GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Stato Islamico - page 3

Nigeria: tra crisi finanziaria e Boko Haram

Medio oriente – Africa di

Il presidente Buhari parla di milioni di dollari di debiti e di casse dello Stato vuote. Intanto, l’esercito perde terreno nello Stato del Borno e i jihadisti tornano a colpire.

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La Nigeria è sull’orlo del baratro. La crisi economica di questi ultimi mesi, dovuta al crollo del prezzo del petrolio, principale risorsa per l’erario, sta mettendo in ginocchio il Paese africano. Le casse statali sono “virtualmente vuote e per il Paese questo è una disgrazia”, ha dichiarato il neopresidente Buhari di fronte ai giornalisti. “La Nigeria ha milioni di dollari di debiti:gli impiegati pubblici e anche i dipendenti federali non stanno percependo i propri salari”, ribadisce ancora.

Rieletto a discapito del capo dello Stato uscente Goodluck, Buhari si trova di fronte ad un Paese destabilizzato anche a causa del terrorismo. Se a febbraio l’esercito regolare era riuscita a riconquistare Maiduguri, capitale dello Stato del Borno, adesso i miliziani di Boko Haram sono passati al contrattacco. E la violenza nel nord-est della Nigeria è tornata a livelli allarmanti.

Infatti, solo poche ore fa, due ragazze si sono fatte esplodere nei pressi di una moschea di Maiduguri, affollata nell’orario di preghiera: il bilancio è di 30 morti e di decine di feriti. Secondo gli operatori internazionali impegnati sul posto, i miliziani di Boko Haram utilizza le centinaia di donne e ragazze rapite nell’ultimo anno proprio in questi attacchi kamikaze, seppure contro la loro volontà.

E, a questa nuova escalation di violenza, si aggiungono le bombe esplose in un accampamento di Boko Haram nello Stato del Borno mercoledì 17 giugno. Fonti locali parlano addirittura di decine di morti e di oltre 50 feriti.
Giacomo Pratali

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Libia: buona la quarta?

Tripoli dice sì con riserva alla bozza proposta da Leon. Daesh, questione migratoria e crisi finanziaria rendono sempre più necessario un accordo tra i due governi. La stampa internazionale, tuttavia, sottolinea l’incapacità del mediatore Onu e dei Paesi occidentali di individuare quale dei due esecutivi sia quello più adatto ad arginare l’avanzata dello Stato Islamico e arrestare l’imponente flusso di persone dirette verso l’Europa.

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Un timido passo in avanti. L’accordo tra le due parti in causa sembra essere più vicino. Questo ci dice la risposta affermativa, seppure con la “necessità di apportare alcune modifiche”, fatta pervenire al mediatore Onu il 17 giugno dal governo di Tripoli. Un’apertura ad un “Governo di Accordo Nazionale” assieme ai rappresentanti di Tobruk, come recita il documento contenente 69 articoli, che è già una notizia visti i continui contrasti tra i due esecutivi.

La paura dell’avanzata dello Stato Islamico, le pressioni dell’Unione Europea sulla questione migratoria, la ormai più che probabile bancarotta finanziaria della Libia, pongono i due governi ad una sola scelta possibile: l’accordo.

La quarta bozza, presentata ad Algeri da Leon ad inizio giugno, parte dalla precedente, ma cerca di dare più spazio alle istanze del governo filomusulmano di Tripoli. Permane la formazione di un’unica assemblea legislativa a Tobruk, ma si fa spazio una Presidenza del Consiglio tripartita, composta da un presidente e da due vice: un check and balance a favore della giusta rappresentanza delle due parti in causa.

Se comunque i due governi continuano a tirare la giacca a Leon per arrivare ad una soluzione favorevole per uno piuttosto che per l’altro, il nodo da sciogliere gira attorno alla figura del generale Haftar. Vero leader della fazione riconosciuta a livello internazionale e sostenuto dal presidente egiziano Al Sisi, viste le accuse di crimini contro i civili a suo carico, suscita non poco imbarazzo in Occidente.

E se è vero che è necessario trovare un interlocutore unico in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico e per regolamentare i flussi migratori diretti in Europa, il vero dubbio è se non solo su Haftar, ma sul governo stesso di Tobruk, sulla sua reale capacità di incidere sulla popolazione (è stato votato dal solo 25% degli aventi diritto).

