GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Hollande

La Francia al bivio, tra Il tecnocrate europeista e La “pasionaria” sovranista

EUROPA di

Dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che si è svolto domenica 23 aprile, è sembrato emergere un temporaneo rallentamento dell’ascesa di Marine Le Pen, da molti temuta e da altri – ma molti di meno – auspicata.     Si è attestata tra il 21 e il 22% e, considerando la mancanza di alleati e la chiusura, nei suoi confronti, dei concorrenti “caduti” al primo turno, un incremento di consensi tale da portarla alla vittoria al secondo sembra un obiettivo di difficile realizzazione.

Benché i sondaggi di queste ultime due settimane abbiano, in certe fasi, registrato una crescita di consenso più rapida di quella di Macron, la forbice a favore di quest’ultimo sembra tuttora piuttosto ampia.     Ma le diffuse preoccupazioni in ordine alla sicurezza, alle migrazioni, al terrorismo internazionale, la delusione verso la governance europea rivestono un peso che non deve essere sottovalutato.

E occorre inoltre considerare le incognite legate al disimpegno sulla candidatura Macron da parte di Mélenchon, candidato al primo turno del movimento di sinistra “La France Insoumise”.     A chi andranno quei voti, circa il 20 % ?   La stessa astensione, secondo autorevoli osservatori, giova soprattutto all’appassionata Marine.

La corsa di Macron all’Eliseo ha colto, comunque, una congiuntura favorevole, segnata dal declino dei maggiori partiti e dalla tendenza della classe politica tradizionale a fare quadrato, a tutti i costi, per impedire la vittoria della destra “sovranista” di Marine Le Pen, arrivata, come era prevedibile, al ballottaggio.   L’aspettativa per la vittoria di Macron si è così consolidata, dopo il primo turno.   Già in ambito internazionale, gli ambienti politici cominciano ad interrogarsi sulla possibile reiterazione, negli altri contesti nazionali, di un modello analogo a quello realizzato in Francia dal giovane tecnocrate e outsider e dal suo nuovo movimento denominato “En Marche !”.     Soprattutto in Italia, in cui le incognite su equilibri, alleanze e identità stentano a trovare soluzione, sembra si sia scatenata la caccia per individuare, nel confuso scenario contingente, il possibile “nuovo Macron” !

Il fondatore e leader di “En Marche !” è un tecnocrate, un manager che è stato chiamato, in virtù delle sue competenze e delle qualificate esperienze professionali, a rivestire l’incarico di Ministro dell’Economia nel secondo governo Valls e che ha lasciato il Partito Socialista, ancora maggioritario nel Parlamento uscente, ma in condizioni di rapido declino, come ha dimostrato il risultato di Hamon – e la stessa rinuncia a ricandidarsi del Presidente Hollande, inconsueta nella storia della Quinta Repubblica, dopo un solo mandato – e ha fondato lo scorso anno un nuovo movimento, dall’identità ancora un po’ vaga e incerta, ma in grado di suscitare interesse e fiducia in una parte crescente di elettorato, ormai stanco dello schema di contrapposizione tradizionale socialisti-gollisti, ma spaventato dalla possibile alternativa lepenista.

En Marche! ha assunto una connotazione di centro, centrosinistra, che non disdegna tuttavia il dialogo con il centrodestra, tanto che Fillon, candidato appunto del centrodestra (“Les Républicains”, di matrice gollista) al primo turno, subito dopo si è affrettato ad invitare i suoi elettori a sostenere Macron nel ballottaggio.   E altrettanto ha fatto Hamon, candidato socialista.   Ma i sondaggi registrano anche possibili defezioni, tra gli elettori di Fillon e Hamon, rispetto ai richiami dei due leaders in favore di Macron.   Defezioni tendenti all’astensione, o addirittura all’opzione Le Pen (questo, in misura maggiore, è stato riscontrato nell’area di centrodestra).

La convergenza di Fillon e Hamon su Macron è dovuta soprattutto all’esigenza di arginare le possibilità di vittoria di Marine Le Pen, ma forse si può ritenere agevolata proprio da quella sorta di equidistanza che l’identità non ancora ben delineata, o comunque fuori dagli schemi, del nuovo movimento, fondato dall’ex ministro dell’Economia, sembra evidenziare rispetto alle due forze che fino ad ora si sono contese la guida della Quinta Repubblica.

