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L’evoluzione di Idlib, la guerra silenziosa che inizia a far rumore in Europa

MEDIO ORIENTE/REGIONI di

Ad Idlib lo stallo apparente si è infuocato fino alla tregua di oggi, ma è sempre più alta la posta in gioco. Dal rischio di una strage fino alla crisi umanitaria che bussa all’Europa, tutto ciò è nelle mani di Erdogan.

 

Il precario equilibrio di Idlib ha subito nella scorsa settimana una svolta disastrosa.

Qui, nella provincia più a nord-ovest della Siria, ultima zona di conflitto tra le forze lealiste di Assad e i ribelli filo-turchi, la notte del 27 febbraio i caccia siriani Sukhoi Su-24 assieme ai loro omologhi russi Su-34 hanno portato a termine una serie di raid aerei su degli avamposti turchi, uccidendo nel complesso 33 soldati; si tratta della perdita più ingente che la Turchia abbia mai subito dall’inizio del conflitto. Ad oggi lo scontro tra le due parti si riduce in un fazzoletto di terra; le forze governative di Assad il 19 dicembre hanno lanciato un’offensiva che ha costretto nei mesi i ribelli a ritirarsi dietro al confine che era stato garantito loro, durante l’accordo di Sochi nel settembre 2018. Dall’inizio dell’assalto l’esercito siriano, grazie al supporto russo, ha riconquistato un’area di 4.000 km² lasciando la restante, di pari dimensioni, alle file dei ribelli, area in cui peraltro vi è il concreto rischio di un massacro dato che in questo territorio grande appena quanto il Molise sono concentrate circa 3 milioni di persone, di cui profughe un milione.

Ciononostante pochi giorni prima dell’attacco siriano e russo i ribelli erano riusciti, grazie anche al supporto dell’esercito turco, a prendere il controllo della città di Saraqib, snodo fondamentale da cui passano le autostrade M4 ed M5, che congiungono Aleppo a Laodicea e a Damasco; inoltre poche ore prima del raid siriano alcuni media russi avevano riportato degli attacchi ai loro caccia, resi bersaglio di alcune postazioni antiaeree turche.

La risposta di Erdogan e la sua solitudine
La reazione del presidente turco non si è fatta attendere e nella stessa notte ha chiamato d’urgenza una riunione con i vertici della difesa, a cui sono seguite dichiarazioni molto forti: “Le nostre operazioni in Siria continueranno fino a quando le mani sporche di sangue che hanno di mira la nostra bandiera saranno infrante. E’ stata presa la decisione di ritorcersi con maggior forza contro il regime illegittimo che ha puntato le armi contro i nostri soldati”. Poche ore dopo la stessa conferenza il ministro della difesa turco Hulusi Akar ha annunciato l’avvio della quarta operazione in territorio siriano tramite cui la Turchia da qui in poi applicherà il diritto di autodifesa sui suoi territori in Siria. Denominata ‘Spring Shield’, la manovra secondo i vertici militari turchi ha già neutralizzato (ovvero ucciso, ferito o imprigionato) circa 2.800 soldati siriani; dopo gli eventi di questa settimana appare quindi chiara ormai la frontalità dello scontro tra Ankara e Damasco, Erdogan non vuole che Assad esca da questo conflitto vincitore ed è pronto a non cedere il passo su Idlib, del resto ha fornito fin qui un ingente aiuto ai 30.000 ribelli tramite la dotazione di blindati, missili anti-tank e missili anti-aerei, nonché il supporto dell’esercito turco nei 12 avamposti.

Diversamente dall’approccio che Ankara ha con Damasco il presidente turco si guarda bene dall’inasprire il conflitto con la Russia di Putin, il vero leader della guerra, che ha saputo risollevare Assad quando tutta la comunità internazionale lo dava ormai per finito. Erdogan sa bene che deteriorare i rapporti con Putin potrebbe essere fatale, proprio per questo motivo nelle dichiarazioni congiunte al vertice della difesa il presidente turco evita di menzionare la Russia come nemico, ma tutt’al più come un nazione di rispetto con cui Ankara ha rapporti di parità e a cui ha chiesto “di togliersi di mezzo da Idlib e fare i suoi interessi”. Il rapporto fra i due paesi è incerto; nei mesi passati Ankara ha acquistato da Mosca quattro sistemi missilistici antiaerei S-400 per un totale di 2,5 miliardi di dollari contro il parere dei vertici NATO, i quali non hanno gradito l’affare e fin’ora hanno negato alla Turchia l’acquisto degli F-35, tuttavia su altre questioni di primaria importanza come la Libia i due paesi siedono sui fronti opposti: Erdogan appoggia il governo di Tripoli di Serraj, al quale ha inviato anche delle truppe di supporto, mentre Putin supporta il generale Haftar.

