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Serraj e le incognite sul futuro della Libia

Prima l’atterraggio negato. Poi l’arrivo via mare mercoledì 30 e il respingimento del governo retto da Khalifa Ghwell. Infine, la fuga di quest’ultimo a Misurata. L’entrata in vigore del governo di unità nazionale presieduto da Fayez al Serraj, dopo i tumulti delle prime ore a Tripoli e l’istituzione del quartier generale provvisorio nella base navale di Abu Sittah, getta speranze e incognite sul futuro della Libia.

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Il pressing della comunità internazionale alla fine ha portato ad un primo risultato. L’accelerazione dell’istituzione del governo di unità nazionale avvenuta mercoledì 30 marzo è un segno evidente che le Nazioni Unite, complici gli attentati di Bruxelles e l’indebolimento dello Stato Islamico in Siria a fronte di un suo rafforzamento in Libia, hanno rotto gli indugi.

Questo, nonostante due ostacoli interni. In primis, dal governo di Tobruk e dal GNC, ancora lontani dal ratificare la lista dei membri del nuovo esecutivo concordato in Marocco sotto l’ombrello dell’ONU. Dall’altra parte, i rappresentanti del governo di Tripoli, tra cui il premier Ghwell, che hanno sì partecipato alle trattative di Skhirat, ma che adesso hanno paura di vedere svanire quella posizione di potere costruita dal 2014 ad oggi.

Le dure parole di Ghwell all’arrivo del nuovo premier Serraj (“Il nuovo governo è illegale perché designato dall’ONU”), gli scontri nel centro di Tripoli che hanno portato ad un morto e la presa di controllo della emittente Al Nabaa, vicina ai Fratelli Musulmani, da parte di uomini vicini al nuovo esecutivi, completano un quadro ancora incerto.

Ma forse meno fosco del previsto. Come rivelato da Libya Herald, l’improvvisa e inaspettata fuga di venerdì di Ghwell a Misurata sarebbe il risultato della pressione proprio delle milizie di Misurata, sostenitrici di Serraj, oltre che delle sanzioni nei suoi confronti annunciate dall’Unione Europea (riguardanti anche il presidente dell’HoR Agilah Saleh e l’omologo del GNC Nouri Abusahmen).

In più, i sindaci delle 13 municipalità di Tripoli oltre ai sindaci di 10 città libiche hanno annunciato il loro sostegno al nuovo esecutivo: “La situazione del Paese è critica – ha rivelato il sindaco di Sabrata Hussein al Dawadi al Daily Mail -. Il costo della vita è molto alto e al contempo non c’è abbastanza disponibilità di denaro: questo ci porta a sostenere il nuovo governo”.

Ed è infine notizia di oggi dei colloqui in corso proprio tra Serraj e il capo della Banca Centrale libica per aumentare l’emissione di denaro.

Un po’ a sorpresa, dunque, questo governo, bollato da parte dell’opinione pubblica internazionale come paracadutato dalle Nazioni Unite, sta in parte risolvendo dentro i suoi confini i suoi problemi. Rimangono comunque i problemi legati all’ordine pubblico a Tripoli e negli altri centri del Paese di qui ai prossimi giorni e due rischi concatenati: che il nuovo esecutivo venga visto come un’indebita ingerenza dell’Occidente negli affari interni libici e che, di conseguenza, l’opera di proselitismo dello Stato Islamico abbia un’ulteriore arma propagandistica dalla sua parte.

E l’intervento militare esterno? Anche se bollato come non prioritario da Serraj (“I primi provvedimenti del mio governo potrebbero essere di natura economica”), l’arrivo sul territorio libico di un contingente ONU è ormai prossimo.

A partire dal supporto in materia di addestramento e di messa in sicurezza della capitale Tripoli, sede del governo di unità nazionale, e delle infrastrutture libiche. Come già concordato nel corso del congresso di metà marzo a Roma, l’Italia fornirà 2500 uomini, mentre il Regno Unito 1000.

