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Aung San Suu Kyi, l’incongruenza di un simbolo

ASIA PACIFICO di

Aung San Suu Kyi è il Consigliere di Stato e Ministra degli Esteri della Birmania. E’ famosa in tutto il mondo come “the Lady”, titolo anche di un film che la ritrae come paladina della democrazia e dei diritti umani. Allo stesso modo deve averla vista anche la commissione che le ha assegnato un premio Nobel nel 1991, e non a torto. Aung San Suu Kyi ha vissuto prigioniera in casa sua per venti anni, combattente non violenta per la democrazia. Battaglia che ha vinto con le elezioni del 2013, anno in cui il partito National League of Democracy viene eletto a guidare il passaggio del Paese alla democrazia. Il suo governo negli ultimi 18 mesi ha lavorato ad un progetto di pace e di sviluppo sostenibile che ha però incontrato molte critiche.

Tra le ultime voci che si sono levate contro la premio Nobel, ci sono i suoi colleghi premio Nobel, Malala e Desmond Tutu, nonché una partecipatissima petizione per revocarle il premio. Il motivo di queste critiche sta nel fatto che una regione del Myanmar, il Rakhine, è oggi occupata militarmente, chiuso ad ogni accesso sia da parte di missioni umanitarie che di media, e la popolazione che abita la regione, musulmani Rohingya, sta emigrando in massa verso il Bangladesh (mezzo milione di persone nelle ultime quattro settimane) 

Ora, la difficoltà di accesso alla regione rende di conseguenza difficile avere notizie certe su ciò che sta succedendo in Rakhine. Certe però, sono le testimonianze di chi è fuggito e di chi si sta rifugiando in Bangladesh. Sono notizie di persecuzioni, violenze, stupri e infanticidi commessi dall’esercito di Myanmar contro la popolazione musulmana Rohingya. L’ONU ha definito i recenti avvenimenti un esempio testuale di pulizia etnica. Di qui le accuse a Aung San Suu Kyi, leader di fatto di un paese sconvolto da una tragedia umanitaria, accuse mosse in relazione al suo status di premio Nobel per la Pace.  

Un aspetto da considerare è il fatto che Aung San Suu Kyi è una figura decisamente secondaria quando si parla di sicurezza e difesa dello stato. Il passaggio alla democrazia non è ancora ultimato, e per essere eletta, la leader è dovuta giungere ad un compromesso con l’esercito, lasciandolo a capo di tre ministeri fondamentali del Myanmar: Difesa, Frontiere e Interno. È perciò presumibile che quando si parli di una persecuzione interna, mossa dall’esercito, Aung San Suu Kyi non abbia i mezzi né i poteri per fermarli. Altro è esigere dalla leader quantomeno una dichiarazione, un riconoscimento della situazione. Ciò non è ancora avvenuto; nella sua ultima dichiarazione, la Lady ha parlato di attacchi terroristici contro la polizia, di una maggioranza di popolazione che non è emigrata e di una sostanziale ignoranza da parte del governo delle cause per cui quel mezzo di milione di persone sono oggi in Bangladesh come rifugiati. Nulla insomma, sui Rohingya, sulla persecuzione di questo gruppo etnico né sulla discriminazione sistemica che il governo ha portato avanti negli ultimi 50 anni nei confronti di questa minoranza musulmana. Non sembra perciò che le posizioni di Aung San Suu Kyi e dell’esercito siano discordi sull’argomento, o almeno fino ad ora la leader non si è pronunciata contro le azioni dell’esercito.  

Desmond Tutu, nella sua dichiarazione sull’operato della Lady, ha parlato di incongruenza di un simbolo, della discrepanza tra ciò che Aung San Suu Kyi dovrebbe rappresentare in quanto premio Nobel per la Pace e la realtà della Birmania oggi. Aung San Suu Kyi ha certamente rappresentato l’elemento fondamentale del passaggio alla democrazia per il suo paese, passaggio che come lei stessa afferma non è ancora perfezionato e richiede tempo. Detto ciò il problema che va oggi affrontato non si esaurisce con una dichiarazione di una leader che non ha potere sull’esercito, o con il ritiro del suo premio. Il problema rimane in quel campo profughi in Cox Bazar di mezzo milione di persone, che non diminuiranno nel prossimo futuro, e nei villaggi che continuano a bruciare in Rakhine ma sono inaccessibili ad aiuti umanitari.  

Richiamando le parole di Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana, attualmente in missione in Cox Bazar, serve uno sforzo consistente da parte della comunità internazionale, aiuti concreti al campo profughi e una strategia di risoluzione della crisi in Rakhine, che affronti l’origine dell’emigrazione. Queste devono essere le direttrici dello sforzo internazionale, queste le priorità.