Come rilanciato di recente dal Financial Times, finora Leon, nel corso di questi quasi infruttuosi negoziati, Unione Europea e Paesi occidentali non hanno capito che il vero epicentro della crisi della Libia ruota attorno a Tripoli e alla Tripolitania, la regione dove si concentrano la maggior parte degli scontri tra le milizie del Daesh e le truppe filoislamiche legate ai Fratelli Musulmani, sostenitori del governo della capitale.

In questa ottica, i governi di Tripoli e Tobruk dovrebbero avere pari riconoscimento presso il consesso internazionale. Questo perché se Tobruk viene considerato legittimo, Tripoli, da parte sua, ha in mano quello che è il reale polso del Paese. È quindi in questo direzione che la quarta bozza proposta da Leon deve andare.

In questo scenario, è assordante il silenzio dell’Unione Europea. Incapace di portare avanti una reale politica dell’accoglienza dei rifugiati e della regolamentazione dei migranti in arrivo da Africa e Medio Oriente, stenta a fare sentire la propria voce nel contesto libico. E riesce a porsi come arbitro della necessaria pace nel Paese che, alla fine dei conti, altro non è che un accordo tra Stati: Arabia Saudita, Egitto e Russia (pro Tobruk) e Turchia e Qatar (pro Tripoli).
Giacomo Pratali

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Libia: nuova missione di Leon

Medio oriente – Africa di

Ad Algeri sono in corso i colloqui di pace tra le fazioni in lotta. L’avanzata dell’Isis e l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo rendono sempre più necessaria la costituzione di un governo di unità nazionale.

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“Nessuna delle due parti è sufficientemente forte per vincere”. Con queste parole, Bernardino Leon ha aperto la due giorni di colloqui di pace (3 e 4 giugno) ad Algeri. Un ennesimo incontro tra il governo di Tobruk, sostenuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli, appoggiato da Qatar e Turchia. Per porre freno all’avanzata dell’Isis in Libia, le due parti sembrano intenzionate a “raggiungere una soluzione politica”, sottolinea il delegato della Nazioni Unite.

Dello stesso tenore, le parole di Abdelkader Messahel, Ministro per gli Affari Magrebini e Africani dell’Algeria: “Appare ormai chiaro che ci sia la necessità di unire gli sforzi e di farli convergere per capitalizzare i risultati ottenuti finora nel tentativo di giungere quanto prima, alla formazione di un governo di unità nazionale in grado di farsi carico della missione essenziale e urgente di affrontare il terrorismo e di creare le condizioni – aggiunge – per garantire una transizione serena verso la creazione di istituzioni democratiche e stabili, condizioni essenziali di uno Stato sovrano e forte”.

Sul fronte interno, intanto, continuano gli attacchi terroristici. Come quello del 31 aprile avvenuto ad ovest di Misurata, responsabile dell’uccisione di cinque miliziani di Fajr Libia, e rivendicato con un tweet dal Daesh. Anche se islamisti, quest’ultimi hanno pagato la vicinanza all’esecutivo di Tripoli e il controllo dei pozzi di petrolio nella provincia di Jaffa. Lo Stato Islamico punta così alla presa della zona centrale della Libia al fine di isolare le truppe di Alba Libica presenti a Sebha, situata nella parte meridionale del Paese.

Anche il fronte internazionale è cupo. Dopo l’apertura a sorpresa del governo di Tripoli in merito ad una missione Ue contro gli scafisti, Ibrahim Dabbashi, Ambasciatore della Libia all’Onu, ha per il momento chiuso a questa eventualità: “Fino a quando l’Unione Europea e alcuni altri paesi non ne discuteranno con il legittimo governo, in quanto unico rappresentante del popolo libico, non ci sarà alcun consenso da parte nostra”.

La frase del rappresentante del governo di Tobruk rende ancora più importante il lavoro di Leon. La spinta verso il governo di unità nazionale conserva un duplice scopo: fermare l’avanzata dell’Isis e giungere un accordo tra Libia e comunità internazionale per la lotta al traffico di esseri umani all’interno del Mediterraneo.
Giacomo Pratali

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Libia, Gentiloni: “Nessun intervento militare”

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Il titolare della Farnesina respinge l’ipotesi di una risoluzione Onu a favore di un’eventuale operazione armata. Intanto, il tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti da Leon rischia di saltare a causa dell’ostilità di Haftar.

