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Povertà urbana: quando è necessario mettere i Confini al Centro

CAPITALI/EUROPA di

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita verticale dell’insediamento urbano e alle intense mutazioni qualitative sia in termini morfologici che funzionali. Vi sono dei tratti negativi in questo processo in cui primeggia la dilatazione della povertà e che assume le fisionomie proprie di povertà urbana. Ad oggi più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, circa il 54% con rischio di arrivare al 60% entro il 2030, e accanto a questo si è registrato un aumento delle diseguaglianze a livello globale. Durante la crisi abbiamo sentito dire che tutti si impoveriscono ma non è vero che dentro la crisi tutti ne risentono allo stesso modo. Nell’indagine ISTATCondizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” pubblicata il 6 dicembre 2017, mentre tra il 2016 e l’anno precedente si è verificata una “significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie”, contemporaneamente si è registrato “un aumento della diseguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Ciò ha significato più ricchezza complessiva ma più distanze economiche tra ricchi e poveri. Inoltre, sono aumentati i poveri e le famiglie a rischio di povertà. Sostanzialmente ha significato una redistribuzione dal basso verso l’alto che porta ad un’ingiustizia sociale ed economica. Sono note le reali condizioni di lavoro e le basse remunerazioni di commesse, badanti, camerieri, addetti ai supermercati, lavoro ambulante, operai della logistica, dell’agricoltura e delle piattaforme digitali e di tanti lavoratori e lavoratrici autonome. Al di là delle retoriche populiste e razziste, le aree più a rischio e le categorie più esposte all’impoverimento sono le famiglie a basso reddito con stranieri, gli anziani soli e i giovani disoccupati. Questo quadro si aggrava inserendo le aree sociali meno presenti nei dati disponibili, come quelle composte da richiedenti asilo e migranti con protezione umanitaria, sussidiaria o internazionale fuoriusciti dal sistema di accoglienza, che si ritrovano per strada (10 mila ne stima il rapporto “Fuoricampo” pubblicato a febbraio 2018 da Medici senza frontiere) o nei ghetti delle aree agricole (le cosiddette “Ghetto economy” come quella di Gioia Tauro), a cui si aggiunge una parte di immigrati che negli ultimi anni sono andati a lavorare in campagna dopo essere stati licenziati dalle fabbriche del nord. A questo punto va detto che vi sono due caratteristiche preponderanti nella povertà italiana: la concentrazione nel Mezzogiorno d’Italia e la sua caratterizzazione familiare. Il Mezzogiorno è l’epicentro del “sisma povertà” in cui la Campania risulta il centro da cui si propagano le onde sismiche sul tutto il territorio nazionale e in cui vi sono i maggiori danni. Va aggiunto che si sono manifestate forme nuove di povertà che hanno interessato aree tradizionalmente meno svantaggiate e più industrializzate di Italia: la fame ha cominciato a mordere anche al Nord. La povertà in Italia è dovuta alla difficoltà dei soggetti in età di lavoro di guadagnare un reddito dotato di continuità e protezioni sociali tali da evitare il sovraccarico di aspettative e obblighi familiari insoddisfatti che rende la famiglia più esposta al rischio di diventare povera. Intervenire sulla famiglia è fondamentale poiché potrebbe accentuarsi la sua funzione di cinghia di trasmissione della povertà e potrebbe aumentare il rischio di spinte verso l’esclusione sociale e lavorativa, ciò indebolisce le forme di coesione sociale. Le politiche di contrasto alla povertà si sono rilevate ad oggi una coperta troppo corta, sia per il loro carattere frammentato e categoriale, sia per le dimensioni stesse del fenomeno e la sua concentrazione in un’area specifica del paese. Occorre intraprende un percorso che non potrà limitarsi ai soli interventi di contrasto alla povertà, ma deve allargarsi al piano delle politiche occupazionali e alle scelte di politica economica. Gli anni più recenti segnano una ripresa di un discorso nazionale di lotta alla povertà e l’attuazione per la prima volta di una misura non contingente di universalismo selettivo non differenziato territorialmente quale il Reddito di inclusione (REI). Evidenziato il fatto che è ancora prematura una valutazione del REI, è possibile evidenziare delle criticità. Il REI permetterà di raggiungere nel 2018 il 38% delle persone in povertà assoluta e risulta evidente che una maggioranza ne rimarrà priva. A ciò si aggiunge che il sostegno economico, anche se più elevato di quanto concesso in precedenza, rimane generalmente insufficiente per fare uscire dalla condizione di povertà assoluta; questo punto si aggrava con la natura temporale della misura (18 mesi + 12) che prescinde dal fatto che situazione della persona/famiglia sia migliorata o meno. Infine, scompare dal discorso pubblico il riferimento alla povertà relativa. Altra problematica è dovuta al fatto delle categorie. Inoltre, Il comune resta il livello istituzionale con la responsabilità principale del contrasto alla povertà, una centralità che continua ad alimentare l’elevata frammentazione delle politiche in questo ambito, assicurando diritti condizionati al luogo di residenza e alle possibilità e alle scelte dei Comuni sull’utilizzo delle proprie risorse; questa frammentazione rende inadeguate le politiche contro la povertà in Italia.

