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Roma: conferenza “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” organizzata dall’Ambasciata statunitense

Energia/ESTERI/EUROPA/POLITICA di

Lunedì 27 giugno 2022 l’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia ha organizzato l’evento “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” in collaborazione con il Centro Studi Americani e la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Leggi Tutto

L’ombra lunga del neopresidente americano sulla politica italiana

POLITICA di

Le immagini in mondovisione del Campidoglio di Washington preso d’assalto lo scorso 6 gennaio hanno scosso le democrazie occidentali. A seguito degli eventi indecorosi di Capitol Hill, il cui mandante morale si materializza nella persona di Donald Trump, il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo all’insediamento del nuovo Presidente Joe Biden presso la Casa Bianca. La nuova era inaugurata da Biden e dalla sua vice, Kamala Harris, aleggia come un’ombra sulla politica italiana e ne influenza, direttamente e indirettamente, le dinamiche interne.  

“Non dobbiamo cancellare ciò che è successo, perché la democrazia non è un dono che viene dal cielo, la dobbiamo continuamente rinnovare, dobbiamo sempre investire nella democrazia”. Così il 44° Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha commentato l’assalto a Capitol Hill, ospite da Fabio Fazio su Rai3 nel suo programma a Che tempo Che Fa, ricordandoci che la democrazia non è qualcosa di scontato, ma è fragile e va tutelata dagli “impulsi di estrema destra”.

A poco più di un mese dal suo insediamento, a colpire di Joe Biden è sicuramente il punto di rottura col suo predecessore sul lato della comunicazione. Donald Trump passerà alla storia per essere stato il presidente americano che più di tutti ha fatto un uso spasmodico, controverso e molto personale dei social media. Lungo l’elenco dei tweet per attaccare gli oppositori politici, inveire verso altri Capi di Stato e condividere fake news.  L’atto finale della sua permanenza alla Casa Bianca, d’altronde, è stata una lunga campagna di delegittimazione delle elezioni presidenziali sui social, bollata come la miccia che ha scatenato l’assalto al Congresso e che ha dato avvio al suo secondo impeachment per “incitamento all’insurrezione”.

Ai tweet infuocati di Trump si è sostituita una comunicazione completamente opposta: istituzionale, formale e sobria. Nelle primissime ore del suo incarico, Joe Biden ha annunciato la firma di 17 ordini esecutivi volti a stigmatizzare molte delle politiche che hanno reso Trump così divisivo. Tra queste la reintegrazione degli Stati Uniti negli accordi di Parigi, il ritiro dell’uscita dall’OMS, lo stop alla costruzione del muro con il Messico e il ripristino della volontà dell’amministrazione di Barack Obama di promuovere la diversità all’interno del governo federale. Re-impegno sul clima, cambio di rotta sull’immigrazione, ripristino del multilateralismo, inclusività e diversità: difficile credere che l’Italia possa essere immune al cambiamento d’oltreoceano. Quello che succede negli Stati Uniti si lega in maniera speculare e condiziona, direttamente e indirettamente, le vicende italiane ormai da sempre. Una variante, tra le tante in gioco, di un certo spessore che compone il complesso quadro della politica nostrana.

Non possiamo non notare come all’insediamento di Biden coincida il ribaltamento operato da Matteo Renzi alla maggioranza giallo-rossa. Tra le varie dinamiche che hanno spinto il senatore a questa scelta, si vocifera abbia inciso anche la sua ambizione a ricoprire un incarico internazionale come segretario generale presso la NATO. Con Joe Biden alla guida del paese più influente del mondo, appare sicuramente una strada più percorribile rispetto al passato, alla luce della stima reciproca che Renzi può vantare con le amministrazioni dem statunitensi. Il ritiro delle ministre di IV che ha causato la crisi in seno all’ormai “fu governo Conte bis” ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte, riconfermato a Palazzo Chigi la scorsa estate anche grazie a seguito di un endorsement di Trump, giunto sotto forma di cinguettio e fonte della famosa storpiatura in “Giuseppi”.

Ed ecco che Biden diventa una figura a cui guardare al momento della ricerca dei numeri alle Camere. “L’agenda della nuova amministrazione Biden è la nostra agenda, condividiamo l’approccio del multilateralismo perché il bilateralismo non ha risolto e non può risolvere i problemi” Così Giuseppe Conte, citando il neopresidente americano nel suo intervento per chiedere la fiducia al Parlamento e convincere i cosiddetti costruttori a un voto di “responsabilità”.

Ancora più sorprendente il cambio di rotta del segretario della Lega, Matteo Salvini, da sempre tra i più aspri critici dell’europeismo, che nelle ultimissime ore si è dichiarato disponibile a sostenere un governo Draghi (d’altronde, difficile dire di no a una figura irreprensibile come quella dell’ex governatore della Bce). In parte, bisogna dirlo, sollecitato anche dalle forze economiche e produttrici del Nord, regione di natura sempre più europea sotto il punto di vista industriale e imprenditoriale. L’altro ieri, così, la Lega ha sostenuto Draghi, votando a favore del regolamento del Recovery plan al Parlamento europeo, quando soltanto un mese fa si era astenuta. Salvini ha rivisto anche la sua linea dura sull’immigrazione, una tematica che gli ha sempre assicurato un ampio bacino di consenso, dichiarando che “Proporremo l’adozione della legislazione europea. A noi va bene che il tema sia trattato come in Francia e Germania, con le stesse regole. Coinvolgendo la Ue”. Anche qui lo scostamento ricalca il passaggio avvenuto dall’amministrazione Trump a quella di Biden, da toni di chiusura, sovranisti e unilaterali a un’apertura verso temi di maggiore responsabilità e multilateralismo. Sull’atlantismo a cui Draghi aveva preliminarmente fatto riferimento, Salvini è netto: “Dobbiamo guardare alle democrazie, all’Occidente, alle libertà dell’Occidente, senza essere tifosi di altri regimi che di democratico non hanno nulla”. Una dichiarazione sbalorditiva per chi ha sempre strizzato l’occhio a regimi tutt’altro che democratici, quali quelli di Orbán, Morawiecki e Putin.

