GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Tag archive

pace

La diplomazia che non si vuole

Nei giorni scorsi la firma di una tregua ha consentito l’inizio dei negoziati di pace che hanno posto termine alla guerra civile che ha visto fronteggiarsi per oltre due anni il Governo Etiope e i separatisti del Tigrai. Questa guerra, segnata da eccessi di violenza e crimini da ambo le parti, ha causato più di 500.000 morti, provocato oltre due milioni di profughi e ha distrutto il tessuto sociale di un’intera regione.

Le ragioni del conflitto, che costituiva una seria minaccia per la fragile stabilità dell’intera regione del Corno d’Africa, sembravano insanabili ma, alla fine, dopo difficili negoziati condotti sotto l’egida USA, la diplomazia ha imposto una tregua, consentendo le premesse per raggiungere la pace.

Certamente l’Etiopia non è alle porte di casa nostra e risulta lontana, non soltanto geograficamente, ma anche dal punto di vista della nostra percezione di pericolo. Il conflitto che ha interessato la regione africana ha molte similitudini con quello che si sta svolgendo in Ucraina: è motivato da odio e rancori che si perdono nel tempo, ha prodotto un elevato numeri di morti e un enorme flusso di profughi, ha causato la distruzione di numerosissime strutture civili, è stato condizionato da un’estrema violenza. Tuttavia, è terminato con una soluzione diplomatica perseguita con razionalità e realismo che, alla fine, ha consentito di individuare e raggiungere una situazione di mediazione vantaggiosa per entrambe le parti.

La situazione in Ucraina, invece, sembra essere priva di una apparente via d’uscita che ponga termine al conflitto. Ma davvero non esiste una via diplomatica per poter porre fine a questa crisi? Quali sono, in realtà, gli ostacoli che si frappongono alla risoluzione del conflitto?

Le ragioni del perché sussiste questo stallo diplomatico sono molteplici e di differente natura.

Innanzitutto, il conflitto in Ucraina ha da subito assunto il ruolo di protagonista dei nostri media e ci è stato descritto come la rappresentazione della sfida ultima tra il bene e il male, contribuendo a creare un’impostazione mentale dell’opinione pubblica particolare e unidirezionale.

La narrazione di quanto accade ha anestetizzato la nostra capacità di guardare oltre l’orizzonte limitato del nostro microcosmo europeo, cancellando ogni altro riferimento a ciò che avviene nel contesto internazionale, facendoci dimenticare che, purtroppo, esistono altre situazioni di crisi, ugualmente drammatiche e pericolose, dove sono coinvolti quei valori di cui ci sentiamo i difensori e i portatori. Di conseguenza, non siamo in grado di realizzare che la difesa della democrazia e della libertà non si giocano sostenendo a spada tratta l’Ucraina acriticamente e senza realismo politico.

L’unidirezionalità con la quale l’opinione pubblica occidentale descrive il conflitto ci impedisce di accettare l’adozione di una azione diplomatica che si basi sul perseguimento di fattori oggettivi e realistici. Sicuramente e senza nessuna scusante il ricorso della Russia alle armi è da condannare a priori, ma questo non implica che non si debba comunque ricercare una soluzione diplomatica che possa mettere termine al conflitto.

In secondo luogo, la dinamica propagandistica adottata dalle due parti, riguardo alle eventuali possibili soluzioni, le ha spinte in un tunnel cieco, sclerotizzando la narrazione del conflitto su posizioni diametralmente opposte condizionate da premesse di base del tutto irrealistiche e irrazionali.

Da una parte, infatti, l’Ucraina (e i suoi sponsor – USA ed Europa) insiste per avere una situazione che riporti il confine a quello che era prima del 2014, chiedendo un ritiro completo e incondizionato della Russia entro i territori e i confini che esistevano prima della annessione della Crimea.

