GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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giacomo pratali

Sud Sudan: ombre sul medio-lungo periodo

Medio oriente – Africa di

L’accordo per il governo di unità nazionale siglato il 26 aprile non può lasciare tranquilli. I tre anni di guerra civile hanno lasciato lunghi strascichi in Sud Sudan. Il ripetersi delle violenze del passato è un pericolo effettivo, vista soprattutto l’imponente militarizzazione della capitale Juba.

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16 ministri appartenenti all’etnia Dinka, 10 alla Nuer e 4 dai restanti gruppi del Paese. Sono questi i termini numerici dell’accordo per il governo di unità nazionale siglato lo scorso 26 aprile, sotto l’egida degli Stati Uniti. I negoziati per gli accordi di pace iniziati lo scorso agosto, che ha riportato al suo posto l’ex vicepresidente Machar al fianco del presidente Kiir, sono giunti ad una conclusione.

Tre gli anni di guerra civile, da quando, nel 2013, Kiir accusò Machar di golpe. Tre anni forieri di scontri tribali, interetnici, sfociati perfino nella vicina Etiopia, come il 17 aprile scorso, presso un campo profughi a maggioranza Nuer. Un accordo che prevede la coabitazione tra i due ingombranti leader per i prossimi 30 mesi, almeno fino alle prossime elezioni.

Ma le drammatiche cifre prodotte da questi tre anni di guerra civile rendono molti osservatori internazionali scettici di fronte alla durata sul medio-lungo periodo di questo esecutivo. Dal punto di vista economico, l’inflazione è salita fino al 240%, mentre il PIL nel 2015 ha registrato un -5,3%.

Dal punto di vista militare, come denunciato dal magazine Afk Insider, il Paese è ancora ben lontano da quella smilitarizzazione prevista dall’accordo tra le parti. Ben 1,500 ribelli combattenti, infatti, sono tuttora presenti nella capitale Juba, mentre addirittura 30,000 sono le truppe dell’esercito governativo.

Infine, il punto di vista umanitario. Come denunciato da Nazioni Unite e organizzazioni non governative come Medici Senza Frontiere, la situazione sanitaria, come prevedibile, è gravemente precaria. Lo scontro tra le fazioni del Sud Sudan ha raddoppiato, quando siamo giunti alle porte dell’estate, le persone senza cibo né acqua, arrivate a 5,3 milioni. Mentre, come sottolineato dall’ultimo report ONU, 1,69 milioni di persone sono sfollate dentro i confini, mentre 712 mila negli Stati confinanti.

Ma la crisi umanitaria riguarda anche i bambini-soldato e le donne vittime di stupro. Come denunciato nella conferenza al termine della quattro-giorni dell’United Nations Special Representative on Sexual Violence in Conflict a Juba, la violenza sessuale in Sud Sudan deve essere combattuta con gli strumenti giudiziari opportuni: “I positivi accordi di pace richiedono che i crimini di violenza sessuale siano monitorati, tracciati e riportati e che siano giudicati da un organo giuridico tradizionale”, ha sottolineato la rappresentanti ONU Zainab Hawa Bangura. “La mia istituzione continuerà il suo sostegno al SPLM e SPLM-IO per sviluppare piani d’azione, per fornire un quadro strutturato e completo attraverso il quale per affrontare i reati di violenza sessuale”, conclude.

In definitiva, il quadro politico, economico, sociale e umanitario rendono la crisi del Sud Sudan ancora viva. Il compito della comunità internazionale è di assicurare che il neonato Paese africano riesca a giungere alle nuove elezioni, previste tra 30 mesi, e che, attraverso anche un supporto di tipo economico, riescano a ripristinare tutte le quelle anomalie responsabili dello scoppio della guerra civile nel 2013.
Giacomo Pratali

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Egitto: il caso Regeni e gli strascichi libici

La questione dei diritti umani. Il comportamento ambiguo della Francia. La Libia. L’uccisione di Giulio Regeni e lo scontro diplomatico tra Roma e Il Cairo sulle dinamiche legate alla morte del ricercatore italiano si legano ad altre questioni geopolitiche.