Insomma, la nuova fase inaugurata da Mario Draghi, la cui agenda ha definito essere atlantista e europeista, ha destabilizzato il sovranismo nostrano. Che sia pura tattica politica, le prossime mosse lo riveleranno. Fatto sta che non si può tralasciare l’influenza di uno scenario internazionale mutato, in cui i potenti interlocutori di una volta, sono o fuori gioco, vedasi Trump, o poco affidabili, come nel caso di Putin delegittimato dalla stampa estera sotto molti punti di vista, a fronte dello scandalo Navalny, della violenta repressione delle manifestazioni di piazza e la successiva decisione di espellere diplomatici Ue.

La crisi sanitaria ha mostrato l’inadeguatezza della retorica sovranista e messo in evidenza la necessità di una risposta multilaterale di fronte a una sfida di natura transfrontaliera come la pandemia. Sbandati dal mutamento dei punti di riferimento all’estero, i partiti italiani sembrano aver trovato rifugio sotto l’ombra di Joe Biden e della sua vice, Kamala Harris, verso posizioni più moderate e meno populiste “alla Trump”.

Siria: Raqqa un anno dopo

MEDIO ORIENTE di

Il presidente siriano Bashar al Assad e il presidente russo Vladimir Putin hanno dichiarato che la guerra in Siria è finita ma ad oggi la guerra non si ferma affatto e con essa I massacri nei confronti dei civili. Lo scenario vede la proposta di tregue per l’evacuazione dei civili che vengono sistematicamente violate, la comunità internazionale che accusa Assad di condurre degli attacchi utilizzando armi chimiche che hanno provocato stragi di bambini, colloqui di pace che si arrestano e si concludono con un nulla di fatto. Sullo sfondo vi è lo scambio di accuse tra le superpotenze, USA e Russia, e a livello regionale tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele, che finora ha giocato in difesa della propria sopravvivenza più che per estendere la propria influenza in una regione che le è ostile. È passato un anno da quando, dopo una feroce battaglia di quattro mesi, le forze democratiche siriane annunciarono la vittoria nei confronti dello Stato islamico, che aveva usato gli abitanti di Raqqa come scudi umani e commesso altri crimini di guerra. Nell’offensiva la coalizione USA e le forze democratiche siriane hanno utilizzato una potenza di fuoco devastante. La situazione a Raqqa, ancora oggi, è di distruzione e totale devastazione umanitaria. La città è svuotata con edifici bombardati, poca acqua corrente ed elettricità. L’odore di morte è nell’aria.  Gli attacchi hanno ucciso centinaia di civili e provocato migliaia di sfollati che ora stanno tornando in una città di rovine o rimangono nei campi. I civili sopravvissuti in altre città, dove le forze armate siriane e russe hanno distrutto ospedali, presidi medici, scuole, infrastrutture, vivono una realtà simili. Una realtà in cui sono privati delle loro case e dei diritti fondamentali. Recentemente Amnesty International ha chiesto alla Russia, alla Turchia e all’Iran, che hanno creato una zona demilitarizzata che protegge solamente una parte della popolazione della provincia, di assicurare la protezione dell’intera zona e di prevenire un’altra catastrofe. Amnesty International ha documentato molti attacchi illegali ai danni di civili e di beni civili da parte del governo siriano, con il sostegno della Russia e dell’Iran, e di gruppi di opposizione armata che hanno il sostegno della Turchia e di altri stati. Decine di migliaia di civili sono rimasti uccisi e mutilati in attacchi illegali del governo siriano, decine di migliaia sono vittime di sparizione forzata, arbitrariamente detenuti e torturati.