Mentre l’ipotesi di un intervento militare diretto resta un punto interrogativo che divide Renzi da Obama e gli altri alleati occidentali, determinati a stroncare la radicalizzazione dello Stato Islamico in Libia.

 

Giacomo Pratali

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Libia: le divisioni interne e lo scenario politico italiano

Le divisioni interne libiche e la realpolitik di casa nostra. La vicenda legata alla liberazione dei due ostaggi italiani Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, rapiti in Libia lo scorso 20 luglio, si è intrecciata infatti attorno alle divisioni tribali del Paese nordafricano e alla reazione del premier Matteo Renzi nei confronti della stampa nazionale e degli alleati internazionali, in particolar modo degli Stati Uniti.

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La notizia della liberazione e le congetture

La notizia della scomparsa di Salvatore Failla e Fausto Piano (le due salme saranno sottoposte ad autopsia a Tripoli e non in Italia) di giovedì 3 marzo è stata seguita, il giorno successivo, da quella della liberazione degli altri due italiani e colleghi Filippo Calcagno e Gino Pollicardo. Una concomitanza particolare dopo gli scontri tra le milizie di Sabrata e i jihadisti dell’Isis e la notizia della liberazione nella stessa località quasi preannunciata dal presidente del Copasir Marco Minniti nella giornata di giovedì, quando ha assicurato che gli altri due italiani erano “in vita”.

Una concomitanza che ha lasciato scettici alcuni osservatori italiani e la vedova di Failla: “Lo Stato italiano ha fallito: la liberazione dei due ostaggi è stata pagata con il sangue di mio marito”, ha affermato.

Le difficili trattative per il rientro dei due dipendenti della Bonatti

Aldilà delle congetture, i fatti della giornata di sabato 5 marzo sono stati convulsi. Dapprima, con il presidente del Consiglio Renzi che aveva preannunciato il rientro dei due italiani entro la serata. Poi, con il complicarsi del ritorno a casa dei due italiani.

Infatti, il governo italiano aveva inviato a Sabrata, luogo dove i due dipendenti della Bonatti sono stati liberati, due funzionari. Ma le autorità della città, in aperto contrasto con Tripoli, hanno richiesto, e ottenuto, che Filippo Calcagno e Gino Pollicardo venissero prelevati anche dalla delegazioni ufficiale del governo della capitale libica: “Non siamo rispettati come doveroso – ha dichiarato al Corriere della Sera Taher Algribli, uno dei capi militari che partecipato alle operazioni militari contro il Daesh -. Vogliamo delegazioni ufficiali del Ministro degli Esteri libico. Dopotutto, i ragazzi hanno combattuto e sono morti per battere l’Isis”.

Una volta risolta la questione, l’unità di crisi della Farnesina ha dovuto gestire il difficile spostamento di Calcagno e Pollicardo, attesi domenica in Italia dopo essere transitati dalla difficile rotta da Sabrata a Mellitah, per poi essere trasportati in elicottero a Tripoli, da dove un aereo li riporterà a Roma.

Divisioni interne alla Libia

Una questione, quello dello scontro tra Tripoli e Sabrata, a testimonianza delle divisioni interne al tessuto sociale, politico e militare della Libia. Oltre alla crescente radicalizzazione dello Stato Islamico in più zone del Paese, quello che preoccupa gli osservatori internazionali è il contrasto non solo tra i governi di Tripoli e Tobruk, ma anche tra le tante fazioni e tribù locali. Un ostacolo, innanzitutto, alla formazione del governo di unità nazionale caldeggiato dalle Nazioni Unite, giudicato, con ogni probabilità, un corpo estraneo da gran parte della popolazione libica.

