GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Iran - page 2

Sull’Iran USA e UE sono destinati alla rottura?

AMERICHE/EUROPA/SICUREZZA di

Il dossier iraniano dividerà il fronte trans-atlantico. Le dichiarazioni dei leader europei e dell’Alto Rappresentante seguite alla decisione del Presidente americano Donald Trump di interrompere la certificazione presso il Congresso del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), dimostrano una divaricazione con Washington già in atto ma che rischia di consumarsi più aspramente quando (verosimilmente) il Congresso boccerà definitivamente l’accordo. Le posizioni emerse sembrano ispirarsi, a monte, a concezioni di sicurezza e stabilità divenute quasi antitetiche oltre che ad interessi nazionali e collettivi diversi.

La posizione di Donald Trump (e del Gabinetto?) sembra improntata ad una visione circoscritta della sicurezza e della stabilità del Medio Oriente, come assenza di minacce e rischi per gli interessi di Washington e dei (pochi) alleati regionali. Una concezione “negativa” della sicurezza, un “non facere”.

La conferenza stampa del Presidente Donald Trump sul cambio di strategia in Iran:

 

La posizione di Federica Mogherini e, in sfumature diverse, dei leader europei confermerebbe l’adesione ad una visione integrata (integrated approach) interessata alla promozione di stabilità, sicurezza, prosperità economica, salvaguardia dei diritti umani, in cui ruolo fondamentale è rivestito dalla negoziazione multilaterale. Una concezione “positiva” della sicurezza.

La conferenza stampa dell’Alto Rappresentante dell’UE Federica Mogherini sull’Iran Deal:

Oggi il punto di disaccordo è, sostanzialmente, questo: Donald Trump propone la rottamazione dell’accordo perchè lo considera non esaustivo e svantaggioso non annoverando misure di contro-proliferazione missilistica e di altri sistemi d’arma. Gli Europei, pur condividendone le preoccupazioni, non ritengono essenziale la dismissione del JCPOA che è ritenuto un valido punto di partenza per  più ampi negoziati multilaterali che affrontino i nodi irrisolti.

Dal canto suo, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), deputata alla verifica del rispetto dell’accordo, ha certificato che Teheran ha onorato tutte le condizioni ed è pienamente in regola con il JCPOA.

Negli ultimi 2 anni, l’Unione Europea si è fatta promotrice, inoltre, tramite la “Iran Task Force” di una crescente cooperazione con Teheran su un vasto numero di materie. Le frizioni, , chiaramente rimangono preponderanti: il supporto iraniano delle milizie Houthi in Yemen e di Hezbollah in Libano, il massiccio programma missilistico di Teheran, le posizioni su Israele, le violazioni di diritti umani e civili, sono solo alcuni dei punti di contrasto. Non è un caso, infatti, che le sanzioni UE all’Iran per le violazioni dei diritti umani siano rimaste in vigore nonostante le proteste di Teheran.

Teheran è, paradossalmente, l’unica che potrebbe guadagnare qualcosa da questa frattura: i top officials iraniani, infatti, non hanno mai nascosto che un fronte atlantico fiaccato sarebbe un vantaggio per gli interessi regionali dell’Iran. In caso di uscita americana dall’accordo, l’Iran potrebbe continuare a supportare l’accordo avvicinando UE e Russia oppure dichiararne la fine per sopraggiunta violazione da parte degli USA che, verosimilmente, riapplicherebbero il set di sanzioni contro Teheran a cui avevano rinunciato con il JCPOA.

In entrambi i casi, l’Unione e gli Stati membri saranno obbligati a prendere decisioni fondamentali sull’Iran e sul rapporto con gli USA nel settore medio-orientale, che potrebbero segnare un punto di svolta della Politica Estera e di Sicurezza Comune. Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha in programma una visita a Washington nei primi giorni di novembre. Cercherà di ricucire la ferita? Quale sarà la risposta del Presidente americano?