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“Abbiamo una visione diversa dei diritti umani rispetto all’Unione Europea. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese cadesse. Ciò che sta avvenendo in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato. Siamo sempre pronti a ricevere gli inquirenti italiani affinché si assicurino di tutte le misure che stiamo attivando a questo proposito”.

Queste le parole del presidente egiziano Al Sisi nel corso della conferenza stampa congiunta del 17 aprile con il suo omologo francese Francois Hollande al termine del bilaterale tra i due Paesi. Parole di facciata, volte a ricucire lo strappo con l’Italia, a seguito delle imbarazzanti indagini sulla morte di Regeni, e a rifarsi un’immagine compatibile con l’opinione pubblica internazionale, viste le continue violazioni dei diritti umani in Egitto svelate dalle varie ONG e messe in evidenza proprio dopo le torture subite dal dottorando italiano.

I rapporti tra Italia ed Egitto sono al minimo storico. Lo dimostra il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari, lo dimostrano i pochi stralci messi a disposizione della Procura di Roma, incredula di fronte al fatto che la Procura Generale de Il Cairo stia insistendo sull’omicidio ad opera della banda criminale.

“In base a tali sviluppi, si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni”, si legge nel comunicato pubblicato dalla Farnesina venerdì 8 aprile.

Parole che fanno seguito alle tante denunce fatte in particolar modo da Amnesty International, che smentiscono le parole di Al Sisi e la versione fornita dalle autorità egiziane: “Secondo gli ultimi dati forniti dall’organizzazione egiziana “El Nadim”, che il Governo ha per altro minacciato di chiudere, dall’inizio di quest’anno i casi accertati di tortura in danno di cittadini egiziani sono stati 88 e in 8 casi c’è stato il morto – afferma il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury in un’intervista a La Repubblica -. Ora, è vero che in questo momento non esistono prove in grado di sostenere che Giulio Regeni sia stato torturato da apparati dello Stato per ordine delle autorità di quello Stato. Ma è altrettanto vero che questo sospetto esiste, è legittimo, è sostenuto dagli esiti dell’autopsia sul cadavere di Giulio, dagli elementi indiziari emersi sin qui dall’indagine e dunque bisogna che questo sospetto il governo egiziano ce lo tolga”.

Una battaglia, quella sui diritti umani e sulla tragica morte di Regeni, fatta propria dal New York Times: “Appoggiamo la battaglia dell’Italia. Gli abusi dei diritti umani in Egitto sotto il presidente Al Sisi hanno raggiunto nuovi picchi, e nonostante ciò, i governi che commerciano con l’Egitto e lo armano hanno continuato a fare affari come se niente fosse”.

Una dura reprimenda e un riferimento non celato alla Francia. L’incontro della scorsa settimana tra Hollande e Al Sisi, infatti, è servito a rinvigorire i legami commerciali tra i due Paesi, stimabili in 2,5 miliardi l’anno. Mentre le flebili denunce sui diritti umani da parte del presidente francese nel corso della conferenza stampa finale sembrano essere state fatte per salvare le apparenze.

Il gelo tra Italia ed Egitto potrebbe essere sfruttato a proprio vantaggio non solo dalla Francia, ma anche dalla Germania e dalla Gran Bretagna, nonostante il governo britannico abbia accolto la petizione di numerosi accademici e studenti e abbia chiesto “più trasparenza nelle indagini sulla morte di Giulio Regeni”.

Non solo motivi economici, ma anche risvolti geopolitici attinenti alla Libia. Se fino ad ora l’appoggio egiziano al generale Haftar e al governo di Tobruk a discapito del nuovo governo di Serraj era cosa palese, più fonti italiane ed internazionali rilanciano l’idea che anche la Francia appoggi segretamente l’esecutivo della Cirenaica a causa della presenza, in quella regione, di numerosi pozzi petroliferi.

