GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Daesh: da Parigi a Maiduguri

EUROPA/Medio oriente – Africa di

L’attacco terroristico a Parigi del 13 novembre ha reso evidente come lo Stato Islamico sia un pericolo anche dentro i confini occidentali. Aldilà di Siria e Iraq, dove ha sede il Califfato, è l’Africa il luogo più colpito dal terrorismo islamico. I fatti degli ultimi quindici giorni ne sono l’ulteriore riprova.

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Sono oltre 83 gli attentati in tutto il mondo dal giugno 2014 ad oggi, riporta il quotidiano francese Le Monde. Oltre 1600 le vittime. Raqqa (Siria) e Maiduguri (Nigeria) le città più colpite. Dal marzo 2015, data dell’affiliazione del gruppo nigeriano Boko Haram al Califfato, le azioni terroristiche nel continente africano sono aumentate a dismisura. Così come le varie sigle che, dal Mali all’Egitto, colpiscono in nome dell’Isis.

Dopo i 129 morti di Parigi, altri se ne sono aggiunti da novembre ad oggi:

Mali: Oltre 20 le persone uccise a seguito di un raid compiuto da un commando jihadista lo scorso 20 novembre all’hotel Radisson di Bamako. Un blitz delle forze speciali francesi e statunitensi ha permesso la liberazione dei circa 150 ostaggi sopravvissuti. Dopo l’arresto di due sospettati, la risposta delle cellule terroristiche locali non si è fatta attendere con l’attacco alla base ONU di Kidal nel nord del Paese, in cui sono morte 3 persone.

Egitto: Due azioni terroristiche. La prima, il 24 novembre, quando un doppio attacco kamikaze, compiuto in un hotel del Sinai del Nord che ospitava alcuni presidenti di seggio, ha portato all’uccisione di 4 persone. La seconda, il 28 novembre, a Giza, quando alcuni terroristi hanno sparato contro un checkpoint, uccidendo 4 poliziotti.

Nigeria: Prima una stazione dei camion, poi una processione sciita. Sono questi i due obiettivi presi di mira dai miliziani di Boko Haram nello Stato di Borno, vicino alla capitale Maiduguri. Rispettivamente oltre 35 e 32 i morti.

Camerun: Quattro differenti azioni kamikaze da parte di altrettante ragazze hanno portato all’uccisione di almeno 5 persone a Fotokol lo scorso 21 novembre.

Tunisia: 13 morti a seguito di un attacco bomba contro l’autobus della guardia presidenziale avvenuto lo scorso 24 novembre a Tunisi. Così come nelle azioni al Museo del Bardo e nella spiaggia di Sousse dello scorso giugno, lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato.

 

Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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ISIS: rivendicazione e cause

Varie di

“La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”. E ancora: “13 novembre come l’11 settembre per gli americani”. È esplicita la rivendicazione degli attentati di Parigi da parte dello Stato Islamico. Rivendicazione, tuttavia, ancora da dimostrare secondo le autorità francesi e internazionali.
Nella lunga notte di terrore che ha sconvolto Parigi e tutta l’Europa, a cui hanno fatto seguito le dichiarazioni di sconforto e solidarietà da parte di gran parte dei leader mondiali, esiste l’altra faccia di questa medaglia.

I bombardamenti dell’aviazione francese delle postazioni strategiche dello Stato Islamico in Siria, le azioni in alcuni Stati africani, come Mali e Repubblica Centrafricana, dove peraltro la notizia dell’arrivo del Papa nei prossimi mesi ha provocato un alto allarme sicurezza per il Pontefice e le forze di sicurezza transalpine, hanno provocato la reazione degli uomini del Califfato.

Sul web sono stati diffusi hasthag (poi rimossi) come #Parigibrucia, fotomontaggi inneggianti alle azioni compiute nella capitale francese e l’annuncio che “il prossimo attacco sarà a Londra, Washington e Parigi”.

Gli attacchi terroristici hanno di fatto preso di sorpresa l’intelligence francese. Ma, già da diversi mesi, dopo i fatti di Charlie Hebdo del gennaio 2015, molti siti internet transalpini sono stati oggetto di attacco hacker, con la ricorrente scritta #Franceunderhacks.

Il coinvolgimento di adolescenti nei fatti del 13 novembre significa che i “foreign fighters” sono tuttora un’arma efficace per la propaganda del Daesh. Un’arma che mette a rischio la sicurezza di tutti i Paesi europei.