Se Erdogan si trovasse a fronteggiare le forze di Assad da sole avrebbe certo più possibilità di muoversi, ma la forte presenza russa gli impone un’estrema cautela; la Russia è padrona dello spazio aereo di Idlib e nelle scorse settimane ha ripetutamente negato alla Turchia la possibilità di sorvolare i cieli siriani. Fin’ora l’unica mossa di Ankara oltre all’esercizio dell’autodifesa è stata chiedere il ripristino dei confini come erano stati garantiti a Sochi nel 2018, ma è quasi impossibile che vengano concessi da Assad a meno che Erdogan non riesca a persuadere il suo “amico” Putin. Una sorta di immobilismo quello turco, molti analisti paragonano la situazione della Turchia a quella di un vicolo cieco da cui Erdogan sta cercando di uscire in tutti modi.
Effettivamente l’ex Impero Ottomano soffre di una certa solitudine a livello internazionale, complice anche il fatto di aver agito in solitaria nella questione siriana e spesso non rendendo chiari i propri intenti, basti pensare che dopo l’attacco subito Erdogan ha fatto appello “alla voce di aiuto del popolo siriano, il quale chiede di essere protetto dal regime e dal terrore” quando però nel territorio di cui ha il controllo, appena a 5 km dai confini turchi, è stato trovato lo scorso novembre dall’intelligence americana Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’ISIS. Il presidente allora ha necessariamente bisogno di supporto dalla comunità internazionale per aver più peso al tavolo con il Cremlino, e vorrebbe che i suoi partner, che sono tali perlomeno sulla carta come la NATO e l’Unione Europea, lo appoggiassero nelle sue azioni.
La questione profughi, un’arma nei confronti dell’Europa

A questo scopo Ankara dispone di un asso nella manica pesantissimo che è riuscito a gestire nel tempo ed è pronto a utilizzare contro l’Europa se questa non dovesse mostrare il suo appoggio. Nel marzo 2016, a 5 anni di distanza dallo scoppio della guerra e in piena crisi umanitaria, l’Unione per evitare l’acuirsi del fenomeno migratorio dei siriani e combattere l’insurrezione delle destre nei rispettivi paesi membri, aveva deciso di concordare con la Turchia il blocco della rotta balcanica prevedendo il ritorno in territorio turco di tutti quei migranti trovati in viaggio verso la Grecia; l’accordo prevedeva il pagamento di 7 miliardi complessivi fino al 2020.

Lo scenario di collaborazione in questi 4 anni è totalmente cambiato; dai tempi dell’accordo la Turchia è diventata protagonista attiva nella guerra siriana, prima nella provincie di Afrin e di Rojava per fermare l’espansionismo delle forze curde delle SDF, e poi ad Idlib tramite il rifornimento e la partecipazione diretta contro il regime. Inoltre ad Erdogan la questione migranti (si stima un bacino di circa 3,6 milioni di profughi siriani in territorio turco) ha causato un “crollo” di popolarità a favore del partito rivale CHP, il partito popolare-repubblicano, il quale ha conseguito la maggioranza nelle principali città. Quindi, ora che è da poco terminato l’accordo di trattenimento dei profughi, la Turchia sta facendo pressione all’Europa, specie dopo che la morte dei 35 militari turchi il 27 febbraio non ha trovato eco di sostegno da parte di Bruxelles.
Il presidente turco all’indomani dei raid ha denunciato la situazione in Turchia, ormai incapace di trattenere i civili siriani, e avvisato l’UE di aver già aperto i propri confini con la Grecia e la Bulgaria: “Gli ufficiali turchi hanno già caricato più di 600 migranti su dei pullman diretti in Europa, in questi giorni se ne riverseranno a milioni”. Non è nemmeno valsa l’offerta da parte dell’Europa di un miliardo di euro per trattenerli in attesa di una soluzione definitiva, che in questi giorni si sono già riversati migliaia di profughi sia nelle città di confine lungo il fiume Evros che sull’isola di Lesbo, dove d’altronde l’UNHCR già attesta la presenza di 16 mila profughi. L’Unione Europea ha offerto il pieno sostegno alla Grecia, in questi giorni il commissario europeo Ursula von der Leyen e il presidente del parlamento David Sassoli saranno nelle zone di confine per valutare la possibilità, ormai quasi certa, di un intervento di Frontex, l’agenzia di difesa di confini europei.
Arriva intanto, oggi 6 marzo, l’ennesima tregua, concordata dopo numerose ore di negoziati; Putin ha ricevuto al Cremlino Erdogan e i due hanno stabilito il cessate il fuoco, dei pattugliamenti congiunti al confine e un corridoio di sicurezza lungo sei chilometri in prossimità di Saraqib e dell’autostrada M4. Nonostante i leader al termine dei colloqui si congratulino reciprocamente per la vittoria diplomatica emerge sempre più un fatto, ovvero la precarietà delle tregue in Siria; difatti Erdogan ribadisce che qualsiasi violazione da parte delle autorità siriane verrà vendicata mentre gli interessi di Putin sono sempre più contrastanti con quelli turchi, la base russa di Khmeimim ad esempio è stata ripetutamente resa bersaglio di attacchi da parte delle milizie jihadiste dei ribelli. Si tratta pur sempre di una guerra che dura da 9 anni, eppure nemmeno gli ultimi episodi riescono a cedere il passo al futuro della Siria in silenzio.