Lorenzo Termine

Bookreporter, in questa puntata parliamo di Iran

BOOKREPORTER di

In questa puntata di Bookreporter con Laura, Alessandro e Aurora, ospite Esamil Mohades, autore iraniano, originario di Teheran e da sempre attivista politico per la difesa dei diritti umani con il quale parleremo del suo libro ” Una voce in capitolo”. Conosceremo meglio la figura del presidente Hassan Rouhani e per il cinema racconteremo del premio oscar “Argo” film di Ben Affleck del 2012. Buon ascolto!

 

Trump e l’Europa, prove generali dello scontro?

AMERICHE/EUROPA/POLITICA/SICUREZZA di

Rilevata l’importanza dell’asse Francia-Germania all’interno dell’Unione Europea (https://goo.gl/fU4azs) e quanto dipenderà soprattutto da esso lo sviluppo dell’integrazione in materia di Difesa e Sicurezza, è necessario sottolineare che la relazione tra l’UE e il partner transatlantico continua e continuerà ad influenzare i progressi comunitari in ambito di “hard policies” sia agendo che non agendo.

Lungi dal voler ridurre il rapporto tra NATO e Difesa UE ad una mera compensazione per cui se la NATO difetta, gli alleati europei danno nuovo impulso all’integrazione UE di Difesa e Sicurezza, e viceversa, è, però, da notare come negli ultimi mesi la retorica europea abbia evidenziato la necessità di maggiore integrazione UE proprio a causa di una sopraggiunta inaffidabilità del partner americano (in particolare si rimanda alla dichiarazione della Cancelliera Merkel “The times in which we could rely fully on others — they are somewhat over”, a margine del summit NATO a Bruxelles).

Neanche dopo 5 mesi dal summit NATO di Bruxelles, il rapporto UE-NATO sembra essere messo alla prova su un dossier scottante, l’Iran. Durante la conferenza stampa del 13 ottobre, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato una nuova strategia USA per l’Iran che si fonderà su:

  1. Un lavoro congiunto con gli alleati per lottare contro il ruolo destabilizzante di Teheran.
  2. Un nuovo regime di sanzioni contro il paese.
  3. Nuove azioni per contrastare non più solo la corsa al nucleare, ma la proliferazione missilistica e di armi che possano minacciare la regione, il commercio internazionale e la libertà di navigazione.
  4. Un rinnovato impegno contro ogni possibile percorso iraniano verso il nucleare.

Concludendo, il Presidente Trump ha annunciato che non certificherà più l’effettivo rispetto dell’accordo da parte iraniana presso il Congresso, de facto delegando ad esso la stesura di un nuovo set di requisiti per l’Iran che comprenda anche misure di contro-proliferazione missilistica. Nel caso in cui il Congresso non riuscisse nel suo intento, il Presidente si riserva di “terminare l’accordo”.

Quello che Trump sembra proporre più che una nuova strategia sembra un ritorno all’approccio pre-2015 e in maniera neanche troppo radicale. Le uniche due manovre dichiarate, nuove sanzioni contro le Guardie della Rivoluzione Islamica e la non-certificazione, non implicano l’uscita degli USA dall’accordo. Ci si chiede se, quindi, le discussioni in Congresso siano un pro-forma e il Partito Repubblicano, facendo fallire qualsiasi compromesso, voglia appoggiare il Presidente (che ha criticato aspramente l’Iran Deal) permettendogli, così, di tirare fuori gli Stati Uniti dall’accordo, oppure se, effettivamente, Trump abbia delegato al Congresso la gestione di un dossier così importante come quello dell’accordo iraniano.

Intanto, le reazioni dei leader europei non si sono fatte attendere. Emmanuel Macron, Theresa May e Angela Merkel hanno preso parola congiuntamente con un comunicato stampa che recita:

We stand committed to the JCPoA and its full implementation by all sides. Preserving the JCPoA is in our shared national security interest. […] Therefore, we encourage the US Administration and Congress to consider the implications to the security of the US and its allies before taking any steps that might undermine the JCPoA, such as re-imposing sanctions on Iran lifted under the agreement.”