Macron è un convinto europeista e ritiene che la globalizzazione possa costituire un’opportunità, non una minaccia per l’economia francese.     Intende innovare e moralizzare il confronto politico nel suo paese e superare lo schema destra-sinistra, secondo nuove interpretazioni delle sfide che investono il nostro tempo.     Si pone nell’alveo progressista, ma non appare neppure troppo lontano dalle posizioni neogolliste, tanto che Fillon non ha manifestato un particolare imbarazzo, assicurandogli il proprio sostegno.

Che possa essere questo, forte proprio di tale pragmatismo post ideologico, il segreto del successo conseguito dall’ex banchiere ed ex ispettore delle finanze, già consigliere di Hollande e ministro socialista e rappresentare quindi la ricetta per affrontare la crisi dei partiti tradizionali di governo anche in altri paesi d’Europa, arginando, con realismo e concretezza, scevra di tentazioni demagogiche, la crescita dei cosiddetti populismi antieuropei e sovranisti ?   Fenomeni questi, efficaci quando assecondano e stimolano paure e diffidenze diffuse nell’opinione pubblica, ma più carenti nella progettualità e nell’individuazione di soluzioni alternative alle politiche che contestano.

La ricetta Macron, considerando l’appoggio incassato dal repubblicano Fillon e dal socialista Hamon, dovrebbe ritenersi orientata, in caso di vittoria nelle presidenziali, a privilegiare comunque il dialogo con quelli che sono stati finora i due maggiori partiti, o comunque con uno dei due.   Questo dialogo si renderà necessario, perché difficilmente il “giovane” movimento di Macron, anche a seguito dell’eventuale elezione alla Presidenza del suo leader, potrà ottenere, nelle successive elezioni legislative di giugno, una maggioranza autosufficiente nell’Assemblea Nazionale.

Il sistema semipresidenziale vigente nella Quinta Repubblica francese richiede la creazione di un rapporto fiduciario tra l’Assemblea Nazionale e il Governo, costituito da un Primo Ministro e dai ministri che saranno nominati dal nuovo Presidente.   Sempre nell’ipotesi di elezione di Macron alla Presidenza, il suo movimento, pur traendo certamente un sensibile beneficio da questa vittoria nelle elezioni dell’Assemblea Nazionale, potrebbe scontare, in quell’occasione, lo scarso radicamento territoriale dovuto al suo recentissimo esordio sulla scena politica.

Parlamentari uscenti e dirigenti di lungo corso dei due partiti che si sono, per oltre mezzo secolo, contesi il governo della Quinta Repubblica potrebbero dare filo da torcere, nei singoli collegi, ai neofiti seguaci di Macron e riscattare, in quella fase, l’insuccesso dei rispettivi candidati – Fillon e Hamon – alla Presidenza.

Dunque, in questa prospettiva, Macron, per evitare il rischio di una sostanziale ingovernabilità, dovrebbe sviluppare affinità e convergenze con i partiti tradizionali, finalizzate non soltanto all’esigenza di contrastare l’estrema destra lepenista, ma anche ad una condivisione programmatica, senza la quale non si può realizzare una coalizione di governo. Difficile poi prevedere, al momento, se le convergenze dovranno ricercarsi con i repubblicani o con i socialisti, o forse con entrambi, nell’eventuale prospettiva di Grande Coalizione che potrebbe costituire, peraltro, la direttrice della politica europea dei prossimi anni, spostandosi gradualmente il confronto, dallo schema popolari-socialisti a quello sovranisti-europeisti (potrebbe essere il caso della Germania, dopo le prossime elezioni politiche, forse anche dell’Italia,… chissà !?…ipotesi “futuribili”, indotte tuttavia da una evidente crisi di rappresentatività delle “categorie” politiche cui da tempo ci eravamo assuefatti).

Ancor più critico apparirebbe il quadro, in caso di vittoria, nel ballottaggio, di Marine Le Pen, perché poi, nelle elezioni legislative, potrebbe ottenere ancor meno seggi parlamentari.   Un partito isolato, come il Front National, non è molto competitivo, con il sistema a doppio turno e avrebbe ancor meno possibilità di quelle di Macron di ottenere una maggioranza nell’Assemblea Nazionale, anzi, in genere stenta ad ottenere una sia pur minima rappresentanza.   Con l’elezione della sua leader alla Presidenza della Repubblica si verificherebbe forse un effetto trascinamento, ma difficilmente potrebbe conseguire una forza parlamentare, in grado di reggere da sola le sorti del governo.   Ne potrebbe derivare il ricorso alla “coabitazione” tra la nuova Presidente e un Primo Ministro del tutto eterogeneo e politicamente ostile, con riflessi assai problematici, per la navigazione governativa.