La Turchia senza Europa, un nuovo equilibrio in medio oriente

EUROPA di

La decisione delle autorità olandesi di vietare l’ingresso nel Paese ai ministri turchi Fatma Betül Sayan Kaya e Mevlüt Çavusoglu, preceduta da iniziative analoghe delle municipalità tedesche e dell’Esecutivo austriaco, ha innescato una grave crisi tra i due Stati segnata dalla sospensione delle relazioni diplomatiche di alto livello tra l’Aja ed Ankara e dalla chiusura dello spazio aereo turco ai diplomatici dei Paesi Bassi, ampliando così la frattura già esistente tra l’Unione europea e la Turchia filo-islamica di Erdogan.

A provocare questo crescendo di tensione tra il Governo conservatore di Ankara ed i suoi alleati occidentali, sono stati, oltre al recente rifiuto di Germania, Austria e Olanda di ospitare sul proprio territorio nazionale rappresentanti turchi in campagna elettorale per il sì al referendum costituzionale, anche, e soprattutto, la posizione ambigua assunta da Ankara nelle crisi geopolitiche regionali (in particolare nella guerra civile siriana), e la risposta eccessiva e violenta di Erdogan al tentato golpe del 15 luglio scorso, con cui il Presidente turco è riuscito a indebolire ogni contro-potere interno.

La svolta autoritaria guidata dal leader dell’Akp ha prodotto, infatti, un drammatico deterioramento dello Stato di diritto che è stato rilevato anche nell’ultimo Rapporto annuale della Commissione europea sui negoziati di adesione della Turchia all’UE ed ha aumentato le preoccupazioni all’interno di molti Stati membri.

Questi ultimi hanno lanciato un duro monito alla dirigenza politica turca dichiarando che le recenti azioni del Governo di Ankara nel capo dei diritti umani e della libertà di espressione, incluse le valutazioni sulla reintroduzione della pena di morte, la sempre minore indipendenza della magistratura e la discriminazione delle minoranze, sono incompatibili con il desiderio ufficiale dello Stato turco di diventare membro dell’Unione e stanno mettendo a repentaglio i progressi fatti da Ankara nell’ultimo decennio per conformarsi ai criteri di Copenaghen.

In realtà, i negoziati per l’adesione, avviati nel 2005, sono rimasti bloccati, oltre che per la mancata pacificazione del conflitto curdo ed il lento processo di consolidamento della fragile democrazia turca, anche a causa della posizione di Francia, Germania, Austria e Cipro da sempre contrarie all’ingresso di un Paese ad alta densità demografica che avrebbe mutato radicalmente i fondamentali economico- geografici e gli equilibri politici interni al blocco europeo.

Tali ostacoli all’adesione di Ankara all’UE, posti principalmente dall’asse franco-tedesco, mostrano come l’avvicinamento della Turchia all’Europa stia scontando un doppio affaticamento frutto, da un lato, di resistenze e problematiche interne all’UE e dall’altro, di un processo di riforme dello Stato turco che rallenta proporzionalmente alle difficoltà di dialogo con Bruxelles, aggravate sicuramente dal crescente euroscetticismo dell’opinione pubblica turca e dagli avvenimenti delle ultime settimane.

Dopo il comizio negato ed il respingimento dei ministri turchi in Olanda, la crisi diplomatica si è infatti estesa anche ad altri Paesi europei, coinvolgendo la Danimarca, che ha deciso di rimandare la visita del Ministro degli Esteri turco Yildirim in segno di solidarietà con i vicini olandesi, e alla Germania che ha espresso sdegno per le accuse di nazismo pronunciate dal Presidente Erdogan.

Anche a Parigi, dove tutti i canditati all’Eliseo hanno condannato la decisione delle autorità francesi di autorizzare una manifestazione pro-referendum dopo le dichiarazioni inaccettabili del Governo turco, è montata la polemica e la conseguente escalation della tensione tra l’Unione e la Turchia, aggravata anche dalla sentenza della Corte di Giustizia del 14 marzo sulla possibilità di vietare il velo islamico nei luoghi di lavoro all’interno dell’UE.

Ankara, da anni impegnata nelle procedure di ammissione all’Unione, si è ritrovata, quindi, in aperto contrasto con i Paesi europei che fino pochi mesi fa avevano scelto una politica più “morbida” e pragmatica nei confronti dello Stato turco, all’insegna della connivenza e della tacita accettazione del crescente autoritarismo di Erdogan, che permettesse all’Unione, incapace di trovare un’intesa sulla distribuzione equa dei migranti e di sorvegliare i propri confini, di risolvere, o quantomeno arginare, il problema migratorio riducendo il numero di profughi nel Mar Egeo.

È per rispondere a tale esigenza che è stato lungamente discusso, e poi concluso il 18 marzo 2016, l’accordo sulla gestione dei migranti tra Bruxelles ed Ankara, di cui il Governo turco ha già minacciato più volte la sospensione.