     In una lettera inviata ad Amnesty International il 10 settembre 2018, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, le cui forze lanciarono la maggior parte degli attacchi aerei e con l’artiglieria contro Raqqa, ha scritto che non accetta alcuna responsabilità per le vittime civili, che la Coalizione non intende risarcire i sopravvissuti e i parenti dei civili uccisi, e che rifiuta di fornire ulteriori informazioni sulle circostanze degli attacchi che hanno fatto morti e feriti nella popolazione civile. Ad oggi, la coalizione a guida statunitense continua a negare e a non fornire indagini adeguate sulla dimensione delle vittime civili e delle distruzioni provocate a Raqqa. Il pentagono neanche sembra intenzionato ad offrire le proprie scuse per le centinaia di vittime della sua guerra di “annichilimento” contro Raqqa. Ciò è una vessazione per le famiglie che hanno sofferto prima sotto il dominio dello stato islamico e dopo sotto gli attacchi catastrofici della coalizione USA. La coalizione rifiuta di riconoscere il ruolo avuto per la maggior parte delle perdite civili e laddove lo ha ammesso le proprie responsabilità, non ha accettato di avere obblighi nei confronti delle vittime. Siamo di fronte a un sistema inadeguato di registrazione delle vittime civili che non si chiede perchè sia successo e come evitare in futuro altre vittime civili. La coalizione, venendo meno all’impegno preso di compiere indagini circa l’impatto dei suoi attacchi aerei, ha un conteggio implausibilmente basso. Nel giugno 2018 la coalizione aveva ammesso di aver causato solo 23 vittime civili. Conteggio al ribasso che vede protagonista anche la gran bretagna che dichiara di non aver causato vittime con i propri attacchi aerei. Solo dopo una serie di dinieghi da parte dell’esercito e degli esponenti politici, a fine giugno, la coalizione ha dichiarato di aver causato altre 77 vittimi civili. Vi è l’ammissione ma la coalizione continua a negare informazioni sulle circostanze in cui questi civili sono stati uccisi, il pentagono dichiara di non sentirsi obbligato a rispondere ad ulteriori domande circa le circostanze sulle ragioni degli attacchi. La situazione vede il dipartimento della Difesa statunitense sostenere che I ricercatori, gli esperti militari e I legali di Amnesty International non conoscano il diritto internazionale umanitario e che l’organizzazione abbia parlato di violazioni solo quando ci sono state vittime civili. Presentando così le cose, il Pentagono ha ignorato le prove che, nei casi documentati da Amnesty International, nei luoghi colpiti dagli attacchi aerei che provocarono tanti morti e feriti tra i civili non vi era presenza di uomini dello Stato islamico. Questo elemento ha portato Amnesty International ha concludere che si sia trattato di violazioni del diritto internazionale umanitario.  Su questo punto il segretario generale di Amnesty International Kumi Naidoo ha dichiarato che “la questione centrale sollevata dalle nostre ricerche è questa: la Coalizione prese le precauzioni necessarie per ridurre al minimo ogni potenziale danno ai civili, come richiedono le leggi di guerra? Anche se la Coalizione rifiuta di rispondere, le prove ci dicono che non lo ha fatto. Per proteggere le popolazioni civili non bastano gli impegni e le belle parole. Occorrono indagini sulle vittime civili, trasparenza e disponibilità ad apprendere la lezione e a modificare quelle procedure che non hanno minimizzato i danni ai civili. Occorre infine riconoscere l’effettiva entità dei danni causati ai civili e fare in modo che le vittime sappiano chi sono stati i responsabili e ottengano giustizia e riparazione. Il segretario alla Difesa Usa James Mattis ha detto che le forze Usa sono ‘bravi ragazzi’. Ma sarebbero davvero tali se rispettassero le leggi di guerra e facessero tutto il necessario per assicurare ai civili innocenti che hanno sofferto a causa delle loro azioni la giustizia che meritano”.

Quella che oggi insanguina il territorio siriano è una guerra del “tutti contro tutti”. L’esercito siriano libero è ormai disintegrato in tante sigle diverse e oltre ai ribelli si devono fare I conti anche con I miliziani dell’Isis. Poi ci sono I curdi che combattono per uno stato indipendente, anche se le cose ultimamente sembrano andare nella direzione opposta e il vero nemico per loro è la Turchia. A ciò si aggiunge che nella guerra siriana le ingerenze straniere sono sempre state presenti: Usa, Qatar, Arabia Saudita e Turchia in chiave anti-Assad e con molte ambiguità anti-Isis; Iran, Russia e Cina a sostegno di Damasco. Le ragioni di questa guerra che va avanti da oltre sette anni e che ha mietuto un numero impressionante di vittime e generato un numero impressionante di profughi e sfollati vanno oltre le istanze di riforme e democrazia che hanno caratterizzato le prime proteste. In mezzo ai vari attori, a morire e a essere portati allo stremo, ci sono I civili. Il cessate il fuoco per il popolo siriano è ancora molto lontano.

Somalia: Attacco aereo degli Stati Uniti contro l’ISIS

AFRICA di

Il 27 novembre scorso, un militante ISIS è stato ucciso in un attacco aereo degli Stati Uniti in Somalia. A renderlo noto , il Comando Militare Americano in Africa. “In coordinamento con il governo federale Somalo, le forze americane hanno condotto un attacco aereo contro l’ISIS, nel nord-est della Somalia il 27 novembre, uccidendo un terrorista”, questo è quanto si legge espressamente nel comunicato del “U.S. Africa Command”.  Il raid è avvenuto intorno alle 3 di pomeriggio, ora locale.

All’inizio di novembre, a seguito della volontà dell’amministrazione Trump di espandere la presenza militare nel Corno D’Africa per combattere il terrorismo Islamico, gli Stati Uniti hanno cominciato a prendere di mira le piccole cellule di jihadisti in continuo aumento nel Paese africano. Secondo quanto riportato dalla CNN, il 3 e il 4 novembre si sono verificati due attacchi aerei dislocati in zone differenti, causando la morte di, come si legge nell’articolo, “diversi” terroristi. Gli attacchi, in quel caso, sono stati perpetrati da un drone privo di equipaggio.

Negli ultimi anni le forze armate statunitensi, in collaborazione con quelle aeree, hanno periodicamente operato contro il gruppo terroristico Al-Shaabab, resosi protagonista di diversi attacchi nei confronti delle forze occidentali nei territori dell’Africa orientale. Ultimamente sembrerebbe che circa 200 estremisti abbiano disertato questo gruppo terroristico, cominciando ad organizzarsi in piccoli gruppi vicini all’ISIS.

