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Iran: per Rouhani un “anno difficile”

MEDIO ORIENTE di

Secondo il presidente iraniano la pandemia di Covid-19 ha accentuato le difficoltà create dalle sanzioni americane. Ad Abu Dhabi colloquio tra USA ed EAU per la stabilità della regione.

Domenica scorsa, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha dichiarato che il suo paese sta affrontando il periodo più duro degli ultimi anni a causa delle sanzioni statunitensi e della pandemia di coronavirus.

La scorsa settimana il rial iraniano è sceso al suo valore più basso rispetto al dollaro Usa, mentre l’economia del paese mediorientale continua ad essere colpita dalla pandemia che ha aggravato la già difficile situazione causata dalle sanzioni imposte da Washington nel 2018.

“Viviamo un anno difficile a causa delle sanzioni economiche imposte dal nostro nemico e dalla pandemia”, ha affermato Rouhani in un discorso televisivo. “La pressione economica, iniziata nel 2018, è aumentata, e oggi è il periodo più duro per il nostro paese”, ha continuato il presidente iraniano.

L’Iran ha visto un forte aumento del numero di contagiati e di decessi da coronavirus nelle ultime settimana, in parte causate anche dalla revoca a metà aprile delle misure restrittive per arginare la diffusione del virus. Il bilancio delle vittime ha superato la quota di cento al giorno, per la prima volta dopo due mesi.

Circa 2.490 nuovi casi sono stati registrati nelle ultime 24 ore, portando il totale ad oltre 222.670 contagi. Secondo la portavoce del ministero della Salute, Sima Sadat, i morti avrebbero raggiunto la cifra di 10.508.

Il presidente Rouhani ha detto che indossare la mascherina diventerà obbligatorio per le prossime due settimane in alcune parti del paese considerate ad alto rischio. Funzionari iraniani hanno avvertito che le restrizioni precedentemente revocate potrebbero essere reintrodotte qualora non venga rispettato il distanziamento sociale e le altre misure di sicurezza. Il paese ha lanciato la campagna “#Iwearmask” per motivare il pubblico riluttante a utilizzare i dispositivi sanitari di sicurezza. Il viceministro della Salute, Iraj Harirchi, ha supplicato i suoi concittadini di prendere sul serio la malattia ed evitare qualsiasi comportamento che possa mettere a repentaglio la propia salute o quella degli altri. Secondo lo stesso Harichi, in Iran “ogni 33 secondi una persona viene infettata dal coronovirus, e ogni 13 minuti muore un contagiato”.

Incontro tra USA ed EAU

Sempre ieri, lo sceicco Abdullah bin Zayed al Nahyan, ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato Brian Hook, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran e consulente politico presso il Segretario di Stato, per discutere le questioni regionali di interesse comune e i modi per rafforzare la cooperazione bilaterale tra i due Stati. Al centro degli argomenti trattati la minaccia alla sicurezza posta dall’Iran e gli sforzi congiunti per creare una regione mediorientale più stabile e sicuro.

Mandato di arresto per Trump

Il procuratore di Teheran, Ali Qasi Mehr, citato dall’agenzia di stampa statale IRNA, ha affermato che 36 funzionari politici e militari statunitensi “coinvolti nell’assassinio” del generale Qasem Soleimani “sono stati indagati e nei loro confronti è stato emesso un mandato di arresto”. In cima alla lista ci sarebbe il presidente Donald Trump. Lo stesso procuratore avrebbe richiesto all’agenzia internazionale di polizia Interpol di emettere i mandati di arresto nei confronti di Trump e degli indagati, ma l’Interpol avrebbe chiarito che la sua costituzione impedisce  di “intraprendere qualsiasi intervento o attività di carattere politico, militare, religioso o razziale”. L’organizzazione di polizia internazionale ha dichiarato di non aver ricevuto nessun tipo di richiesta dall’Iran, e che non sarebbe in grado di ottemperare a una richiesta del genere qualora le venisse recapitata.

Di Mario Savina

 

 

L’ISIS approfitta dell’emergenza sanitaria per guadagnare terreno

MEDIO ORIENTE di
Con i soldati iracheni mobilitati contro l’emergenza Covid19 e il ritiro di alcune truppe della coalizione, i jihadisti intensificano i loro attacchi.

