GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Erdogan e il sogno dell’impero

Medio oriente – Africa di

Si è chiuso così, con un richiamo “mondiale” di Erdogan al rispetto dei risultati raggiunti, il secondo capitolo delle elezioni turche consumato il 1° di novembre. Il clima di terrore innescato dal premier a partire dal 7 giugno, data delle precedenti elezioni annullate per l’impossibilità di creare una coalizione di governo, ha premiato l’AKP tornato in possesso della maggioranza.

 

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Il partito di Erdogan ha ottenuto il 49,4% delle preferenze conquistando 315 seggi su 550, quaranta in più rispetto alla soglia richiesta per governare in autonomia. Il principale partito di opposizione, il CHP, ha terminato la corsa con il favore del 25,4% dei votanti pari a 134 seggi, il nazionalista Mhp con il 12%, equivalenti a 41 seggi mentre l’HDP curdo di Salahattin Demirtas, è riuscito, nonostante le violente interferenze inflitte dal governo, a riconfermare la sua presenza in Parlamento superando, anche se di poco, la soglia del 10% imposta.

 

Nei cinque mesi intercorsi fra i due richiami alle urne, il clima interno del paese è stato messo a dura prova dal braccio di ferro fra AKP e il PKK, il partito dei lavoratori curdi guidato da Ocalan, di cui l’HDP rappresenta il braccio politico. A Diyarbakir, capitale della regione turca a maggioranza curda e roccaforte dell’HDP, si sono consumati attentati e scontri che hanno avuto l’effetto di annullare, per scelta da parte dei vertici del partito, ogni tipo di campagna elettorale. Una decisione sofferta, presa per proteggere le minoranze curde, destinatarie delle repressioni.

 

Correlare quindi i risultati delle ultime elezioni ad una libera scelta di unità nazionale, come sostiene Erdogan, rappresenta una forzatura sulla quale gravano altre tensioni, dal flusso di profughi dalla Siria, alla chiusura di canali televisivi e giornali di opposizione decisa dal premier per reprimere evidentemente la diffusione di opinioni contrastanti. L’ultimo “slogan” politico è stato diffuso subito dopo l’apertura delle urne, quando il governo ha lanciato la notizia dell’uccisione da parte dell’esercito turco di 50 membri dell’Isis in Siria e della distruzione di ben 8 delle loro postazioni. L’intenzione, evidente, era di impressionare in termini positivi non solo l’elettorato ma anche la comunità internazionale, dopo la diffusione, nei mesi scorsi, di ben altre informazioni legate al traffico delle armi dirette al Califfato gestito con leggerezza al confine turco e agli attacchi ufficialmente diretti a Isis ma in realtà concentrati sulle forze combattenti curde opposte ai terroristi.

 

La posizione cruciale occupata oggi dalla Turchia non soltanto per la sua collocazione geografica ma per il ruolo esercitato a livello politico permette a Erdogan quell’ampia possibilità di manovra avallata dai paesi occidentali, Usa in prima fila. La maggioranza ora riconquistata rappresenta per il premier un ulteriore lasciapassare per concretizzare i cambiamenti voluti a livello costituzionale. Erdogan vorrebbe modificare la costituzione dello stato principalmente per riconoscere al presidente poteri più ampi di quelli attuali. Il sogno è di rinverdire gli antichi fasti dell’impero Ottomano.

 

Un piano ambizioso, fermato al momento dalla necessità di trovare alleati che possano affiancare Erdogan nell’impresa. Per cambiare la carta infatti serve l’avvallo di 367 seggi, 52 in più di quanti l’AKP disponga. Dovesse non riuscirci, Erdogan passerà alle consultazioni referendarie aprendo nuovi dubbi a proposito della regolarità delle procedure. Poco importa se gli osservatori europei hanno pesantemente criticato il 1° novembre scorso l’intero processo elettivo dichiarandolo ingiusto.

 

L’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” e l’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa, hanno denunciato le violenze e messo in dubbio la liceità del percorso. Erdogan ha reagito chiedendo riconoscimento globale dei risultati ottenuti alla urne e inneggiando contro i ribelli del PKK. I primi effetti delle elezioni sono stati intanto assorbiti dal mercato azionario di Istanbul, salito bruscamente, insieme alle quotazioni della lira turca, dopo i risultati delle urne.

 

Monia Savioli

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Braccio di ferro con il terrore

Medio oriente – Africa di

L’attentato contro il corteo pacifista che il 10 ottobre scorso ha provocato ad Ankara 95 morti e 246 feriti ha avuto un effetto importante: la sospensione da parte delle forze politiche curde di qualsiasi attività fino alle elezioni di domenica 1° novembre.

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Da quando l’appuntamento elettorale del giugno scorso ha restituito forza al partito curdo dell’Hdp e tolto la maggioranza assoluta all’AKP di Erdogan, la Turchia è divenuta teatro di episodi violenti, finalizzati a interrompere i colloqui di pace che dal 2012 erano in corso con il PKK, il Partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan e identificato come forza terroristica. L’impossibilità di formare un governo per il disaccordo maturato fra le parti ha volutamente motivato, da parte di Ergodan, il ritorno alle urne destabilizzando l’equilibrio interno. Il governo di Ankara ha stretto in una morsa di violenza le zone a maggioranza curda, provocando la dura risposta del PKK ritenuto responsabile di alcuni degli attentati che hanno insanguinato la Turchia.