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“Nessun intervento militare è stato deciso né dall’Unione Europea né dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Con queste parole, pronunciate venerdì 15 maggio durante la trasmissione Agorà su Rai3, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni smentisce l’ipotesi di un’operazione armata da condurre presso le coste libiche, nell’ambito del contrasto alla crescente immigrazione proveniente dal continente africano. Ipotesi trapelata attraverso la stampa italiana ed internazionale.

Il Capo della Farnesina ha comunque precisato che, un’eventuale risoluzione positiva delle Nazioni Unite lunedì 18 maggio, “autorizzerebbe solo la confisca e il sequestro di barconi in mare e l’individuazione attraverso meccanismi di intelligence in acque territoriali prima che vengano imbarcati i migranti”. Questo perchè “bisogna organizzare combattere la criminalità rendere più sopportabili le condizioni nei Paesi di origine”. Un’azione possibile solo se viene suddividiso “il peso della situazione tra i Paesi europei: in questo senso è stato fatto qualche passo avanti”, ha precisato Gentiloni.

Se il governo di Tripoli sembra accogliere in senso positivo la discussione dell’Europa e della comunità internazionale, altrettanto non si può dire per l’esecutivo di Tobruk. Khalifa Haftar, Capo delle Forze Armate, si è dichiarato preoccupato da una possibile “azione militare contro le nostre coste”. Non solo. Passando dalle parole ai fatti, lunedì 11 maggio ha dato il via libera per il bombardamento di una nave mercantile turca, rea di “non aver rispettato l’ordine di non avvicinarsi alla città di Derna”, ha affermato ancora l’ex agente della Cia. L’azione ha causato l’uccisione di un membro dell’equipaggio, mentre Ankara ha fatto sapere che ricorrerà in sede giudiziaria a livello internazionale.

Un tira e molla continuo che di fatto non favorisce le estenuanti trattative condotte da oltre due mesi dal delegato Onu Bernardino Leon. Il suo ottimismo circa un accordo tra i governi e le fazioni contrapposte a beneficio dell’unità nazionale libica sembra scontrarsi con la realtà.

Una realtà che parla di guerra civile. Una realtà che coinvolge anche i bambini. Dopo i 3 morti di qualche giorno fa, altri 7 innocenti sono stati uccisi poche ore fa da un colpo di mortaio nella città di Bengasi. Secondo Associated Press, il fatto sarebbe attribuibile allo Stato Islamico e Ansar al Sharia e riguarderebbe in tutto 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia.

 

Giacomo Pratali

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Libia, quasi fatta per l’accordo. Ue, svolta sull’immigrazione?

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Dopo la strage dei migranti, l’aumento degli sbarchi in Sicilia e la vicenda del peschereccio Airone, sale il livello di tensione in Italia e in Europa. Dal Marocco, Leon fa sapere che un accordo tra le fazioni libiche sembra prossimo. Mentre l’Europa potrebbe avere mosso i primi passi per una politica davvero comunitaria nel Mediterraneo.

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Un accordo tra le fazioni rivali sembra possibile. Questo quanto emerso dagli ultimi giorni di trattative a Skhirat (Marocco) tra il mediatore Onu Bernardino Leon e i rappresentanti dei governi di Tobruk e Tripoli e dei clan della Libia: “Posso dirvi che siamo in possesso di una bozza che è molto vicina all’accordo finale. L’ottanta per cento di questa bozza è un testo su cui le parti in causa possono concordare”, ha riferito ai media il rappresentante delle Nazioni Unite. Una notizia che apre uno spiraglio di luce, dopo che lo stesso negoziatore aveva minacciato di lasciare il tavolo delle trattative se i combattimenti nella capitale non fossero cessati.

Tuttavia, la questione dell’unità nazionale libica, necessaria per fronteggiare l’avanzata dello Stato Islamico, già si sta confondendo con la questione migratoria. Tra l’indignazione di fronte alle continue stragi avvenute nel Canale di Sicilia e la crescente tensione dovuta ai possibili attacchi terroristici di “lupi solitari” o gruppi organizzati, la macchina dell’Unione Europea potrebbe avere compiuto il primo passo nella direzione di una vera politica comunitaria sull’immigrazione.