Un quadro, dunque, incerto, per il futuro istituzionale di questa grande potenza europea, un futuro che ora è affidato alla scelta del popolo sovrano che si pronuncerà domenica 7 maggio.

Alessandro Forlani

In Francia cresce l’opposizione contro i TTIP

ECONOMIA/EUROPA di

Hollande: “Accordo impossibile prima della fine dell’anno”

Si parla ormai da alcuni mesi del Transatlantic Trade Investment Partnership (TTIP) tra  Europa e  Stati Uniti. Per spiegarla in maniera molto semplicistica si tratta di una serie di accordi commerciali tra Europa e Usa che vedrebbero come primo effetto immediato quello della diminuzione di barriere economiche che intercorrono tra i due mercati occidentali, con due principali imminenti conseguenze: se da un lato verrà favorito ancora maggiormente l’export di prodotti made in Europe, l’altra faccia della medaglia prevede anche l’immissione di prodotti a stelle e strisce nei nostri mercati.

Le polemiche fino a questo momento sono state incentrate proprio su questo ultimo punto. Molti dei prodotti che arriverebbero dal mercato statunitense infatti non rispetterebbero i canoni delle normative europee in materia di OGM e in generale di presenze di alcune sostanze in generi alimentari e non, che superano le soglie previste in Europa.
Banalizzando: un prodotto geneticamente modificato, proveniente dagli USA, potrebbe avere un costo (ma anche una qualità) inferiore, con la conseguenza che ci potrebbe essere una crisi delle alternative “di qualità” proposte dal mercato europeo.

A questo proposito  il Ministro francese per il Commercio Estero Matthias Fekl, ha dichiarato che nella prossimo consiglio dei ministri dell’economia europei che si terrà il 22 settembre a Bratislava, la Francia non ha il supporto politico per la ratifica dei trattati . Ricordiamo che nonostante i quattordici round di trattative che si sono concluse senza esito, il portavoce della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato lo scorso 29 agosto che le trattative sono ancora aperte.

Il popolo francese però sta iniziando a sollevare il suo malcontento così come quello tedesco. Entrambe le cittadinanze temono  delle ripercussioni molto gravi nel settore dell’agricoltura. Lo stesso presidente François Hollande ha dichiarato  il 30 agosto,  nel corso della settimana degli Ambasciatori, che “ Gli accordi non si raggiungeranno prima della fine dell’anno. Le trattative sono assenti, le posizioni non sono chiare e lo squilibrio evidente. Quindi credo che sia meglio analizzare lucidamente i fattori prima di continuare un discorso che non abbia delle basi solide e definite. Ritengo che la cosa migliore sia informare tutte le parti in causa che la  Francia non intende dare la sua approvazione in queste condizioni, ovvero senza le basi per una risoluzione positiva. La Francia vi prepara ad una visione realistica e non vuole creare illusioni: sarà impossibile concludere le trattative prima della fine del mandato dell’attuale Presidente degli Stati Uniti “.

Parole decise e pesanti quelle del presidente Hollande, che si trova in aperto contrasto con quanto dichiarato dalla sua corrispettiva tedesca . Se la Francia riuscirà a mantenere forti le sue posizioni, l’amministrazione Obama, al termine del suo mandato, non riuscirà a vedere la fine di queste trattative estremamente lunghe e complesse.

Laura Laportella

Armi occidentali e terrorismo jihadista

Varie di

Il quesito è aperto e si propone con urgenza quando il terrore colpisce nel cuore dei nostri paesi occidentali dove produzione e vendita dovrebbero essere regolamentate da ferree regole di controllo: il traffico internazionale illegale di armi.  Chi produce, chi vende, chi ne fruisce, chi perisce?

Un articolo de 2013 del New York Times rapportava uno schema allora consolidato di vendita di armi croate in Giordania, con un passaggio successivo in Siria e con i ribelli anti Assad come utilizzatori finali. Uno schema deliberato e acconsentito dalla stessa CIA, secondo il quotidiano statunitense. Cosa sono diventati gran parte di quei ribelli, lo sappiamo bene: esercito jihadista dell’autoproclamato Califfato.