Le conseguenze hanno oltrepassato i confini nazionali. Nella guerra contro Isis, le forze militari turche si sono accanite più contro i miliziani curdi, alleati Usa nella lotta contro il califfato, che verso i terroristi dello stato islamico. Nessuna ammissione era mai trapelata dal governo di Ankara fino alle recenti dichiarazioni del Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, che ha confermato gli attacchi militari contro le forze curde nel nord della Siria.

La versione offerta alla platea internazionale racconta della necessità evidenziata dalla Turchia di proteggere i confini nella zona Ovest dell’Eufrante minacciati dai curdi dell’YPG, sigla che identifica le forze combattenti del PDK, il Partito Democratico curdo, alleate degli Stati Uniti. In realtà il doppio attacco subito dai curdi si è verificato nella città araba di Tal Abyad, strappata ai miliziani dell’Isis, nella zona ad Est del fiume, quindi esattamente all’opposto.

La situazione divenuta con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più delicata, è stata affrontata dall’Hdp con estrema cautela. L’ufficio elettorale di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito, è allestito in un piccolo locale della periferia popolare di Istanbul, privo di bandiere per evitare che la sede venga presa di mira e possa provocare conseguenze ai residenti. Il mese scorso, negozi gestiti da curdi e uffici dell’Hdp sono stati presi di mira da violenze e distruzioni di ogni genere.

La mano pesante di Erdogan ha colpito, nel tentativo di arrivare di nuovo alla maggioranza assoluta, tutte le possibili espressioni di critica nei confronti della politica dell’AKP. I media indipendenti hanno subito forti pressioni e ridimensionamenti se non la chiusura definitiva. I canali social sono regolarmente minacciati e ridotti. Tante, nella disperata corsa al potere, sono le cause giudiziarie intraprese nei confronti di quanti sono ritenuti responsabili di offese espresse, verbalmente o in qualsiasi altra modalità, contro Erdogan, come successo ad uno studente reo di aver pubblicato frasi non gradite sulla pagina di Facebook.

Il quotidiano turco Hürriyet è stato oggetto di violenze di massa dopo l’accusa di aver diffuso menzogne. L’elenco delle violenze rivolte alla stampa e ai suoi referenti si allungano includendo casi ancora da chiarire. Rientrano nella lista la morte di Jacky Sutton, ex inviata di guerra per la Bbc, trovata morta il 19 ottobre scorso nella toilette dell’aeroporto Ataturk di Istanbul dove stava aspettando il volo per Erbil, e la scomparsa di Serena Shim, giornalista trentenne, alle dipendenze di Press Tv, rimasta uccisa il giorno dopo, in Turchia, vicino al confine con la Siria a causa di incidente d’auto.

La Shim stava rientrando in albergo dopo aver lavorato a Suruc, nella provincia turca di Sanliurfa, consapevole di essere nel mirino dell’intelligence turca in riferimento ad alcuni reportage dedicati all’ambigua posizione turca nei confronti della lotta all’ Isis nella zona di Kobane. I sondaggi prodotti fino ad ora non lasciano apparentemente molte possibilità all’AKP di rientrare in possesso della maggioranza assoluta. Gli esiti del 1° novembre ci riveleranno il vero peso del terrore.
Monia Savioli

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Kobane: da simbolo di resistenza a simbolo di rinascita

Medio oriente – Africa di

Ora che i riflettori mediatici su Kobane si sono spenti, mentre altre zone intorno alla città vengono lentamente liberate dall’assedio di ISIS, è ancora più importante monitorare la situazione, per capire quali interventi è possibile mettere in campo per sostenere concretamente la ricostruzione della città e la ripresa della vita, che è comunque già cominciata.

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Più di 200.000 persone, durante l’assedio della città, si sono riversate oltre il confine turco-siriano, dislocandosi fra i campi approntati dalle municipalità locali, soprattutto a Suruç, e i campi ufficiali del governo turco. Questi ultimi, dopo aver constatato come venivano gestiti, ossia in maniera autoritaria e vietando perfino l’istruzione in curdo ai bambini, imponendo la lingua turca a persone che conoscevano solo il curdo e l’arabo, si sono spesso allontanati per l’impossibilità di vivere in quelle condizioni, riversandosi nei campi gestiti e sostenuti dalle municipalità a maggioranza curda.

