinati, del ruolo subalterno della donna alla quale non è dato avere il pieno controllo sulla propria vita, e della repressione sessuale che significa impossibilità di esprimersi non solo attraverso l’interazione col prossimo, ma, in primis, con sé stessi e con il proprio corpo. Non è un caso, infatti, se il film si apra con le cinque sorelle protagoniste che scherzano in acqua con alcuni loro coetanei facendo il gioco della cavallina, e quindi presupponendo un contatto delle loro parti intime con la nuca dei ragazzi, prontamente condannato dalla frangia più oltranzista del paesino. La reazione dei famigliari – lo zio e la nonna, giacché i genitori delle sorelle non ci sono più – è delle più estreme. In un processo di segregazione sempre più soffocante, che ricorda le dinamiche di quel che accade nel film di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide, alle ragazze viene impedito di uscire di casa, e più loro cercano di ribellarsi e imporre il proprio diritto alla libertà personale più l’abitazione in cui abitano si trasforma in un bunker.

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In realtà la Ergüven, con questo suo film, ci dice di essere critica ma ugualmente ottimista per il futuro. Il raggiungimento della libertà arriverà per tutte, anche se a caro prezzo: attraverso il compromesso, anticipando l’ingresso nell’età adulta, rinunciando alle proprie radici, finanche preferendo la morte come gesto estremo di rivalsa. Perché non c’è rivoluzione, e conseguente cambiamento, senza sacrificio.

Un primo passo, in questo senso, è stato fatto sicuramente dalle famiglie che hanno dato il permesso alle attrici, quasi tutte non professioniste, e alcune delle quali minorenni, di recitare in Mustang, un potente e gioioso inno alla vita carico di una tensione erotica destabilizzante. Soprattutto se messa in relazione con località ortodosse come quella di Inébolu, a 600 km da Istanbul, dove il film è stato girato.

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(English) School’s out for Syrian children in Turkey

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By Eleonora Vio

The majority of Syrian children in Turkey are not in school

ISTANBUL, 4 November 2015 (IRIN) – Not so long ago, Syria had an education system that was the envy of the Arab world and was reflected in its 90 percent literacy rate. But education has become yet another casualty of a civil war now in its fifth year.

Nearly half of the four million Syrians who have fled their country are living in neighbouring Turkey where authorities initially welcomed hundreds of thousands of the refugees in camps near the Syrian border. Many have since become tired of camp life and moved to cities in search of a more dignified existence.

Istanbul alone hosts more than 330,000 Syrians, according to 2014 figures from Turkey’s interior ministry, but with international aid mainly going to those living in the camps, urban refugees receive little assistance and live in poor conditions that are worsening as their exile continues and they are barred from the formal employment sector. Their children are paying the highest price for this enforced limbo.

Earlier this year, in the run-up to elections, the Turkish government backtracked on plans to grant Syrians in the country, who have only temporary protection status, the right to work. The government did adopt legislation aimed at improving their access to health care and education, but according to NGOs working on the ground, the majority of Syrian children still aren’t in school.

“Unfortunately, despite this new regulation, in Istanbul only 20,000 out of 80,000 [Syrian] children have access to school and amongst them less than 30 percent are enrolled in free Turkish schools,” said Suleiman Alaaraj, a Syrian staff member of the Syrian Commission for Education (SCE), which provides education services both in Free Syrian Army-controlled areas of Syria and in Turkey, with funding from Qatar Charity and the Islamic Bank.

Some of the Turkish schools simply don’t have space to admit more children while the language difference and Syrians’ lack of the required documents or information about enrolment procedures have also presented barriers.

Karyn Thomas, the founder of Small Projects Istanbul, an NGO based in Fatih, a working-class district with a high number of Syrian residents, noted that “the lack of the right to work for adults has a direct and strong impact on their children’s right to education.”

“People have no jobs, and when they do they are underpaid and exploited, and they can’t afford to pay for their children’s tuition fees”

“People have no jobs, and when they do they are underpaid and exploited, and they can’t afford to pay for their children’s tuition fees,” she told IRIN. “The result is that many young children either stay at home looking after their siblings and household or are forced to work and beg in the streets to provide their families with some income.”