Simili le parole di Paolo Gentiloni:

L’Italia […] si unisce alla preoccupazione espressa dai Capi di Stato e di Governo di Francia, Germania e Regno Unito per le possibili conseguenze. Preservare l’accordo, unanimemente fatto proprio dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 2231, corrisponde a interessi di sicurezza nazionali condivisi.”

Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, in maniera più dura ha dichiarato che:

We cannot afford as the international community to dismantle a nuclear agreement that is working. This deal is not a bilateral agreement […] The international community, and the European Union with it, has clearly indicated that the deal is, and will, continue to be in place.”

Stiamo osservando una cristallizzazione delle posizioni transatlantiche sull’Iran che porterà a risultati incerti per quanto riguarda la tenuta dell’accordo. Quello che è chiaro è che lo scontro sull’accordo iraniano è stato semplicemente ritardato e che, quando sorgerà, avrà delle conseguenze anche sul ruolo della NATO in Europa.

Guarda anche “Sull’Iran, tutti contro Trump – Infografica

Lorenzo Termine

l’Isis attacca Teheran

Varie di

La coincidenza tra la decisione dei Sauditi e dei loro principali alleati di rompere le relazioni con il Qatar per un suo presunto avvicinamento all’Iran e i due attacchi terroristici avvenuti a Teheran ha spinto alcuni commentatori a legare i due fatti come conseguenza l’uno dell’altro. L’abbinamento è tuttavia particolarmente improbabile poiché gli attentati contro il mausoleo di Khomeini e il Majlis (Parlamento iraniano) sono stati così ben coordinati tra loro e tanto articolati nell’esecuzione da escludere che possano essere stati organizzati in pochi giorni. L’uso di fucili d’assalto, la scelta dei luoghi e del momento, la trasmissione via video in diretta degli avvenimenti da parte degli assalitori lasciano pensare a qualcosa in preparazione da qualche tempo, ben prima che Trump pianificasse il suo viaggio in Arabia Saudita e rilanciasse l’”asse” contro l’Iran.

Nonostante si ripeta continuamente che è la prima volta che la Repubblica degli Ayatollah sia oggetto di attacchi terroristici, ciò non corrisponde a verità. Seppur da alcuni anni non si registrassero eventi simili, episodi terroristici non sono nuovi in alcune parti del Paese e specialmente nel Kurdistan iraniano o e nella provincia del Sistan-Belucistan. L’ultimo attentato avvenuto nella capitale risale al 2001 e fu opera di un gruppo terroristico interno, i Mujahiddin- e- Khalq (conosciuti anche come Mujahiddin del Popolo facenti capo a Marjam Rajavi, autoesiliatasi in Francia).

Costoro sono un’organizzazione di militanti d’ispirazione islamico-comunista che partecipò alla rivoluzione contro lo Scià, ma fu poi emarginato da Khomeini e si dette alla macchia riunendo poi la maggior parte dei propri militanti nel vicino Iraq. Oggi, i suoi seguaci rimasti nel Paese sono pochi e la popolazione iraniana li disprezza come traditori per la collaborazione da loro data a Saddam Hussein durante gli otto anni di guerra tra i due vicini. Pur tuttavia sono ancora attivi, con una rete segreta di seguaci evidentemente ben introdotta in posti chiave dello Stato, tanto da essere stati loro a rendere noto alla comunità internazionale l’esistenza del progetto nucleare iraniano e provocare, di conseguenza, le reazioni che portarono dapprima alle sanzioni e poi all’accordo dei 5+1 sottoscritto durante la Presidenza Obama.