Tra i punti d’azione previsti dall’EU-Turkey Statement figurava anche l’accelerazione della tabella di marcia per la liberalizzazione dei visas con l’obiettivo di abolire entro giugno 2016 l’obbligo del visto per i cittadini turchi e favorire così il processo di integrazione di Ankara nell’Unione, che ora, alla luce dei recenti avvenimenti, sembra più una chimera che una reale possibilità.

La diffidenza reciproca e la profonda crisi di fiducia che esiste oggi tra i Paesi dell’Unione ed Ankara, hanno infatti reso l’opzione dell’adesione turca all’Unione europea sempre più impraticabile e determinato un’ulteriore perdita di interesse del Governo dell’Akp nei confronti dell’UE che sta spingendo la Turchia di Erdogan a ricercare ad Est alternative ai suoi alleati occidentali.

Di qui il progressivo rafforzamento dei legami politici, economici e diplomatici tra Mosca ed Ankara, riconducibile, non solo alla comune disillusione nei confronti dell’Europa, che ha deluso le aspettative di rapida inclusione della Turchia e le speranze russe di un rapporto collaborativo e paritario, ma anche alla presenza, in entrambi i Paesi, di movimenti tradizionalisti che tendono verso Est (insistendo sulla natura politica e culturale euroasiatica), nonché al progetto turco di impedire la nascita di un corridoio curdo tra Siria e Turchia (a cui neanche i russi sembrano particolarmente favorevoli) che costituirebbe una barriera enorme alle ambizioni espansionistiche di Ankara.

Per Erdogan, infatti, il separatismo curdo è diventato una minaccia maggiore della sopravvivenza del regime di Bashar al Assad, che fin dalla primavera del 2011 la Turchia aveva combattuto appoggiando prima il Free Syrian Army e poi i gruppi jihadisti.

Il sostegno statunitense alle milizie curde siriane dell’Ypg legate al Pkk, che ha incrinato profondamente le relazioni turco-americane, insieme alla preoccupazione di Teheran per i sommovimenti della minoranza curda iraniana nelle regioni settentrionali e occidentali del Paese, hanno determinato un netto cambiamento della posizione turca nel conflitto siriano che ha portato a uno spostamento degli equilibri diplomatici verso Est.

In questo senso deve essere letto il disgelo con Mosca e l’Iran di Rouhani (alleati di Damasco), ed il cambiamento della posizione di Ankara anche nella questione dei progetti turco-russi sui gasdotti e gli oleodotti diretti al mercato europeo attraverso l’Anatolia.

Il nuovo corso della politica estera turca, fondato su un importante coordinamento con Teheran (con cui permangono comunque divergenze strategiche) ed il Cremlino (che sta approfittando delle tensioni tra Ankara e l’UE per avvicinarsi ulteriormente ad Erdogan), mostra quindi uno slittamento del baricentro geopolitico della Turchia verso Russia, Cina e Iran, indispensabile ad Ankara per trasformarsi in una potenza euroasiatica egemone.

Di fronte a tale situazione geopolitica di spostamento a oriente del potere economico e politico, emerge con sempre maggior evidenza la crisi del progetto europeo e la progressiva marginalizzazione dell’Europa che, invece, ha sempre cercato nella Turchia un alleato chiave nella lotta al terrorismo e nella gestione della crisi migratoria.

La riconciliazione turco-russa e l’inasprimento dei rapporti tra Ankara e Bruxelles mostrano, al contrario, una Turchia sempre più lontana dalla NATO e un Erdogan più propenso a portare avanti una politica interna ed estera indipendente dall’Occidente che potrebbe condurre all’affossamento dei negoziati con l’Unione, alla trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale senza pesi e contrappesi sul modello russo e a un importante cambiamento degli equilibri geopolitici nel Vicino e Medio Oriente a vantaggio delle grandi potenze asiatiche.

 

Marta Panaiotti

 

Turchia:  dopo il tentato  “golpe”, le prospettive politiche

EUROPA di

Le conseguenze del fallito colpo di Stato in Turchia suscitano pesanti interrogativi sul futuro di quel grande paese, sul piano interno e internazionale.   L’azione di destabilizzazione è stata stroncata in poche ore, ma ha prodotto effetti particolarmente cruenti, con 271 morti.    Le sue dinamiche e il suo rapido fallimento hanno evidenziato limiti organizzativi sensibili e carenze e approssimazioni nell’attuazione del piano.

Buona parte delle alte sfere delle forze armate sono risultate estranee al tentato golpe, condannato da larga parte dell’opinione pubblica e dalla stampa che hanno espresso piena solidarietà e sostegno al Presidente Erdogan.    Le stesse opposizioni parlamentari hanno preso nettamente le distanze dall’iniziativa eversiva, pur esprimendo caute preoccupazioni sulla reazione repressiva posta in essere dal governo.  Almeno 70.000 sospensioni dal lavoro o dalle cariche, circa 18.000 arresti, passaporti ritirati, sanzioni e misure cautelari assunte con criteri che appaiono fin troppo generalizzati e indiscriminati.

