GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Paola Fratantoni - page 2

Posticipato contratto Eurofighter Italia-Kuwait

Difesa/Medio oriente – Africa di

 

Era prevista per il 31 gennaio la firma dell’accordo tra Italia e Kuwait per la fornitura di 28 Eurofighter al paese arabo. Secondo fonti interne del Ministero della Difesa, il Kuwait avrebbe rimandato la conclusione dell’accordo a causa di “ritardi procedurali”. Nessuna indiscrezione circa la data del nuovo incontro.

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Il contratto segue un memorandum of understanding siglato dal ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti e il corrispettivo kuwaitiano Khaled al-Jarrah al-Sabah nel settembre 2015. In base al documento, il Kuwait si impegna all’acquisto di 28 Eurofighter Typhoon (22 modelli monoposto e 6 biposto) per un valore complessivo di circa 8 miliardi di euro. Arco temporale previsto 20 anni.

Il consorzio Eurofighter nasce dal lavoro delle industrie aerospaziali di quattro paesi europei: Germania e Spagna (Airbus), Gran Bretagna (BAE System) e Italia (Finmeccanica). Ma è proprio l’industria italiana ad assicurarsi il contratto con il Kuwait. Circa il 50% della commessa sarà, infatti, appannaggio di Finmeccanica, che si occuperà non solo di progettare, sviluppare e produrre il velivolo (Alenia Aermacchi), ma ne curerà anche l’avionica e l’elettronica di bordo, tramite la Selex ES.

L’accordo siglato con Finmeccanica conclude una negoziazione iniziata nel 2010, in seguito alla decisione del Kuwait di rimodernare la flotta di F-18 Hornet in dotazione alle proprie forze aeree. Inizialmente, la scelta era ricaduta sui nuovi F-18 Super Hornet di produzione statunitense; tuttavia, continui ritardi da parte degli USA nell’approvazione dell’acquisizione avevano indotto l’emirato ad optare per il programma Eurofighter. Scelta che, molto probabilmente, nasconde anche considerazioni di natura strategico-militare.

L’F-18 è un caccia da combattimento multiruolo, supersonico e bimotore, capace di trasportare bombe per combattimenti aria-aria e aria-terra. Nonostante venga impiegato per molteplici utilizzi (ricognizione aerea, supporto aereo ravvicinato, interdizione e scorta), l’F-18 si caratterizza principalmente come cacciabombardiere ed è stato introdotto nelle capacità del Kuwait dopo la guerra del Golfo.

L’Eurofighter, seppur presenti alcuni caratteri simili all’F-18 (multiruolo e bimotore), si afferma primariamente come caccia intercettore e da superiorità aerea. Più veloce e maneggevole, il velivolo è dotato di radar a scansione elettronica e avanzati sensori di navigazione, scoperta e attacco. Armamenti tecnologicamente avanzati, pensati prevalentemente per i combattimenti aria-aria, completano il profilo dell’aviogetto, che ha già dimostrato il proprio valore in diversi teatri operativi, come la Libia o i paesi baltici.

La scelta del governo kuwaitiano di puntare sugli Eurofighter sembra rispecchiare una strategia nazionale volta a rafforzare le capacità difensive delle forze armate piuttosto che puntare sugli armamenti offensivi. 28 caccia da superiorità aerea garantirebbero una maggiore sicurezza nei cieli kuwaitiani, data la capacità di intercettare velivoli nemici o illegalmente presenti nello spazio aereo del paese. Velocità e manovrabilità elevate rendono gli Eurofighter i candidati ideali per intervenire in caso di minacce imminenti provenienti dai paesi limitrofi. Considerando la posizione geografica del Kuwait e il livello di insicurezza che caratterizza il Medio Oriente oggi, la scelta di Kuwait City non sembra così inopportuna.