Anche nel 2008 Teheran fu colpita da un atto terrorista con un’esplosione in un sobborgo della città che causò almeno quindici morti. In quel caso non ci furono rivendicazioni e mai si scoprì la natura degli attentatori, ma i sospetti furono indirizzati verso Israele che avrebbe colpito un convoglio supposto trasportare armi destinate a Hezbollah libanese.

L’ISIS è un naturale nemico dell’Iran e il loro confronto diretto è sui campi di battaglia in Siria e Iraq ove, almeno ufficialmente, sono i Pasdaran e non l’esercito ufficiale a combattere. Per quanto le differenze religiose siano un puro pretesto per scopi più prettamente politici, la ragione formale dell’ostilità’ tra i due è l’”apostasia” del regime sciita degli Ayatollah contrapposto alla “purezza” sunnita del “califfato”. Agenti dello “Stato Islamico” avevano già cercato di agire nel passato contro il regime iraniano, ma un loro “emiro” nel Paese era stato identificato e ucciso mentre undici possibili terroristi erano stati arrestati nel settembre 2016 mentre facevano incetta di armi ed esplosivi, forse proprio per realizzare quanto poi verificatosi lo scorso 7 giugno. Nel marzo di quest’anno i media dell’ISIS diffusero un video in lingua farsi nel quale invitavano i sunniti iraniani (il Paese, seppur a maggioranza sciita, comprende minoranze di altre religioni tra cui sunniti, cristiani, ebrei e zoroastriani) a ribellarsi e colpire organi governativi.

Occorre qui aggiungere che la stragrande maggioranza della popolazione iraniana, pur divisa su varie etnie, nutre un forte sentimento patriottico d’identità nazionale e ogni tentativo esterno di fomentare divisioni tra i vari gruppi è sinora caduto nel vuoto.

L’attacco delle scorse settimane ha avuto il duplice effetto di rinsaldare i legami interni alla popolazione comune ma di accentuare le divisioni tra conservatori e moderati. Nonostante i terroristi fossero evidentemente seguaci dello Stato Islamico, il Governo del Presidente Rohani appena rieletto, per tacitare le proprie opposizioni, dovrà alzare i toni contro i vicini nemici sauditi e contro gli Stati Uniti. Infatti, la prima reazione di molti deputati, nonostante il Presidente del Parlamento Larjani cercasse di minimizzare, è stata il cantare “Morte all’America”.

Le Guardie Rivoluzionarie, uscite pesantemente sconfitte dalle ultime consultazioni elettorali, troveranno in questi attentati la scusa per rilanciare contro Rohani le accuse di troppa accondiscendenza verso i “nemici della rivoluzione”, per aver sottoscritto un patto che riduce la sovranità del Paese e aver così lasciato spazi ad azioni terroriste come quelle capitate. Poco importa che la sicurezza del Paese e i servizi d’informazione dipendano da loro e che quindi proprio ai Pasdaran andrebbe imputata l’incapacità di prevenire quei sanguinosi eventi.

La necessità di rispondere visibilmente all’attacco subito obbligherà il Governo ad aumentare l’impegno in Siria e in Iraq contro lo Stato Islamico e per farlo non potrà che appoggiarsi agli stessi Pasdaran, ridando loro uno spazio politico che sembrava in caduta libera. Che questo, cioè la maggior conflittualità politica interna, fosse uno degli obiettivi dei terroristi è probabile. Così com’è certo che il simbolismo dei luoghi scelti per gli attentati, la tomba del fondatore dell’attuale Repubblica e l’organo costituzionale più rappresentativo, servivano a mostrare la vulnerabilità dello Stato e rinfrancare le schiere dei guerriglieri del “califfato”demoralizzati dalle continue sconfitte sul campo di battaglia.

