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Israeliani e palestinesi insieme contro la diffusione del Covid-19

MEDIO ORIENTE di

Israele offre assistenza medica all’Autorità Nazionale Palestinese dopo la rottura provocata dal piano di pace proposto dal Presidente americano  Donald Trump.

Dopo anni di congelamento delle relazioni e la rottura dei legami causati dalla presentazione nel mese di febbraio del controverso piano di pace dagli Stati Uniti, israeliani e palestinesi stanno collaborando da vicino nelle ultime settimane per arginare la diffusione della pandemia del coronavirus. L’avvicinamento, generato dal coordinamento sanitario, ha portato Israele ad offrire aiuti medici all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), estendendosi per la prima volta anche alla sovraffollata Striscia di Gaza, sotto il controllo dell’organizzazione islamista Hamas. Inoltre, decine di migliaia di lavoratori della Gisgiordania sono stati autorizzati a risiedere sul territorio israeliano, contrariamente all’attuale divieto, durante la situazione d’emergenza.

In una tregua non dichiarata, i razzi hanno smesso di librarsi nei cieli delle città israeliane al confine con Gaza, le truppe rimangono acquartierate e gli incidenti violenti sono diventati una rarità nelle comunicazioni dei media locali. L’ANP ha dichiarato il confinamento di tutta la popolazione a partire da domenica.

Già con quasi mille casi di Covid-19 registrati in Israele (9 milioni di abitanti), con un deceduto fino ad oggi, e oltre cinquanta positivi in Cisgiordania (2,5 milioni di abitanti), la crisi è ancora distante dai livelli europei. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono stati colpiti dal fatto che nell’enclave sovraffollata di Gaza (circa 2 milioni tra residenti e rifugiati) nessun caso è stato  dichiarato fino a sabato sera, quando sono stati annunciati i primi due casi positivi: due viaggiatori provenienti dal Pakistan.

La striscia costiera, appena 375 chilometri quadrati, è stata isolata dal 2007, quando gli islamisti di Hamas hanno estromesso il partito Fatah del Presidente dell’ANP Mahmud Abbas e Israele ha imposto un feroce blocco militare. Poiché Gaza è dotata di un solo laboratorio per eseguire i test di rilevamento dei virus, Israele ha facilitato l’ingresso di qualche centinaio di kit per eseguire test e dispositivi di protezione per il personale medico, pur ammettendo un grave deficit di apparecchiature mediche nei loro centri ospedalieri, secondo i dati ufficiali riportati dal The Jerusalem Post.

Il Cogat, il corpo del Ministero della Difesa israeliano che gestisce l’occupazione nei territori palestinesi, ha messo in guardia da un possibile contagio tra la popolazione della Striscia di Gaza, il cui sistema sanitario copre a malapena i bisogni minimi dopo le tre guerre devastanti con Israele tra il 2008 e il 2014. Il maggiore Yotam Shefer, capo del dipartimento internazionale del Cogat, ha avvertito in una teleconferenza con giornalisti stranierei che “i virus non conoscono confini”. L’enclave dispone solamente di 60 posti nelle unità di terapia intensiva. Al momento, oltre 2700 persone sono confinate nelle loro case dopo essere tornate a Gaza attraverso il varco di Rafah, l’unico passaggio aperto con l’Egitto. Il confine di Erez con Israele è chiuso, tranne che per i pazienti oncologici e con malattie gravi che devono essere trasferiti negli ospedali israeliani o della Cisgiordania.

Sempre Sheref ha affermato che “per tre settimane, il Cogat ha coordinato la cooperazione tra il Ministero della Salute israeliano e le autorità sanitarie palestinesi”, ricevendo circa 400 kit di test di rilevazione e 500 dispositivi di protezione individuale. Sono stati inoltre organizzati incontri telematici per formare professionisti palestinesi per la prevenzione della pandemia. La prospettiva di un massiccio contagio in Cisgiordania e a Gaza viene analizzata con preoccupazione dallo stato maggiore delle forze armate, riferisce il quotidiano Haaretxz.

Il Presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha telefonato nei giorni scorsi a Rais Mahmus Abbas: un gesto di avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese inusuale da quando i negoziati di pace sono stati annullati nel 2014. “La crisi del coronavirus non distingue tra popoli e territori”, ha detto il Presidente ebraico, “e la nostra cooperazione è vitale per proteggere la salute di israeliani e palestinesi: la nostra capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonierà anche la nostra volontà di collaborare in futuro per il bene di tutti”, ha aggiunto Rivlin, prima di esprimere ad Abbas la sua volontà di offrire aiuto, in modo coordinato.