Seppure multiculturale da diversi decenni, la Francia, così come a catena gli altri partner europei, si scontrano con la difficoltà di reintegrare o combattere quella fetta di società, composta da immigrati o cittadini di seconda generazione, messa ancora più ai margini da due fattori: la crisi economica e l’emarginazione dovuta alla paura verso coloro che non sono davvero integrati nel tessuto sociale europeo.

 

Giacomo Pratali

 

Contrasto all’Isis, ancora tanto lavoro da fare

Medio oriente – Africa di

Un anno è trascorso da quando la Coalizione Globale per il Contrasto a Daesh ha deciso di muovere i primi passi per fermare la pericolosa avanzata dell’Isis, o Daesh, suo acronimo arabo. Nei 12 mesi trascorsi, le azioni messe in campo hanno permesso di riconquistare in Iraq circa il 30% dei territori inizialmente controllati dal califfato, liberare Tikrit e consentire ad oltre 100.000 civili di tornare nelle proprie case e nei territori circostanti. Idem in Siria, dove il controllo di Daesh continua “su appena 100 degli 822 chilometri del confine turco-siriano. Un anno fa – dichiarano gli stati membri della Coalizione – la situazione era tragica: ISIS stava avanzando in Iraq e minacciando Erbil, Kirkuk e Baghdad. Inoltre, parevano imminenti ulteriori attacchi contro la minoranza Yazidi. Da allora, nonostante non siano mancate inevitabili battute d’arresto, la Coalizione ha perseguito una strategia onnicomprensiva, dimostrando di saper arginare la capacità di movimento di Daesh in Iraq e Siria”. I meriti vengono condivisi con le forze di sicurezza irachene, i peshmerga curdi, l’opposizione siriana ed in generale il popolo di entrambi i paesi. La Coalizione continua ad attaccare Isis su più fronti, controllando canali bancari e finanziari attraverso l’attività della Financial Actione Task Force, cercando di interrompere il reclutamento dei foreign fighters con l’aiuto del Global Counterterrorism Forum, diffondendo un’altra realtà comunicativa densa di speranze opposte alla violenza e all’odio proposti dai terroristi del califfato e sostenendo il governo iracheno, oltre a quello regionale curdo, nella stabilizzazione dei territori liberati. In Siria, il pieno appoggio è garantito alla popolazione nell’ambito di quello che viene diplomaticamente definito la via verso la definizione di “un governo di transizione basato sui principi del Comunicato di Ginevra, al fine di addivenire a un Governo democratico, inclusivo e pluralistico che sia rappresentativo del volere del popolo siriano”. Il monitoraggio della diffusione di Isis in altre realtà che non siano quella irachena e siriana prosegue da parte della Coalizione il cui impegno si rivolge anche alle popolazioni rifugiate. “Il lavoro da fare insieme è ancora molto – concludono gli stati membri. “Daesh continua a reclutare e radicalizzare nuove persone, specialmente attraverso i social media. Sta perpetrando crimini inauditi contro ogni gruppo etnico e religioso e contro minoranze particolarmente vulnerabili; sta distruggendo il patrimonio culturale dell’umanità; e cerca di esportare il proprio modello in altri Paesi, incoraggiando a compiere atti terroristici. Partendo da queste considerazioni, siamo consapevoli che la sconfitta finale di Daesh richiede un impegno di lunga durata e un approccio multidimensionale. Il mondo è unito nella ferma condanna di Daesh e della sua ideologia distorta. La nostra Coalizione ribadisce la sua incrollabile determinazione nel lavorare insieme per ottenere la definitiva sconfitta di Daesh”.

 

Monia Savioli

Italia: pronta azione militare in Iraq?

Difesa/EUROPA di

“In merito a indiscrezioni di stampa su operazioni militari aeree italiane in Iraq, il Ministero della Difesa precisa che sono solo ipotesi da valutare assieme agli alleati e non decisioni prese che, in ogni caso, dovranno passare dal Parlamento”. Questa la nota pubblicata dal Ministero della Difesa italiano a seguito dell’indiscrezione, rilanciata da Il Corriere della Sera il 5 ottobre, in merito ad un presunto intervento dei propri Tornado a fianco della coalizione occidentale contro lo Stato Islamico.