Su questo tema tra l’11 e il 13 maggio si è tenuta la tre giorni di “Confini Al Centro”, la convention nazionale sulla povertà urbana organizzata da Associazione 21 luglio Onlus, Università di Roma Tor Vergata e la rete Reyn Italia. L’obiettivo è stato quello di sviluppare un documento programmatico di proposte e riflessioni per elaborare strategie e politiche di contrasto alla povertà urbana, fenomeno sempre più diffuso in Italia. Per questo motivo tutti i partecipanti, dalle professionalità più svariate, sono stati chiamati a dare il proprio contributo attraverso un attivo scambio di conoscenze ed esperienze dirette per parlare di diritto ad abitare, educazione e infanzia, media e povertà estreme. A condurre i tavoli di lavoro e i dibattiti si sono alternati oltre 30 relatori, tra esperti, accademici, associazioni del terzo settore e giornalisti. Inoltre, vi è stata la presenza di deputati e consiglieri regionali. Gli organizzatori hanno scelto di ripartire dal quartiere di Tor Bella Monaca, da una periferia romana, per immaginare e ridisegnare insieme i contorni di una città più inclusiva e egualitaria. All’iniziativa è stata conferita, come premio di rappresentanza, una medaglia del Presidente della Repubblica. La sfida della convention è stata quella di dare una proposta concreta che risponda al crescente fenomeno di “urbanizzazione della povertà”, caratterizzata da un modello di segregazione del disagio sociale nelle aree più periferiche, sempre più distaccati dal centro e dai ceti benestanti. Parallelamente negli anni, dagli ’80 ad oggi, si è consolidata la “politica dei campi” ma anche la formazione dei ghetti per lavoratori stagionali, centri di accoglienza per migranti e richiedenti asilo. Un sistema di relegazione e iper-ghettizzazione che marca una distanza spaziale oltre che relazionale, delineando così un percorso di impoverimento ulteriore all’interno delle nostre città.

