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Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Iran-Arabia Saudita: lo scontro più pericoloso

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Il contrasto tra Iran e Arabia Saudita, da anni caratterizzato da una sorta di guerra fredda, rischia oggi di assumere dei risvolti piuttosto “caldi”. La rivalità tra i due big power del Medio Oriente non è un fatto nuovo. Tuttavia, gli avvenimenti recenti – l’uccisione del leader religioso Nimr al-Nimr, il crollo del prezzo del greggio e la fine delle sanzioni internazionali nei confronti dell’Iran- hanno gettato nuova benzina sul fuoco, destando preoccupazioni per l’equilibrio regionale e globale.

I perché delle tensioni

L’elemento religioso. L’Arabia Saudita, quasi totalmente musulmana, presenta una netta maggioranza della componente sunnita (la stessa famiglia regnante appartiene all’ideologia wahhabita, corrente minoritaria dell’Islam sunnita). Gli sciiti, circa il 15% della popolazione, sono concentrati nella provincia orientale di Al-Sharqiyya. Essi premono per l’autonomia della regione e la monarchia accusa proprio l’Iran di alimentare tali aspirazioni. La Repubblica Islamica rappresenta, invece, la corrente musulmana sciita, con una percentuale di fedeli superiore al 90%. Proclamatesi rispettivamente protettori della comunità sunnita e sciita, Arabia Saudita e Iran si fanno portavoce di tradizioni ed interessi opposti, che sfociano in un vero e proprio conflitto settario.

L’oro nero. L’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di greggio e dal 2014 ha aumentato notevolmente la produzione, determinando un crollo del prezzo che aveva come obiettivo non solo colpire il mercato iraniano e le entrate di Mosca, ma anche rendere economicamente impraticabile per gli USA l’estrazione dello shale oil. Tuttavia, i piani di Riyadh non sono andati alla perfezione, con Stati Uniti e Russia che continuano a giocare un ruolo di punta nel mercato energetico. Uno smacco non indifferente per la monarchia saudita, proprio nel momento in cui la fine della sanzioni internazionali contro l’Iran rilancia nei giochi uno dei maggiori competitor.

L’egemonia regionale. L’Arabia Saudita gode di un peso geopolitico notevole, dovuto sia alla sua forte partecipazione nelle dinamiche regionali e globali ma anche ai rapporti instaurati con i paesi del Golfo e l’alleato statunitense. Tale posizione si è spesso tradotta in tentativo di imporre la propria leadership politica e religiosa nella regione. Ciò non solo desta attriti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC)-ad esempio con il Qatar- ma rende pressoché impossibile una pacifica convivenza con l’Iran. Dall’altro lato, infatti, la Repubblica Islamica, reduce da quarant’anni di isolamento internazionale, mira a stabilire la propria egemonia nel Medio Oriente, dove non vi è soltanto l’Arabia Saudita a frenare le sue aspirazioni ma anche Israele, paese ebraico nonché alleato degli USA.

Quale futuro?

Difficile pensare ad una qualche forma di cooperazione tra Iran e Arabia Saudita, soprattutto dopo l’uccisione da parte di quest’ultima di Nimr al-Nimr, leader sciita che aveva incoraggiato gli sciiti sauditi a schierarsi contro il proprio governo e accanto all’Iran. L’esecuzione del leader è un chiaro messaggio alla popolazione, così come la chiusura delle relazioni diplomatiche è un chiaro segnale politico. Le ripercussioni non sono tardate ad arrivare: Emirati Arabi, Kuwait, Sudan, Qatar e Bahrein cessano infatti i rapporti con la Repubblica Islamica.

Una guerra aperta appare altrettanto improbabile. Con un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, sarebbe poco logico per la monarchia saudita intraprendere un conflitto armato. L’Iran si è appena liberato di pesanti sanzioni che da decenni bloccavano la prosperità del paese e sta dimostrando una certa apertura nei confronti degli USA. Dichiarare guerra all’Arabia Saudita potrebbe giocare contro i propri interessi, coinvolgendo inevitabilmente altre potenze –USA, Russia, Israele- e gettando nuova instabilità sui già volatili giochi di potere regionali.

Rimane più plausibile il perdurare di questo stato di “guerra fredda” con picchi di tensione tra la capitale iraniana e quella saudita, e scontri caldi confinati ai teatri periferici, come Yemen, Bahrein o Siria, dove Teheran e Riyadh, supportano rispettivamente fazioni sciite e sunnite.