La riconquista delle ultime ore di Bengasi da parte dell’esercito di Haftar pone ancora di più agli occhi delle potenze occidentali il tema delle alleanze trasversali internazionali al primo punto. L’Egitto, in questo senso, potrebbe divenire il pomo della discordia tra i partner internazionali impegnati a ricucire l’assetto istituzionale libico in nome della lotta al Daesh.
Giacomo Pratali

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Serraj e le incognite sul futuro della Libia

Prima l’atterraggio negato. Poi l’arrivo via mare mercoledì 30 e il respingimento del governo retto da Khalifa Ghwell. Infine, la fuga di quest’ultimo a Misurata. L’entrata in vigore del governo di unità nazionale presieduto da Fayez al Serraj, dopo i tumulti delle prime ore a Tripoli e l’istituzione del quartier generale provvisorio nella base navale di Abu Sittah, getta speranze e incognite sul futuro della Libia.

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Il pressing della comunità internazionale alla fine ha portato ad un primo risultato. L’accelerazione dell’istituzione del governo di unità nazionale avvenuta mercoledì 30 marzo è un segno evidente che le Nazioni Unite, complici gli attentati di Bruxelles e l’indebolimento dello Stato Islamico in Siria a fronte di un suo rafforzamento in Libia, hanno rotto gli indugi.

Questo, nonostante due ostacoli interni. In primis, dal governo di Tobruk e dal GNC, ancora lontani dal ratificare la lista dei membri del nuovo esecutivo concordato in Marocco sotto l’ombrello dell’ONU. Dall’altra parte, i rappresentanti del governo di Tripoli, tra cui il premier Ghwell, che hanno sì partecipato alle trattative di Skhirat, ma che adesso hanno paura di vedere svanire quella posizione di potere costruita dal 2014 ad oggi.

Le dure parole di Ghwell all’arrivo del nuovo premier Serraj (“Il nuovo governo è illegale perché designato dall’ONU”), gli scontri nel centro di Tripoli che hanno portato ad un morto e la presa di controllo della emittente Al Nabaa, vicina ai Fratelli Musulmani, da parte di uomini vicini al nuovo esecutivi, completano un quadro ancora incerto.

Ma forse meno fosco del previsto. Come rivelato da Libya Herald, l’improvvisa e inaspettata fuga di venerdì di Ghwell a Misurata sarebbe il risultato della pressione proprio delle milizie di Misurata, sostenitrici di Serraj, oltre che delle sanzioni nei suoi confronti annunciate dall’Unione Europea (riguardanti anche il presidente dell’HoR Agilah Saleh e l’omologo del GNC Nouri Abusahmen).

In più, i sindaci delle 13 municipalità di Tripoli oltre ai sindaci di 10 città libiche hanno annunciato il loro sostegno al nuovo esecutivo: “La situazione del Paese è critica – ha rivelato il sindaco di Sabrata Hussein al Dawadi al Daily Mail -. Il costo della vita è molto alto e al contempo non c’è abbastanza disponibilità di denaro: questo ci porta a sostenere il nuovo governo”.

Ed è infine notizia di oggi dei colloqui in corso proprio tra Serraj e il capo della Banca Centrale libica per aumentare l’emissione di denaro.

Un po’ a sorpresa, dunque, questo governo, bollato da parte dell’opinione pubblica internazionale come paracadutato dalle Nazioni Unite, sta in parte risolvendo dentro i suoi confini i suoi problemi. Rimangono comunque i problemi legati all’ordine pubblico a Tripoli e negli altri centri del Paese di qui ai prossimi giorni e due rischi concatenati: che il nuovo esecutivo venga visto come un’indebita ingerenza dell’Occidente negli affari interni libici e che, di conseguenza, l’opera di proselitismo dello Stato Islamico abbia un’ulteriore arma propagandistica dalla sua parte.

E l’intervento militare esterno? Anche se bollato come non prioritario da Serraj (“I primi provvedimenti del mio governo potrebbero essere di natura economica”), l’arrivo sul territorio libico di un contingente ONU è ormai prossimo.

A partire dal supporto in materia di addestramento e di messa in sicurezza della capitale Tripoli, sede del governo di unità nazionale, e delle infrastrutture libiche. Come già concordato nel corso del congresso di metà marzo a Roma, l’Italia fornirà 2500 uomini, mentre il Regno Unito 1000.

Mentre l’ipotesi di un intervento militare diretto resta un punto interrogativo che divide Renzi da Obama e gli altri alleati occidentali, determinati a stroncare la radicalizzazione dello Stato Islamico in Libia.