 For the small number of Syrian children in Istanbul who are admitted into free Turkish schools that follow the national curriculum, Alaaraj acknowledged, “it’s often difficult for them to keep up with their classmates because of the language barrier and only one out of 10 succeed [in end-of-term exams].”

Across the city there are 60 Syrian schools (officially referred to as “temporary education centres”) where classes are taught in Arabic using a curriculum created by the opposition Syrian Interim Government, but only six of them are free. Some are located inside mosques and private or public buildings, but often only for a limited period of time before being moved somewhere else. SCE provides the schools with free textbooks, the content of which have been adapted by the Free Syrian Army and purged of what they view as the Syrian regime’s propaganda.

Reema Adadi is a Syrian teacher at a school located in a small mosque in Fatih. “The problem with this school is that each class is composed of kids of different ages,” she said, adding that attendance is sporadic because the children are often forced to work and contribute to the family’s income.

“[There are also] children who suffer from different traumas and should be taught by specialised personnel,” she told IRIN.

At a free school for Syrians hosted inside a mosque in Istanbul, a mentally disabled child tries solve some Arabic grammar exercises

At a free school for Syrians hosted inside a mosque in Istanbul, a mentally disabled child tries solve some Arabic grammar exercises

In addition to the Turkish and Syrian schools, there are several private schools funded by secular or religious organisations, which cost between US$590 and $690 per child for each academic year.  They are often products of community-based initiatives associated with the Syrian opposition in Turkey, and although they are usually well managed, some are still not registered with or recognised by the Turkish government.

Syrian families with several children and no regular income may be able to send one child to school “in the best-case scenario” said Alaaraj of SCE. “In the worst one, if perhaps they live far away from the school and must pay additional money for transport, they drop the whole idea.”

Alaaraj stressed that Syrian children not in school are “easy prey for the radical and criminal groups that are booming across the city.”

Small Projects Istanbul runs an education project aimed at helping Syrians, particularly single mothers who are struggling to make ends meet, enrol their children at Arab-language schools.

“We also hold Turkish classes for them and their children to cope with their daily lives and integrate into Turkish society,” said Thomas.

Teachers with Small Project Istanbul tell a popular Syrian fairy tale to a class of Syrian children in both Arabic and Turkish

Teachers with Small Project Istanbul tell a popular Syrian fairy tale to a class of Syrian children in both Arabic and Turkish

With limited funding, she added, “we do what we can and, unfortunately, it’s only a drop [in the ocean] compared to the Syrian schooling catastrophe we are facing.”

“To not end up with a whole generation of young Syrians without education, and zero prospects for their future inside or outside their home country, there is just one solution,” Thomas told IRIN. “The Turkish government must give Syrians the right to work, and therefore a chance to build a decent life here. Until then, the international community must provide them with financial help, and bring education back to the top of Syrians’ priorities – as it used to be before the war.”

ev/ks/ag

IL BLOG NAWART PRESS SU VITA

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Narin vota a un seggio elettorale di Silvan.

Con la voce scossa, Narin ha detto che sarebbe uscita dalle scene per un po’. Due giorni prima era stata arrestata per aver scortato alcuni stranieri al di là delle barricate, lì dove la città di Silvan, situata nel sud-est turco, ha recentemente dichiarato l’indipendenza dallo stato turco. Con il clima di tensione in città e le elezioni alle porte, lei, in quanto membro del Congresso delle Donne Libere curde (KJA) e del partito filo-curdo HDP, non voleva attirare nuove attenzioni su di sé e la sua famiglia. Come biasimarla.

Ma la notte del 31 ottobre ricevetti una telefonata: “Domani vi va di monitorare il clima elettorale e l’affluenza ai seggi qui a Silvan? Vi porto io.” La notte deve averle portato un diverso consiglio, ho pensato senza farmi però ulteriori domande.

La mattina seguente, 1 novembre, veniamo accolte da Narin nella sede dell’HDP di Silvan. E’ di ottimo umore, tutt’altra immagine rispetto a quella che mi prefiguravo. Fino a qualche mese fa Narin era una giornalista per l’agenzia mediatica DIHA ma, “dopo aver coperto l’assalto e il massacro contro i curdi da parte dello Stato Islamico a Kobane,” spiega, “ho capito che ero troppo coinvolta e che non potevo, e non mi andava, di essere solo una testimone di quello che succedeva.”