C’è però un altro attore che gioca un ruolo capillare in questo contesto: l’Islamic State. L’ISIS sta prendendo sempre maggior piede tra la comunità sunnita, ponendo dunque in serio allarme Riyadh, intenta a salvaguardare la propria influenza tra la popolazione sunnita. Dall’altro lato, l’Iran sciita combatte sì le forze dell’ISIS ma fino ad un certo punto. L’Iran, infatti, può trarre vantaggio dallo scontro ISIS-Arabia Saudita in quanto il conflitto tra questi due attori può progressivamente indebolire entrambi, lasciando l’Iran libero di affermarsi come leader nella regione. Vi è, tuttavia, il rischio che un simile gioco finisca fuori controllo, soprattutto visto l’appoggio che l’ISIS continua ad ottenere sia localmente sia a livello globale.

Pare, dunque, che la condizione di instabilità in cui versa il Medio Oriente sia destinata a continuare. E sembra plausibile che le tensioni sfocino in un’esplosione di conflitti su diversa scala con una pluralità di attori e agende politiche coinvolte. Ci sarà un secondo Iraq, con un vuoto di potere dilagante e potenze straniere pronte a scendere in campo o sarà uno dei due pretendenti al dominio regionale ad avere la meglio? Oppure sarà l’attore più temuto a spuntarla e l’intero Medio Oriente finirà nel pugno armato del terrorismo islamico jihadista?

Le Top Model di Teheran

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In Iran la professione di modella era vietata. Ora non più. Ma per praticarla bisogna rispettare i precetti della legge islamica e ottenere un visto ministeriale. Grazia è stata nella più famosa scuola del Paese e ha parlato con le ragazze che sognano i red carpet occidentali , ma intanto sfilano col capo coperto.

di Eleonora Vio da Teheran (Iran)

Foto di Ines Della Valle

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Iran, ecco le sfilate in linea con i precetti dell’Islam

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A lezioni di passerella da Behpooshi, prima e più nota agenzia di Teheran di modelle alla maniera islamica

Video di Costanza Spocci e Testo di Eleonora Vio – Nawart Press

su Io Donna 

Da un anno e mezzo in Iran posare e sfilare in pubblico è halal, ovvero in linea con i dettami islamici. Se il Ministero per la Cultura e la Guida Islamica si è finalmente aperto alle esigenze di giovani sempre più proiettati verso il dinamico mondo esterno, è stato però chiaro su una cosa: no alle modelle alla occidentale e via libera alle indossatrici alla maniera islamica.

«L’indossatrice deve essere interamente coperta, ad eccezione di viso mani e piedi, e deve sfilare guardando dritta davanti a sé, senza osare movimenti sfacciati e provocatori» spiega Sharif Ravazi, fondatore di Behpooshi, cioè la prima e più nota agenzia di modelle di Teheran. L’Iran è stato investito da un boom di chirurgia estetica ma Ravazi vuole riappropriarsi degli originali canoni estetici iraniani e per questo seleziona «giovani acqua e sapone, vicine alle persone comuni». «Se in altri paesi l’industria di moda ha solo a che fare con i vestiti e l’estetica, in Iran può cambiare il ruolo delle giovani nella società» spiega Ravazi.

Nonostante le rigide regole di comportamento cui iraniani e iraniane devono adattarsi, nella storia iraniana le vesti sgargianti non mancano, come si vede nei capi tradizionali di città come Kashan o Esfahan. «Perfino il Profeta Maometto si diceva indossasse calzature gialle – sbotta Ravazi – ma chissà perché il nero oggi dilaga ovunque.»

Come in ogni altro aspetto della vita iraniana, anche nella moda c’è una netta linea di demarcazione tra sfera pubblica, dove manichini inespressivi coperti dalla testa ai piedisfilano per un pubblico misto di donne e uomini, e quella privata, con indossatrici senza velo, abiti scollati e pose sensuali, di fronte a un’audience di sole donne al riparo da sguardi indiscreti.

Lo sforzo per far emergere l’identità iraniana anche nella moda è apprezzabile, ma le aspiranti indossatrici non hanno dubbi: «Tra show pubblici e privati preferisco di gran lunga i secondi – dice Sarah Jinoussi -. Lì posso esprimermi liberamente e sentirmi… una vera modella.»