Troppe persone sono state colpite in pochissime ore e pochissimi giorni – con modalità talvolta raccapriccianti, per gli aspetti degradanti e lesivi della dignità umana – perché sospettate di collusione con la fallita cospirazione.

Difficile evitare, quindi, almeno il sospetto di una resa dei conti generalizzata, a prescindere dalle responsabilità, in ordine al tentato putsch.    E da tempo, peraltro, gli osservatori più attenti segnalano ombre e ambiguità nel regime guidato dal leader dell’AKP, il partito per la Giustizia e per lo Sviluppo, affacciatosi sulla scena politica come promotore di un islamismo moderato e democratico, aperto all’Occidente e alla prospettiva di integrazione nell’Unione Europea.    Questa linea è stata poi ribadita dal suo leader Erdogan, dopo la prima vittoria elettorale del 2002 e l’insediamento come Primo Ministro nel 2003 (dal 2014 è Presidente della Repubblica, eletto dal popolo, dopo l’introduzione dell’elezione diretta).   L’AKP ha cercato di apparire, fin dall’inizio, come il baluardo della moderna democrazia liberale nel Medio Oriente.    Ma sull’indirizzo politico impresso dalla leadership di Erdogan, negli ultimi tre lustri, affiorano, da anni, fondate perplessità, in considerazione delle repressioni e dei processi a carico di dissidenti e cronisti, delle persistenti penalizzazioni dell’etnia curda, delle ribadite posizioni negazioniste sul genocidio armeno, dei violenti interventi della polizia nei confronti dei manifestanti di Piazza Taksim, nel 2013, delle ambiguità evidenziate nel contrasto della minaccia Isis.   All’immagine di baluardo ed esempio di democrazia e di modernità nel Medio Oriente, si è gradualmente sostituita quella di un aspirante sultanato, con connotazioni di inquietante autoritarismo.   Un’immagine che trova conferma nelle drastiche misure repressive assunte dopo il golpe, nella tentazione di ripristinare la pena di morte, nell’atteggiamento di sfida assunto nei confronti degli alleati occidentali (Europa e Stati Uniti).   Non è semplice, al momento, cogliere le motivazioni di scelte e posizioni così drastiche ed estreme.

La Turchia è collocata in un’area investita da conflitti e tensioni che rendono il ruolo del Paese particolarmente strategico, ai fini della composizione degli stessi e, al tempo stesso, espongono la nazione al continuo rischio di subirne i riflessi, in termini di stabilità e di sicurezza.    Alle porte c’è la complicata guerra civile siriana, anzi siro-irachena e l’assedio alla roccaforte del Califfato, ormai in evidente affanno.

Un conflitto dalle imponenti conseguenze in termini di barbarie, devastazioni, pulizia etnica e migrazioni di massa, che deve essere superato al più presto, per fermare la catastrofe umanitaria.  Alla realizzazione di questo intento non può mancare il contributo di una nazione come la Turchia, per la sua posizione geografica, la sua forza militare, il ruolo politico rivestito nello scacchiere mediorientale.

Negli ultimi tempi, prima del golpe, Erdogan si era mostrato, dopo le iniziali ambiguità, più collaborativo nei confronti di Usa e Russia, nella lotta contro lo Stato Islamico e aveva ristabilito relazioni più distese con gli israeliani.   Con l’UE aveva concluso il noto accordo sui flussi migratori, in grado di alleggerire la pressione verso l’Europa stessa delle moltitudini in fuga dai conflitti.   Ora però il Presidente appare sempre più solo nello scenario internazionale, le repressioni indiscriminate e brutali, tipiche dei regimi totalitari e le dure polemiche contro Stati Uniti ed Europa provocano il suo crescente isolamento.   Forte nel Paese, sostenuto ancora dai mezzi di informazione e dai militari rimasti in servizio, con un consenso popolare forse addirittura più esteso, dopo la tentata deposizione, rischia di diventare il classico “paria”, tra i grandi della Terra.  E’ vero, l’Europa ha bisogno di lui per i migranti, Usa e Russia forse non possono prescinderne, ai fini di un efficace contrasto del Califfato, ma tirando troppo la corda sui diritti umani e sulle accuse agli alleati (di scarsa solidarietà agli europei, addirittura di complicità con i golpisti agli americani), la collaborazione potrebbe diventare troppo imbarazzante per gli occidentali.   E la stessa appartenenza alla Nato potrebbe essere messa in discussione.

Quindi la deriva intrapresa tende a provocare seri rischi di isolamento e incrinare, nel corso del tempo, anche quel consenso di cui ancora può giovarsi il Presidente, nel popolo, nei media e nelle forze armate, potenziando il dissenso di quei partiti minoritari che oggi appaiono deboli, irrilevanti e intimiditi, ma potrebbero crescere, se si sviluppasse l’esigenza di un’alternativa a un regime sempre più oppressivo ed autoritario.   Regime che, accentuando questi aspetti, potrebbe provocare l’allontanamento di turisti e investitori, con conseguenti penalizzazioni economiche per il Paese, considerando che proprio l’economia viene ritenuta il fiore all’occhiello di Erdogan, sotto i cui governi il benessere dei ceti medi sarebbe cresciuto e si sarebbe registrata una migliore distribuzione della ricchezza.