 

Giacomo Pratali

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Boko Haram: siamo davvero al capolinea?

Oltre 800 ostaggi liberati dall’esercito nigeriano e molti jihadisti uccisi negli ultimi due mesi. Gli ultimi episodi in Nigeria rivelano che Boko Haram sta perdendo terreno. Tutto ciò potrebbe convalidare quanto dichiarato dal leader Abubakar Shekau nel video apparso sulla rete il 24 marzo, ovvero che “la fine sta arrivando”. Ma è davvero così? Boko Haram è stato sconfitto?

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Non solo contro la Nigeria, in particolar modo nello Stato di Borno. Ma anche in Camerun, Ciad e Niger. Negli ultimi due anni, Boko Haram ha provato ad espandere il proprio territorio in più regioni dell’Africa. Per questo motivo, 8,700 truppe provenienti da questi quattro Paesi hanno combattuto assieme contro l’organizzazione affiliata allo Stato Islamico. Fino ad oggi, con le dichiarazioni di vittoria del presidente Buhari. E, appunto, con il video di Shekau, rivelatore di una possibile fine della cellula terroristica.

Aldilà dei diversi temi geopolitici riguardanti la Nigeria, il dato di fatto è che, come già da European Affairs, Boko Haram ha perso molti villaggi conquistati dal 2009 ad oggi. Tuttavia, come confermato da fonti vicine all’US AfriCom alla testata nigeriana Premium Times, “Boko Haram continua a controllare diverse porzioni di territori del Nord così come sta facendo al Shabaab in Somalia”.

Pertanto, come dimostrato da queste frasi e da più fonti internazionali, Boko Haram esiste ancora ed è ben radicato nello Stato di Borno. In questo senso, le parole di Shekau potrebbero essere la testimonianza di un cambio di leadership all’interno della organizzazione affiliata all’Isis.
Giacomo Pratali

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Egitto: la non verità su Regeni

EUROPA di

“I documenti di Regeni stato stati trovati nella casa di una sorella di uno dei banditi uccisi”. Questa la dichiarazione del ministro degli Interni egiziano Magdi Abdel Ghaffar, corredata dalle foto del passaporto del ricercatore italiano postate su Facebook, che confermano che il dottorando di Cambridge sarebbe stato prima rapito e poi ucciso lo scorso 3 febbraio da una banda criminale specializzata in rapine a stranieri. Una conclusione, quella degli inquirenti egiziani, non convincente e somigliante ad un depistaggio dalla verità.

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Il blitz delle forze di polizia all’alba di giovedì 24 marzo e la conseguente uccisione dei cinque rapinatori della banda responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione Giulio Regeni sono stati confermati solo nella serata dal Ministro degli Interni. La pistola fumante sarebbe la borsa del ricercatore trovata a casa della sorella di uno degli uccisi, contenente passaporto, portafoglio, carta di credito e due cellulari.

Secondo quanto evidenziato dagli investigatori egiziani, la banda agiva fingendo di appartenere alle forze dell’ordine indossando le divise. Una motivazione che vuole di fatto fare passare come fraintendimento la convinzione del governo italiano e dei media internazionali che, dietro la morte del ragazzo, ci siano forze di polizia o servizi legati al presidente Al Sisi.

Nonostante l’annuncio dell’arresto dei possibili responsabili del delitto, continua ad essere questa la convinzione diffusa presso le istituzioni e i media italiani e internazionali. Proprio le incongruenze evidenti delle motivazioni fornite dal Ministro degli Interni egiziano avvalorano la tesi che sia proprio il governo egiziano a volere sotterrare la verità.

Innanzitutto, perché i rapinatori non si sono sbarazzati della borsa di Regeni? E poi, perché il rapimento e l’uccisione sono avvenuti a chilometri di distanza da dove agiva solitamente la banda? Infine, perché Giulio Regeni è stato anche torturato?