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Se da un anno a questa parte, infatti, gli aerei italiani sono stati configurati per le ricognizioni sul territorio iracheno e in appoggio ai Peshmerga, adesso le regole d’ingaggio con il governo iracheno cambierebbero, così come avvenuto tra quello siriano e la Russia. Mentre sullo sfondo Nato, Francia e Gran Bretagna (in attesa del via libera da parte del Parlamento) operano militarmente in Siria.

Tornando al caso italiano, se da una parte il Ministero della Difesa ha smentito le indiscrezioni della stampa, dall’altra parte l’incontro tra il ministro Roberta Pinotti e il Segretario di Stato alla Difesa Ashton Baldwiin Carter, in programma a Roma il 7 ottobre, potrebbe essere un chiaro indizio sulla volontà italiana di partecipare ai bombardamenti contro le postazioni dell’Isis. E forse il prologo di una missione militare in Libia con l’Italia a capo di una coalizione internazionale.
Giacomo Pratali

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Ramadi: presto l’offensiva Usa-Iraq

Medio oriente – Africa di

Il conto alla rovescia dovrebbe essere ormai giunto al termine. L’offensiva targata Usa e Iraq per riprendere il controllo di Ramadi, capoluogo della grande provincia di Al-Anbar a 70 miglia a ovest di Baghadad, strappato nel maggio scorso dalle forze del Califfato è stata annunciata come prossima a inizio luglio dal presidente Usa Barak Obama. Una manciata di giorni in cui il servizio antiterrorismo iracheno avrebbe dovuto perfezionare il piano che vede coinvolti al momento i circa 5.000 soldati della polizia e dell’esercito federale iracheno schierati con l’appoggio della rappresentanze sunnite nel controllo delle zone circostanti la città. L’interesse per la provincia di Anbar risiede nella sua posizione geografica, al confine con l’Arabia Saudita e la Giordania e nella sua composizione sociale, basata su importanti tribù sunnite, ritenute fondamentali nella lotta contro lo stato islamico. La caduta di Ramadi, preceduta ad aprile dall’esodo che, secondo le fonti Onu, avrebbe portato alla partenza di 114.000 iracheni in cerca di rifugio lontano dalle milizie Isis, era stata considerata come l’apertura di un pericoloso corridoio verso la conquista della capitale irachena. La situazione è peggiorata ulteriormente nelle ultime settimane. I miliziani Isis, dopo aver liberato tutti i carcerati e issato le bandiere nere tappezzandone la città, hanno deciso di chiudere i condotti della diga di Radami costringendo ad una brutale siccità le zone di Khalidiyah e Habbaniyah, , baluardi del governo iracheno ai margini della diga e a poca distanza da Falluja. L’obiettivo sarebbe quello non tanto di minacciare la sopravvivenza delle popolazioni quanto di abbassare il livello del fiume Eufrate per consentire alle truppe Isis spostamenti più rapidi e sicuri verso Khalidiyah e quindi altri territori ancora in mano governativa. In risposta alla richiesta di aiuto lanciata dal premier iracheno Haider Al Abadi, gli Stati Uniti hanno recentemente implementato con l’invio di 450 soldati scelti le attività addestrative organizzate presso il nuovo centro realizzato nella base militare aerea di Taqaddum. Ora il numero complessivo dei militari Usa è salito a oltre 3.000 unità e non è escluso per il futuro, il prestito di elicotteri Apache alle forze irachene per supportare l’offensiva contro Isis. L’arrivo dei rinforzi Usa è stato affiancato dall’invio deciso dal Governo italiano di un contingente di 30 incursori del Col Moschin con compiti ufficialmente solo addestrativi. Al momento i militari italiani impegnati in Iraq nell’ambito dell’Operazione “Prima Parthica” finalizzata all’addestramento del personale delle KSF, Kurdish Security Forces, sono circa 200.

Usa, tra l’accordo sul nucleare con l’Iran e i possibili retroscena

Medio oriente – Africa di

Raggiunto l’accordo tra i Paesi “5+1” e l’Iran. Stabiliti i punti base. Le sanzioni contro Teheran saranno revocate. L’intesa con lo Stato sciita sembra, però, stonare con la contemporanea offensiva di alcuni Stati sunniti nello Yemen. Sembra perché questo quadro geopolitico caotico va a vantaggio degli Stati Uniti.