Le volontà da parte degli Stati Uniti sono chiare. Nel comunicato da cui è stata appresa la notizia, si legge che; “Le forze statunitensi continueranno ad utilizzare tutte le misure autorizzate e appropriate per proteggere i propri cittadini  e per disabilitare la minaccia terroristica. I nostri obiettivi politici e di sicurezza prevedono la ricostituzione della pace interna in Somalia, rendendolo un paese in grado di affrontare tutte le minacce del suo territorio”. Si specifica che ciò prevede la collaborazione oltre che con le forze di sicurezza nazionali, anche con la Missione dell’Unione Africana in Somalia(AMISOM). Essa è stata autorizzata dall’Unione Africana e approvata dalle Nazioni Unite nel 2007, con l’obbiettivo di garantire un piano di sicurezza al paese.

 

L’incerto futuro delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti

AMERICHE/BreakingNews di

Negli ultimi due anni, le relazioni tra Cuba e Stati Uniti sono migliorate significativamente. L’amministrazione Obama ha condotto una serie di proficui negoziati nel corso dell’ultimo mandato presidenziale. I principali punti della politica estera del Presidente Barack Obama verso Cuba sono stati: la storica ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, gli sforzi per far cessare l’embargo economico e l’impegno a chiudere la prigione di Guantanamo. Tuttavia, questo periodo di riconciliazione tra i due Paesi è oggi minacciato dall’incertezza della posizione che assumerà al riguardo il prossimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Cuba e Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche nel 1961, dopo che i rivoluzionari guidati da Fidel Castro presero il potere nel 1959. Tale decisione fu influenzata principalmente dal fatto che il nuovo governo cubano nazionalizzò tutte le imprese e proprietà statunitensi presenti sull’isola. Come conseguenza, dal 1960 il governo statunitense adottò progressive sanzioni economiche contro Cuba.

Nel 2014, dopo un periodo di negoziati bilaterali, Obama e Raúl Castro hanno annunciato la volontà di ripristinare le relazioni diplomatiche tra i due Paesi. In tale occasione i due leader hanno anche raggiunto un accordo per lo scambio di prigionieri. I negoziati sono stati incoraggiati da Papa Francesco.

Nell’aprile 2015, il Presidente Obama e Raúl Castro si sono incontrati al Summit delle Americhe di Panama. Per la prima volta dal 1961 i capi di Stato di Cuba e Stati Uniti hanno avuto modo di incontrarsi di persona. Infine, nel luglio 2015 Cuba e Stati Uniti hanno ripristinato le relazioni diplomatiche ed aperto ambasciate in entrambi i Paesi. Il riavvicinamento è stato poi coronato dalla visita formale di Obama a Cuba avvenuta nel marzo 2016.

Ciò nonostante, vi sono ancora dei problemi irrisolti tra i due Paesi. Il primo e più difficile problema da risolvere è senza dubbio l’embargo. Il blocco economico verso l’isola è stato parzialmente rimosso dall’amministrazione Obama, la quale ha ripristinato i voli commerciali tra i due Paesi, rimosso i divieti di viaggio, nonché le restrizioni sulle rimesse e i servizi bancari. Tuttavia, Obama non ha potuto abolire completamente l’embargo a causa dell’opposizione del Congresso, il quale deve necessariamente approvare la misura. Un altro problema irrisolto nei negoziati tra Stati Uniti e Cuba riguarda la prigione di Guantanamo. Il carcere è stato aperto nel 2002 su una porzione del territorio cubano, che era stato occupato dagli Stati Uniti fin dal 1903 come compenso per aver sostenuto Cuba nella guerra di indipendenza contro i coloni spagnoli. Cuba ha poi rivendicato il territorio di Guantanamo dal trionfo della rivoluzione. Obama ha promesso di chiudere la prigione di Guantanamo perché l’opinione pubblica e diverse organizzazioni hanno protestato per le violazioni di diritti umani che in essa avevano luogo. Nella prigione in questione, persone sospettate di terrorismo venivano incarcerate a seguito degli attacchi terroristici del 2001, senza avere accesso ad un giusto processo. Anche se Obama ha trasferito gran parte dei prigionieri in altri luoghi, assicurando il rispetto dei loro diritti, ad oggi non ha ancora potuto chiudere la prigione.

La recente elezione del Presidente Donald Trump, avvenuta l’8 di novembre, influenzerà molto probabilmente le relazioni tra i due Paesi. Anche se il modo in cui la situazione cambierà non è ancora sufficientemente chiaro. Trump, infatti, non ha espresso una chiara posizione sulla questione cubana, limitandosi a criticare l’accordo raggiunto da Obama con l’isola caraibica e sostenendo che tenterà di rinegoziare un nuovo accordo più vantaggioso. D’altro canto va menzionato il fatto che, durante la campagna elettorale, Trump è stato apertamente accusato di aver violato l’embargo economico contro Cuba alcuni anni fa, avendo inviato dei manager della sua società a Cuba per verificare se vi fossero condizioni per poter fare affari sull’isola.