Raffreddamento dell’asse Roma-Washington

Oltre ad avere preannunciato il rientro di Calcagno e Pollicardo, Renzi, nella mattinata di sabato 5 marzo, si è rivolto in modo stizzito ai media e, seppur non citandoli, agli Stati Uniti, dopo le pressioni ricevute in merito ad un intervento militare italiano a breve e con un contingente significativo: “I media si affannano ad immaginare scenari di guerra in Libia che non corrispondono alla realtà. Questo non è il tempo delle forzature, ma del buon senso e dell’equilibrio”. E ancora: “Il coinvolgimento militare avverrà assieme a tutti gli alleati, americani compresi”.

Una chiara risposta all’ambasciatore statunitense John R. Philips, che aveva chiesto all’Italia un coinvolgimento attivo nella sempre più papabile azione militare in Libia, ma aveva anche escluso un impiego diretto di forze americane sul campo. E una replica alle pressioni di Francia e Regno Unito, già attive in Libia da qualche settimana.

Le ripercussioni sulla politica interna italiana

Come già accaduto a Hollande a novembre, anche Renzi deve rapportarsi con la popolarità delle scelte del suo governo in materia di politica estera. La scelta di entrare in guerra in Libia, seppur subordinata ad una richiesta del governo di unità nazionale, potrebbe portare ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo.

Ci sono tre ragioni a testimoniarlo. Il primo, la modalità d’intervento in Libia: ovvero, se a pieno regime o se solo come supporto agli alleati e alle forze di sicurezza locali. Il secondo, già intravisto negli effetti con la notizia della scomparsa dei due dipendenti della Bonatti: le ripercussioni della morte di soldati italiani inviati sul campo di battaglia. Il terzo, le Amministrative alle porte.

In definitiva, sul piano internazionale, oltre ad aspettare la formazione del governo d’unità nazionale libico, gli Stati Uniti vogliono accertarsi che l’Italia assuma il ruolo guida nell’operazione militare in Libia.

D’altro canto, questo contesto s’intreccia con il piano nazionale, dove dalla partita libica dipendono le sorti del governo Renzi.
Giacomo Pratali

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Libia: nuovo quartier generale del Daesh?

Medio oriente – Africa di

La lente d’ingrandimento puntata sulla Siria, divenuto terreno di scontro della rediviva guerra fredda tra USA e Russia, sta facendo il gioco dello Stato Islamico in Libia. Mentre Turchia e Arabia Saudita preparano l’intervento di terra in Medio Oriente, il quartier generale del Daesh si sta spostando. A dirlo, sono i numeri.

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Secondo le ultime rilevazioni statistiche, ci sarebbe un’inversione di tendenza rispetto al numero di militanti presenti in Siria e Iraq e in Libia. Nel primo caso, le stime parlano di 15-25 presenze, con un calo di 20-30 mila rispetto alle ultime variazioni. Nel secondo caso, invece, il numero totale, 5-6 mila, è ancora inferiore, ma l’aumento nell’ultimo anno si è aggirato attorno ai 2-3 mila.

Molteplici i possibili fattori dovuti a questa inversione di tendenza. Primo fra tutti i caduti di guerra a seguito dei raid nel Paese retto da Assad. Morti che hanno probabilmente causato diserzioni e la conseguente scelta, da parte dei foreign fighters di una meta meno a rischio, per il momento, come la Libia.

Numeri che portano a due riflessioni. Come rilanciato da molti analisti, la crescita numerica dell’Isis in Libia non avrà particolari ripercussioni sui possibili futuri attacchi terroristici in Europa. Quella attraverso la Siria rimane una rotta più sicura non solo per i rifugiati, ma anche per gli stessi jihadisti. E difficilmente i vertici del Califfato rischieranno i loro uomini addestrati attraverso la rotta meno sicura per raggiungere l’Europa, cioè quella attraverso il Mediterraneo meridionale.

Discorso contrario, invece, per quanto riguarda la radicalizzazione stessa del Califfato. I riflettori della comunità internazionale puntati sulla Siria, uniti alla cronica lentezza di un governo di unità nazionale a Tripoli, stanno rendendo la Libia la nuova roccaforte dello jihadismo.