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Giovedì 2 aprile Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno trovato l’intesa storica sul nucleare con l’Iran, il quale vede cessare l’embargo impostogli. I parametri di base sono da stabilire entro il 30 giugno, ma i punti dell’accordo sono chiari. L’attività di Teheran sarà tenuta sotto controllo per i prossimi dieci anni (prorogabili a 25), periodo entro il quale dovranno essere ridotte a 6 mila (75%) le centrifughe in azione. Le riserve di uranio già presenti saranno portate all’estero o diluite. Infine, il capitolo delle sanzioni finanziarie e petrolifere: Stati Uniti ed Europa le revocheranno dopo la verifica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Se Obama parla di più sicurezza “per il nostro Paese e i nostri alleati”, dello stesso tenore sono le dichiarazione del rappresentante Ue Mogherini (“Questo accordo garantisce che l’Iran non svilupperà il nucleare”) e del ministro degli Esteri di Teheran (“Abbiamo trovato le soluzioni per i parametri chiave”).

Ma se l’accordo è senz’altro un cambio radicale dopo anni di rapporti freddi tra Stati Uniti e Iran, lo stesso non si può dire per altri Paesi. Il presidente israeliano Netanyahu attacca parlando di “errore storico” a favore di un Paese che sta commettendo “atroci azioni in Siria, Iraq, Libano e Yemen”.

Ed è proprio il caso Yemen a stonare con questa intesa. In queste ultime ore, infatti, la coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita, con il consenso e il conseguente l’appoggio logistico degli Stati Uniti, sta sferrando una massiccia offensiva militare contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dallo stesso Iran.

Questo sembra andare nella direzione opposta rispetto all’accordo sul nucleare, così alla collaborazione nella lotta allo Stato Islamico in Siria e Iraq. Ma è solo apparenza. L’obiettivo degli Stati Uniti in Medio Oriente, come riportato nel rapporto della National Security americana di febbraio, è quello di non fare emergere nessun attore geopolitico di primo piano in quest’area. E, al tempo stesso, non prendere parte in maniera attiva alle azioni militari: vedi i casi già citati in Yemen, Iraq e Siria. Un obiettivo finora raggiunto.

Giacomo Pratali

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2014, la devastazione dei diritti umani.

Medio oriente – Africa di

Un anno da dimenticare, il 2014. Almeno per quanto riguarda Amnesty International che ha divulgato il rapporto annuale in occasione dell’anniversario della scomparsa del suo fondatore, Peter Benenson, avvenuta il 25 febbraio di dieci anni fa. Un anno “devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra”. A sottolinearlo, Salil Shetty, segretario generale dell’associazione.

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Le 415 pagine che riassumono il racconto delle violenze consumate in 160 paesi del mondo non fa sconti sul giudizio espresso a proposito dell’atteggiamento adottato dai vari Governi. “Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani – evidenzia Shetty – sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani”. I dati sono allarmanti.

Negli ultimi quattro anni in Siria – continua – sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano”. Poi l’Iraq dove l’Isis impazza. “Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno”.

Il rapporto prosegue citando le 2000 vittime palestinesi causate dall’assalto condotto nel luglio scorso dagli Israeliani a Gaza, i crimini di guerra compiuti da Hamas “sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti”, i risultati del conflitto fra forze governative ed il gruppo armato Boko Haram in Nigeria esplicitati nel rapimento di 276 studentesse nella città di Chibok e gli orrori commessi dalle forze di sicurezza nigeriane che hanno ucciso e sepolto corpi in fosse comuni. Infine la Repubblica Centrafricana dove 5.000 sono le vittime della violenza settaria ed il Sud Sudan dove “decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

Amnesty rileva l’immobilità del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di fronte alle crisi siriana, iraquena, palestinese, israeliana e ucraina “neanche quando sono stati commessi crimini orrendi contro la popolazione civile da parte degli stati o dei gruppi armati, per proprio tornaconto o interessi politici”. Pertanto per riuscire a smuovere le acque “ora chiede ai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa”. Dalle Nazioni Unite intanto arrivano i numeri del nuovo rapporto dedicato anch’esso alle violazioni dei diritti umani commessi da Isis in Iraq fra settembre e dicembre 2014. Il rapporto, realizzato dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, parla di almeno 165 esecuzioni che hanno interessato i membri di varie “comunità etniche e religiose dell’Iraq, tra cui turkmeni, Shabak, cristiani, yezidi, Sabei, Kaka’e, Faili curdi, sciiti arabi, e altri”. Negli scontri fra i tagliagole e forze di sicurezza tante anche le vittime fra la popolazione civile nella quale si contano almeno 11.602 uccisioni e 21.766 ferimenti.

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Monia Savioli

Monia Savioli
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