Alcune delle problematiche affrontate

Durante la Convention è stata rilevata una vulnerabilità abitativa diffusa di cui è importante cogliere le articolazioni in quanto le diverse figure e la diversa gravità dei problemi esigono soluzioni differenti. I problemi sono suggeriti dai profili sociali delle popolazioni escluse: immigrati irregolari e richiedenti asilo privi di sostegno, disoccupati di lunga durata, homeless cronici, rom residenti in campi nomadi o in insediamenti informali ecc. Le politiche potrebbero muovere dal riconoscimento delle capacità di organizzazione delle stesse persone in povertà. È un esempio chiaro quello di chi vive in occupazioni abitative. Invece di penalizzare questa parte della popolazione come fa, ad esempio, l’articolo 5 del decreto lupi, si potrebbe riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, le esperienze e le proposte avanzate da una parte della popolazione che ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’autorganizzazione di politiche per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzione concrete a parti della società che non possono aspettare. Queste esperienze mettono in discussione il concetto di fragilità utilizzato solitamente in maniera banale e banalizzante da parte delle istituzioni, incapace di comprendere i problemi strutturali e politici alla radice dei processi e delle condizioni di impoverimento. Tali esperienze hanno prodotto anche una ridefinizione dell’orizzonte culturale di riferimento, che si potrebbero consolidare se anche dal lato istituzionale si riconoscesse l’autonomia delle aree sociali e delle persone impoverite, liberandole dall’ineluttabilità della subalternità riprodotta dalle politiche. Alla cronaca è noto il tema degli sgomberi che spesso poco parla della sofferenza e dell’accanimento che ricevono le persone coinvolte. Negli occhi vi sono ancora i fatti di piazza indipendenza dell’anno scorso in cui circa 100 persone fuggite dalle guerre in Eritrea o dai problemi della Somalia sono stati cacciati con violenza dall’edificio che avevano occupato 4 anni prima. La maggior parte della problematica risiede nella metodologia dello sgombero e del mancato preavviso alle associazioni che lavorano nel quartiere. È stata la persecuzione di persone a cui è stata data la protezione internazionale o lo status di rifugiato per poi essere abbandonati senza l’assegnazione di una casa, di un lavoro o di un corso di lingua come in altri paesi. In questo caso vi è stato un accanimento verso persone che erano state capaci di auto-organizzarsi per allontanarsi dal mondo della criminalità e della droga. Con lo sgombero queste persone hanno perso quella che per loro era diventata casa. Il luogo da cui erano riusciti a ripartire, trovare lavoro e inserirsi nel tessuto sociale. Lo sgombero è solo uno dei casi dei tanti nel territorio romano e che avvengono nei posti più disparati. Spesso questi sono posti abbandonati, lontani dai centri abitati e in condizioni sanitarie terribili. Nota ancora più amara è dovuta al fatto che ogni sgombero costa circa 1256€ a persona con il risultato che in totale si spendono 10 milioni di euro per costringere le persone a spostarsi da una parte all’altra della città. Sono fondi che vengono spesi per disperdere il problema ma non risolverlo con il risultato di infierire su persone che cercano di attivarsi. Tutto ciò è funzionale alla politica perché la politica può sfruttare l’emergenza per far vedere un operato, in questo senso tutto ciò che è temporaneo diventa permanente. A ciò si aggiungono problemi che coinvolgono tutta la popolazione come il fenomeno dei residence per cui il comune spende circa 3000€ di affitto in cui spostare i poveri in veri e propri ghetti o la dinamica dei campi cosiddetti istituzionali o il fatto che molti dei fondi destinati alla questione abitativa non vengono utilizzati.

Nell’ambito dell’educazione “La strage dei poveri continua”, ovvero in Italia l’accesso alla conoscenza (alla cultura, al lavoro, al futuro) continua a rappresentare un grosso problema per tanti bambini e ragazzi che nascono nei quartieri “sbagliati”, ovvero con minori risorse (familiari, economiche, educative e ricreative) a cui attingere. Un dato su tutti: nelle scuole caratterizzate da un indice socioeconomico basso, più di uno studente su quattro finisce per ripetere l’anno, mentre nelle scuole “bene” viene bocciato “soltanto” un alunno su 25. Tra i vari fattori viene in rilievo la canalizzazione formativa strisciante, all’opera su diversi fronti: tra ordini di scuole (i tecnici e i professionali sono caratterizzati da indici socioeconomici significativamente più bassi rispetto ai licei), tra scuole del centro e scuole ai margini, ma anche tra scuole principali e scuole secondarie, e a volte perfino all’interno delle stesse scuole, con la creazione di classi ghetto. Ad oggi, in Italia, non abbiamo ancora una mappa affidabile e dettagliata delle aree “ad alta priorità educativa” sulle quali investire con fondi e programmi ad hoc, come si è cercato di fare con alterni successi in Francia e in altri Paesi europei. Non va dimenticato però lo sforzo e le numerose esperienze di scuole in tutta Italia che dimostrano come rimettere la scuola al centro dei quartieri, soprattutto nei tessuti marginali, senza dover necessariamente attendere rinforzi e grandi investimenti. La scuola diventa così un luogo di istruzione, ma anche un centro di aggregazione, cultura e intercultura, aperto al territorio anche oltre l’orario scolastico.