Questi elementi fanno supporre che la verità sulla morte di Giulio Regeni, così come la tragica scomparsa di tantissimi oppositori al regime di Al Sisi, sia di tutt’altra natura.
Giacomo Pratali

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ISIS attacca Bruxelles: un altro fallimento dell’intelligence

BreakingNews di

Due esplosioni presso l’aeroporto di Bruxelles. Un’altra presso la fermata metro di Maelbeek. Almeno 34 morti e oltre 230 feriti. È questo il drammatico bilancio dell’attacco di matrice jihadista alla capitale del Belgio di martedì 22 marzo. La rivendicazione dello Stato Islamico è arrivata poco dopo. Come nell’attacco di Parigi del novembre scorso, anche in questo caso è evidente come i servizi di intelligence, stavolta belgi, abbiano fallito. Un fallimento ad appena quattro giorni dall’arresto, sempre a Bruxelles, dell’ideatore degli attacchi alla capitale francese, Salah Abdeslam.

 
La ricostruzione della mattina di martedì 22 marzo vive di due momenti drammatici. Il primo, alle 8 di mattina, quando due esplosioni di fronte al check-in dell’American Airlines nell’aeroporto di Zaventern. Il secondo, un’ora dopo, quando ad essere sotto attacco è la fermata metro di Maelbeek, in pieno centro, a pochi passi dagli edifici che ospitano le principali istituzioni dell’Unione Europea. Due sospetti, ripresi dalle telecamere del terminal internazionale, sono stati subito arrestati. Altri cinque sono tuttora ricercati dalle forze di polizia belghe.

Lo Stato Islamico ha subito rivendicato l’azione terroristica attraverso la sua agenzia stampa Amaq. Tuttavia, come riportato da diversi media internazionali, gli attacchi di martedì 22 marzo a Bruxelles sarebbero stati progettati di recente, subito dopo l’arresto di Salah Abdeslam, mente e protagonista degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015.

Così come Parigi, anche Bruxelles è andata sotto attacco. Un attacco che segnala il fallimento dell’intelligence europea. Il primo ministro belga Charles Michel, nel corso della conferenza stampa subito dopo gli attentati, ha infatti affermato che già da diversi giorni governo e servizi segreti sapevano che la probabilità di attentati nella capitale era elevata.

Nigeria: l’esodo ignorato dall’Europa

Medio oriente – Africa di

Lo scontro con Boko Haram. La decennale violenza nei confronti dei cristiani nello Stato di Benue. La tratta di esseri umani e l’ingente flusso migratorio verso le coste della Sicilia. La Nigeria è una bomba ad orologeria pronta a scoppiare. E i riflessi, come descritto nell’ultimo rapporto dell’OIM, ricadono anche sul suolo europeo.

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Buhari e la presunta vittoria contro Boko Haram

Mesi di repressione e di battaglie vinte hanno fatto gridare il presidente Muhammadu Buhari alla vittoria della guerra contro Boko Haram, come riportato lo scorso 24 dicembre dalla BBC. L’organizzazione jihadista, infatti, è stata il bersaglio di una serie di attacchi negli ultimi mesi da parte dell’esercito regolare.

Se è vero che l’azione di Boko Haram si è affievolita in Nigeria e innalzata, invece, nei confinanti Camerun e Niger, l’incondizionato appoggio dei media locali alle parole e alle azioni del presidente sono state smentite dalle testimonianze dirette dei soldati. Intervistati da alcuni magazine internazionali e rimasti anonimi, gli uomini dell’esercito nigeriano hanno confermato che l’azione contro i jihadisti ha di fatto compromesso la loro possibilità di nuove azioni solo in una parte dello Stato di Borno. Insomma, la presenza della cellula affiliata allo Stato Islamico è ancora ben radicata nel nord-est del Paese.

Una presenza fatta ancora di scorribande e, soprattutto, di un reclutamento crescente di minori, spesso protagonisti di attentati nei villaggi, e di donne, vittime della tratta verso l’Europa.