La fretta del governo kuwaitiano nel voler raggiungere un accordo con gli USA prima, con l’Italia poi, fa trapelare un senso di incertezza e la necessità di voler potenziare i propri armamenti nell’ottica di un peggioramento del contesto regionale. Dopo i rinvii degli ultimi mesi legati alle disposizioni circa l’addestramento dei piloti (il Kuwait ha accettato di formare i piloti in Italia e non in Inghilterra, come inizialmente richiesto), l’ultimo ostacolo da superare è l’approvazione della corte dei conti del Kuwait, che pare non abbia avuto sufficiente tempo per esaminare nel dettaglio i termini finali dell’accordo (Best and Final Offer, BAFO). Come ha sottolineato il ministro Pinotti, in un incontro tenutosi mercoledì scorso a Roma il ministro della Difesa del Kuwait ha ribadito la volontà di firmare l’accordo con l’Italia nel più breve tempo possibile.

Da canto suo, il Belpaese ha tutti motivi per tenersi stretto un simile impegno. In primo luogo, una commessa con un paese mediorientale della durata di 20 anni permette all’Italia di consolidare la propria presenza in un’area strategica e ricca di opportunità commerciali. Secondo, il contratto dona a Finmeccanica uno slancio economico non indifferente. Come sottolinea il generale Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, “la ​commessa è importante soprattutto perché consente di mantenere attive linee di produzione che invece nel tempo sarebbero andate in dismissione, consentendo di mantenere inalterati posti di lavoro e capacità di know how”. Infine, il ruolo guida giocato dall’Italia in questa sede può permettere al nostro paese da un lato di riguadagnare peso nel consorzio Eurofighter, dall’altro di sfruttare una ritrovata fiducia nelle proprie capacità per rivedere la propria posizione nei giochi internazionali.

 

Paola Fratantoni

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Rohani a Roma: a rischio i rapporti con Israele?

Medio oriente – Africa/POLITICA di

 

Inizia dall’Italia il primo tour in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani all’indomani della fine delle sanzioni internazionali sul paese. Un segno di apertura verso il mondo occidentale e di come l’Iran voglia recuperare e rafforzare i rapporti con i partner europei, in primis, appunto, l’Italia.

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Il viaggio del leader iraniano a Roma assume una triplice valenza. Dal punto di vista politico, la visita di Rohani arriva in un momento significativo per il paese e per il Medio Oriente. La fine delle sanzioni internazionali e l’accordo sul nucleare rilanciano, infatti, i rapporti della Repubblica Islamica con il resto del mondo, ponendo fine al decennale isolamento politico. Opportunità per Teheran, quindi, di contribuire anche ad una soluzione politica delle varie problematiche regionali.

Secondo, l’aspetto religioso. L’incontro tra un leader musulmano sciita e il più alto rappresentate della Chiesa Cattolica, Papa Francesco, rappresenta un evento importante in un periodo in cui le tensioni settarie e la costante minaccia del terrorismo islamico rendono difficili i rapporti tra Chiese diverse. Nella Roma cattolica, Rohani si fa promotore del volto buono dell’Islam. Lo stesso Vaticano sottolinea i valori spirituali comuni e l’importanza dell’Iran per la pace in Medio Oriente.

Voce finale nell’agenda di Rohani è l’economia. Sette gli accordi istituzionali firmati, tra cui l’intesa tra il Mise e il Ministero dell’Industria iraniano. A livello industriale, contratti siglati nel settore energetico, minerario, delle costruzioni, della cantieristica navale e dei trasporti, per un ammontare di circa 17 miliardi.

Seppure non esente da polemiche e critiche (come quella legata alla copertura delle statue di nudo nel Museo Capitolino), la visita di Rohani segna un riavvicinamento notevole tra la Repubblica Islamica e l’Italia. Un’Italia che, pur aderendo alle sanzioni internazionali, ha mantenuto buone relazioni con il paese arabo, basate –oggi come in passato-sul mutuo vantaggio.