Un po’ di attenzione va posta al tema del razzismo e della criminalizzazione della povertà. Questo è dovuta ad un’ossessione per la sicurezza che caratterizza la nostra epoca, questa ossessione genera paura e povertà, si sa da dove si incomincia a colpire (immigrati, neri, rom), ma non si sa dove si finisce. Prima o poi anche altre parti di popolazione diventeranno oggetto di quelle politiche di repressione, in cui a prevalere è una sola idea: pulire la città e sterilizzare lo spazio pubblico da tutte quelle presenze ed attività considerate indecorose, allontanando la “brutta gente”, gli appartenenti alle rinnovate classi pericolose. Persone senza tetto, ambulanti, parcheggiatori senza permesso, artisti di strada, persone che chiedono l’elemosina, occupanti di abitazioni, immigrati presenti nello spazio pubblico o ospiti del sistema di accoglienza sono stati costruiti come soggetti problematici per l’ordine pubblico, soggetti da controllare. Il grosso del problema trova ampio spazio quando l’intolleranza spontanea è avallata dalle istituzioni, anzi spesso si viene a incoraggiare un sistema razzismo direttamente o indirettamente incoraggiato dalle istituzioni o dai mezzi di comunicazione. Esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale, se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma anche di chiunque, sia pure individualmente, compia gesti di solidarietà verso profughi e migranti. Possiamo pensare ai messaggi di Grillo agli albori del Movimento 5 stelle in cui definiva “una bomba a tempo” i rom di nazionalità romena e proponeva d’interdire loro la libera circolazione nell’Ue, onde salvaguardare “i sacri confini della Patria”; oppure all’astensione sul moderato disegno di legge per il conferimento della cittadinanza italiana ai minori figli di cittadini stranieri secondo requisiti abbastanza rigidi (decisione che porta all’esclusione dei benefici della cittadinanza di decine di migliaia di bambini e adolescenti: nati e/o cresciuti in Italia, educati e socializzati nel nostro Paese, nondimeno finora destinati a ereditare la condizione dei loro genitori); infine alla già citata campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nell’opera di ricerca e soccorso nel mediterraneo con tanto di locuzione “Taxi del mare”. Occorre però precisare che tutto questo non riguarda tutto il movimento pentastellato ma una sua parte. Nel rapporto 2017-2018 di Amnesty international sulla situazione dei diritti umani in 159 stati del mondo il segretario della Lega Salvini primeggia per la percentuale di frasi xenofobe, basta pensare all’ultima campagna elettorale o comunque al collegamento con ex esponenti della lega e macerata. Tra questi nella storia anche il PD ha avuto un suo ruolo, in un manifesto del 2006 della campagna elettorale di Veltroni viene esibito il messaggio “Le nuove piccole bugie di Alemanno: mentre a Roma sono state spostate in  5 anni 8000 persone dagli insediamenti abusivi e chiusi decine di campi rom; il governo Berlusconi, di cui Alemanno è stato ministro, ha consentito arrivi indiscriminati senza regole e controlli alle frontiere”, con i dovuti aggiustamenti potrebbe essere utilizzato per la campagna elettorale della Meloni.