Oim: “Nel 2015, 19576 nigeriani sbarcati sulle coste italiane”

La presenza pluriennale di Boko Haram in Nigeria si intreccia al reclutamento e allo sfruttamento sessuale crescente di migliaia di nigeriane. Il contesto di guerra da cui le persone sono costrette a scappare va di pari passo con il ritrovato vigore della rotta Nigeria-Libia-Italia attraverso cui viaggiano le donne adescate in Nigeria con la promessa di un lavoro e di una nuova vita in Europa.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dall’aprile 2014 all’ottobre 2015, 1937 donne di nazionalità nigeriana sono approdate sulle coste della Sicilia. Donne, soprattutto ragazzine, sono state adescate o vendute come merce direttamente nei loro villaggi natii. Il punto iniziale del viaggio è quasi sempre Benin City, da dove parte la rotta verso la Libia. Lungo il viaggio e durante il soggiorno finale, spesso nei ghetti di Tripoli, queste donne subiscono violenze e maltrattamenti. Le speranze di un’offerta di lavoro in Europa lasciano dunque presto spazio alla consapevolezza di essere parte di un ingente traffico umano con finalità di sfruttamento della prostituzione. Sono questi i dati e le testimonianze raccolte nei centri di accoglienza sparsi nel Sud Italia.

Non solo il tema dello sfruttamento della prostituzione. Il caos sociale generato da Boko Haram nel Nord Est del Paese unito ad una ormai decennale persecuzione contro i cristiani nella parte centrale dello Stato africano (circa 500 i morti nel corso di febbraio nello Stato di Benue, almeno 11500 i cristiani uccisi tra il 2006 e il 2014), hanno portato e stanno portando (visto che la primavera è ormai alle porte) un esodo composto da uomini, donne e bambini nigeriani diretti verso l’Europa, arrivato a quasi 20000 persone nel solo 2015.

Se ormai la rotta greca è divenuta la principale, se la questione dell’accoglienza divide l’Europa al suo interno (vedi il Consiglio Europeo del 17 e 18 marzo a Bruxelles), sono i dati diffusi ancora dall’OIM a certificare una diversificazione dei flussi migratori. La destinazione italiana, infatti, è divenuta di nuovo prerogativa di persone di origine africana.

Ed è proprio la componente nigeriana ad avere fatto registrare un boom di arrivi nel gennaio 2016, con 916 approdi rispetto ai 109 dell’anno precedente.

Se la guerra siriana produce un effetto sull’Europa, ma dal corridoio orientale, le diverse aree di crisi in seno alla Nigeria stanno provocando un esodo verso il Sud del Vecchio Continente. Pur con numeri ancora sensibilmente diversi rispetto alla Siria, la presenza ancora rilevante di Boko Haram, la persecuzione contro i cristiani e il caso di migliaia di donne vittime di tratta pongono la Nigeria come una delle aree più calde al mondo, in cui i tanti e troppi temi geopolitici sono ancora ignorati dall’establishment europeo e internazionale.

 

Giacomo Pratali

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Roma: arrestati sospetti terroristi ISIS

BreakingNews/EUROPA di

Martedì 8 marzo i Carabinieri del Ros hanno arrestato a Roma due delle tre persone sospettate di essersi legate allo Stato Islamico. Tra i due spicca Vulnet Makelara, conosciuto con il soprannome Karlito Brigande, 41 anni, macedone, già finito in carcere in Italia, il quale stava progettando di unirsi allo Stato Islamico. Il terzo mandato d’arresto per l’altro complice era destinato al tunisino Barhoumi Firas (29), fuggito però diversi mesi fa in Iraq.

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La ricostruzione degli investigatori
Sono proprio Brigande e Firas i due personaggi chiave dell’inchiesta condotta dai Carabinieri. I due, conosciutisi in prigione, hanno continuato a mantenere i contatti anche fuori dalla prigione nel corso del 2015. Infatti, il macedone, già arrestato negli anni Novanta per rapine, era stato convinto dal tunisino ad arruolarsi con lui nel Daesh e raggiungerlo in Iraq per compiere assieme una sequenza di attacchi con autobomba.

E sono proprio le conversazioni via chat del 20 ottobre 2015, riportate nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Roma Elvira Tamburelli, ad inchiodare i due:

Barhoumi: … andrà tutto bene inshallah… anche se tu vuoi venire qua… posso sistemare tutto per te. Basta che tu fai un programma così anche con documento falso così tu puoi venire inshallah.
Brigande: .. fratello mio, ma io già sono pronto se… mi puoi scrivere le strade, le cose, come faccio, da dove cerco inshallah piano piano di arrivare là.
Barhoumi: … basta tu cerca per venire a Turchia resto ci penso io per te hai capito? Basta che tu venire a Turchia, hai capito?
Brigande: Ok fratello cerco questo mese inshallah… cerco di venire più presto.
Barhoumi: … per me io ho segnato… uno… per una operazione suicida, vuol dire prendo una macchina con l’esplosivo dentro per fare un’operazione contro i kuffar (miscredenti, ndr) inshallah. Però se mi dici una promessa che tu venire dopo un mese io posso allontanare la data dell’operazione.