Politicamente, rinvigorire i legami con un paese europeo significa, per l’Iran, recuperare l’isolamento degli anni passati e proiettare nuovamente la nazione nel contesto europeo ed internazionale. Veder riconosciuta la capillarità del proprio ruolo per ripristinare la stabilità in Medio Oriente ridona legittimità a un paese che per decenni è stato visto come minaccia per la sicurezza regionale e globale. Dall’altro lato, l’Italia acquisisce un alleato indispensabile per la lotta al terrorismo internazionale e, facendosi mediatore del reinserimento dell’Iran nei maggiori fora mondiali, può guadagnare in termini di importanza diplomatica.

Dal punto di vista economico, la fine delle sanzioni verso l’Iran non è soltanto ossigeno per il paese, ma apre la porta a nuovi investimenti per l’Italia. L’Iran, infatti, possiede una popolazione giovane, che guarda di buon occhio il mercato occidentale, in particolar modo quello del lusso, della moda e dell’auto. L’Iran può essere, dunque, un partner importante per rilanciare il Made in Italy.

Ma quale sarà la reazione dello storico nemico della Repubblica Islamica, Israele? Quali le ripercussioni nei rapporti tra lo Stivale e il paese ebraico?

L’Italia vanta storicamente buone relazioni con Israele, basate su una cooperazione in campo politico, economico, scientifico, culturale e militare. Promotore negli anni del processo di pace in Medio Oriente e della creazione dello Stato della Palestina, il governo italiano ha sempre lavorato nell’ottica di ostacolare la diffusione dell’antisemitismo nella regione e favorire il dialogo tra Israele e i vicini stati arabi. La fine delle sanzioni e l’accordo sul nucleare (relativamente al quale Israele ha apertamente manifestato il proprio dissenso), hanno messo in allarme il governo Netanyahu circa una possibile rinascita iraniana. Vedere uno stato tradizionalmente amico, come l’Italia, rafforzare i legami con la Repubblica Islamica potrebbe effettivamente creare attriti tra Roma e Gerusalemme.

L’anello chiave di questo equilibrio può essere l’elemento militare. Gli accordi stretti tra Roma e Teheran non contemplano il settore militare, né in termini di rifornimento di capacità belliche né di addestramento e know-how. Un simile low-profile è presumibilmente accettabile per Israele per due motivi. Da un lato, non tocca la capacità militare iraniana; dall’altro, l’effettiva apertura verso l’Iran è un segnale positivo anche per i suoi alleati (ad es. Russia). Al contrario, posizioni chiuse da parte dei paesi occidentali potrebbero irrigidire anche i rapporti tra l’Occidente e le potenze amiche di Teheran, compromettendo gli sforzi in atto per fronteggiare altre minacce comuni, come l’Islamic State.

È difficile, dunque, pensare che l’Italia possa optare per un’opzione aut-aut, che vada cioè ad escludere i rapporti con uno dei due paesi a favore esclusivamente dell’altro. Nell’incontro con il presidente iraniano, il premier Matteo Renzi ha tenuto a precisare l’importanza dei rapporti con Israele ed il diritto/dovere di quest’ultimo di esistere come Stato. Considerando gli interessi in gioco e le tradizioni politiche italiane, è più probabile, dunque, che il governo scelga di mantenere una posizione equidistante: un calcolo strategico che garantisce i vantaggi del commercio con l’Iran senza però irritare Israele.

 

Paola Fratantoni

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Iran-Arabia Saudita: lo scontro più pericoloso

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Il contrasto tra Iran e Arabia Saudita, da anni caratterizzato da una sorta di guerra fredda, rischia oggi di assumere dei risvolti piuttosto “caldi”. La rivalità tra i due big power del Medio Oriente non è un fatto nuovo. Tuttavia, gli avvenimenti recenti – l’uccisione del leader religioso Nimr al-Nimr, il crollo del prezzo del greggio e la fine delle sanzioni internazionali nei confronti dell’Iran- hanno gettato nuova benzina sul fuoco, destando preoccupazioni per l’equilibrio regionale e globale.