Campi profughi Rohingya, Rocca, situazione inimmaginabile

ASIA PACIFICO di

I campi profughi che sono stati allestini nella regione del Cox’s Bazar, in Bagladesh , sono al collasso. Quattrocentomila persone ammassate in tende di fortuna senza luce e acqua, nella maggior parte donne e bambini fuggiti dalla violenza nella vicina Myanmmar. Dopo chilometri nella giungla questo riparo di fortuna non è certo il posto più sicuro.

Il presidente della Croce Rossa Italiana ha voluto constatare di persona la situazione recandosi in Bangladesh per un meeting con gli esponenti locali della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa internazionale per verificare di persona la situazione dei campi profughi.

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente dopo la visita in Cox’s Bazar.

AC: “Presidente Rocca, noi la raggiungiamo in Bangladesh per una missione che sta portando avanti. Qual è la situazione nel Cox Bazar?”

FR: “Guardi, è una situazione molto difficile, nell’arco di quattro settimane circa mezzo milione di persone si sono riversate dal Myanmar e vivono in condizioni estreme. Per dare un’idea, è come se si fosse spostata l’intera città di Genova, insomma, è un numero di persone impressionante che vive in condizioni inumane perché manca acqua potabile, elettricità, i servizi di base e veramente c’è bisogno di tutto; è una situazione disperata.” 

AC: “Ma come riescono a sopravvivere, le condizioni di vita nei campi non sono sufficienti quindi?”

FR: “No, le condizioni non sono sufficienti, l’ambiente è un’area infinita baracche, teli e vivono in alloggi di fortuna; è una situazione che veramente va oltre ogni immaginazione, mi creda. Io ho avuto la possibilità di vivere diverse sfide umanitarie nel corso degli ultimi anni, ma questa, una cosa così, onestamente è la prima volta. E’ una situazione che mette a dura prova la tenuta emotiva davanti a un evento di quel tipo.”  

AC: “Ma quali sono, secondo lei, le prospettive a medio termine per la situazione dei profughi Rohingya?”

FR: “Guardi, la situazione è che c’è un dialogo aperto tra i due governi, quello di Myanmar e quello del Bangladesh. Al momento non vengono comunque riconosciuti come rifugiati, anche se, bisogna dire che il governo del Bangladesh si sta adoperando nei limiti di quelle che sono le possibilità di uno stato che comunque è poverissimo e, ricordiamolo, quest’anno, nel primo semestre, ha avuto un’inondazione a causa di alluvioni terribili e diverse milioni di persone sono finite sott’acqua. Il Bangladesh, a causa dell’alluvione, è quindi uno stato povero già di per se’ provato da disastri naturali enormi e ce la stanno mettendo tutta, però ovviamente la risposta è inadeguata.” 

AC: “Avete un piano, la Croce Rossa Internazionale, la Mezza Luna Rossa ha un piano di supporto per questa situazione?”

 FR: “Noi ci stiamo organizzando, da domenica sarà operativo un ospedale da campo con cento letti, che ovviamente è una goccia nel mare, però comincerà ad operare e a funzionare. Abbiamo diversi team cliniche mobili che girano per i campi cercando di dare ovviamente quel minimo di assistenza di base. Come Croce Rossa Italiana rafforzeremo le cliniche mobili mandando medici e infermieri già dalla prossima settimana, con la Croce Rossa Danese stiamo lavorando per il supporto psico-sociale già nei prossimi giorni, per far andare dei team che possano comunque lavorare nel campo. Lei provi a immaginare quello che può accadere in questi campi, dove di notte c’è il buio, non c’è elettricità, i bambini e le donne perché, anche questo va detto, sono le persone di maggioranza, insomma i soggetti particolarmente fragili sono esposti a tutto e quindi anche a ogni genere di violenza; per cui è importante anche un lavoro di sostegno ai soggetti più fragili. Però ripeto, è una sensazione di grande difficoltà quella che mi accompagna, perché noi, come Croce Rossa, tutto il movimento internazionale, ce la sta mettendo tutta; devo dire anche le altre organizzazioni sono in campo. Però i bisogni sono enormi, qui occorre uno sforzo straordinario della comunità internazionale, che mi sembra non stia parlando di questo. E’ una catastrofe senza precedenti, noi siamo portati a lamentarci, noi, nel nostro paese, per dei numeri che se li andiamo a comparare rispetto a quello che sto vivendo qua sono numeri risibili. Mezzo milione in quattro settimane è una cosa oltre ogni immaginazione.” 

Di Alessandro Conte

Alessandro Conte
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