“Volevo impegnarmi per la mia gente, e lottare assieme alle donne curde,” Narin continua. In poche ore, e con lei a farci da guida in una città spaccata a metà, dove da un lato regna una calma strana, fatta di tanti elettori che si affrettano verso le urne mentre mezzi corazzati ne osservano i movimenti, e dall’altro ci sono barricate, trincee, tendoni e guerriglieri armati pronti a sfidare l’esercito turco, ci avviciniamo a un mondo dove le donne sono in assoluto primo piano.

Camminare con Narin per la città significa essere fermati ogni due per tre da amici, parenti, compagni di partito. A lavorare dentro uno dei seggi è la sorella, una timida studentessa della facoltà di legge di Kahramanmaras, nel sud conservatore e religioso del paese, dove attacchi e provocazioni contro la minoranza curda si sommano giorno dopo giorno. “Non potete neanche immaginare quante delle sue compagne di classe hanno mollato tutto e si sono unite al PKK,” dice Narin. “Lei dice di non volerlo ma, se decidesse di prendere le armi e reagire contro il sistema, non potremmo farci nulla.”

Al di là delle barricate incontriamo una giovane sorridente dalle guance arrossate dal freddo e il kalashnikov a tracolla, e un’anziana signora in abiti tradizionali seduta di fronte a lei. L’una coordina le azioni paramilitari tra i giovani del suo quartiere, l’altra porta approvvigionamenti ai combattenti perché, “questa battagli ci riguarda tutti, ma proprio tutti, da vicino,” afferma con veemenza.

La lancetta dell’orologio scorre veloce e si fa sempre più vicina alle 4, ora di chiusura dei seggi. Narin deve affrettarsi e tornare al centro dell’HDP per monitorare lo spoglio dei voti, e noi andiamo con lei.

Mentre scompare richiamata da mille voci, ci sediamo in una stanza, dove un gruppo di donne del partito, fumando una sigaretta dopo l’altra e sorseggiando del tè, consultano freneticamente i loro smartphone. “Ottenere seggi in Parlamento è un’ottima opportunità per entrare nell’arena politica,” spiega Zuhal Tekiner, co-sindaca di Silvan, “ma noi abbiamo già il nostro Congresso che, sebbene non riconosciuto dalle autorità turche, viene implementato in tutte le municipalità del Kurdistan turco e da equa rappresentazione a tutte le classi sociali.”

“Donne e uomini indistintamente,” conclude ammiccando alle amiche e colleghe sedute intorno, mentre Narin sporge la testa dentro la stanza e ci saluta tutte con la mano.

Turchia: ingresso nella UE per controllare i rifugiati

Medio oriente – Africa/Varie di

Fino ad ora offrire ospitalità ai rifugiati che ne oltrepassano i confini è costato alla Turchia circa 7 miliardi di dollari. Questo dall’inizio del conflitto siriano. I flussi migratori, con l’inasprirsi delle violenze nella zona medio-orientale, sono enormemente aumentati negli ultimi mesi travolgendo di fatto l’Unione Europea.

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La Turchia svolge anche in questo un ruolo difficilmente sostituibile come interfaccia fra un Medio Oriente dilaniato da crisi e terrorismo ed una Europa che fatica a recepire l’arrivo di migliaia di profughi, fiaccati e spaventati, in fuga da realtà difficili e assurdamente violente. In questo quadro si inserisce l’accordo che avrebbe unito le volontà europea e turca nella gestione dei flussi migratori anche se entrambe ne smentiscono l’ufficialità.

L’unica voce che al contrario conferma l’avvenuto patto è quella della Commissione europea che considera ciò che gli altri definiscono “una dichiarazione di buona volontà”, un accordo di fatto. Le condizioni offerte alla Turchia riguardano aiuti finanziari, un allentamento delle restrizioni sui visti per i turchi e la riapertura della candidatura del paese all’entrata in Europa. In cambio, la Turchia dovrebbe aumentare i suoi sforzi per contenere i rifugiati all’interno dei suoi confini turchi controllando le frontiere, limitando i flussi di rifugiati vero la Ue, dando loro lavoro, e lottando contro i trafficanti.