I perché delle tensioni

L’elemento religioso. L’Arabia Saudita, quasi totalmente musulmana, presenta una netta maggioranza della componente sunnita (la stessa famiglia regnante appartiene all’ideologia wahhabita, corrente minoritaria dell’Islam sunnita). Gli sciiti, circa il 15% della popolazione, sono concentrati nella provincia orientale di Al-Sharqiyya. Essi premono per l’autonomia della regione e la monarchia accusa proprio l’Iran di alimentare tali aspirazioni. La Repubblica Islamica rappresenta, invece, la corrente musulmana sciita, con una percentuale di fedeli superiore al 90%. Proclamatesi rispettivamente protettori della comunità sunnita e sciita, Arabia Saudita e Iran si fanno portavoce di tradizioni ed interessi opposti, che sfociano in un vero e proprio conflitto settario.

L’oro nero. L’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di greggio e dal 2014 ha aumentato notevolmente la produzione, determinando un crollo del prezzo che aveva come obiettivo non solo colpire il mercato iraniano e le entrate di Mosca, ma anche rendere economicamente impraticabile per gli USA l’estrazione dello shale oil. Tuttavia, i piani di Riyadh non sono andati alla perfezione, con Stati Uniti e Russia che continuano a giocare un ruolo di punta nel mercato energetico. Uno smacco non indifferente per la monarchia saudita, proprio nel momento in cui la fine della sanzioni internazionali contro l’Iran rilancia nei giochi uno dei maggiori competitor.

L’egemonia regionale. L’Arabia Saudita gode di un peso geopolitico notevole, dovuto sia alla sua forte partecipazione nelle dinamiche regionali e globali ma anche ai rapporti instaurati con i paesi del Golfo e l’alleato statunitense. Tale posizione si è spesso tradotta in tentativo di imporre la propria leadership politica e religiosa nella regione. Ciò non solo desta attriti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC)-ad esempio con il Qatar- ma rende pressoché impossibile una pacifica convivenza con l’Iran. Dall’altro lato, infatti, la Repubblica Islamica, reduce da quarant’anni di isolamento internazionale, mira a stabilire la propria egemonia nel Medio Oriente, dove non vi è soltanto l’Arabia Saudita a frenare le sue aspirazioni ma anche Israele, paese ebraico nonché alleato degli USA.

Quale futuro?

Difficile pensare ad una qualche forma di cooperazione tra Iran e Arabia Saudita, soprattutto dopo l’uccisione da parte di quest’ultima di Nimr al-Nimr, leader sciita che aveva incoraggiato gli sciiti sauditi a schierarsi contro il proprio governo e accanto all’Iran. L’esecuzione del leader è un chiaro messaggio alla popolazione, così come la chiusura delle relazioni diplomatiche è un chiaro segnale politico. Le ripercussioni non sono tardate ad arrivare: Emirati Arabi, Kuwait, Sudan, Qatar e Bahrein cessano infatti i rapporti con la Repubblica Islamica.

Una guerra aperta appare altrettanto improbabile. Con un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, sarebbe poco logico per la monarchia saudita intraprendere un conflitto armato. L’Iran si è appena liberato di pesanti sanzioni che da decenni bloccavano la prosperità del paese e sta dimostrando una certa apertura nei confronti degli USA. Dichiarare guerra all’Arabia Saudita potrebbe giocare contro i propri interessi, coinvolgendo inevitabilmente altre potenze –USA, Russia, Israele- e gettando nuova instabilità sui già volatili giochi di potere regionali.

Rimane più plausibile il perdurare di questo stato di “guerra fredda” con picchi di tensione tra la capitale iraniana e quella saudita, e scontri caldi confinati ai teatri periferici, come Yemen, Bahrein o Siria, dove Teheran e Riyadh, supportano rispettivamente fazioni sciite e sunnite.

C’è però un altro attore che gioca un ruolo capillare in questo contesto: l’Islamic State. L’ISIS sta prendendo sempre maggior piede tra la comunità sunnita, ponendo dunque in serio allarme Riyadh, intenta a salvaguardare la propria influenza tra la popolazione sunnita. Dall’altro lato, l’Iran sciita combatte sì le forze dell’ISIS ma fino ad un certo punto. L’Iran, infatti, può trarre vantaggio dallo scontro ISIS-Arabia Saudita in quanto il conflitto tra questi due attori può progressivamente indebolire entrambi, lasciando l’Iran libero di affermarsi come leader nella regione. Vi è, tuttavia, il rischio che un simile gioco finisca fuori controllo, soprattutto visto l’appoggio che l’ISIS continua ad ottenere sia localmente sia a livello globale.