Iran, stop sanzioni: i riflessi geopolitici ed economici

Con il sì del Consiglio di Sicurezza Onu, finisce l’embargo imposto a Teheran. Per il governo statunitense è “l’unica chance per fermare il piano nucleare”, mentre per l’Europa e l’Italia si apre un’importante opzione commerciale.

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Grazie alla risoluzione Onu del 20 luglio, il Consiglio di Sicurezza ha detto sì all’accordo e alla fine delle sanzioni contro l’Iran decise dalla stessa assemblea nel 2006. Via libera dunque al patto siglato tra il 5+1 e Teheran a Vienna il 14 luglio scorso. Il documento entrerà in vigore non prima di 90 giorni.

Un accordo storico per l’Occidente dal punto di vista geopolitico ed economico. Geopolitico in particolar modo per gli Stati Uniti, come ricordato il 23 luglio dal segretario di Stato Kerry: “Non potevamo di certo aspettarci la capitolazione dell’Iran – ha riferito al Congresso -. Ma era l’opzione migliore. Spero che il Congresso (rivolgendosi al Partito Repubblicano, ndr) approvi perché questa è l’unica chance per fermare il piano nucleare ed evitare il rischio di uno scontro militare”, ha poi concluso.

Ma oltre agli aspetti geopolitici e strategici nel mondo arabo, gli sbocchi sono anche commerciali. Il vicepresidente esecutivo e direttore generale di Saras (azienda italiana di raffinazione del petrolio) Dario Scaffardi, in un summit su business e finanza, oltre a sottolineare i benefici che il calo del prezzo del petrolio ha già portato sul mercato internazionale, ha riferito che, a seguito della fine dell’embargo, il proprio gruppo è stato contattato dall’Iran, tornatoad essere attore protagonista del mercato di greggio internazionale. Come già prospettato dopo l’accordo di Vienna, il ritorno alla produzione di greggio da parte di Teheran “potrà portare un milione di barili di greggio al giorno sul mercato una volta tolte le sanzioni. Con la possibilità di aggiungere altri 0,5-1 milione di barili abbastanza velocemente”, ha affermato il manager dell’industria della famiglia Moratti.

Sul fronte italiano, inoltre, i prossimi 4 e 5 agosto, il ministro degli Affari Esteri Gentiloni e il titolare dello Sviluppo Economico Federica Guidi si recheranno in Iran assieme ai rappresentati dei più grandi gruppi industriali italiani. Il fine è quello di mettere nero su bianco un interscambio commerciale significativo con Teheran. Infatti, prima della rivoluzione del 1979, l’Europa era il primo partner in termini di import-export dell’ex Persia. Primato che, al momento, dagli anni’90 appartiene alla Russia, la quale, oltre ai rapporti geopolitici di amicizia, ha effettuato importanti investimenti nei settori petrolifero e gasifero del Paese mediante la società Gazprom.

 

Giacomo Pratali

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Accordo nucleare Iran: i dubbi e i sospiri di sollievo

A Vienna, Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Cina, Russia firmano lo storico accordo con l’Iran. L’utilizzo per scopi civili e non militari dell’uranio arricchito da parte di Teheran fa da contraltare alla fine delle sanzioni e dell’embargo. Le reazioni di Israele e dell’Arabia Saudita, nonché le critiche provenienti dalla stampa statunitense, lasciano perplessità sui futuri sviluppi geopolitici nel Medio Oriente.

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Dopo 16 giorni di negoziati, ieri a Vienna è stata raggiunta la storica intesa tra Usa, Ue, Gran Bretagna Russia e Cina, e l’Iran sul programma nucleare. Un accordo di portata storica, come definito dalle parti in causa. Un’intesa che da una parte punta alla riduzione della produzione di uranio di Teheran per i prossimi 10 anni. Dall’altra, pone fine alle sanzioni e all’embargo per quanto riguarda il commercio. Sebbene ponga, in modo formale, fine a decenni di conflitto con l’Occidente, il cui apice c’è stato durante l’amministrazione di George W. Bush, le reazioni negative da parte di Israele e le contraddizioni con le alleanze di Washington con partner del Medio Oriente, Arabia Saudita su tutti, suonano come un campanello d’allarme per la comunità internazionale.