In piena pandemia l’Iraq ha messo in campo una parte del proprio esercito per sostenere le misure adottate contro il coronavirus e ha sospeso i programmi di addestramento anti-jihadisti ricevuti dalla coalizione internazionale. Molti membri di quest’ultima hanno ritirato le truppe impegnate in questa missione. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno ritirato i propri militari da due basi a causa degli attacchi delle milizie filo-iraniane. Gli osservatori avvertono che lo Stato Islamico (ISIS) sta cercando di sfruttare questa crisi sanitaria per guadagnare terreno.

“Il coronavirus ha fortemente influenzato le operazioni contro l’ISIS, poiché la maggior parte delle truppe irachene si sono trasferite dalle valli e dai deserti ai centri urbani per imporre e gestire il coprifuoco”, secondo Hisham al Hashemi, consigliere del governo di Baghdad nella lotta ai gruppi terroristici. Tuttavia, Al Hashemi sottolinea che la riduzione delle forze straniere era già iniziata prima della diffusione del Covid19 e che i militanti dello Stato Islamico avevano ricominciato l’avanzata già dallo scorso anno.

In concomitanza con il declino delle attività di controinsurrezione, l’organizzazione jihadista è stata particolarmente attiva nel mese di marzo. A Khanaqin,  nel Governatorato di Diyala e vicino al confine iraniano, ha attaccato diversi basi delle forze di sicurezza causando alcune vittime. Ha anche attaccato con mortai in alcuni quartieri delle città di Tuz Khurmatu e Amirli (entrambe nel Governatorato di Saladino), cosa che non accadeva da un paio d’anni. Il timore è quello di un inizio di un nuovo ciclo di omicidi di leader locali con lo scopo di intimidire la popolazione.

Gli stessi propagandisti dell’ISIS si sono vantati delle loro intenzioni, come ha evidenziato nel suo blog Aymenn al Tamimi, ricercatore alla George Washington University. Al Tamini, che analizza dettagliatamente le pubblicazioni del gruppo, osserva un incoraggiamento verso i seguaci e sostenitori “a non mostrare misericordia nell’organizzazione di evasioni da prigioni e nel lancio di attacchi”. Secondo il ricercatore, l’ISIS “vede la pandemia come un’opportunità per sfruttare le divisioni e le debolezze dei suoi nemici; e allo stesso tempo, fornisce consigli utili sulla salute dei propri membri al fine di evitare il contagio.

Sebbene Daesh affermi di aver intensificato il numero di attacchi, in realtà non vi è stato alcun aumento significativo. Gli attacchi sono passati dalle centinaia lanciati nel 2014, quando il governo iracheno ha richiesto assistenza internazionale per fermare l’avanzata dei jihadisti, a una decina a settimana nell’ultimo periodo. Inoltre, con il supporto della coalizione si è riusciti a recuperare il territorio conquistato dall’ISIS precedentemente.

La maggior parte degli analisti concorda sul fatto che la minaccia non è la stessa. “C’è una ripresa dell’ISIS in alcune zone del’Iraq e della Siria,  ma è improbabile che possa lanciare una campagna territoriale come quella del 2014; è possibile inquadrarla come un’insurrezione di basso livello in particolare aree vulnerabili come Diyala”, sottolinea Hafsa Halawa, ricercatrice presso il Middle East Institute, in un recente seminario online, aggiungendo che “quello che abbiamo visto nel lavoro degli ultimi anni sul campo è che la popolazione è contro il settarismo”.

Secondo Farhad Alaaldin, presidente del Consiglio Consultivo iracheno (un’ong che fornice consulenza al governo iracheno), le operazioni dell’ISIS “sono limitate alla terra di nessuno rimasta tra le forze irachene  e i Peshmerga (truppe curde), che vanno da una dozzina di chilometri in alcune aree a poche centinaia di metri in altre”. Secondo Alaaldin, “il problema  non è l’assenza  delle forze statunitensi sul campo, dal momento che crede che l’Iraq abbia abbastanza truppe da combattimento, ma la condivisione delle informazioni e il supporto logistico, che deve continuare ed essere rafforzato”.

Il portavoce dell’esercito statunitense, il Colonnello Myles B. Caggins, sottolinea come le misure adottate dalla coalizione internazionale in seguito all’emergenza coronavirus possano comportare una diminuzione del sostegno alle forze irachene. Consapevoli della battaglia politica a Baghdad sulla presenza delle truppe straniere, i militari insistono sul fatto che il successo contro Daesh dipende dalla cooperazione tra le truppe locali e la coalizione.