Gli Stati Uniti cambiano direzione sotto la Presidenza Trump

AMERICHE di

L’8 di novembre il popolo statunitense ha eletto il repubblicano Donald Trump come prossimo Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, i risultati elettorali hanno preso alla sprovvista quasi tutti. La vittoria di Donald Trump è stata assolutamente inaspettata, soprattutto perché i sondaggi avevano previsto il successo di Hillary Clinton. In ogni caso, i risultati elettorali mostrano un Paese profondamente diviso tra due opposte visioni dell’America e opposte idee sul ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero svolgere sul piano delle relazioni internazionali. Per comprendere perché gli statunitensi hanno eletto Donald Trump a dispetto delle previsioni, sarà utile esaminare le sue proposte di politica interna oltre a quelle di politica estera.

La politica interna di Donald Trump può essere sintetizzata nello slogan “Make America great again”. Trump ha svolto la sua campagna elettorale concentrandosi sulla classe lavoratrice ed enfatizzando l’idea che l’America abbia un grande potenziale che non è stato a pieno utilizzato fin’ora. Secondo Trump, le ragioni di tale situazione sono da riscontrarsi nell’eccessivo sviluppo dell’economia finanziaria a scapito di quella reale. L’economia reale sostiene la crescita economica e rende possibile un miglioramento del benessere, mentre l’economia finanziaria è considerata responsabile della bolla immobiliare, che è esplosa nel 2007. Trump si è riferito ai suoi sostenitori definendoli un grande movimento, volenteroso di cambiare l’America. La sua retorica è stata considerata come populismo da gran parte del Paese, tuttavia la maggioranza ha visto in essa un modo per sentirsi in potere di cambiare le sorti dell’America. Secondo alcuni esperti, i votanti hanno preso posizione contro l’establishment. Il rifiuto della classe politica tradizionale non è un fenomeno isolato nello scenario internazionale come abbiamo potuto osservare in occasione del referendum sulla Brexit, oltre che nei recenti risultati elettorali in diversi Paesi europei. I principali strumenti per ridare grandezza all’America, secondo Trump, sono i tagli alle tasse per le imprese, misure più restrittive sull’immigrazione e leggi inflessibili contro criminali e terroristi. Il taglio delle tasse è pensato per sostenere la crescita economica aiutando le imprese a restare negli Stati Uniti invece di delocalizzare la produzione all’estero. La posizione di Trump sull’immigrazione è stata largamente criticata, poiché ha proposto di costruire un muro al confine con il Messico e di espellere tutti gli stranieri irregolari che risiedono negli Stati Uniti. Infine, la sua posizione sui criminali ed i terroristi è stata considerata razzista da gran parte dei cittadini americani. In particolare, Trump ha proposto di introdurre leggi stringenti e rafforzare i poteri della polizia per risolvere il problema della conflittualità razziale negli USA. Tuttavia, questo tipo di misure preoccupa la popolazione afroamericana che è stata protagonista di numerose proteste durante l’ultimo anno poiché si sente discriminata dalla polizia. La durezza della posizione di Donald Trump in merito alla questione razziale potrebbe portare ad incrementare la conflittualità già esistente tra il governo e le comunità afroamericane.

Passiamo ora ad analizzare la politica estera di Donald Trump. Il suo progetto può essere identificato nell’espressione “isolazionismo”. Per quanto riguarda le relazioni economiche con altri Paesi, Trump vorrebbe introdurre misure protezionistiche, poiché ritiene che i problemi economici degli USA siano principalmente dovuti al processo di globalizzazione. Non si tratta di una posizione isolata se pensiamo al Regno Unito che probabilmente negozierà l’uscita dal Mercato Unico Europeo. L’idea di focalizzarsi sui problemi interni degli USA, piuttosto che realizzare interventi militari in tutto il mondo, è l’argomento di politica estera che ha convinto maggiormente gli elettori. Gli statunitensi non comprendono le ragioni del consistente coinvolgimento degli USA in Medio Oriente come in altre parti del mondo, anche perché non percepiscono alcun vantaggio diretto da tali operazioni. Trump ha sostenuto, durante la sua campagna, che gli USA dovrebbero spendere meno soldi nel finanziare la NATO e gli interventi all’estero, concedendo maggiore indipendenza militare ai loro alleati ed usando il denaro per migliorare lo standard di vita americano. Tale isolazionismo in politica estera porta ad alcune importanti conseguenze. In primo luogo, le relazioni con l’UE cambieranno, in campo militare ma anche nel settore economico. Infatti, Trump ha espresso la sua opposizione al Trattato di Partenariato Transatlantico sul commercio e gli investimenti, che dovrebbe essere firmato tra l’UE e gli USA. Ciò nonostante, il più importante cambio nelle relazioni internazionali sarebbe dato da un mutamento di attitudine verso la Russia. Dal canto suo, il Presidente Putin ha subito espresso la sua volontà di ripristinare relazioni amichevoli con gli Stati Uniti. La principale conseguenza di una riconciliazione tra gli USA e la Russia sarebbe un possibile accordo sulle crisi in Siria ed in Ucraina. La stabilizzazione del Medio Oriente, oltre alla soluzione della crisi in Ucraina, allontanerebbe la minaccia di uno scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. D’altro canto, le future relazioni con la Cina sono incerte. Trump ha fatto alcune dichiarazioni contro la strategia economica cinese ed ha espresso la volontà di essere più economicamente indipendente dalla Cina. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che la Cina possiede la maggior parte del debito statunitense. Un altro aspetto della politica estera di Trump, in grado di influenzare tutto il mondo, è la scelta di rispettare o meno l’accordo sul cambio climatico negoziato a Parigi lo scorso anno ed entrato in vigore pochi giorni fa. Infine, non è chiaro se Trump proseguirà nella riconciliazione con l’Iran e se rispetterà l’accordo sul nucleare concluso lo scorso anno con tale Paese.