Da parte palestinese, il Ministro degli Affari Civili, Hussein al-Sheikh, responsabile del coordinamento con Israele, ha riconosciuto in alcune interviste il miglioramento delle relazioni bilaterali, sottolineando come ci sia una forte volontà di collaborazione e come il pericolo pandemia non abbia confini. E’ nella situazione degli oltre cento mila palestinesi che ogni giorno attraversano la Cisgiordania verso Israele per motivi di lavoro che la cooperazione è diventata più visibile. Infatti, secondo Al-Sheikh saranno circa 45.000 i lavoratori che riceveranno l’autorizzazione a risiedere in territorio israeliano per almeno un mese, evitando così quei trasferimenti continui che potrebbero moltiplicare le possibilità di diffusione del virus.

Di Mario Savina

I volti dell’attivismo

Medio oriente – Africa di

“Buongiorno” o “buonanotte dalla Palestina occupata dal mostro nazista israeliano”. E’ con questo saluto che Samantha Comizzoli, attivista volontaria per i diritti umani originaria di Ravenna, ama introdurre i messaggi lanciati tramite la sua pagina Facebook. Il suo impegno è senza tregua. Quarantacinque anni, originaria di Ravenna dove si è candidata a sindaco alle ultime amministrative con la lista “Ravenna Punto a Capo”, da un anno e quattro mesi si trova in Palestina. Il suo obiettivo è di documentare tramite post, foto, video e filmati (fra cui il film dal titolo “Israele, il cancro” realizzato con immagini di scontri reali avvenuti in Palestina e interviste ai loro protagonisti) diffusi tramite il blog e la pagina FB che gestisce, le azioni condotte dai militari israeliani negli insediamenti palestinesi. Tramite le sue testimonianze si entra in una dimensione che non da tregua. Rapimenti, incursioni notturne, violenze di vario tipo. Samantha è stata fermata sabato a Nablus in Cisgiordania, durante una manifestazione, dalla polizia israeliana. La sua carta di identità era contraffatta ed ora, dopo aver iniziato lo sciopero della fame ed essersi dichiarata prigioniera politica, sarà probabilmente espulsa. L’8 giugno scorso ha affidato alla sua pagina Facebook il compito di divulgare il suo appello, affinchè tutti possano conoscere la sua verità. A spronarla, ciò che era successo tre giorni prima, il rinvenimento a casa propria di “qualcosa che non deve assolutamente esserci” e di cui fortunatamente è riuscita a sbarazzarsi prima che potesse arrivare la Polizia e con essa, un arresto sicuro. “Mi chiamo Samantha Comizzoli e sono entrata in Palestina, tramite volo a Tel Aviv, l’11 febbraio 2014 – scrive. “Ho avuto un “visto turistico” dal terrorista Israele per 3 mesi. Dopo mi è scaduto e sono diventata “illegale” o “clandestina”. Sono qui con la mia faccia e il mio nome e ho sempre reso tutto pubblico.
Avevo la possibilità, forse, di regolarizzare la mia presenza qui, ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perchè non vado dai nazisti a chiedergli “un permesso” e non vado nemmeno dai loro amici (l’autorità palestinese) a chiedere il permesso di esistere dove cazzo mi pare. E’ una forma di Resistenza, personale certo – aggiunge – ma sono qui dopo un anno e 4 mesi alla faccia del mostro. Questo ha portato molte conseguenze: i primi tempi salivo sul service per fare anche solo 10 km con le chiappe strette perchè avevo paura che mi beccassero, dopo ho iniziato a non dare più il passaporto ai checkpoint volanti e a rispondergli sui denti, ogni volta che vado in mezzo agli scontri il timore non è che mi sparino, ma che mi prendano. Mi è andata sempre bene? No, non credo, Israele non è stupido. E’ una mente più complessa di quanto uno possa immaginare”. Perchè sia riuscita sempre a cavarsela, almeno fino a quando non è stata fermata, l’attivista ravennate se lo spiega in questo modo. “Inizio a pensare che la motivazione è più agghiacciante: Israele ha dimostrato e mi ha dimostrato che anche se uno sacrifica la propria vita, sta qui con il suo nome e la sua faccia e pubblica tutta (ma veramente tutta) la merda che accade; non cambia nulla. Ha dimostrato che è tutto inutile e che il mondo se ne fotte e non ferma Israele. Ho deciso di scriverlo adesso tutto questo perchè 3 giorni fa purtroppo è accaduta una cosa…. Qualcuno mi ha messo in casa qualcosa che non deve assolutamente esserci. Me ne sono liberata quando ho capito, subito, il