Indagini CAR svelano traffico di armi tra Iran e Yemen

Medio oriente – Africa di

Secondo il rapporto pubblicato il 29 novembre scorso dal Conflict Armament Research (CAR), istituto di ricerca britannico finanziato prevalentemente dall’Unione Europea, risulta evidente il ruolo dell’Iran nell’approvvigionamento di armi ai ribelli Houthi in Yemen. L’analisi si basa sulla confisca di armi da imbarcazioni in transito nel mare arabico condotta nei mesi di febbraio e marzo dalla nave da guerra australiana HMAS Darwin e dalla fregata francese FS Provence, entrambe parte della Joint International Task Force operativa nel Corno d’Africa in azione antiterroristica e antipirateria. La task force agisce indipendentemente e separatamente dalla coalizione militare a guida saudita operativa nelle stesse acque.

Secondo i dati riportati, la HMAS Darwin avrebbe sequestrato più di 2.000 armi, tra cui mitragliatrici modello AK e 100 lanciarazzi di fabbricazione iraniana da un sambuco diretto verso la Somalia. I sequestri della fregata francese includono altri 2.000 mitragliatori, anche questi con caratteristiche tipiche della produzione iraniana e 64 fucili di precisione Hoshdar-M, made in Iran. Sono stati rinvenuti, inoltre, nove missili guidati anticarro Kornet, di produzione russa. Un ulteriore Kornet intercettato in Yemen dalle forze della coalizione saudita apparterrebbe alla stessa serie di produzione di quelli confiscati dalla FS Provence.

Il rapporto cita, inoltre, il sequestro da parte della USS Sirocco -guardacoste della marina militare statunitense- di mitragliatrici AK, lanciarazzi e mitra a bordo di un altro sambuco in transito nella regione. A detta statunitense, le armi proverrebbero dall’Iran e sarebbero destinate allo Yemen. Tuttavia, ad oggi, gli Stati Uniti non hanno condiviso informazioni aggiuntive con il CAR.

Gli armamenti confiscati a bordo sembrerebbero coincidere con quelli sequestrati ai ribelli Houthi in Yemen. Incrociando numeri di serie e modello delle armi, il CAR ha sottolineato tre conclusioni principali riguardo l’origine delle stesse.

In primis, i lanciamissili RPG di produzione iraniana -facilmente identificabili dal colore verde olivastro delle componenti, la forma cilindrica dell’impugnatura posteriore e il numero di serie giallo – sono stati ritrovati a bordo di numerosi vasselli, tra cui quelli intercettati dalla HMAS Darwin e dalla Sirocco. Secondariamente, i fucili di precisione potrebbero provenire dalle riserve iraniane. Infatti, un così significativo numero di armi con numeri in sequenza fa pensare ad uno stock proveniente dalle riserve nazionali più che da molteplici fonti non statali. Infine, l’Iran potrebbe aver fornito missili guidati anticarro sia di produzione propria che russa.

Considerando la quantità di armi ritrovate a bordo, molte delle quali di provenienza iraniana, gli investigatori parlano, dunque, dell’esistenza di una “pipeline” tra Iran e Yemen. I carichi di armi sarebbero inizialmente destinati ai mercati locali di armi della Somalia (nella regione settentrionale del Puntland) per poi continuare il tragitto verso lo Yemen, dove andrebbero ad armare i ribelli Houthi, in lotta da ormai 20 mesi contro il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi.

Il coinvolgimento dell’Iran in un simile traffico rappresenta -sostiene il CAR- una grave violazione dell’embargo posto dalle Nazioni Unite sul trasferimento di armi ai ribelli. In particolar modo le risoluzioni del CdS (Consiglio di Sicurezza) n° 2140 (febbraio 2014), n° 2216 (aprile 2015), e n° 2266 (febbraio 2016), che invitano i paesi membri ad adottare tutte le misure necessarie per prevenire questo tipo di trasferimenti.