La questione foreign fighters
Quella riguardante Karlito Brigande è solo una goccia nel mare del reclutamento portato avanti con successo dallo Stato Islamico in Europa e in Italia. Un reclutamento portato avanti da stati come Siria, Iraq e Libia (solo per citare i tre casi più eclatanti), ma di cui sono complici passivi gli stessi Stati occidentali da cui partono i futuri jihadisti.

L’emarginazione sociale ed economica è la leva sulla quale, attraverso i social network, gli uomini di Daesh contano. L’indottrinamento e la campagna di propaganda fatta su quelle persone, in maggioranza giovani tra i 18 e i 35 anni, immigrati di prima ma anche di seconda generazione, è una sorta di fase di addestramento psicologico, preliminare a quello di tipo fisico in loco.

Militanti che spesso si pentono di giungere in aree di guerra, come dice l’aumento degli arruolati in Libia a dispetto di Siria e Iraq, ma che altrettanto spesso vengono utilizzati come pedine dalle gerarchie locali.

Militanti che, però, come già accaduto in Francia e Belgio, tornano con frequenza in Europa per prendere il comando di gruppi di aspiranti jihadisti e guidare una o più azioni terroristiche nelle principali città del Vecchio Continente.

Il fenomeno dei foreign fighters, aldilà dei numeri (circa 30000 sarebbero giunti in Iraq e Siria da oltre cento paesi, secondo gli ultimi dati dei servizi segreti italiani), porta, o ha già portato, la guerra tra Occidente e Stato Islamico ad un livello diverso rispetto al passato. Non più nazione contro nazione. Non più una guerra condotta prettamente contro un nemico in un luogo specifico. La guerra in Siria, in Iraq e quella prossima in Libia, sono combattute anche in Europa, Italia compresa, dalle forze di polizia e dai servizi di intelligence. L’arresto di Brigande, così come i tanti dell’ultimo periodo in Europa, dimostrano che la guerra tra Occidente e Califfato sia solo all’inizio.
Giacomo Pratali

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Libia: Farnesina conferma morte dei 2 italiani

BreakingNews/EUROPA di

“Relativamente alla diffusione di alcune immagini di vittime di sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, apparentemente riconducibili a occidentali, la Farnesina informa che da tali immagini e tuttora in assenza della disponibilità dei corpi, potrebbe trattarsi di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni “Bonatti”, rapiti nel luglio 2015 e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla. Al riguardo la Farnesina ha già informato i familiari. Sono in corso verifiche rese difficili, come detto, dalla non disponibilità dei corpi”. Questa la nota di giovedì 3 marzo del Ministero degli Esteri che conferma l’indiscrezione sulla morte degli italiani Fausto Piano, 61, e Salvatore Failla, 47. Mentre gli altri due compagni connazionali, Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, rapiti anch’essi nel luglio scorso, “sono ancora vivi”, come riferito dal presidente del Copasir Marco Minniti.

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Le circostanze della morte

Mercoledì 2 aprile, Fausto Piano e Salvatore Failla sarebbero rimasti vittima di uno scontro a fuoco nei pressi di Sabrata tra le forze di sicurezza di Tripoli, guidate da Fajr Libya, e un gruppo di miliziani dell’ISIS. Secondo le fonti locali, i due italiani sarebbero stati colpiti mentre viaggiavano a bordo di un convoglio jihadista.

Le conferme video arrivate su Facebook e il comunicato della Farnesina non lasciano spazi a dubbi sulla morte dei due italiani. Dubbi, invece, che rimangono sin dagli albori dell’intera vicenda, a cominciare proprio dal rapimento del 20 luglio 2015. Infatti, al momento dell’assalto, i quattro dipendenti della Benetti stavano tornando a casa dalla Libia in Tunisia a bordo di un’autovettura, mentre solitamente i dipendenti di Eni e della stessa Benetti, per lo stesso viaggio, utilizzano un’imbarcazione marittima.