giorno dopo e sono stata, sì, fortunata che i soldati non sono venuti quella notte. Questo però mi ha portato a pensare che abbiano deciso di venire qui, ma soprattutto che prima di venire a prendermi vogliono screditarmi e distruggere il mio lavoro. Così anche il Governo italiano sarà fuori dall’imbarazzo. Io sono pronta – aggiunge – non ho paura; prima però ho voluto scrivere tutto questo affinchè rimanga scritto e voglio aggiungere che mentre lo scrivo sto bevendo una birra e anche che ho fumato in strada varie volte e che ho anche avuto storie d’amore. In quest’anno di prigionia non mi sono mai privata della vita e della mia libertà mentale. Ho amato, sorriso, vissuto, scritto sempre la verità. Ho resistito più di un anno, e di notte ho iniziato a dormire perchè non ho paura”. Qualche giorno prima, la Comizzoli è stata ferita durante una manifestazione organizzata per celebrare i 67 anni della Nakba, la “Catastrofe”, data che segna l’espropriazione della patria palestinese del 1948, mentre stava procedendo con le braccia aperte verso il checkpoint israeliano di Howara. A colpirla due rubber bullet, proiettili di gomma utilizzati nelle armi antisommossa. L’11 giugno, una paio di giorni prima di essere fermata e imprigionata nel carcere israeliano dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la Comizzoli aveva avuto modo di raccontare nelle pagine del suo blog un’altro episodio. “Questa è una storia orrenda che ho vissuto oggi – scrive. “Ne sono testimone e in parte partecipe. Vi prego di leggerla, farla leggere e divulgarla perchè non ci sono giornalisti che la conoscono, ma va assolutamente fatta conoscere. Avevo appuntamento con una mia amica a casa sua, nel villaggio di Assira Al Qabilia, Nablus. Volevamo parlare di un piccolo progetto per i bambini che forse inizierò presto, il tutto bevendo un caffè. Con me è venuto un ragazzo italiano che è qui in vacanza. Siccome questo ragazzo non parla né inglese né arabo, ha colto l’occasione per farsi una passeggiata nel villaggio mentre noi parlavamo. Ha iniziato a camminare su, verso la collina, in mezzo alle case del villaggio, e un paio di bambini che l’hanno visto hanno iniziato ad avvicinarsi per fargli compagnia. Nessun dialogo ovviamente, se non a gesti. Si è fermato quando finiva il villaggio di Assira e ha scattato 3 foto alla cima della collina (dal quale era ancora molto distante), dove c’è l’insediamento illegale di Yhitzar. E’ tornato, io avevo finito, abbiamo preso il service e siamo tornati a Nablus. Quando siamo arrivati al checkpoint di Howwara abbiamo visto molti soldati con le jeep, pronti ad entrare in azione (e ho mandato un tweet). Scesi dal service ricevo una telefonata della mia amica, agitata, che mi dice di tornare subito indietro perchè ci sono lì i soldati israeliani e vogliono il ragazzo italiano che ha scattato le foto. Prendiamo un taxi per far prima e torniamo indietro al villaggio di Assira Al Qabilja. Nel frattempo davanti alla casa erano arrivate molte donne del villaggio. La mia amica ci ha fatti tornare di corsa perchè: i soldati israeliani erano piombati nel villaggio con 10 jeeps e avevano preso uno dei due bambini che aveva tentato un dialogo con il ragazzo italiano e volevano anche l’altro bambino se il ragazzo italiano non si fosse consegnato ai soldati.Il bambino che avevano preso ha 15 anni”. Dopo ore farcite di sigarette e caffè e tentativi di sbloccare la situazione, finalmente il bambino viene rilasciato. “Il problema non sono quelle 3 foto del cazzo che ha fatto l’italiano – conclude la Comizzoli. “Il problema è che qui un bambino di 15 anni non è nemmeno libero di camminare su una strada perchè deve sempre temere di essere rapito dai soldati israeliani. Il ragazzo italiano è capitato, secondo logica, in mezzo a qualcosa che volevano già fare oggi (le jeeps e i soldati erano pronti ad Howwara). Così, per buttare anche un po’ di merda sulla presenza degli internazionali e su chi stringe contatti con loro, hanno pensato bene di inscenare questa storia. Se non fosse così, pensateci bene, non sarebbero almeno venuti a prendersi la macchina fotografica o a chiedere di cancellare le foto? Anche questa storia, raccontatela ai vostri figli e ditegli che i mostri esistono”.

 

Monia Savioli
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