Non sarebbe il primo episodio di violazione delle direttive del CdS da parte della Repubblica Islamica. Il 23 gennaio 2013, infatti, la USS Farragut intercetta un carico di missili Katyusha da 122 mm, sistemi radar, missili antiaereo cinesi QW-1M, and 2.6 tonnellate di esplosivo RDX a bordo della nave Jihan 1, al largo delle coste yemenita. L’episodio violava l’allora più restrittiva UNSCR 1747 (2007), secondo la quale “Iran shall not supply, sell, or transfer directly or indirectly from its territory or by its nationals or using its flag vessels or aircraft any arms or related materiel.”

Come già avvenuto in passato, l’Iran ha nuovamente negato il proprio coinvolgimento in queste attività, sottolineando come il proprio sostegno ai ribelli Houthi sia meramente di natura politico-diplomatica.

Tuttavia, fonti di diversi porti somali confermano che le armi arrivano da grandi imbarcazioni provenienti dall’Iran che o giungono fino al molo o ancorano a largo delle coste, dove vengono raggiunte da barche più piccole che trasportano, poi, parte del carico illecito ad altri porti della regione. Il resto prosegue verso lo Yemen, in particolare il porto di Ash Shihr, a est di Mukalla, dove si camuffano nell’intenso traffico marittimo che caratterizza quest’area. Ulteriore elemento a sostegno delle ipotesi del CAR è la natura stessa delle armi ritrovate, poco comuni nel mercato di armi somalo.

In conclusione, pare evidente il sostegno anche militare dell’Iran ai ribelli Houthi, nonostante i diversi appelli e avvertimenti ricevuti sia in sede ONU che in altri forum regionali. Continueranno le operazioni di pattugliamento nelle acque del Corno d’Africa con lo scopo di ostacolare l’approvvigionamento di armi ai ribelli, alimentando ulteriormente la già critica situazione in Yemen. Sarebbe, tuttavia, auspicabile per il futuro un maggior coordinamento e una più intensa condivisione delle informazioni da parte dei vari attori operativi in campo, in modo da poter avere una visione più completa dei traffici iraniani e poter così rispondere in modo più efficace alla minaccia che gli stessi rappresentano per la stabilità della regione.

 

Paola Fratantoni

Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000

Iran: nessuna negoziazione sulla difesa

Difesa/Medio oriente – Africa di

Chiunque pensasse che l’Iran, dopo la firma dell’accordo sul nucleare e il ritiro di alcune sanzioni internazionali, si sarebbe trasformato in un docile alleato pronto a sottostare ai desideri delle potenze occidentali, probabilmente ha fatto male i suoi conti. Ciò che stiamo vedendo nelle ultime settimane, invece, è una nazione decisa e resoluta, votata a riprendersi la scena internazionale e a perseguire i propri interessi, no matter what!

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Riflettori puntati sulla Repubblica Islamica in particolare per quanto riguarda i recenti test di missili balistici, che hanno destato nuovamente timori e preoccupazioni tra i paesi occidentali e le monarchie del Golfo. Il mese scorso, infatti, durante un’esercitazione militare –nome in codice Eqtedar-e-Velayet-, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) ha testato due missili balistici modello Qadr, il Qadr-H e il Qadr-F. Entrambi i missili sono stati lanciati dai massicci montuosi situati nella regione settentrionale dell’Iran, le East Alborz Mountains, colpendo obiettivi collocati lungo le coste sudorientali del paese. Secondo i report, i missili avrebbero una gittata rispettivamente di 1.700 e 2.000 km.

Non si è fatta attendere la reazione internazionale, ancora una volta profondamente divisa. Da un lato la condanna di Stati Uniti e Europa, che hanno visto i test come una violazione della risoluzione ONU 2231; dall’altro la Russia, che, invece, sostiene come le esercitazioni condotte non violino in alcun modo i dettami del documento. È fallito, infatti, il tentativo delle potenze occidentali di sollevare, proprio in sede ONU, azioni contro l’Iran. Sembra, inoltre, che Washington stessa abbia fatto marcia indietro sulle prime dichiarazioni circa i test, confermando che questi non rappresentino nei fatti alcuna infrazione alla risoluzione.