Accolto con favore dal premier Matteo Renzi, il vertice congiunto dei Ministri degli Interni e degli Esteri, tenutosi a Lussemburgo il 20 aprile, ha varato un decalogo per affrontare la questione migratoria.

Più risorse finanziarie saranno destinate alle operazioni Triton e Poseidon. Ci sarà “uno sforzo sistematico per catturare e distruggere le imbarcazioni usate dai trafficanti” e una maggiore attenzione e l’impiego di forze operative in Italia e Grecia per questioni come il diritto d’asilo e il traffico di esseri umani. Il rilevamento delle impronte digitali a tutti gli immigrati e l’accelerazione delle pratiche di respingimento per coloro che risultino irregolari. L’impegno diretto della Commissione e del Servizio di Azione Esterna dell’Unione Europea nei Paesi confinanti con la Libia.

Infine, sul tema della sicurezza, venerdì 17 aprile, la Commissione delle Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Europeo si è espressa così : “I terroristi approfitteranno sempre della mancanza di coordinamento tra gli Stati membri – afferma la rappresentante francese del Ppe Rachida Dati -. Noi abbiamo bisogno di una chiara e vincolante azione comune per una migliore cooperazione tra le agenzie di intelligence europee ed assieme ai Paesi del Terzo Mondo, le altre vittime del terrorismo e dello jihadismo”, conclude.
Giacomo Pratali

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Usa, tra l’accordo sul nucleare con l’Iran e i possibili retroscena

Medio oriente – Africa di

Raggiunto l’accordo tra i Paesi “5+1” e l’Iran. Stabiliti i punti base. Le sanzioni contro Teheran saranno revocate. L’intesa con lo Stato sciita sembra, però, stonare con la contemporanea offensiva di alcuni Stati sunniti nello Yemen. Sembra perché questo quadro geopolitico caotico va a vantaggio degli Stati Uniti.

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Giovedì 2 aprile Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno trovato l’intesa storica sul nucleare con l’Iran, il quale vede cessare l’embargo impostogli. I parametri di base sono da stabilire entro il 30 giugno, ma i punti dell’accordo sono chiari. L’attività di Teheran sarà tenuta sotto controllo per i prossimi dieci anni (prorogabili a 25), periodo entro il quale dovranno essere ridotte a 6 mila (75%) le centrifughe in azione. Le riserve di uranio già presenti saranno portate all’estero o diluite. Infine, il capitolo delle sanzioni finanziarie e petrolifere: Stati Uniti ed Europa le revocheranno dopo la verifica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Se Obama parla di più sicurezza “per il nostro Paese e i nostri alleati”, dello stesso tenore sono le dichiarazione del rappresentante Ue Mogherini (“Questo accordo garantisce che l’Iran non svilupperà il nucleare”) e del ministro degli Esteri di Teheran (“Abbiamo trovato le soluzioni per i parametri chiave”).

Ma se l’accordo è senz’altro un cambio radicale dopo anni di rapporti freddi tra Stati Uniti e Iran, lo stesso non si può dire per altri Paesi. Il presidente israeliano Netanyahu attacca parlando di “errore storico” a favore di un Paese che sta commettendo “atroci azioni in Siria, Iraq, Libano e Yemen”.

Ed è proprio il caso Yemen a stonare con questa intesa. In queste ultime ore, infatti, la coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita, con il consenso e il conseguente l’appoggio logistico degli Stati Uniti, sta sferrando una massiccia offensiva militare contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dallo stesso Iran.

Questo sembra andare nella direzione opposta rispetto all’accordo sul nucleare, così alla collaborazione nella lotta allo Stato Islamico in Siria e Iraq. Ma è solo apparenza. L’obiettivo degli Stati Uniti in Medio Oriente, come riportato nel rapporto della National Security americana di febbraio, è quello di non fare emergere nessun attore geopolitico di primo piano in quest’area. E, al tempo stesso, non prendere parte in maniera attiva alle azioni militari: vedi i casi già citati in Yemen, Iraq e Siria. Un obiettivo finora raggiunto.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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