Di fronte a sé il Presidente ha una sola prospettiva ragionevole: l’inversione di rotta, il ripristino delle garanzie e delle libertà proprie di uno Stato di diritto e la distensione nei rapporti con gli alleati americani ed europei.    Tentando di nuovo di pervenire agli accordi di pace con i curdi e collaborando con gli alleati nella lotta al terrorismo del Califfato e nella ricerca di una soluzione politica per la vicina Siria, la cui deflagrazione minaccia la stabilità di tutta l’area e anche della Turchia.

 

 

Turchia, golpe militare fallito, regime di Erdogan rafforzato

BreakingNews/EUROPA di

Con una velocità di esecuzione, che denota un’ organizzazione complessa ed efficiente, le forze armate hanno preso possesso delle infrastrutture critiche nelle principali città della Turchia.

Molti sono gli indizi che fanno pensare ad una componente Gulanista interna alle forze armate alla guida del colpo di mano. I Gulenisti sono un movimento islamista che ha accumulato notevole influenza in Turchia dal 1970 e che è ispirata a Fethullah Gülen, che però dal suo esilio americano condanna fermamente il golpe.

I gulenisti hanno cominciato con infiltrarsi nella gendarmeria, contando sui scarsi controlli di sicurezza sui dipendenti per poi aumentare la propria influenza nella catena di comando militare.

Quando il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ritenuto che il movimento Gulen era diventato troppo potente i rapporti con la componente politica dei Gulenisti e il partito di governo cominciano a logorarsi.

Cosi a partire dal 2014 il governo ha messo in atto una metodica stategia di epurazione dei gulenisti dagli incarichi di carattere pubblico per cercare di ridurre la loro influenza e dalle Forze Armate.

In campo militare questa operazione di pulizia politica non ha avuto gli effetti desiderati e non sono riusciti ad eliminare completamente la loro presenza nella gerarchia.

Il tentativo di putsch è stato bloccato da una rapida reazione di un certo numero di comandanti militari lealisti e dalla polizia nazionale che appoggiata dalla popolazione che è scesa in strada contro i carri armati ha sicuramente deciso le sorti dell’attacco alle istituzioni.

Come abbiamo visto con le elezioni del 2015, quando il Partito di erdogan ha vinto con il 49,5 per cento dei voti, il paese è profondamente polarizzato tra laicisti, islamici, curdi e nazionalisti.

Cosa succederà alla Turchia ora?

L’analista turco Yavuz Baydar ha esposto la sua teoria in un’intervista a “La Stampa” dichiarando che le forze armate sono stanche delle perdite subite sia sul fronte interno che nelle operazioni “oltre confine”, incolpando chiaramente la politica estera di Erdogan. Nella sua analisi l’instabilità in cui versa il paese potrebbe portare la Turchia nella guerra civile.

In ogni caso la figura del presidente Erdogan al momento ne esce rafforzata, incassando l’appoggio degli Stati Uniti che per primi si sono schierato al suo fianco apertamente, al contrario delle istituzioni europee che hanno fatto dichiarazioni di appoggio al “governo democratico”, NATO compresa.

Il braccio di ferro fra Erdogan e i curdi

Medio oriente – Africa di

La vita strappata il 13 marzo scorso a 37 persone dall’ennesimo attentato che ha colpito la capitale turca sembra pesare sul nome del gruppo TAK, sigla che indica i Falconi o le Aquile della Libertà curda. Sul sito del gruppo, nato nel 2004 e considerato come una sorta di braccio armato del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi guidato da Abdullah Ocalan, è apparsa la rivendicazione dell’attentato nella giornata del 16 marzo, a qualche giorno dallo scoppio provocato dall’attentatrice suicida.

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L’obiettivo dichiarato dai Falconi erano le forze di sicurezza governative, non i civili, considerati alla stregua di danni collaterali che potrebbero verificarsi nuovamente in vista dei nuovi attacchi promessi. Mentre le attenzioni del PKK sono rivolte ad obiettivi militari e di polizia turca nella parte sud-est del paese, TAK concentra il suo interesse al cuore della Turchia, ad Ankara, sede del potere politico.

Dal luglio 2015, da quando la tregua che nei precedenti due anni aveva reso “vivibili” i rapporti fra governo turco e minoranza curda è saltata dopo la perdita della maggioranza dell’Akp di Erdogan nelle penultime elezioni di giugno poi invalidate, continua a susseguirsi uno scambio di attentati e vittime. La situazione resa ancora più tesa dal coinvolgimento della forza armata dei Peshmarga curdi nella lotta contro Isis in Siria, si sta progressivamente aggravando.