Pare, dunque, che la condizione di instabilità in cui versa il Medio Oriente sia destinata a continuare. E sembra plausibile che le tensioni sfocino in un’esplosione di conflitti su diversa scala con una pluralità di attori e agende politiche coinvolte. Ci sarà un secondo Iraq, con un vuoto di potere dilagante e potenze straniere pronte a scendere in campo o sarà uno dei due pretendenti al dominio regionale ad avere la meglio? Oppure sarà l’attore più temuto a spuntarla e l’intero Medio Oriente finirà nel pugno armato del terrorismo islamico jihadista?

Francia: 6 nuovi elicotteri NH90 per l’Operazione Barkhane

Difesa/EUROPA/POLITICA di

La conferma arriva dalla Direction Générale de l’Armement, agenzia governativa francese responsabile delle acquisizioni militari e dei programmi di sviluppo e mantenimento delle forze armate. 6 nuovi elicotteri da trasporto tattico NH90 (modello Caiman), prodotti dalla NH Industries, colosso industriale italo-franco-olandese costituito da Finmeccanica, Airbus e Fokker entreranno a far parte della flotta francese tra il 2017 e il 2019.

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I nuovi acquisti fanno parte di un più ampio programma di rinnovamento della flotta di elicotteri che mira a raggiungere le 74 unità di Caiman (44 delle quali consegnate entro la fine del 2019). L’obiettivo è dotarsi, entro la fine del 2025, di una flotta di circa 115 elicotteri NH90 da impiegare a livello tattico, obiettivo fissato nel Security White Paper del settembre 2013. Come sottolinea Guillaume Faury, presidente e CEO dell’Airbus Helicopters, “le forze armate francesi hanno impiegato l’NH90 nei teatri operativi del Mali, dove la sua straordinaria resistenza, versatilità e manovrabilità sono state enormemente apprezzate”.

La decisione arriva in seguito alla richiesta da parte dell’Army Air Corps di rafforzare le capacità a disposizione per l’Operazione Barkhane, in Africa. Già nel gennaio scorso, il Gen. Oliver Gourlez de la Motte, capo dell’Army Air Corps, aveva annunciato l’obiettivo dell’arma di potenziare le proprie risorse aggiungendo altri 10 elicotteri alla flotta, scegliendo sia modelli da attacco che da trasporto. Il mese scorso, infatti, la DGA commissiona all’Airbus Helicopters 7 elicotteri da attacco modello Tiger, la cui consegna verrà effettuata tra il 2017 e il 2018.

L’intento è, dunque, quello di migliorare le capacità di condurre operazioni aria-terra nella regione del Sahel, nell’Africa sub-sahariana. L’NH90 è stato già impiegato in diversi teatri operativi, mostrando capacità e caratteristiche che lo rendono una risorsa importante per le forze francesi impiegate nell’Operazione Barkhane. Innanzitutto la già accennata versatilità. L’NH90 può essere impiegato per rispondere a diverse necessità tattiche:

  • trasporto di truppe e di armamenti leggeri, grazie alla sua capacità di ospitare fino a 20 soldati o 2,5 tonnellate di armamenti;
  • evacuazione dei feriti mediante 12 barelle;
  • trasporto aereo cargo;
  • operazioni di combattimento, ricerca e soccorso.

Inoltre, gli equipaggiamenti a disposizione lo rendono adatto ad assecondare i diversi e molteplici bisogni che possono presentarsi nel teatro operativo. Gli NH90 sono dotati di pilota automatico e comandi fly-by-wire (FBW), ovvero un sistema che permette di sostituire i tradizionali controlli manuali con un’interfaccia elettronica. Ciò riduce sensibilmente il carico di lavoro per il pilota, consentendo di maneggiare in modo più agevole il velivolo. Inoltre, dotazioni quali luci per la navigazione notturna, strutture corazzate e contromisure elettroniche, lo rendo adatto a operazioni di combattimento.