A Sirte, dove ha sede il quartier generale. A Bengasi e in altri centri metropolitani del Paese, dove il Daesh, così come fatto in Siria e Iraq, sta concentrando le proprie forze.

I continui appelli lanciati nelle ultime settimane dalle varie autorità italiane affinché si formi al più presto un nuovo governo, sembrano essere caduti nel vuoto, al netto dell’apparente interesse mostrato, ad esempio, dal segretario di Stato USA John Kerry. Un interesse che, invece, dovrebbe essere reale.
Giacomo Pratali

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Libia: qual è il vero ruolo dell’Italia?

Defence/POLITICA/Politics di

Nella 3^ conferenza internazionale sullo Stato Islamico di Roma, la Siria è stata al centro del dibattito tra i 23 ministri degli Esteri presenti. Nonostante le dichiarazioni concilianti di Kerry nei confronti dell’Italia, i recenti movimenti degli alleati occidentali nei pressi di Tobruk e lo stallo nella formazione del governo di unità nazionale rischiano di relegare Roma ad un ruolo di secondo piano in Libia. Il rischio maggiore è di ripetere gli errori del 2011.

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Si è parlato più di Siria che di Libia alla terza conferenza internazionale sullo Stato Islamico, tenutasi a Roma martedì 2 febbraio. Presieduto dal segretario di Stato Usa John Kerry e dal ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni, al vertice erano presenti 23 ministri degli Esteri, compresa la rappresentante dell’Ue Federica Mogherini.

Dalle dichiarazioni nella conferenza stampa post summit, si evince come la battaglia contro il Daesh sia su scala globale e che Siria, Iraq e, a questo punto, Libia compongono un unico teatro di guerra, che sarà”lunga, più delle altre tra uno Stato e l’altro”, ha affermato Kerry, che ha escluso un intervento di terra delle forza armate statunitensi, ma ha invece garantito un lavoro di supporto logistico e addestramento quando il governo libico darà il via libera per un intervento militare internazionale. Un’operazione che, come ricordato dallo stesso Segretario di Stato, vedrà in prima fila l’Italia, “tra i Paesi più attivi nella lotta all’Isis”.

Dunque, sulla scia della conferenza di Ginevra, è la Siria la parte portante dell’incontro di Roma. Da più parti è stato ricordata l’emergenza umanitaria in continua crescita. Ma la Libia?

Lo stallo politico nella formazione del governo di unità nazionale a Tripoli non solo sta favorendo ancora una volta la radicalizzazione del Daesh, ma sta provocando reazioni su piani paralleli. In questo senso, il rischio è uno solo: ricadere nell’errore del 2011 e non concordare con le istituzioni locali né il piano di intervento militare né la ricostituzione di un’istituzione statale stabile.

Come rivelato dal Sunday Times, militari e servizi di intelligence di Regno Unito, Stati Uniti e Francia sarebbero attivi in una base nei pressi di Tobruk, dove già si starebbero pianificando gli interventi sul campo e l’introduzione di un campo permanente.

Il tanto paventato intervento militare sotto l’egida dell’Onu in cosa consiste davvero? In mero lavoro di addestramento e supporto alle forze locali? In un’azione aerea? O addirittura in un intervento di terra?

In una lettera del segretario alla Difesa degli Stati Uniti Ashton Carter alla sua omologa italiana Roberta Pinotti dello scorso dicembre, e ripresa da alcune testate negli ultimi giorni, l’invito rivolto a Roma è palese: “Spero che in futuro l’Italia considererà di contribuire ai raid nella contro l’Isis”. Parole che stonano con le recenti dichiarazioni di Kerry e dello stesso Gentiloni.

In definitiva, la conferenza di Roma, non smuove nulla per quanto concerne la questione libica. Le dichiarazioni di Kerry restano dichiarazioni. Il movimento sotto traccia degli alleati occidentali, infatti, potrebbe relegare di nuovo l’Italia in una posizione di secondo piano in un Paese, la Libia, che, sotto il profilo energetico, fa gola a molti.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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