L’attentato del 16 marzo scorso ha provocato, come reazione da parte del governo turco definito fascista dai Falconi della Libertà curdi, una serie di bombardamenti che hanno colpito il villaggio curdo, Sharanish, situato al confine con la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel quale vivono anche cristiani di confessione caldea e assira, e l’area dei monti Quandil a nord dell’Iraq, zona in cui già dal 2011 la Turchia interveniva con attacchi sporadici e nella quale si concentrano le principali postazioni del PKK. Inoltre ha dettato l’aggravarsi delle repressioni nella regione turca di Dyarbakir ad alta concentrazione curda. In totale sono state bombardate 18 postazioni curde mentre oltre 20.000 poliziotti turchi sono stati impiegati per portare avanti una operazione d’urto contro i militanti curdi di una città al confine fra Iran e Iraq, Yuksekova.

L’annuncio formalizzato da Ankara come rivalsa sul terrorismo dilagante è di 45 militanti uccisi e di due depositi di armi oltre a due lanciarazzi distrutti. In poco più di una manciata di giorni, sono in totale 37 più 45, quindi 82 le vittime, senza contare i feriti, provocati del braccio di ferro che oppone Erdogan ai curdi. Un tragico bilancio al quale vanno ad aggiungersi le integrazioni al reato di terrorismo che il premier turco ha annunciato per includere fra i destinatari del capo d’accusa non solo i militanti ma anche coloro che possono essere considerati sostenitori o simpatizzanti del PKK o dei gruppi collegati. Erdogan continua a osteggiare la minoranza curda per vanificare il suo grande timore, la nascita di una forte alleanza fra i curdi siriani e turchi che, forti della posizione raggiunta già da anni dalla componente irachena costituita in Regione Autonoma – il KRG, Kurdistan Regional Government- potrebbe esigere la costituzione di uno stato autonomo.

Una eventualità che andrebbe a contrapporsi al sogno, più grande del timore, di concretizzare rinascita di un Califfato sotto la sua guida.

 

Monia Savioli

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Terrore in Turchia: Curdi o Erdogan?

Medio oriente – Africa di

Due donne, verosimilmente appartenenti a gruppi di estrema sinistra, hanno aperto il fuoco ad Ankara uccidendo due vittime. La notizia è delle ultime ore. Qualche giorno prima, il 17 febbraio, un attentato terroristico ha provocato sempre ad Ankara l’uccisione di 28 persone, per lo più militari ed il ferimento di altre 64.

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Nella mattinata a Diyarbakir, principale città curda nel sud-est della Turchia, un’altra esplosione ha freddato 7 soldati turchi. La paternità, come annunciato direttamente attraverso il sito portavoce, è stata rivendicata dal Kurdistan Freedom Hawks (Tak), gruppo militare curdo. L’attentato suicida organizzato dai Falconi della libertà è stato organizzato per osteggiare quella che viene definita “repubblica turca fascista” e per contrastare le politiche anti curde del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Kurdistan Freedom Hawks si è allontanato nel 2005 dal Pkk, il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan che, dall’estate scorsa, ha rotto la tregua fino a quel momento stabilita con Ankara.

Il gioco delle elezioni, organizzate a giugno e poi ripetute qualche mese dopo per volere Erdogan, orfano della maggioranza persa grazie all’impennata del partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, ha provocato una nuova frattura. Attentati, persecuzioni, tentativi, riusciti, di imbavagliare la stampa nazionale hanno devastato il paese e confuso la comunità internazionale a proposito della paternità degli stessi. I curdi si dichiarano per lo più estranei, pronti a scaricare la responsabilità degli attacchi a Erdogan che a sua volta li rimbalza su di loro.

Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha coinvolto nelle attribuzioni di responsabilità relative all’attentato anche le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG operative in Siria, che prontamente si sono definite estranee. A parere del Comando Generale delle YPG, l’accusa serve ad Ankara per aprire la strada a un’offensiva nel Rojava e in Siria, dove le forze delle Unità di Difesa del Popolo stanno difendendo i curdi da ISIS e Al-Nusra. Sicuramente l’ attentato del 17 febbraio, ha offerto la possibilità a Erdogan di ribadire ancora una volta ad Obama le sue convinzioni, relative al profilo terroristico del Partito siriano dell’Unione democratica curda (Pyd), al quale l’YPG è legato, insinuando che le armi a loro fornite dalla coalizione vengano prontamente consegnate a Isis. Ciò che in pratica il governo di Ankara pare faccia da mesi. Erdogan vorrebbe che il Pyd fosse inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma Washington tiene duro e non si piega ai desideri di Erdogan. I curdi, vessati dalla Turchia, sono ora al centro della crisi che sta sconvolgendo il Medio Oriente. La regione autonoma del Kurdistan iracheno vive ancora in uno stato di grazia mentre attorno si sta scatenando l’inferno. Le milizie curde sono impegnate in Siria contro Isis e la coalizione internazionale continua a dare loro fiducia anche per ragioni logistico e tattiche.