Le lobby delle armi non conoscono crisi. Lungi da complesse tesi complotiste senza fondamenta investigative, un dato semplice e recentissimo ci da un segno da non trascurare: l’indomani della dichiarazione ufficiale di guerra contro il terrorismo jihadista da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande, le borse viaggiavano a gonfie vele. Fiducia cieca nell’intensificazione delle operazioni militari o cosa?

L’entrata della Russia nel conflitto indirizza ancora meglio la via delle armi. Uno studio internazionale del 2014, Conflict Armament Research, patrocinato dall’UE, illustrava come gran parte degli armamenti utilizzati nei conflitti in Medio Oriente sono di produzione USA, Russia e Cina. Armi che in caso di avanzata jihadista nei territori finiscono nelle mani dei terroristi. Per ora solo la Cina esporta ufficialmente armi ai regolari governi siriano e iracheno.

D’altra parte, una situazione estremamente complessa è quella del traffico illegale internazionale d’armi leggere. Facendo riferimendo all’ultimo rapporto Illicit Small Arms and Light Weapons elaborato dall’ European Parliamentary Research Service in collaborazione con le Nazioni Unite, si stimano in 875 milioni le armi leggere circolanti a livello mondiale ed appartenenti a privati cittadini.

Una delle vie più gettonate al traffico d’armi leggere è la rotta dei Balcani. Il dissolvimento delle ex Repubbliche jugoslave, la guerra in Bosnia, la crisi albanese del 1997, la guerra in Kosovo nel 1999, hanno facilitato il procuramento illecito da parte di privati o di bande criminali territoriali, dalle riserve degli eserciti governativi . Armi vendute in massa e di continuo alle grandi organizzazioni criminali e oggi anche ai jihadisti radicalizzati negli stessi paesi. V’è una produzione di alta qualità di armi nei Balcani, necessità degli anni della Guerra fredda. Calcolare oggi il numero esatto di armi in circolazione nel Sud Est europeo è difficilissimo. Nel 2012 si stimavano circa 4milioni di armi leggere illegalmente in mano ai privati, 80% delle quali provenienti dai conflitti degli anni ’90. Tuttavia, la continua produzione di armi prevista nei programmi di questi paesi non sono destinati al rafforzamento delle proprie forze armate, cosa che andrebbe a preoccupare seriamente l’UE viste le recenti adesioni di Croazia e Slovenia e delle prospettive future di stabilità nell’area, ma sono ufficialmente destinate all’export internazionale. Pertanto, aldilà di ogni proposito aconfittuale dei suddetti paesi, tali armi spesso finiscono in mani pericolose, com’è naturale che sia, potremmo ben dire. Nel 2013 armi provenienti dalla guerra bosniaca finirono nelle mani di Al-Qaeda vendute da scocietà serbe e montenegrine.

Quanto all’Italia, secondo ultimi rapporti stilati anche dalla Rete per il Disarmo, si stima che circa 28% delle armi italiane sono destinate in Nord Africa e in Medio Oriente a cavallo dell’exploit della crisi siriana. La L. 185/1990, che detta il Divieto di esportazione di armamenti verso quei Paesi in stato di conflitto armato, disciplina il traffico di armi definite “militari”: le armi staccate in pezzi, le munizioni e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, che eludono qualsiasi controllo. Fuori da questa norma rimangono le armi leggere, che possono essere smontate e vendute al pezzo. Traffico che può essere effettuato trasportando armi smontabili con semplice bolla di accompagnamento.

Questo scenario sommerso e cruento continua a complicarsi e ad espandersi in più direzioni, anche prevedibili. Poche ore fa è stato bloccato un carico di 800 fucili al porto di Trieste proveniente dalla Turchia e destinato in Germania e forse, Belgio e Olanda.

Armi occidentali in mano ai jihadisti e poi Parigi. Colpita al petto per la seconda volta in 10 mesi, checché se ne dica, la ciptale francese scatena la nostra empatia europea e occidentale, naturale, immediata, senza filtri. Parigi forse ci chiede etica e coscienza; con ciclicità la Ville Lumiere, ogni tanto, ci chiede di illuminarci.
Lungi da ogni moralismo stagnante e retorica impoverita, un richiamo ai fatti: per “liberare” i paesi arabi dai loro carnefici, ne abbiamo sollecitato le primavere, lo abbiamo fatto con armi e denaro.