Dall’altra parte, la Russia insiste nel suo progetto relativo alla creazione di una serie di entità statali solo da lei riconosciute che possano creare una fascia cuscinetto lungo la frontiera tra la Russia e l’Ucraina, al fine di separare il territorio russo dalla compagine dell’Europa e della NATO, assicurando quel minimo di protezione che consenta a Mosca di non sentirsi completamente accerchiata da quelli che considerano essere i suoi nemici di sempre.

Entrambe le posizioni non possono realisticamente essere conseguite.

La Russia, anche se sulla difensiva dal punto di vista militare, rimane una potenza solida con un proprio progetto strategico connesso ai suoi interessi nazionali. E’ sicuramente provata dalle sanzioni ma non è piegata, ha ancori enormi risorse economiche e non è stata isolata nel contesto internazionale. Putin ha coinvolto la Russia e il suo orgoglio di grande potenza in una situazione dalla quale non può uscire a mani vuote. Una resa incondizionata stile Seconda Guerra Mondiale non è assolutamente una soluzione che possa essere accettata dalla Russia.

L’Ucraina definendo quale condizione per il termine del conflitto la restaurazione dei confini ante 2014, impone una condizione di difficile accettazione in quanto disconoscerebbe sia la situazione particolare delle regioni di confine contese, negando che esista un problema con le minoranze russe presenti (vedasi il Protocollo di Minsk), sia l’eccezionale situazione della Crimea che affonda le sue radici nel complicato processo che è seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

In sintesi, l’epoca delle vittorie definitive e delle rese incondizionate appartiene al passato e, quindi l’Occidente deve interrompere la politica di alimentare il conflitto militarmente, usando, invece, la diplomazia per accettare la situazione reale e lavorare per raggiungere una soluzione mediata che ridimensioni le due opposte visioni e consenta di comporre la crisi in atto, soluzione, tra l’altro sostenuta, sin dall’inizio, da uno dei più grandi diplomatici del nostro tempo: Henry Kissinger!

Infine, c’è un altro aspetto critico da considerare per mettere a fuoco con precisione la crisi della diplomazia in relazione al conflitto ucraino.

Il vero end state della crisi non è rappresentato dalla difesa della libertà e della democrazia messe in pericolo dalle aspirazioni zaristico-sovietiche di Putin, come la propaganda occidentale sbandiera ipocritamente.

Ciò che realmente interessa all’Occidente non è tanto la liberazione dell’Ucraina ma la eliminazione del presidente russo, ritenuto una personalità ingombrante, pericolosa e scomoda, soprattutto per la determinazione con la quale persegue il suo obiettivo di riportare la Russia ad essere un paese geopoliticamente importante e determinante nel contesto delle relazioni internazionali.

In tale quadro di situazione gli interessi USA sono quelli di eliminare la spina nel fianco rappresentata da una Russia forte e potente quale ulteriore possibile avversario nella contesa vitale con Pechino. Quelli dell’Unione Europea di disporre di una Russia docile e democraticamente inoffensiva sulla quale dirottare le proprie attenzioni di mercato.

Quelli dell’Est Europa, invece, di avere la soddisfazione di vedere umiliato il nemico atavico di sempre verso il quale gli odi e i rancori di un passato remoto e presente sono ancora vivi e accesi.

In sintesi, si sta usando l’Ucraina per cercare di ridimensionare la Russia al fine di eliminare un elemento geopoliticamente scomodo per il mondo occidentale nel confronto che oppone l’Occidente alla crescente potenza della Cina nel quadro dello scontro culturale economico finanziario, e forse militare, finalizzato alla costruzione e al mantenimento di un ordine mondiale basato sui principi e sulle specifiche culturali di cui l’Occidente ritiene di essere il depositario e il difensore.

Per concludere, le posizioni formali dei due campi sono opposte e ugualmente irrealistiche, ma non per questo non è impossibile individuare un accordo.

La soluzione diplomatica è possibile solo se essa può trovare una serie di condizioni cheato a quella che sarebbe, quindi, una sfida caratterizzata da quei valori di democrazia e di rispetto delle libertà che l’Occidente vuole proporre, sostenere e realizzare.

Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

Luca Marchesini
0 £0.00
Vai a Inizio
×