Stando al testo di quest’ultima, infatti, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Il problema nasce qualora tali tecnologie –come Israele sostiene- siano potenzialmente in grado di trasportare testate nucleari. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ribadiscono come il paese non sia attualmente dotato di missili in grado di trasportare tali testate.

Diversi sono gli esponenti iraniani che si sono espressi  sull’argomento. Il Segretario dell’Expediency Council (EC) Mohsen Rezaei ha ribadito che il programma missilistico iraniano è esclusivamente a scopo deterrente e rientra a pieno titolo nel diritto all’autodifesa del paese in caso di attacco armato. Secondo il Segretario è facilmente comprensibile come il disarmo non sia una via percorribile per l’Iran: qualora si abbandonasse l’investimento nella difesa, infatti, il paese diventerebbe facilmente attaccabile e sono numerosi i nemici che ne potrebbero approfittare.

Più rigida la posizione del generale Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aeree delle IRGC. La Repubblica Islamica continuerà a potenziare le sue capacità difensive e missilistiche, che servono a garantire la sicurezza del paese e a dissuadere i nemici dall’attaccare l’Iran. Sono proprio questi nemici ad aver cercato di minare il sistema di difesa iraniano per più di 30 anni e le stesse sanzioni approvate dagli USA all’indomani dei test ne sono una costante conferma. Le capacità missilistiche sono una questione di sicurezza nazionale e l’Iran mette in chiaro come non vi sia spazio per negoziazione o compromesso. “Nessuna persona saggia negozierebbe sulla sicurezza del proprio paese” ha affermato il Vice Ministro degli Esteri per gli Affari Legali ed Internazionali Abbas Araqchi.

È chiaro che simili dichiarazioni possano destare particolari timori specialmente tra paesi come Israele e le monarchie del Golfo. Il primo, infatti, è nel mirino di Teheran sin dai tempi dell’Ayatollah Khomeini e la stessa retorica dell’annientamento del paese ebraico viene spesso riproposta. I paesi del Golfo non vedono di buon occhio la crescita (economica e militare) di un paese che non solo mira all’egemonia della regione, ma supporta ed alimenta diversi gruppi fondamentalisti, fattori destabilizzanti della sicurezza regionale. Tensioni e attriti sono altamente probabili nei prossimi mesi: resta, infatti, da vedere come i vari stati arabi risponderanno ad un Iran poco incline alla cooperazione e propenso a raggiungere i propri obiettivi nazionali, le ripercussioni che ciò può avere nelle relazioni tra i vari attori ed il ruolo che potenze come Stati Uniti o Russia possono giocare nel favorire o ostacolare questi rapporti.

 

Paola Fratantoni

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Al via l’offensiva economica di Teheran

L’accordo sul nucleare, reso esecutivo nel mese di gennaio, ha visto terminare molte delle sanzioni economiche che da decenni gravavano sulla Repubblica Islamica, decretando così il suo ufficiale reinserimento nella competizione economica internazionale. Tuttavia, come riferisce il Consiglio per il Discernimento, l’ostilità di molti paesi è ancora viva, così come la volontà di frenare la ripresa economica del paese. Parallelamente, la stessa fiducia dell’Iran nei confronti, ad esempio, di alcuni partner europei, dovrà essere riconquistata gradatamente. In altre parole, la scelta di Teheran verte ancora sull’ormai decennale strategia dell’economia di resistenza, che ha insegnato al paese a migliorare lo sfruttamento delle risorse interne e minimizzare la vulnerabilità e i danni derivanti dalle misure sanzionatorie. È proprio questa politica, infatti, che ha permesso all’economia iraniana di sopravvivere a decenni di isolamento, rimanendo (in termini di PIL) la seconda del Medio Oriente e la settima in Asia.