Il disagio economico e sociale e il senso di abbandonano alimentano il risentimento e la ricerca del capro espiatorio, in questo contesto è ingannevole la formula “guerra tra poveri”. Questa finisce per rappresentare aggressori e aggrediti quali vittime simmetriche; e per fare dei poveri “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista. Probabilmente è ingiusto mettere sullo stesso piano un aggressore che ha una casa, un lavoro e la famiglia vicino a sé con un immigrato che non ha una casa, deve mantenere la famiglia che sta in Africa e magari ha appena perso il lavoro. È altrettanto ingiusto dire che non ci sono altri attori al di fuori di vittima e carnefice visto che a deviare il rancore collettivo sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso il circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento, comunque la legittimazione, per quanto implicita o involontaria, della destra neofascista e neonazista. Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, contiguo a quello che s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado. Tali antitesi abbondano nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n.48 (“disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”): non fa che tradurre e legittimare la percezione comune per la quale migranti, rifugiati, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati “fuori norma”. In realtà questo è il prodotto di dinamiche tutte interne alla nostra società: sono cioè le discriminazioni nel mercato del lavoro e dell’alloggio, le politiche di esclusione e di confinamento, le retoriche del decoro urbano e della sicurezza, nonché il progressivo smantellamento di politiche sociali di inclusione, ad alimentare la povertà di questi segmenti del corpo sociale. Inoltre, a chi viene sgomberato o subisce il sequestro della merce o dell’attrezzatura per lavorare come ambulante quale possibilità diversa gli viene proposta? Nessuna. Ai processi di impoverimento si risponde da anni con polizia, vigili urbani e retoriche securitarie. Nei discorsi pubblici e dell’azione politica ed amministrativa sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia. È rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza, la quale costruisce una strada senza uscita, che, in un circolo vizioso, chiede sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, all’infinito. Con tutta questa retorica ci dimentichiamo che al di là dei dati ci sono le persone. In tutto questo discorso ci sono persone che vivono emarginate nei campi ma che riescono a trovare associazioni che riescono a inserirle nel tessuto sociale. Sono persone con sogni e desideri, che hanno voglia di vivere e conoscere o che semplicemente hanno voglia di viaggiare ma non possono farlo perché, pur avendo vissuto e lavorato tutta la vita in Italia, non hanno un passaporto. Vi sono altre persone che invece hanno attraversato un continente per scappare dall’inferno, per passare attraverso un inferno d’acqua e fondamentalmente trovare un inferno fatto di esclusione e abbandono. Vi sono anche le persone anziane che rimaste sole richiedono veri spazi per la socialità in modo da non essere dimenticate. Vi sono anche quelle persone che hanno perso il lavoro e non riescono a pagare un affitto, vi è anche chi per questo diviene un senza dimora. Infine, va ricordato che vi sono molte altre persone e tra tutte queste vi sono molti giovani. C’è da dire che questi sono solo alcuni dei temi e dei problemi da cui si è partito per parlare della povertà urbana ed elaborare il documento finale.

Danilo Garcia Di Meo “Tor bella monaca”

Tor bella monaca e il lavoro di Associazione 21 luglio

Nei nostri giornali, online o cartacei, spesso vediamo la diffusione di stereotipi o di storie gonfiate solamente per poter vendere i propri giornali. A pagare sono i nostri quartieri o quelli che possiamo chiamare working class district, quartieri (chi più e chi meno) come Garbatella, Tufello, Tor bella monaca, San Lorenzo, Tor sapienza, Centocelle, Casal Bertone, Portonaccio, Pigneto, Spinaceto e Primavalle. Spesso vediamo delle narrazioni che creano una paranoia isterica e una realtà falsata. Come se, una volta parcheggiato a Tor bella monaca, la mia macchina dovesse esplodere come in un film di Michael Bay: un’esplosione esagerata e senza senso. Oppure come se fosse vera la frase “giro col coltello quando giro per il Tufello”, come se superando una linea immaginaria ci sia li pronto qualcuno esclusivamente per noi. Oppure come quando abbiamo letto sui giornali di una Ostia in rivolta o messa a ferro e fuoco, ma poi basta sentire chi ci abita per sapere che non c’è nulla di quello che è stato scritto. Sono tutte narrazioni che creano una specie di stigma sulle persone che quotidianamente vivono il quartiere. Certo ogni quartiere ne viene colpito in maniera differente e sicuramente non vuol dire che ogni quartiere è privo di problemi. Occorre ricordare come però narrazioni del genere vanno a colpire in maniera più forte quei quartieri e quelle persone più in difficoltà. Per esempio, molti ragazzi, se vogliono trovare lavoro devono mentire sulla propria provenienza se vogliono trovare un lavoro fuori dal proprio quartiere. Inoltre, alcuni quartieri spesso vengono visitati solo per gettare la spazzatura, una dinamica innescata da un’informazione che ha narrato di luoghi franchi, privi di ogni regola. Occorre altrettanto ricordare che esistono esperienze che riqualificano il quartiere e riconnettono il tessuto sociale, che esistono intere comunità che aiuta la gente che soffre per strada e chi ha sogni senza troppe illusioni. Esistono racconti virtuosi che dovrebbero essere presi come spunti di riflessione e che dovrebbero essere il centro di “contro-narrazioni” che partono innanzitutto dal basso. Questo perché spesso siamo noi stessi ad attizzare il focolare della narrazione. Per esempio, Tor bella monaca sembra un luogo a sé stante in cui emerge una strategia della sopravvivenza in risposta alla latitanza istituzionale, che si percepisce alla vista e si ascolta nei racconti dei suoi abitanti: “Le persone possono vivere senza Stato, e Tor bella monaca ne è la dimostrazione”.