Di Mario Savina

La democrazia ai tempi del coronavirus: una quarantena pericolosa

POLITICA di

Le circostanze eccezionali dovute alla pandemia minacciano di facilitare la prolungata erosione delle libertà e delle garanzie in alcuni Paesi in cui lo stato di diritto è  debole.

La crisi sanitaria, sociale ed economica causata dalla pandemia del coronavirus non ha precedenti nella storia moderna. Il Covid-19 ha causato oltre 30.000 morti fino ad oggi in tutto il globo. Proprio la minaccia alla salute pubblica ha portato un buon numero di Paesi a prendere misure eccezionali, limitando le libertà individuali fondamentali ad un livello mai visto in tempo di pace: dall’Italia alla Spagna, dal Regno Unito al Canada, i governi con segni diversi hanno approvato più poteri per lo Stato e misure di controllo più restrittive per i cittadini. Nelle autocrazie o nei Paesi con fragili democrazie, i leader usano la pandemia per indebolire le istituzioni democratiche e rafforzare la sorveglianza e la censura, o per smorzare l’opposizione. Misure che potrebbero non sparire quando l’emergenza sarà svanita.

In Russia, l’uso della tecnologia per il controllo di massa è aumentato e sono state approvate nuove regole per contrastare le fake-news circolanti sul virus, che potrebbero portare a una maggiore persecuzione dei media indipendenti. Una formula che viene già applicata da Serbia o Turchia.  Con l’argomento della protezione della salute pubblica, la Moldavia e il Montenegro hanno superato seri ostacoli diffondendo i dati sanitari delle persone infette o sospettate di esserlo. In Israele, il partito di Netanyahu ha utilizzato l’emergenza sanitaria per impedire all’opposizione – che ha ottenuto la maggioranza dei seggi nelle elezioni del 2 marzo – di assumere il controllo delle procedure parlamentari.

La crisi provocata dal coronavirus sta dando nuova energia al populismo e un’opportunità per accumulare più potere nelle mani di pochi. L’Ungheria, membro dell’Unione Europea, è uno dei casi che ha generato più allarme. Il Primo Ministro, Victor Orban, primo ad associare stranieri e migranti alla diffusione del virus, ha dichiarato lo stato d’emergenza come molti altri Paesi, riuscendo a convincere il Parlamento – in cui possiede una larga maggioranza – a dare via libera ad un’estensione dei poteri straordinari derivanti dall’emergenza senza fissare un limite temporale. In poche parole, tale decisione gli permetterà di governare per decreto a tempo indeterminato senza alcun tipo di controllo, nemmeno parlamentare, per l’esecutivo.

Lo Stato di emergenza è una situazione giuridica speciale necessaria per affrontare crisi come questa, poiché consente ai governi di reagire più rapidamente. Ma è importante che tutte le misure adottate siano trasparenti, proporzionate e limitate nel tempo, e soprattutto che siano soggette a qualche forma di controllo da parte del Parlamento o di altri organi legislativi. Ma in Paesi come la Russia, dove tale supervisione e controllo indipendenti sullo Stato sono scarsi e deboli e l’opposizione manca di rappresentanza parlamentare, l’imposizione di ulteriori misure come le intercettazione telefoniche, quelle di posta elettronica o censure di altro tipo potrebbero supporre un pericolo. La pandemia ha raggiunto il Paese eurasiatico in un momento politico decisivo per il Cremlino: nel bel mezzo del caos globale, il Presidente Vladimir Putin sta tentando di garantirsi la possibilità di rimanere al potere grazie ad una riforma costituzionale. Fra i primi Paesi a chiudere i confini di fronte alla crisi che si stava affacciando al mondo, la Russia tesse le lodi delle proprie scelte che hanno portato ad una diffusione più limitata del coronavirus (secondo i numeri ufficiali), rispetto alle posizioni più liberali adottate dagli altri governi. Con circa 1.800 casi positivi e una dozzina di morti – numeri che hanno sollevato molti dubbi tra ong, analisti e funzionari russi – il Gabinetto di Putin sta utilizzando questa narrativa per difendere la propria visione del mondo contro ciò che considera una fragilità del globalismo ed il crollo dell’unità europea ed occidentale. La Russia ha scommesso principalmente sulla tecnologia autoritaria: a Mosca le migliaia di telecamere di videosorveglianza vengono usate per catturare chiunque infranga le regole; vengono tracciati i dati sugli spostamenti in auto; e prima dello scoppio della pandemia, quando ancora la Cina era la principale e quasi unica colpita, la polizia effettuava raid negli hotel, nelle residenze di studenti, negli appartamenti turistici e nei mezzi di trasporto pubblico per individuare le persone provenienti dalla Cina, costringendole a rimanere in isolamento. Inoltre, le autorità russe stanno utilizzando i dati forniti dagli operatori telefonici per geolocalizzare i casi positivi e rintracciare coloro che hanno avuto contatti con questi.