Ciò mette chiaramente in luce come uno strumento del genere diventi essenziale in un teatro come quello sub-sahariano. Ricordiamo che l’Operazione Barkhane è un’operazione antiterrorismo condotta dalla Francia nella regione del Sahel sin dall’agosto del 2014, con la partecipazione di Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Chad. Lo scopo è contrastare la presenza dei militanti jihadisti nella regione, sostenendo lo sforzo dei paesi partner ed impedendo la formazione di santuari di terroristi all’interno della regione. I circa 3000 soldati impiegati nella missioni sono ripartiti in due punti d’appoggio permanenti, uno a Gao (Mali), l’altro a N’Djamena (Chad). Distaccamenti vengono inviati in basi temporanee, situate nei vari paesi coinvolti nell’operazione, e da queste stesse basi vengono condotte le missioni in appoggio dei soldati del rispettivo paese. È, dunque, evidente come le capacità di trasporto di truppe e armamenti sia una condizione essenziale per poter sostenere l’operazione. Inoltre, il contesto in cui si opera –temperature, conformazione geografica del territorio, ecc.- è un fattore determinante nella realizzazione degli interventi. L’NH90 dimostra quell’adattabilità che un contesto come quello africano, date la sua versatilità, aspetto essenziale in teatri dove difficoltà e mancanza di risorse possono facilmente compromettere l’obiettivo della missione ma anche l’incolumità dei soldati. “L’ordine aggiuntivo dei sei NH90- afferma Guillaume Faury- …conferma il ruolo essenziale che le nuove generazioni di elicotteri multi-ruolo giocano nelle moderne operazioni”.

Sembra, dunque, che attentati e minacce alla nazione francese non abbiano intaccato profondamente la sua posizione circa gli impegni nei diversi teatri operativi, ed in particolar modo nella lotta contro il terrorismo islamico. Al contrario, si potenziano quegli elementi dimostratesi vincenti e si fanno pressioni nell’Esagono per veder rafforzate le capacità militari francesi, in modo tale da garantire non solo un numero maggiore di armamenti disponibili ma anche –e soprattutto- tecnologie adeguate agli ambienti e alla minaccia che si combatte.

 

Paola Fratantoni

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L’immigrazione vista da Oltremanica

EUROPA/POLITICA di

 

Che la Gran Bretagna non sia mai stata sostenitrice di un’Europa senza frontiere non è una novità. Ma ciò a cui stiamo assistendo nell’ultimo periodo è una frattura sempre maggiore tra l’atteggiamento adottato dal governo inglese in materia di asilo e di immigrazione e quello degli altri membri UE, con critiche provenienti sia da questi ultimi sia dalle forze interne al paese.

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La Corona inglese, che non aderisce a Schengen, ha una posizione particolare circa l’arrivo di stranieri sul suolo nazionale. Una politica definita rigida, che non dice un no categorico all’immigrazione ma la accetta in forma controllata. Viene favorito l’ingresso dei cosiddetti skilled workers e degli studenti, potenziali risorse per il futuro. Il principio chiave dei conservatori è semplice: tutelare gli interessi e la sicurezza del paese. Di conseguenza, chi ha voglia di lavorare sodo e contribuire a questo obiettivo è benvenuto, per gli altri non vi è posto.

Se un simile approccio in tempi normali non desta particolare scalpore, le prospettive cambiano quando una massiccia ondata migratoria va a colpire il territorio europeo, alterando gli equilibri interni dei vari paesi. Considerando gli ultimi anni, l’Europa è stata testimone di due ondate maggiori. La prima proveniente dalla Libia e l’altra dalla Siria; entrambe ancora in corso (seppur con modalità ed intensità diverse) ed entrambe legate all’esplosione di conflitti nei rispettivi paesi, che hanno spinto la popolazione a cercare un futuro al di là del Mediterraneo.