Nel contesto di Tor bella monaca opera ogni giorno Associazione 21 luglio, un’organizzazione non profit impegnata nel supportare gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo il benessere di bambine e bambini. Il lavoro vede un approccio basato sui diritti fondamentali di ogni essere umano riconosciuti dalla comunità internazionale per opporsi a tutte quelle politiche e azioni discriminatorie che promuovono nelle periferie il rifiuto verso la diversità, la povertà urbana e la segregazione abitativa. L’associazione svolge azione di advocacy per promuovere il cambiamento delle misure politiche che producono segregazione e discriminazione, presenta rapporti e ricerche ai decisori politici, stila raccomandazioni, diffonde lettere e appelli pubblici, redige rapporti per la Commissione Europea e per le nazioni unite, crea reti locali e radicate sul territorio, intraprende azioni legali pilota di fronte alla violazione dei diritti umani e dell’infanzia e monitora casi di incitamento all’odio e alla discriminazione ed episodi violenti a sfondo razziale ricorrendo anche all’autorità giudiziaria nei casi più gravi. Le attività dell’associazione passano anche per la sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani e di promozione di modelli ed esperienze positive in grado di decostruire pregiudizi e stereotipi diffusi su quanti vivono in uno stato di marginalità. Al centro di tutto vi è il benessere dei minori, l’associazione implementa progetti di sostegno all’infanzia operando una scelta privilegiata sui bambini e promuovendo interventi che partono dall’infanzia per estendersi alle famiglie e a tutta la comunità educante. L’associazione segue il metodo della “pedagogia della cittadinanza” in cui gli educatori di Associazione 21 luglio realizzano e animano spazi ludici e laboratori artistici che mirano alla crescita personale e sociale delle bambine e dei bambini. L’associazione ha molti progetti, tra cui: Amarò foro, Bambini al centro, Toy – togheter old and young, Tor bella infanzia, Casa Sar san, Corso di formazione per attivisti Rom e Sinti, Lab Rom e Danzare la vita.

Il mondo della politica e il futuro

Il comitato scientifico ha lavorato giorno e notte per stilare il documento strategico tenendo conto delle relazioni, dei dibatti e delle discussioni dei gruppi di lavoro intercorsi nei giorni della convention. Ogni gruppo (abitare, educazione, media, povertà estreme) ha lavorato e approfondito la propria tematica da inserire nel documento e proporre azioni concrete. Nel corso della convention si sono alternati diversi esponenti della politica.

Matteo Orfini, deputato e presidente del Partito Democratico, ha dichiarato che stiamo assistendo alla proletarizzazione di fasce della città. Secondo Orfini possiamo vedere l’esistenza di due città: una dentro il raccordo e una fuori al raccordo. Il presidente del PD ha voluto sottolineare come questo sia l’effetto delle scelte di chi ha gestito la città e di come si è voluto sviluppare la città nel corso delle varie amministrazioni. Orfini ha messo in evidenza come, nel nostro paese, sia sparito il tema della città da almeno 20 anni. “Occorre pensare la città non solo come Urbs ma anche come Civitas; noi come politica ci siamo occupati solo della prima ma ora occorre pensare la città come un fattore inclusivo e non di esclusione” sono state le parole di Orfini. Ha poi aggiunto che occorre dare luoghi e strumenti che facciano da primo argine alla disgregazione cittadina, che occorre aiutare la cintura periferica dato che spesso sono i luoghi da cui provengono le maggiori innovazioni.