Prendendo spunto dall’intesa dello scorso 3 aprile, l’accordo messo nero su bianco dal ‘5+1’ consta di quattro punti fondamentale. Il taglio del 98% delle scorte di uranio arricchito. L’utilizzo delle centrifughe ridotto a due terzi. La possibilità, non automatica, degli ispettori di Alea di effettuare ispezioni presso gli impianti nucleari iraniani, dietro il consenso del tribunale arbitrario formato dagli stessi Paesi che hanno sottoscritto l’accordo. La graduale riduzione dell’embargo sulle armi entro i prossimi cinque anni. La risoluzione Onu in materia è prevista la prossima settimana, quando si riunirà il Consiglio di Sicurezza.

Punti che mirano al nocciolo della disputa tra Usa e Iran: l’utilizzo dell’uranio arricchito per usi civili e non militari. Ma che hanno anche l’intento di creare un corridoio diplomatico privilegiato con il più grande Stato sciita del Medio Oriente, capace di sostenere il regime di Assad in Siria o gli Hezbollah in Libano e determinante nella riconquista dei territori nord-occidentali iracheni, finiti sotto l’ombra del Califfato.

In più, questa intesa consente di aprire un vaso di pandora enorme dal punto di vista del commercio. Basti pensare al petrolio. L’Iran è il quarto produttore al mondo e, con la fine dell’embargo, è pronto ad aumentare la produzione di greggio, con una conseguente diminuzione del prezzo al barile sui mercati internazionali. Inoltre, fino agli anni Settanta, l’Europa era il primo mercato estero per Teheran.

Sono questi aspetti geopolitici ed economici a spingere le dichiarazioni entusiaste dei protagonisti dell’accordo di Vienna. Il presidente Usa Obama ha affermato che “grazie all’accordo, la comunità internazionale potrà verificare che l’Iran non sviluppi l’arma atomica. È un accordo che non si basa sulla fiducia ma sulla verifica”. E si è detto pronto a porre il veto, presso il Congresso, nel caso in cui i repubblicani “si opponessero all’attuazione della legge”, ha ammonito il capo della Casa Bianca.

“Penso che questo sia un momento storico: l’accordo non è perfetto ma è il migliore che potevamo raggiungere”, ha affermato il ministro degli Esteri iraniano Zarif. Mentre il presidente Rohani ha incalzato dicendo che “nessuno può dire che l’Iran si è arreso. L’accordo è una vittoria legale, tecnica e politica per l’Iran, che non sarà più considerato una minaccia mondiale”.

Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, parte attiva dei negoziati, parla di “nuovo capitolo nelle relazioni internazionali”, mentre per il presidente russo Putin “il mondo tira un grosso sospiro di sollievo”.

Il coro, però, non è stato unanime presso tutta la comunità internazionale. Come prevedibile, la reazione di Israele non si è fatta attendere: “ È un errore di portata storica – ha tuonato il presidente Netanyahu al telefono con Obama-. Questo accordo minaccia la sicurezza di Israele e il mondo intero. Quanto avete concordato con l’Iran gli consentirà di avere armi nucleari entro 10-15 anni se rispetteranno l’accordo. Altrimenti, anche in minor tempo”. Mentre un funzionario del governo dell’Arabia Saudita denuncia la possibilità che l’Iran possa “devastare la regione”.

Le contraddizioni in seno all’accordo, come la contemporanea alleanza degli Stati Uniti con la coalizione saudita nello Yemen contro gli Houtii (fazione sciita appoggiata da Teheran), portano dietro di sè una strategia di ben più ampio respiro. La chance data dagli Stati Uniti e i suoi alleati più che all’Iran è diretta alla società civile iraniana. L’apertura verso l’esterno e un’auspicabile e sempre più progressiva responsabilizzazione della classe politica dirigente, potrebbe portare al ritorno al dialogo e alla distensione tra gli sciiti e i sunniti del Medio Oriente. Questo nuovo equilibrio potrebbe essere un’arma efficace contro l’espansionismo dello Stato Islamico.

I critici sull’accordo non mancano, come detto. Negli Stati Uniti, aldilà del Partito Repubblicano, è stata parte della stampa stessa a sollevare ben più di un’ombra. Sul Wall Street Journal, ad esempio, l’editoriale di Bret Stephens tuona dicendo che “l’accordo fa acqua da tutte le parti” e che difficilmente la politica estera iraniana cambierà. Anzi, l’intesa di Vienna potrebbe rivelarsi un boomerang per gli Stati Uniti.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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