In conclusione, è ancora troppo presto per fare previsioni su come gli Stati Uniti e le loro relazioni con il resto del mondo cambieranno. La questione dipende fondamentalmente dal fatto che Trump  rispetti o meno il programma elettorale. Secondo le sue prime dichiarazioni, tuttavia, sembra che l’intenzione sia quella di moderare alcuni punti controversi del programma elettorale (si veda la posizione sulla questione razziale, sugli omosessuali e sui musulmani). Trump ha annunciato la volontà di collaborare con l’amministrazione Obama per preservare le maggiori conquiste ottenute negli ultimi 8 anni. Obama, da parte sua, ha manifestato il proprio sostegno al nuovo Presidente ed ha dichiarato che farà tutto il necessario per aiutarlo a svolgere in modo soddisfacente il proprio mandato.

L’incontro tra Obama e Renzi alla Casa Bianca

AMERICHE di

 

Il 18 ottobre il Presidente statunitense Barack Obama ha ricevuto il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a Washington. L’incontro è iniziato con una cerimonia alla Casa Bianca ed un discorso pubblico di entrambi i leader. In seguito, Obama ha invitato Renzi ed altre importanti personalità italiane, all’ultima cena di Stato organizzata dalla sua amministrazione presso la Casa Bianca.

I due leader hanno espresso la volontà di rafforzare l’alleanza e la cooperazione in atto tra i due Paesi. L’Italia è infatti uno dei maggiori sostenitori in Europa degli accordi di libero scambio promossi dagli Stati Uniti e dal Canada, rispettivamente il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) e l’Accordo economico e commerciale globale (CETA). In cambio, gli Stati Uniti hanno sostenuto la posizione italiana sulla crisi migratoria, affermando che i Paesi dell’Unione Europea dovrebbero condividere gli oneri derivanti dalla crisi in questione.

Inoltre, Obama ha espresso il suo sostegno alle riforme promosse dall’Italia ed ha, invece, criticato le politiche di austerity intraprese dalle istituzioni dell’Unione Europea. Il Presidente statunitense ha affermato che le misure economiche espansive adottate dal suo Paese in occasione della crisi del 2007 hanno ottenuto importanti successi nel permettere agli USA di superare la crisi economica. Al contrario, le misure economiche restrittive poste in essere dall’Europa hanno portato ad una lunga recessione e a gravi problemi sociali come la diffusa disoccupazione. Inoltre, Obama ha messo in guardia l’Europa sul fatto che la lunga crisi economica unita all’alto livello di disoccupazione hanno creato le condizioni per l’affermazione di movimenti populisti in numerosi Paesi.

Indubbiamente, gli Stati Uniti considerano l’Italia un importante membro della NATO ed un interlocutore privilegiato in Europa. Renzi, da parte sua, ha assicurato l’impegno italiano a sostenere la coalizione internazionale impegnata in Medio Oriente contro l’ISIS. Ricordiamo, inoltre, che l’Italia ha concesso agli Stati Uniti di utilizzare le proprie basi militari per portare a termine i raid aerei in Libia e che pochi giorni fa il governo italiano ha accettato di partecipare ad una missione NATO nell’Est Europa.

Infine, è importante evidenziare che l’incontro si è svolto a circa due mesi dal referendum costituzionale italiano promosso da Matteo Renzi. Per quanto riguarda il referendum fissato per il 4 dicembre prossimo, il Presidente Obama ha espresso il suo sostegno alle riforme costituzionali, così come aveva già fatto prima di lui l’Ambasciatore statunitense in Italia. Se da un lato tale sostegno ha rafforzato la credibilità internazionale del governo Renzi, dall’altro la presa di posizione degli Stati Uniti sulla riforma costituzionale ha provocato numerose critiche in Italia. Infatti, diversi partiti politici che si oppongono alla riforma, hanno definito la posizione statunitense come un’indebita ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.

 

Hillary Clinton vince il primo dibattito presidenziale

AMERICHE/POLITICA di

Il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump si è svolto il 26 settembre all’Hofstra University di Hempstead, New York, a partire dalle 9 di sera. La candidata democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump si sono sfidati in un acceso dibattito su importati temi di politica interna ed estera. Questo primo dibattito ha rappresentato per gli statunitensi l’opportunità di conoscere meglio le proposte politiche e la personalità dei due candidati alla Casa Bianca. Le elezioni presidenziali sono programmate per il prossimo 8 novembre ed il consenso verso i due candidati dipenderà in parte dalla loro performance nel corso dei tre dibattiti in programma.