Marta Bonafoni, consigliere regionale eletta con Lista civica per Zingaretti, ha portato i saluti del presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti dicendo che la convention è l’occasione per “entrare nelle questioni del 4 marzo e del pre 4 marzo per un dopo 4 marzo”. La Bonafoni sottolinea come sia l’occasione per entrare in una crisi poco indagata: “la crisi della città”. Roma non è più la città dell’accoglienza e serve pensare una nuova accoglienza, inoltre ci si ammala di più e si muore di più nelle periferie. Infine, la Bonafoni, allerta che occorre riflettere anche sulla scuola poiché, sempre di più, la scuola non è più un “ascensore sociale”.

Paolo Ciani, consigliere regionale eletto con Centro solidale per Zingaretti, è intervenuto dicendo che è una scelta mettere i confini al centro. Il consigliere ha notato che la pacificazione degli ultimi decenni ha portato al superamento di molti dei confini geografici ma oggi un altro tipo di confine è tornato al centro del dibattito. Spesso si parla di periferia ma non la si conosce e ciò non aiuta a ragionare sulla giustizia urbana, questa è la sfida dei nostri tempi. Ad oggi la popolazione urbana nel mondo ha superato la popolazione rurale e possiamo vedere come si stia sviluppando il fenomeno delle megalopoli. Il tema della vita al confine e nei confini è la sfida del nostro tempo, è la sfida del “vivere insieme tra diversi” in un’epoca che parla di separazione e di frontiera. Deleterio a questo proposito è stata la propaganda del “noi” e del “voi” di cui spesso ha fatto uso la lega (ex nord) che prima diceva “noi il nord” e “voi il sud” (con tanto di “Roma ladrona”) che poi si è trasformato in “noi italiani” e “voi immigrati”; una retorica che ha deteriorato le periferie.

La convention si è conclusa con la presentazione del documento strategico per il contrasto alla povertà urbana in Italia a Lorenzo Fioramonti, deputato del Movimento 5 stelle e possibile ministro del prossimo governo. Fioramonti, cresciuto a Tor bella monaca e di ritorno dopo anni all’estero, dice di essere fautore di un approccio alla povertà che si renda conto dei diversi tipi di povertà. Il deputato sottolinea l’importanza delle forme associative in un contesto che è peggiorato rispetto ad anni fa. La situazione è critica e servono misure strutturali ma le strutture hanno bisogno di tempo per cambiare e il tempo della politica è breve. Soprattutto perché occorre tenere conto della pressione pubblica. Per Fioramonti quindi occorre fare politiche strutturali ma con elementi che rispondano nel breve per poter migliorare un pezzo per volta e istituire fiducia in un progetto che ha bisogno di tempo. Il deputato ha sottolineato che troppo spesso si ha un problema centro-periferia, di quartieri in cui c’è tutto e quartieri che sono solo residenziali. Occorre fare delle periferie un centro, ogni periferia deve essere il centro di una nuova economia. Evidenzia che di certo la povertà non è una colpa ma è una realtà. Per questo Fioramonti dichiara che attende la pubblicazione documento e che spera di utilizzarlo al governo in quanto il documento strategico è in linea con le proprie intenzioni.

Da questa convention parte una campagna da parte dell’Associazione 21 luglio che entrerà nel vivo con la pubblicazione del documento. In un clima in cui molte associazioni hanno espresso molte perplessità e incertezze rispetto ai risultati del 4 marzo, basti pensare comunque ai toni dell’ultima campagna elettorale, Associazione 21 luglio si è aperta al dialogo e alla propositività. Al di là delle varie dichiarazioni politiche è importante notare e incoraggiare ulteriormente eventi come questo che hanno visto il mondo dell’università, il mondo delle istituzioni (in tutti suoi modi e livelli), il mondo delle associazioni di volontariato attive sul territorio ma soprattutto persone e cittadini incontrarsi, discutere e collaborare per un’azione concreta volta a riportare la giustizia sociale. È la rinascita di un fare politica che supera odio e stereotipi e di un voler essere comunità. Questa è la rinascita di una comunità che vuole vedere l’altro uomo in quanto uomo, di vedere l’altro non come un cuore marziano ma come appartenente allo stesso universo.

 

Rainer Maria Baratti
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