Rimanendo in tema di operatori telefonici, la Commissione Europea ha chiesto alle diverse società che operano in questo settore di fornire dati anonimi per analizzare gli spostamenti delle persone così da poter sviluppare modelli sull’evoluzione dei contagi. Una misura che ha alimentato il dibattito sul diritto alla privacy e sui potenziali rischi di una violazione delle protezione di tali dati. Molti sono i Paesi che utilizzano i dati telefonici in questa crisi: dalla Slovacchia, dove vengono tenuti sotto controllo i cellulari di tutti i casi positivi per assicurare il rispetto della quarantena; alla Polonia, dove vengono monitorati coloro che arrivano dall’estero tramite un’applicazione mobile.  In molti Paesi europei e non solo, come il Canada, queste misure hanno generato un intenso dibattito. Tuttavia, in Stati di natura democratica più vulnerabile e dove non esiste quasi una cultura della privacy sono stati attuati con poco o quasi niente clamore, sebbene queste misure possono non solo aprire la strada alla repressione di attivisti ed oppositori,  ma anche lasciare un’impronta permanente sulle modalità di governo.

In Cina, la censura e il controllo delle informazioni da parte dello Stato hanno contribuito nelle prime settimane alla diffusione dell’epidemia: i media cinesi avrebbero potuto informare il pubblico molto prima dell’aggravarsi della situazione, salvando così migliaia di vite ed evitando, forse, l’attuale pandemia. Per monitorare l’avanzamento del contagio, molte province cinesi hanno creato applicazioni mobili che stabiliscono i movimenti dei loro proprietari e determinano se sono stati a contatto con possibili aree a rischio, assegnando loro un codice sanitario: se verde, l’utente è sano, mentre l’utente rosso va in quarantena. Dato l’obbligo delle società tecnologiche  di condividere i dati con il governo cinese, il timore è che possa aumentare il controllo sulla popolazione, attraverso l’utilizzo di applicazioni del genere, anche quando l’emergenza sarà rientrata.

All’altro estremo, l’uso della sorveglianza ritenuta invadente è stata una delle chiavi della reazione “positiva” della Corea del Sud. Il Paese, una delle storie di successo – almeno per il momento – nella lotta al Covid-19, ha applicato rigorose formule che combinano test per rilevare l’infezione e l’uso esaustivo della tecnologia per rintracciare i movimenti delle persone infettate e di quelle ad esse vicine. Le decisioni prese del governo hanno suscitato uno scarsissimo dibattito sull’impatto di tali misure sulle libertà civili soprattutto grazie alla grande trasparenza nei confronti della popolazione e alla consapevolezza da parte della società civile della necessità di combattere quest’epidemia.

Di Mario Savina

Israeliani e palestinesi insieme contro la diffusione del Covid-19

MEDIO ORIENTE di

Israele offre assistenza medica all’Autorità Nazionale Palestinese dopo la rottura provocata dal piano di pace proposto dal Presidente americano  Donald Trump.

Dopo anni di congelamento delle relazioni e la rottura dei legami causati dalla presentazione nel mese di febbraio del controverso piano di pace dagli Stati Uniti, israeliani e palestinesi stanno collaborando da vicino nelle ultime settimane per arginare la diffusione della pandemia del coronavirus. L’avvicinamento, generato dal coordinamento sanitario, ha portato Israele ad offrire aiuti medici all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), estendendosi per la prima volta anche alla sovraffollata Striscia di Gaza, sotto il controllo dell’organizzazione islamista Hamas. Inoltre, decine di migliaia di lavoratori della Gisgiordania sono stati autorizzati a risiedere sul territorio israeliano, contrariamente all’attuale divieto, durante la situazione d’emergenza.