Non solo. Anche i mesi successivi sono avvolti in un alone di mistero. Se negli ultimi tre mesi già si sapeva della separazione dei quattro rapiti, meno si sapeva invece su chi li tenesse prigionieri, visto che una rivendicazione non è mai arrivata. Addirittura, fino a fine febbraio, era stato esclusa la pista ISIS.

Circostanza di fatto smentita con lo scontro a fuoco dove, molto probabilmente, i jihadisti hanno utilizzato i due italiani come scudo. Mentre gli uomini di Fajr Libya non erano al corrente che nel convoglio della brigata dello Stato Islamico fossero presenti i due dipendenti della Bonatti.

 

Giacomo Pratali

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Nigeria: su Boko Haram ottimismo fuori luogo

Medio oriente – Africa di

L’ottimismo manifestato dal presidente Muhammadu Buhari dopo alcune vittorie riportate dall’esercito nigeriano contro Boko Haram stride con la realtà. Le atrocità nel villaggio di Dalori, dove l’incendio appiccato dai jihadisti ha provocato la morte di circa 90 persone, compresi bambini, e il recente raid a bordo di una motocicletta sempre in un villaggio dello Stato del Borno, dove sono morte 3 persone, segnalano che la guerra nel Nord-Est del Paese non è ancora finita.

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È vero, dall’avvento del presidente Buhari nel 2015, la lotta a Boko Haram, in collaborazione con Camerun e Ciad, ha portato ad alcune battaglie vinte. L’attuale Capo di Stato infatti, a differenza del suo predecessore, il cristiano Jonathan Goodluck, viene proprio dal Nord della Nigeria ed è musulmano: fattori positivi nella lotta all’organizzazione fondamentalista.

Ma ben altri sono gli aspetti negativi. Alle vittorie e ai conseguenti, e momentanei, arretramenti di Boko Haram, non ha fatto seguito un’avanzata della Nigeria come Stato. Ovvero, a causa della mancanza di fondi, è venuta meno quella ricostruzione di case, scuole e chiese che si sarebbe potuto tradurre in una, seppur lenta, ricostruzione del tessuto sociale dello Stato del Borno.

A questo, si aggiunge l’eterna contrapposizione tra il Sud, cristiano, più ricco e sviluppato; e il Nord, musulmano, più povero e con meno infrastrutture. Una contrapposizione acuita dalle accuse fatte dalla popolazione del Nord-Est all’esercito nigeriano, accusato di rappresaglie e violazione dei diritti umani contro i civili mentre era impegnato a dare la caccia a Boko Haram.

Un malcontento su cui Boko Haram, sulla scia di quanto fatto dallo Stato Islamico in Siria e Iraq, ha fatto e fa leva per reclutare persone.

Non solo. L’ottimismo di Buhari, professato anche nel corso dell’incontro con il primo ministro italiano Renzi ad inizio febbraio, è rivelatore di una sottovalutazione dell’avversario. Un avversario che ha adottato una tattica ben precisa negli ultimi mesi. Scomparire quando è in difficoltà per poi riapparire quando le condizioni lo consentono e utilizzare con minor frequenza l’arma degli attacchi suicidi a favore dei raid.

Il tatticismo di Boko Haram unito alla ormai pluriennale guerra contro lo Stato nigeriano ci raccontano di una guerra in tutto e per tutto. Per questo motivo, alcune battaglie vinte dall’esercito, come scritto dal Financial Times, non possono fare pensare alla risoluzione del conflitto.

A testimonianza di questo, in un’intervista di Vicenews apparsa sulla HBO, un comandante di Boko Haram, rimasto anonimo, ha affermato: “Io sono dove sono le studentesse rapite nell’aprile 2015. Vuoi sapere dove si trovano? Esse non sono con noi. Se otterremo ciò che chiediamo, verranno rilasciate”. Parole di sfide, parole che chiariscono che è Boko Haram ad avere ancora il coltello dalla parte del manico nella guerra contro la Nigeria.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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