Voilà, cosa diavolo c’entrano armie denaro con la Primavera?!

Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

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Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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ISIS: rivendicazione e cause

Varie di

“La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”. E ancora: “13 novembre come l’11 settembre per gli americani”. È esplicita la rivendicazione degli attentati di Parigi da parte dello Stato Islamico. Rivendicazione, tuttavia, ancora da dimostrare secondo le autorità francesi e internazionali.
Nella lunga notte di terrore che ha sconvolto Parigi e tutta l’Europa, a cui hanno fatto seguito le dichiarazioni di sconforto e solidarietà da parte di gran parte dei leader mondiali, esiste l’altra faccia di questa medaglia.

I bombardamenti dell’aviazione francese delle postazioni strategiche dello Stato Islamico in Siria, le azioni in alcuni Stati africani, come Mali e Repubblica Centrafricana, dove peraltro la notizia dell’arrivo del Papa nei prossimi mesi ha provocato un alto allarme sicurezza per il Pontefice e le forze di sicurezza transalpine, hanno provocato la reazione degli uomini del Califfato.

Sul web sono stati diffusi hasthag (poi rimossi) come #Parigibrucia, fotomontaggi inneggianti alle azioni compiute nella capitale francese e l’annuncio che “il prossimo attacco sarà a Londra, Washington e Parigi”.

Gli attacchi terroristici hanno di fatto preso di sorpresa l’intelligence francese. Ma, già da diversi mesi, dopo i fatti di Charlie Hebdo del gennaio 2015, molti siti internet transalpini sono stati oggetto di attacco hacker, con la ricorrente scritta #Franceunderhacks.

Il coinvolgimento di adolescenti nei fatti del 13 novembre significa che i “foreign fighters” sono tuttora un’arma efficace per la propaganda del Daesh. Un’arma che mette a rischio la sicurezza di tutti i Paesi europei.

Seppure multiculturale da diversi decenni, la Francia, così come a catena gli altri partner europei, si scontrano con la difficoltà di reintegrare o combattere quella fetta di società, composta da immigrati o cittadini di seconda generazione, messa ancora più ai margini da due fattori: la crisi economica e l’emarginazione dovuta alla paura verso coloro che non sono davvero integrati nel tessuto sociale europeo.

 

Giacomo Pratali

 

Parigi sotto assedio: l’11 settembre europeo

BreakingNews/Varie di

Almeno 127 e 197 feriti, di cui almeno 80 in condizioni gravi. Sono questi i drammatici numeri, destinati a salire di ora in ora, della serie di attentanti al grido di “questo è per la Siria” o “Allahu Akbar” che hanno sconvolto Parigi venerdì 13 novembre. 7 le azioni compiute nel cuore della capitale francese rivendicate dallo Stato Islamico.
Il più importante al teatro Bataclan, dove circa 1500 persone stavano assistendo ad un concerto rock. Qui, tre terroristi sono entrati in azione, prendendo inizialmente in ostaggio un centinaio di persone, mentre 30 sono riuscite a scappare subito. Gli attentatori hanno poi fatto fuoco sulla folla. Il blitz della polizia a tarda notte ha portato alla loro uccisione, ma anche al drammatico ritrovamento di 118 cadaveri.

Questo l’episodio più grave. Ma il terrore è durato per molte ore, nel corso delle quali si sono temute ulteriori azioni. E lo stato d’allerta, a cui ha fatto seguito la mobilitazione di oltre 1500 unità dell’esercito francese, ha riguardato molti punti del centro parigino. E di conseguenza il sangue e il numero di vittime è salito. 18 al bar La Belle Equipe, 15 a bar Le Carillon e al ristorante Le Petit Cambodge, 5 alla pizzeria La Casa Nostra, 3 all’esterno dello Stade France, dal cui interno, nel corso della partita amichevole Francia-Germania, sono stati uditi tre forti boati causati da altrettante esplosioni. Sull’altro fronte, oltre ai tre terroristi uccisi al Bataclan, sette si sono fatti esplodere.