In una tregua non dichiarata, i razzi hanno smesso di librarsi nei cieli delle città israeliane al confine con Gaza, le truppe rimangono acquartierate e gli incidenti violenti sono diventati una rarità nelle comunicazioni dei media locali. L’ANP ha dichiarato il confinamento di tutta la popolazione a partire da domenica.

Già con quasi mille casi di Covid-19 registrati in Israele (9 milioni di abitanti), con un deceduto fino ad oggi, e oltre cinquanta positivi in Cisgiordania (2,5 milioni di abitanti), la crisi è ancora distante dai livelli europei. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono stati colpiti dal fatto che nell’enclave sovraffollata di Gaza (circa 2 milioni tra residenti e rifugiati) nessun caso è stato  dichiarato fino a sabato sera, quando sono stati annunciati i primi due casi positivi: due viaggiatori provenienti dal Pakistan.

La striscia costiera, appena 375 chilometri quadrati, è stata isolata dal 2007, quando gli islamisti di Hamas hanno estromesso il partito Fatah del Presidente dell’ANP Mahmud Abbas e Israele ha imposto un feroce blocco militare. Poiché Gaza è dotata di un solo laboratorio per eseguire i test di rilevamento dei virus, Israele ha facilitato l’ingresso di qualche centinaio di kit per eseguire test e dispositivi di protezione per il personale medico, pur ammettendo un grave deficit di apparecchiature mediche nei loro centri ospedalieri, secondo i dati ufficiali riportati dal The Jerusalem Post.

Il Cogat, il corpo del Ministero della Difesa israeliano che gestisce l’occupazione nei territori palestinesi, ha messo in guardia da un possibile contagio tra la popolazione della Striscia di Gaza, il cui sistema sanitario copre a malapena i bisogni minimi dopo le tre guerre devastanti con Israele tra il 2008 e il 2014. Il maggiore Yotam Shefer, capo del dipartimento internazionale del Cogat, ha avvertito in una teleconferenza con giornalisti stranierei che “i virus non conoscono confini”. L’enclave dispone solamente di 60 posti nelle unità di terapia intensiva. Al momento, oltre 2700 persone sono confinate nelle loro case dopo essere tornate a Gaza attraverso il varco di Rafah, l’unico passaggio aperto con l’Egitto. Il confine di Erez con Israele è chiuso, tranne che per i pazienti oncologici e con malattie gravi che devono essere trasferiti negli ospedali israeliani o della Cisgiordania.

Sempre Sheref ha affermato che “per tre settimane, il Cogat ha coordinato la cooperazione tra il Ministero della Salute israeliano e le autorità sanitarie palestinesi”, ricevendo circa 400 kit di test di rilevazione e 500 dispositivi di protezione individuale. Sono stati inoltre organizzati incontri telematici per formare professionisti palestinesi per la prevenzione della pandemia. La prospettiva di un massiccio contagio in Cisgiordania e a Gaza viene analizzata con preoccupazione dallo stato maggiore delle forze armate, riferisce il quotidiano Haaretxz.

Il Presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha telefonato nei giorni scorsi a Rais Mahmus Abbas: un gesto di avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese inusuale da quando i negoziati di pace sono stati annullati nel 2014. “La crisi del coronavirus non distingue tra popoli e territori”, ha detto il Presidente ebraico, “e la nostra cooperazione è vitale per proteggere la salute di israeliani e palestinesi: la nostra capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonierà anche la nostra volontà di collaborare in futuro per il bene di tutti”, ha aggiunto Rivlin, prima di esprimere ad Abbas la sua volontà di offrire aiuto, in modo coordinato.

Da parte palestinese, il Ministro degli Affari Civili, Hussein al-Sheikh, responsabile del coordinamento con Israele, ha riconosciuto in alcune interviste il miglioramento delle relazioni bilaterali, sottolineando come ci sia una forte volontà di collaborazione e come il pericolo pandemia non abbia confini. E’ nella situazione degli oltre cento mila palestinesi che ogni giorno attraversano la Cisgiordania verso Israele per motivi di lavoro che la cooperazione è diventata più visibile. Infatti, secondo Al-Sheikh saranno circa 45.000 i lavoratori che riceveranno l’autorizzazione a risiedere in territorio israeliano per almeno un mese, evitando così quei trasferimenti continui che potrebbero moltiplicare le possibilità di diffusione del virus.

Di Mario Savina

Mario Savina
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