I primi tentativi di entrare nell’orbita UE sono stati portati avanti da Ankara nel 2000. Le condizioni prospettate dalla Turchia, nonostante fossero migliori rispetto ad oggi per quanto riguarda democrazia e stabilità interna, non erano apparentemente ancora mature, per essere valutate concretamente. In questi anni, molte cose sono cambiate.

La Turchia, con l’arrivo della minaccia islamica rappresentata da Isis, ha assunto per la sua posizione sia geografica, sia politica in quanto paese inserito in ambito Nato, un ruolo importante e, per alcuni versi, determinante. Erdogan sta facendo di tutto per poter sfruttare al meglio la situazione, colpendo i curdi, anzichè i terroristi Isis destinatari delle armi transitate dalle frontiere turche, senza ferire la sensibilità Nato offrendo, dopo lunghe trattative, l’autorizzazione di far partire i raid contro l’Isis dalla base aerea di Incirlik, nei pressi di Adana.

Ora, l’entrata nell’UE sembra essere una nuova merce di scambio oltre ovviamente ai 3 miliardi di dollari chiesti da Ankara per la gestione dei rifugiati. Il denaro in realtà sembra ancora essere in fase di negoziato sia per gli importi, sia per le modalità di versamento, probabilmente scaglionate su più anni. Al momento comunque, sembrano essere rimasti in sospeso tanto l’inserimento della Turchia nella lista dei ‘paesi sicuri’, quanto l’apertura di 6 capitoli del negoziato per l’adesione, sui quali grava il veto di Cipro e Grecia.
Monia Savioli

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Braccio di ferro con il terrore

Medio oriente – Africa di

L’attentato contro il corteo pacifista che il 10 ottobre scorso ha provocato ad Ankara 95 morti e 246 feriti ha avuto un effetto importante: la sospensione da parte delle forze politiche curde di qualsiasi attività fino alle elezioni di domenica 1° novembre.

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Da quando l’appuntamento elettorale del giugno scorso ha restituito forza al partito curdo dell’Hdp e tolto la maggioranza assoluta all’AKP di Erdogan, la Turchia è divenuta teatro di episodi violenti, finalizzati a interrompere i colloqui di pace che dal 2012 erano in corso con il PKK, il Partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan e identificato come forza terroristica. L’impossibilità di formare un governo per il disaccordo maturato fra le parti ha volutamente motivato, da parte di Ergodan, il ritorno alle urne destabilizzando l’equilibrio interno. Il governo di Ankara ha stretto in una morsa di violenza le zone a maggioranza curda, provocando la dura risposta del PKK ritenuto responsabile di alcuni degli attentati che hanno insanguinato la Turchia.

Le conseguenze hanno oltrepassato i confini nazionali. Nella guerra contro Isis, le forze militari turche si sono accanite più contro i miliziani curdi, alleati Usa nella lotta contro il califfato, che verso i terroristi dello stato islamico. Nessuna ammissione era mai trapelata dal governo di Ankara fino alle recenti dichiarazioni del Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, che ha confermato gli attacchi militari contro le forze curde nel nord della Siria.

La versione offerta alla platea internazionale racconta della necessità evidenziata dalla Turchia di proteggere i confini nella zona Ovest dell’Eufrante minacciati dai curdi dell’YPG, sigla che identifica le forze combattenti del PDK, il Partito Democratico curdo, alleate degli Stati Uniti. In realtà il doppio attacco subito dai curdi si è verificato nella città araba di Tal Abyad, strappata ai miliziani dell’Isis, nella zona ad Est del fiume, quindi esattamente all’opposto.

La situazione divenuta con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più delicata, è stata affrontata dall’Hdp con estrema cautela. L’ufficio elettorale di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito, è allestito in un piccolo locale della periferia popolare di Istanbul, privo di bandiere per evitare che la sede venga presa di mira e possa provocare conseguenze ai residenti. Il mese scorso, negozi gestiti da curdi e uffici dell’Hdp sono stati presi di mira da violenze e distruzioni di ogni genere.