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L’apertura verso l’estero sarà, dunque, molto mirata: l’obiettivo è potenziare i settori chiave, continuando a sfruttare il patrimonio interno che ad oggi ha garantito buoni frutti, come ad esempio le infrastrutture industriali e l’industria petrolchimica. Priorità è data, perciò, agli investimenti dall’estero, all’aumento delle esportazioni di prodotti non petroliferi e al come ovviare al problema delle riserve di valuta estera ancora congelate dalle sanzioni. Nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla lotta all’ISIS, Teheran inizia la propria “offensiva” economica, gettando le basi per intese commerciali soprattutto con paesi asiatici e africani.

Per quanto concerne l’import-export, Iran e Russia stanno studiando la creazione di una zona di libero scambio, come ha affermato il ministro dell’Energia russo Alexsandr Novak. La prima bozza del progetto indica prodotti metallici e chimici come oggetto principale dell’export russo verso l’Iran; dall’Iran, invece, arriverebbero rifornimenti di frutta e verdure per un ammontare annuo di un miliardo di dollari, una crescita rilevante rispetto ai circa 194 milioni attuali.

Accordi significativi anche con il Vietnam. I due paesi mirano a incrementare il volume dei rapporti commerciali da 350 milioni a 2 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, con progetti in diversi settori, dall’agricoltura, al turismo, all’energia alle innovazioni tecnologiche. Al fine di favorire la cooperazione, è stato siglato anche un Memorandum of Understanding tra le rispettive banche centrali. Trattative in corso anche con la Turchia di Erdogan, la Costa d’Avorio e diversi paesi africani, che si dichiarano propensi a potenziare i rapporti economici con la Repubblica Islamica. I progressi compiuti da quest’ultima nel settore energetico, sanitario, tecnologico e delle infrastrutture la rende, infatti, un partner ideale per soddisfare le diverse esigenze del continente nero.

Per quanto riguarda il settore energetico, due i progetti principali in ballo. Il primo riguarda la costruzione di un gasdotto sottomarino che colleghi l’Iran all’India: 1.400 km di infrastruttura che permetterà di aggirare la zona economica esclusiva pakistana, portando in India fino a 31,5 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento importante, circa 4,5 miliardi di dollari, che conferma –e premia- le buone relazioni mantenute tra le due nazioni anche durante il regime delle sanzioni. La seconda novità riguarda una collaborazione scientifica e tecnologica tra l’Elettra Sincrotone di Trieste e l’Institute for Research in Fundamental Sciences di Teheran. Punti nevralgici la formazione del personale tecnico scientifico iraniano e la progettazione congiunta di una nuova linea di luce, da impiegare sia nello studio di fenomeni chimici e biologici, ma anche nel settore industriale.

Dal Pakistan arriva una svolta importante nel settore bancario. Essendo alcune sanzioni ancora vigenti, il pagamento in dollari dei prodotti importati dall’Iran non risulta ancora fattibile. Da qui la decisione da parte degli imprenditori pakistani di aprire lettere di credito (LC) in euro, anziché nella valuta americana. In questo modo, non saranno più le banche americane ad essere le intermediare, bensì quelle europee, che non avranno dunque motivo di non autorizzare il pagamento.

Sembra, dunque, che l’Iran abbia una chiara strategia economica in mente. Da un lato puntare sulle ricchezze interne, come ad esempio il petrolio – l’Iran inizierà a collaborare con gli altri paesi produttori circa il congelamento della produzione soltanto quando l’output iraniano raggiungerà la quota di 4 milioni di barili al giorno; dall’altro, potenziare settori economici chiave, intensificando i rapporti con le medie e grandi potenze asiatiche, privilegiandole sui paesi del Medio Oriente ed occidentali, segno evidente che la diffidenza nei confronti di chi più ha beneficiato delle sanzioni è lungi dall’essere superata.

 

Paola Fratantoni

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Paola Fratantoni
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