I campi “autogovernati” non hanno però potuto contare sul sostegno internazionale, a causa dell’embargo de facto contro l’intero cantone causato soprattutto dall’opposizione del governo turco; ma hanno rappresentato e tutt’ora rappresentano una risposta concreta ed efficace alla domanda dei profughi, che già all’indomani della liberazione della città hanno cominciato a voler rientrare a Kobane, dapprima in piccoli gruppi, via via sempre più consistenti. Se ne contano attualmente circa 85.000.

kobane2Numerosi problemi li hanno attesi al loro rientro: dalle mine inesplose che i miliziani di ISIS ha lasciato dietro di sè, per ostacolare la ripresa della vita in città, alla totale distruzione lasciata sul terreno da quattro mesi di scontri violentissimi e di bombardamenti effettuati dalla coalizione. Numerosi civili hanno trovato così la morte dopo la liberazione della città, a causa delle mine o per l’impraticabilità di alcune zone; inoltre sono presenti ancora numerosi corpi non sepolti di miliziani di ISIS sotto le macerie, fatto che rischia – con l’aumento delle temperature dovuto all’arrivo della primavera – di provocare pericolose epidemie.

E’ necessario dunque agire con urgenza per mettere in sicurezza la città e consentirne la ricostruzione e il ripopolamento: ecco perchè è tutt’ora fondamentale l’apertura di un corridoio umanitario al confine, a cui la Turchia continua ad opporsi, che permetta il passaggio di materiali per la ricostruzione, di equipaggiamento sanitario, di personale medico e tecnico che contribuisca alla soluzione di questi problemi, di vestiti, medicinali, e tutto quanto serva. Occorre disinnescare le mine, ripristinare una fornitura regolare di energia elettrica e di acqua, ricostruire le case e le altre infrastrutture (l’80% della città è stato distrutto).

Un appello urgente è stato lanciato dal Comitato per la ricostruzione di Kobane, rapporto che contiene nel dettaglio la stima dei danni e delle necessità urgenti per permettere il rientro dei profughi, e che individua tra l’altro tra le priorità la costruzione di un campo profughi temporaneo di almeno mille tende, con servizi igienici, quattro scuole e due punti di assistenza sanitaria (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report.pdf). Tutto questo per consentire l’avvio di tutte quelle azioni che possano ricostruire il tessuto sociale ed economico della città, dall’agricoltura all’allevamento al commercio, dalla costruzione delle fogne al ripristino delle fonti energetiche (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report-II.pdf).

kobane (3)E’ il minimo che si possa fare per riconoscere la resistenza del popolo di Kobane che è costata più di mille morti in quattro mesi, e che è stata ed è una lotta per l’umanità. Diversi gruppi di attivisti e di semplici cittadini in vari paesi, tra cui l’Italia, stanno dando il loro contributo, organizzandosi per raccogliere fondi e materiali e realizzando progetti di cooperazione dal basso per rispondere ad alcune di queste esigenze (http://www.helpkobane.com/ o http://www.mezzalunarossakurdistan.org ): ma la “comunità internazionale” non sembra darsi da fare con lo stesso impegno.

Nonostante le analisi e le prese di posizione di organismi internazionali come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza sulla Siria, il Consiglio d’Europa a marzo, il Parlamento Europeo ad aprile, così come dopo le missioni sul campo di Organizzazioni non governative che si occupano di messa al bando delle mine, di ricostruzione e di salute, nulla ancora sembra muoversi.

Inoltre, l’avvicinarsi delle elezioni legislative in Turchia il prossimo 7 giugno, strategiche per il progetto di presidenzialismo perseguito da Erdogan e dal suo partito, sta acuendo la tensione e mostrando di nuovo il vero volto dell’AKP, il partito di governo, che invece di occuparsi dei problemi dei curdi, è impegnato piuttosto ad alzare il livello della tensione continuando a negare l’apertura di un corridoio umanitario e organizzando provocazioni per avvantaggiarsi dei voti nazionalisti.

Il forte entusiasmo che sta suscitando il nuovo partito HDP (Partito democratico dei Popoli), che propone una politica nuova rispettosa dei diritti di tutte le minoranze (dunque non solo dei kurdi), dei giovani, delle donne, ispirata a principi ecologici, sembra indicare che esso riuscirà a superare l’odiosa e antidemocratica soglia di sbarramento del 10% per entrare in parlamento: se questo accadrà, il gruppo di parlamentari dell’HDP potrà lavorare con più forza alla democratizzazione della Turchia, ma anche all’apertura del corridoio umanitario e alla ricostruzione di Kobane, nonché alla risoluzione democratica della questione kurda e dunque a una stabilizzazione della regione, che potrà avere effetti positivi su tutta l’area mediorientale ancora così piegata da guerre e dittature.

E’ importante che anche in questa occasione osservatori internazionali si rechino in Turchia per monitorare il processo elettorale: potrebbero verificarsi brogli come in passato, perchè le forze che si oppongono al cambiamento e alla pace hanno sempre cercato di impedire alla popolazione di esprimersi liberamente, sfruttando tutti i mezzi per impedire ai kurdi di superare la soglia del 10% (http://www.uikionlus.com/apello-per-elezioni-7-giugno-in-turchia/).

In conclusione: la strada è ancora lunga, ma forse davvero la città di Kobane, dopo essere diventata simbolo di resistenza per il mondo intero, può diventare simbolo di rinascita e di pace anche grazie al sostegno e all’attenzione internazionale.

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di Suveyda Mahmud

Suveyda Mahmud -Sulaimaniyah
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