La mano pesante di Erdogan ha colpito, nel tentativo di arrivare di nuovo alla maggioranza assoluta, tutte le possibili espressioni di critica nei confronti della politica dell’AKP. I media indipendenti hanno subito forti pressioni e ridimensionamenti se non la chiusura definitiva. I canali social sono regolarmente minacciati e ridotti. Tante, nella disperata corsa al potere, sono le cause giudiziarie intraprese nei confronti di quanti sono ritenuti responsabili di offese espresse, verbalmente o in qualsiasi altra modalità, contro Erdogan, come successo ad uno studente reo di aver pubblicato frasi non gradite sulla pagina di Facebook.

Il quotidiano turco Hürriyet è stato oggetto di violenze di massa dopo l’accusa di aver diffuso menzogne. L’elenco delle violenze rivolte alla stampa e ai suoi referenti si allungano includendo casi ancora da chiarire. Rientrano nella lista la morte di Jacky Sutton, ex inviata di guerra per la Bbc, trovata morta il 19 ottobre scorso nella toilette dell’aeroporto Ataturk di Istanbul dove stava aspettando il volo per Erbil, e la scomparsa di Serena Shim, giornalista trentenne, alle dipendenze di Press Tv, rimasta uccisa il giorno dopo, in Turchia, vicino al confine con la Siria a causa di incidente d’auto.

La Shim stava rientrando in albergo dopo aver lavorato a Suruc, nella provincia turca di Sanliurfa, consapevole di essere nel mirino dell’intelligence turca in riferimento ad alcuni reportage dedicati all’ambigua posizione turca nei confronti della lotta all’ Isis nella zona di Kobane. I sondaggi prodotti fino ad ora non lasciano apparentemente molte possibilità all’AKP di rientrare in possesso della maggioranza assoluta. Gli esiti del 1° novembre ci riveleranno il vero peso del terrore.
Monia Savioli

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Turchia-Usa: accordi paravento

Medio oriente – Africa di

Sono almeno 75 i combattenti addestrati da Stati Uniti, forze britanniche e turche, entrati in Siria e collocati nelle zone a nord della città di Aleppo. A sostenerlo, l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani con sede a Londra. La nuova immissione di combattenti è conseguente alla presa di coscienza da parte degli Usa del fallimento del programma di addestramento rivolto ai ribelli siriani moderati “arruolati” nella cosiddetta “Divisione 30” per contrastare il governo Assad ed ora i terroristi dell’Isis. I 15.000 uomini che la dovevano comporre, una sorta di filiale Usa in Siria, si sono via via disgregati. La convinzione che servano uomini e sicuramente in numero maggiore di quanti non ne siano rimasti ora è supportata da una altra presa di coscienza che coinvolge direttamente i rapporti con la Turchia. Il 22 luglio scorso, gli Usa hanno firmato con lo stato guidato dal presidente Erdogan un accordo di cooperazione militare nel quale emerge la possibilità da parte degli americani di utilizzare la base aerea di Incirlik, a nord del confine con la Siria, possibilità fino a quel momento preclusa. Sensazioni e risultati stanno convincendo la comunità internazionale che l’ago della bilancia di Ankara viri verso la repressione destinata principalmente non a Isis, come dovrebbe, ma ai curdi, considerati i reali oppositori del Califatto. A dimostrarlo, i 300 attacchi inferti dai Turchi alle basi del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan fondato da Ocalan, rispetto ai 3 indirizzati contro Isis. La Turchia avrebbe concesso una maggiore collaborazione spinta dal desiderio, alimentato dall’avanzata dei curdi siriani, di sbagliare coscientemente mira e colpire, fra i pochi sgherri del Califfato, molti curdi, soprattutto dopo la vittoria, alle elezioni di giugno, dell’Hdp di Salahattin Demirtas, evoluzione moderata del PKK e restare comunque impunita. Anche gli Stati Uniti stanno giungendo a questa convinzione. La volontà di salvaguardare le strette relazioni con gli stati sunniti di Arabia Saudita, Pakistan, monarchie del Golfo e la stessa Turchia, conservata fin da quando, dopo l’11 settembre, è iniziata l’offensiva contro Al Qaeda, sta giocando un ruolo decisivo perchè sono quegli stessi Stati ora che favoriscono o comunque tollerano la presenza di Isis. Per non giocarsi alleanze preziose, gli Stati Uniti fingono di non vedere. E la Turchia continua a “giocare” offrendo concessioni per evitare interferenze.

 

Monia Savioli

Monia Savioli
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