Il dibattito è durato 90 minuti ed è stato suddiviso in tre principali aree tematiche: la prosperità, la direzione che seguirà il Paese e la sicurezza. Per quanto riguarda la prima area tematica, i candidati sono stati invitati ad esprimere la loro posizione sul tema del lavoro. Clinton ha proposto al riguardo di creare un’economia che sia in grado di avvantaggiare tutte le classi sociali e non soltanto i più ricchi. L’idea è creare nuovi posti di lavoro investendo in infrastrutture, innovazione, tecnologia, energie rinnovabili e piccole imprese. Inoltre, Hillary ha sostenuto la necessità di rendere la società più equa alzando il salario minimo, promuovendo il diritto alla retribuzione dei giorni di malattia, i permessi familiari retribuiti e l’università gratuita. D’altra parte, Donald Trump ha sostenuto che il principale problema relativo al lavoro negli Stati Uniti è la fuga delle imprese all’estero. Ciò si verifica a causa delle tasse elevate che le imprese pagano nel Paese. Successivamente, ai due candidati è stato chiesto di esporre i loro programmi relativamente alla tassazione. Donald Trump ha quindi proposto di tagliare le imposte alle imprese in modo consistente dal 35% al 15%, in modo da attrarre imprese nel Paese e creare nuovi posti di lavoro. La Clinton, invece, ha espresso una visione opposta sul prelievo fiscale, affermando che il suo programma prevede un incremento delle imposte sulle classi abbienti ed una riduzione delle imposte per le piccole imprese e le classi sociali più svantaggiate. Il suo scopo è permettere l’affermarsi di una più consistente classe media e ridurre le disuguaglianze. A questo punto del dibattito, è stata sollevata la questione della mancata pubblicazione da parte di Trump delle imposte da lui pagate. Pur non trattandosi di un obbligo, i precedenti Presidenti degli Stati Uniti hanno adottato una prassi relativa alla pubblicazione dei documenti relativi al pagamento delle imposte, in modo da dare prova della loro correttezza di fronte agli elettori. Trump ha risposto all’accusa affermando che renderà noti tali documenti quando Hillary pubblicherà le sue email.

Con riferimento alla seconda area tematica, i due candidati sono stati interrogati sulla delicata questione razziale esistente nel Paese. Hillary Clinton ha evidenziato come la prima sfida sarà ristabilire fiducia tra le collettività statunitensi e la polizia. Tale sfida richiede, a suo avviso, una riforma della giustizia e l’introduzione di restrizioni al possesso di armi. Diversamente, Trump ha affermato la necessità di ristabilire legge ed ordine rafforzando i poteri della polizia e promuovendo metodi come lo “Stop and frisk”. Si tratta di una pratica usata dalla polizia che consiste nel fermare persone ritenute sospette e sottoporle a perquisizione. Tuttavia, la Clinton ha ricordato che tale metodo è stato dichiarato incostituzionale.

In relazione alla terza area tematica, relativa alla sicurezza, i candidati hanno affrontato il tema degli attacchi informatici diretti a sottrarre informazioni riservate al Paese. La Clinton ha evidenziato come la sicurezza informatica sarà una priorità per il prossimo Presidente degli Stati Uniti ed ha accusato espressamente la Russia di essere responsabile di un recente attacco informatico. Trump, invece, ha chiarito che non è stata provata la responsabilità della Russia nell’attacco, che potrebbe esser stato orchestrato da un altro Paese. Successivamente, é stato approfondito il tema dell’home grown terrorism e dell’ISIS. Anche su questo punto i candidati hanno espresso posizioni diverse. Trump ha sostenuto che la nascita dell’ISIS è stata il prodotto dei maldestri interventi in Medio Oriente realizzati dai precedenti governi USA. Ha, inoltre, criticato una politica estera fondata sugli interventi militari all’estero e l’alleanza della NATO, considerata un peso economico considerevole per il Paese. D’altra parte Hillary Clinton ha espresso il proprio supporto alla politica estera del Presidente Obama, ricordando che sono state ottenute importanti vittorie senza l’uso delle armi, come l’accordo con l’Iran. Ha inoltre ricordato l’importanza della NATO per garantire la sicurezza degli Stati Uniti, così come la validità degli altri trattati internazionali stipulati dagli USA con i suoi alleati.

Una volta conclusosi il dibattito, un sondaggio ha rilevato che il 62% dei telespettatori ha preferito Hillary Clinton, mentre solo un 27% ha votato per Donald Trump. Hillary Clinton è apparsa al pubblico molto più preparata sul programma politico ed allo stesso tempo ha saputo gestire gli attacchi rivolti contro la sua persona da Trump sorridendo e mantenendo la calma nelle risposte. Al contrario, Trump ha reagito alle provocazioni di Hillary Clinton in modo più spontaneo ed irrequieto, arrivando anche ad alzare il tono della voce. I prossimi dibattiti tra i due candidati, in programma per il 9 ed il 19 di ottobre, saranno fondamentali per capire chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti.

Corea del Nord, e ora?

Asia di

All’indomani dell’annuncio trionfale di Pyongyang, che ha dichiarato di aver testato con successo la prima bomba all’idrogeno realizzata negli impianti nucleari della Corea del Nord, una domanda rimbalza tra le Nazioni Unite e le cancellerie delle principali potenze globali: cosa fare ora?

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Per adesso, va detto, prevale lo scetticismo, sulla reale portata della detonazione nucleare ottenuta dai tecnici di Pyongyang. L’esplosione, avvenuta nel nord del paese, non distante dal confine con la Cina, è stata registrata dai sismografi con una potenza compresa tra 4.8 e  5.1 sulla scala Richter. Secondo gli esperti sudcoreani, una simile risposta sismica potrebbe equivalere ad una potenza di sei kilotoni, circa un terzo di quella sprigionata della bomba sganciata su Hiroshima nel 1945 e sostanzialmente incompatibile con quella che sarebbe stata prodotta da un ordigno termonucleare, la cui potenza si calcola generalmente in centinaia di kilotoni. Per fare un raffronto, il test termonucleare condotto dagli Stati uniti, nel 1971, sull’isola di Amchitka in Alaska, produsse un terremoto di magnitudo 6.8, esponenzialmente superiore a quello registrato nella giornata di ieri.