Il presidente francese Francoise Hollande, presente alla partita, è stato fatto subito uscire per motivi di sicurezza e ha convocato un Consiglio dei Ministri straordinario. Nel discorso a rete unificate, il Capo di Stato ha chiesto ai parigini di aprire le loro case e di non fare mancare la solidarietà verso chi è stato coinvolto in questa serie di attentati. Ha dichiarato lo stato d’allerta alfa e annunciato la parziale chiusura e l’intensificazione dei controlli alle frontiere (nella mattinata è stato chiuso il valico del Monte Bianco che collega Italia e Francia).

“Nel momento in cui vi parlo sono in corso attacchi terroristici senza precedenti nella zona di Parigi. E’ una terribile prova che ancora una volta ci colpisce. Dobbiamo dare prova di sangue freddo. La Francia di fronte al terrore deve essere forte e grande. Rinforzi militari convergono sulla regione di Parigi per evitare nuovi attentati” , ha dichiarato Hollande.

 

Giacomo Pratali

Egitto: la deriva nazionalistica del Canale di Suez

Medio oriente – Africa di

Inaugurato il secondo tratto navigabile del Canale di Suez. La grande cerimonia in occasione della sua apertura assomiglia ad una dimostrazione di potenza dell’attuale presidente egiziano al Sisi. Al netto dei guadagni che la nuova opera infrastrutturale porterà, ancora più grandi potrebbero essere i benefici sul fronte interno e con gli interlocutori mondiali.

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Una cerimonia in pompa magna, tenutasi giovedì 6 agosto a Ismailia, ha decretato l’apertura del secondo tratto navigabile nel Canale di Suez. Una parata che ha visto in prima fila il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e i rappresentanti dei governi mondiali, tra cui l’ospite d’onore Francoise Hollande, Capo di Stato francese. Il clou dell’evento è stato il passaggio in contemporanea di due navi in direzione opposta.

Il Canale di Suez, inaugurato nel 1869, si allunga oggi di 72 chilometri, percorribili in ambo i sensi. A differenza dell’opera infrastrutturale realizzata dalla società francese Compagnie universelle du canal maritime de Suez, per cui ci vollero dieci anni, questa volta il tempo di realizzazione è stato solo di due: “I terroristi hanno cercato di nuocere all’Egitto e di fermare il nostro cammino”, ha tuonato al Sisi nel corso della cerimonia.

Sull’opera appena realizzata, molti analisti di politica internazionale hanno sollevato dei dubbi. Al netto degli 8,2 miliardi di dollari spesi, il governo egiziano stima di ricavare 13,2 miliardi di dollari entro il 2023. E, sempre entro la stessa data, le navi in grado di transitare dal canale saranno 97 al giorno, a fronte delle 49 odierne.

Numeri che sanciscono l’importanza di questa via marittima realizzata nel XIX secolo. Ma la differenza di guadagno non appare così netta. Dalla campagna dei media egiziani allo stile della cerimonia d’inaugurazione, è chiaro che al Sisi stia cercando visibilità a livello internazionale e voglia ergersi a punto di riferimento del nazionalismo sul fronte interno.

Sul piano geopolitico, l’Egitto, principale alleato dell’Arabia Saudita all’interno del mondo sunnita, vuole divenire definitivamente il principale interlocutore dell’Occidente sul fronte Isis in Libia, dove appoggia il governo di Tobruk. Non solo. Sul piano economico e commerciale, l’allargamento del Canale di Suez strizza l’occhio alla Cina, capace di grandi investimenti nell’Africa Sud-Orientale e nel porto di Atene.

Sul piano interno, infine, le mosse di al Sisi seguono in parallelo quelle di Nasser, secondo presidente dell’Egitto indipendente. Nel 1956, infatti, nazionalizzò il Canale di Suez, mentre nel 1970 fu completata l’imponente Diga di Assuan. Le grandi opere infrastrutturali e la comune rivalità con i Fratelli Musulmani pongono dunque l’attuale Capo di Stato sulle orme del suo illustre predecessore: attraverso la propaganda, al Sisi vuole divenire, agli occhi della popolazione, il leader indiscusso dell’Egitto, oscurando i gravi problemi di stabilità nella regione del Sinai.
Giacomo Pratali

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Francia, Valls: “Impariamo a convivere col terrorismo”

BreakingNews/EUROPA di

Un intero Paese sotto choc. Il presidente Hollande conferma che il responsabile dell’attentato alla fabbrica vicino a Lione è stato arrestato. Si tratta di Yassin Salhi, uomo di origine marocchina. Il colpevole si è scattato una foto assieme al cadavere dell’imprenditore decapitato.