Queste ondate di rifugiati hanno determinato situazioni di emergenza nei paesi di primo arrivo – soprattutto Italia, Grecia e Spagna- che si sono ritrovati ad accogliere una quantità di persone superiore alle capacità delle strutture di accoglienza esistenti. Da qui la richiesta d’aiuto ai partner europei, nel tentativo di dividere più equamente le persone da accogliere, per poter garantire loro condizioni di vita accettabili senza compromettere la sicurezza e l’ordine del paese stesso.

La Gran Bretagna sembra fare orecchie da mercante. Durante la crisi libica, Cameron aveva messo a disposizione la Royal Navy per operazioni di salvataggio in mare, escludendo categoricamente la creazione di centri di accoglienza in territorio inglese. Ma l’aiuto che serviva non era in mare, bensì a terra, nel post-salvataggio. L’emergenza Siria non ha reso il governo inglese più incline a supportare gli alleati europei. Opt-out inglese, infatti, per il sistema delle quote, che prevede la ridistribuzione di 160.000 rifugiati, già in Grecia, Italia, o Ungheria tra i vari paesi membri UE, in modo proporzionale alle capacità del paese. Tuttavia, il PM inglese promette di accogliere 20.000 rifugiati nell’arco di 5 anni: cifra alquanto irrisoria se paragonata ai numeri di paesi come la Germania, disposta ad accettare fino a 800.000 rifugiati entro la fine del 2015. L’offerta inglese, inoltre, è rivolta soltanto ai rifugiati tutt’ora in Medio Oriente e non a quelli già in Europa, soluzione che, come fanno notare i membri UE, serve ben poco ad alleviare la situazione d’emergenza nei paesi d’arrivo.

Punto caldo in sede UE, il tema immigrazione è elemento di tensione tra le forze politiche e sociali del paese.

Le critiche maggiori provengono dal partito labourista, che giudica insufficiente l’aiuto offerto dal governo Cameron. Si richiamano i diritti umani, principi cardine dell’Unione Europea e il passato del paese, santuario di ospitalità e speranza all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Che fine ha fatto questa tradizione? Che significato hanno quei diritti sanciti nella Magna Carta o nella Dichiarazione Universale?

Ed è proprio in riferimento a questi diritti che nascono critiche anche da un altro settore, quello delle Charities inglesi. Il disaccordo maggiore è legato alle riunioni familiari, previste dal sistema in vigore ma con limitazioni. Soltanto i coniugi e i figli minorenni possono entrare nel paese e ricongiungersi ai familiari. Maggiorenni e altri parenti sono esclusi dalla rosa dei “fortunati”. Perché? Non vivono forse la stessa sofferenza? Se si guarda ai bambini la situazione forse è anche peggiore. I minori non accompagnati, non hanno il diritto di richiamare alcun familiare, neanche i genitori. Non bastano, dunque, i traumi di una guerra, di una fuga, dell’arrivo in un paese straniero di cui non si conosce neanche la lingua. A ciò si aggiunge anche la distanza dai propri cari, la consapevolezza di non poterli vedere e l’incertezza circa il loro futuro o la loro stessa vita. E i diritti umani?

La domanda è: si può fare qualcosa in più? Forse sì. E allora ci si chiede perché un paese come la Gran Bretagna, fondato su determinati valori e principi e con una capacità economica tale da potersi permettere uno sforzo maggiore, si tiri indietro, voltando le palle agli alleati europei proprio quando ve n’è bisogno, ma anche compromettendo quell’immagine di garante dei diritti che si è costruita nel corso dei secoli. Un Regno Unito che sembra voler prendere sempre di più le distanze dall’Europa al fine di proteggere i propri confini. Ma fino a che punto si può arrivare prima che un simile atteggiamento diventi controproducente? No è più solo una questione di Brexit o non Brexit; si corre il rischio di mettere in discussione valori fondamentali della Nazione, con le relative ripercussioni che ciò può avere in termini di stabilità interna.

 

Paola Fratantoni

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Paola Fratantoni
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