Si è forse trattato di una bomba atomica dunque, e non all’idrogeno, per la quale è richiesta una tecnologia di cui il regime del presidente Kim Yong-Un probabilmente ancora non dispone. Ad ogni modo, quello di ieri è il quarto test nordcoreano, dopo quelli del 2006, 2009 e 2013; una provocazione esplicita nei confronti nel nemico americano, della Corea del Sud, del Giappone, dell’alleato cinese, sempre più frustrato dalle iniziative del regime e, in generale, della comunità internazionale. Una risposta appare inevitabile, mentre si studiano nuove strategie per contenere la minaccia coreana nel medio termine.

Il Concilio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso immediatamente la sua ferma condanna, dichiarando che “continua ad esistere una chiara minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionali” ed ha annunciato nuove misure contro Pyongyang per le quali si attende, a breve, una risoluzione.

Tra i più decisi, l’ambasciatore giapponese all’ONU, Motohide Yoshikawa, che ha invocato una risoluzione rapida e vigorosa. “L’autorità e la credibilità del Consiglio – ha detto – sarebbero messe in discussione se non prendesse queste misure”. Non è però ancora chiaro quale tipo di sanzioni dovrebbero essere adottate ed in quali tempi, mentre la Russia tira il freno, per bocca del suo ambasciatore, non garantendo al momento il sostegno di Mosca all’adozione di ulteriori sanzioni. In effetti Pyongyang sembra determinata ad andare avanti sulla strada del nucleare, nonostante le condanne internazionali e le sanzioni innescate dai precedenti test atomici. Perché dovrebbe essere diverso questa volta?

Un dubbio che non viene coltivato dagli avversari storici del regime. Stati uniti, Corea del Sud e Giappone  hanno dichiarato di essere pronti ad una risposta unitaria nei confronti di Pyongyang. Il presidente Obama ha parlato sia con il premier Sudcoreano Park Geun-Hye che con il primo ministro giapponese Shinzo Abe ed ha poi dichiarato che tre leader hanno deciso di “lavorare insieme per forgiare una risposta forte e internazionale all’incosciente comportamento della Corea del Nord”. Gli ha fatto eco il Presidente Abe: “siamo d’accordo che la provocazione della Corea del Nord è inaccettabile… ci occuperemo della situazione in modo fermo, cooperando con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, aggiungendo però che il Giappone è intenzionato, se lo riterrà necessario, ad intraprendere misure unilaterali. Seul ha infine rilasciato un comunicato ufficiale, chiedendo alla comunità internazionale di “assicurare che la Corea del Nord paghi un prezzo adeguato” per i suoi test nucleari. Parallelamente, ha ristretto gli accessi al parco industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dal Nord e dal Sud ed ha annunciato il ripristino delle trasmissioni propagandistiche verso il territorio nordcoreano, interrotte nel 2015 per allentare la tensione con il vicino.

Superata la fase delle reazioni a caldo, organizzato un nuovo pacchetto di sanzioni, resterà da capire cosa fare con un paese che dispone di un arsenale nucleare composto da una ventina di ordigni (atomici o all’idrogeno che siano) e che potrebbe essere in grado oggi, o nel breve termine, di montare una testata nucleare su un missile a medio raggio, capace di minacciare il Sud, il Giappone, le truppe americane stanziate nell’area e, forse, anche le coste occidentali degli Stati Uniti.

Le sanzioni Onu non hanno mai avuto effetti apprezzabili e la strategia della “pazienza strategica”, adottata dall’amministrazione americana, potrebbe essere venata di eccessivo ottimismo. L’idea cioè che bastino le sanzioni a far intraprendere al regime nordcoreano la strada della resa e del disarmo nucleare appare sempre meno convincente. Fino ad oggi, gli USA hanno rifiutato di negoziare, se non alle loro condizioni, con la Corea del Nord, scegliendo dunque una strategia diversa da quella adottata per l’Iran, che ha portato ad i recenti negoziati e al successivo accordo con Theran.

Come sostenuto recentemente da Stephen W. Bosworth, il primo inviato speciale di Obama per la Corea del Nord, “quali che siano i rischi associati a nuovi colloqui, saranno sempre minori di quelli provocati dal non fare nulla”. Poiché nessuna potenza sembra realmente intenzionata a sfidare sul piano militare un nemico temibile con la Corea del Nord, la partita dovrà necessariamente essere giocata sul campo della diplomazia, prima che l’arsenale di Pyongyang si rafforzi ulteriormente e la tecnologia di puntamento dei suoi missili sia portata ad un livello superiore.

La strategia di Kim Yong–Un è chiara: l’ arsenale nucleare è un assicurazione sulla vita del paese e i suoi nemici hanno solo da perdere, di fronte alla prospettiva drammatica di un conflitto. Che lo vogliano o meno, dovranno accettare di sedere al tavolo delle trattative riconoscendo alla Repubblica Democratica Popolare di Corea lo status di potenza nucleare. E’ presto per dire se i fatti gli daranno ragione ma il vento provocato dall’esplosione, per ora, sembra soffiare a suo favore.

 

Luca Marchesini

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Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

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Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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