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“Non abbiamo dubbi che volessero far saltare l’intero complesso industriale ma non dobbiamo cedere alla paura”. Queste le parole del presidente francese Hollande all’indomani dell’attentato presso una fabbrica a pochi chilometri da Lione, in cui l’imprenditore è stato decapitato. “Dobbiamo imparare a convivere con il terrorismo”, ha invece denunciato il primo ministro Valls.

Intanto, il responsabile dell’azione terroristica, Yassin Salhi, è stato arrestato e ha confessato di avere ucciso il proprio capo, Hervè Cornara. Mentre sul cellulare dell’uomo di origine marocchina è stata ritrovata una foto scattata assieme al cadavere decapitato e le insegne del Daesh accanto. In stato di fermo anche la moglie dell’uomo. Ancora caccia, invece, all’altro presunto responsabile, forse di nazionalità siriana.

Salhi è stato poi trasferito nella sede dell’antiterrorismo a Parigi. Pur senza precedenti penali, l’attentatore era comunque stato schedato nel 2006 perché sospettato di essere vicino ad un movimento di matrice salafita.

Giacomo Pratali

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Vertice Ue, immigrazione: accordo a metà

EUROPA/POLITICA di

Dopo una nottata di trattative serrata, l’Europa approva la redistribuzione di 40mila migranti nei prossimi due anni. Le quote sono “obbligatorie” a parole ma “volontarie” fatti: ogni Paese potrà decidere il numero di persone da accogliere.

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Bicchiere mezzo pieno. O mezzo vuoto. Si può riassumere così il vertice europeo di Parigi sull’immigrazione tenutosi tra il 25 e il 26 giugno. Il Consiglio Europeo dice sì alla redistribuzione tra gli Stati membri dei 40mila migranti richiedenti asilo sbarcati in Italia e Grecia dal 15 aprile. Questa ricollocazione sarà effettuata nei prossimi due anni. Tuttavia, saranno prima la Commissione e poi lo stesso Consiglio Ue a stabilire, a luglio, le quote per ogni singolo Paese, i quali avranno il diritto di stabilire il numero delle persone da accogliere.

Una bozza o, sarebbe meglio dire, un compromesso, quello messo sul tavolo dai leader del Vecchio Continente. Un accordo frutto di accesi scontri verbali avvenuti nella notte. Due i fronti. Il primo, con l’Italia in testa e a seguire il presidente della Commissione Juncker, l’alto rappresentante Mogherini, e i leader di Germania e Francia, Merkel e Hollande. Il secondo, il blocco dei Paesi dell’Est Europa, capitanato dalla Polonia e composto anche da Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Scontri che hanno poi riguardato lo stesso capo della Commissione Europea e Tusk, reo di avere abbandonato la sua posizione di neutralità e di avere appoggiato le posizioni di Varsavia.

Già la giornata di giovedì preannunciava le difficoltà di un possibile accordo: “Non c’è consenso sulle quote obbligatorie”, affermava Tusk. Mentre Juncker e Mogherini ritenevano necessario andare oltre il Trattato di Dublino e “rivoluzionare il concetto di accoglienza dei profughi”.

Ma con la cena e l’avvicinarsi della notte, l’impasse si è fatta sempre più evidente. Testimonianze dirette raccontano di un intervento violento, dal punto di vista verbale, del premier italiano Renzi: “Se non siete d’accordo sulla distribuzione dei 40 mila migranti, non siete degni di chiamarvi Europa. Se volete la volontarietà, tenetevela”.

Accantonata ormai la prima bozza, figlia del precedente Consiglio Europeo di aprile, ma che andava incontro alle richieste spagnole in merito alle modalità di redistribuzione dei migranti, alle prime luci dell’alba i leader europei giungono all’accordo sulle 40mila persone richiedenti asilo da ripartire nei prossimi due anni, con la definizione delle quote da definire.

Quote che vengono definite “obbligatorie”, ma che si richiamano, nella pratica, al principio di volontarietà. A questi 40mila, infine, si aggiungeranno gli altri 20mila presenti nei campi profughi dei Paesi da cui provengono i migranti. Tutti, tranne Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, defilatesi già in precedenza.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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