I gruppi curdi presenti e operativi in Turchia sono diversi. La sigla più nota è quella del PKK, il partito dei lavoratori curdi e simbolo del movimento separatista che Abdullah Ocalan ha fondato in Turchia. Il Pkk è considerato a tutti gli effetti gruppo terroristico per Stati Uniti, Unione Europea e Turchia. La lotta contro il governo di Ankara ha provocato dal 1980 circa 40.000 vittime. Il testimone è passato oggi a due organizzazioni, il Movimento Patriottico Giovanile, organizzazione paramilitare formata da simpatizzanti del PKK e le Unità di Protezione Civile. Al loro fianco si schierano i Falconi della Libertà, i Tak, un tempo ramo del PKK. A livello politico, i curdi sono rappresentati dall’HDP di Demirtas, il Partito Democratico Popolare, coalizione di sinistra nella quale si riconoscono anche altre minoranze turche, le stesse che hanno decretato il suo successo durante le elezioni, poi invalidate, del giugno scorso nel quale l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza. Gli attentati che hanno insanguinato la Turchia nel periodo trascorso fra i due appuntamenti elettorali, e che Erdogan ha prontamente attribuito ai curdi, ha permesso all’AKP di impossessarsi nuovamente della maggioranza.
In Siria i curdi sono rappresentati dall’Unione Democratica curda, il PYD, che ha ritagliato nel nord del paese una porzione di territorio, il Rojava. I turchi considerano il PYD come il ramo siriano del PKK e sono contrari alla creazione di un corridoio curdo in Siria. Usa e Russia, al contrario, hanno fino ad ora sostenuto l’operato del PYD, che si è rivelato uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i crimini compiuti dallo Stato Islamico. Le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG sono le milizie associate al PYD nelle quali è inserito anche una componente femminile, definite YPJ. Le YPG hanno attirato centinaia di giovani curdi dalle città della Turchia pronte a difendere le roccaforti curde in Siria. E’ su di loro che Ankara ha cercato di attirare le accuse dell’attentato del 17 febbraio scorso poi smentite dallo stesso movimento. Ed è su di loro che i militari turchi dirigono gli attacchi che ufficialmente dovrebbero essere rivolti ai terroristi dell’Isis.
In Iraq i Peshmerga, l’esercito ufficioso della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, hanno svolto un ruolo fondamentale nel tentativo di contrastare la penetrazione dello Stato Islamico. In questa porzione eletta di territorio curdo, continuano a rivaleggiare i due partiti di punta, il democratico PDK e il patriottico PUK. Sulla bilancia degli interessi, i piatti – curdi da un lato e turchi dall’altro – continuano a danzare. La speranza curda è di ottenere vantaggi per coronare il sogno, mai svanito, di riconquistare una patria. La speranza turca è di arrivare a resuscitare i fasti dell’antico impero ottomano. Ma se da un lato i curdi stanno guadagnando con il sangue la fiducia della comunità internazionale, i turchi fanno di tutto per demolire agli occhi della stessa la credibilità curda. In questo clima è lecito pensare a reazioni violente da parte dei curdi, da anni oppressi, ma non esclusive. Erdogan è abituato a costringere quando non riesce a ottenere spontaneamente. E la situazione che in Turchia sta diventando sempre più drastica ne è una prova.

 

Monia Savioli

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Un jet da combattimento russo Su-24 è stato abbattuto vicino al confine turco-siriano

Secondo una dichiarazione rilasciata dallo Stato Maggiore Turco, l’aereo da guerra abbattuto è stato avvertito per 10 volte in cinque minuti da due F16  turchi mentre il Su-24 stava volando sopra la città di Yaylidagi nella  provincia di Hatay della Turchia.

L’Agenzia di Stampa Turca “Anadolu Agency”, citando  dei funzionari vicino all’ufficio del presidente Erdogan, ha  affermato che l’aereo è stato avvertito dopo aver violato lo spazio aereo turco, prima di essere abbattuto in linea con le regole di ingaggio della Turchia. Al contrario, il Ministero della Difesa russo sostiene di avere “prove oggettive” che confermano che  l’aereo era in volo sul territorio siriano solo e  a una altitudine di 6000 metri.

I russi hanno anche detto che  l’incidente sarebbe stato causato da colpi di arma da terra come dimostrerebbero le  informazioni preliminari raccolte. I locali Ribelli turkmene affermano che  hanno catturato i piloti, uno di loro ferito e l’altro in buona salute.

Un video con il logo della Free Siryan Army  mostra un gruppo di uomini che camminano fino a un’area molto boschiva, dove un paracadute giallo era atterrato.

Mentre è chiaro che il  Su-24 Russo è stato abbattuto in un modo o nell’altro, la specificità della descrizione turca dell’incidente deriva dalle sue comunicazioni con gli F-16 che sono stati impegnati con l’aereo prima che fosse abbattuto.

Al contrario, il ministero della difesa russo potrebbe ancora tentare di ricostruire ciò che è accaduto dalle sue ultime  comunicazioni con il pilota. La cosa importante da notare è che la Turchia ha riconosciuto  direttamente la responsabilità sull’abbattimento mentre ancora  le due parti continuano a contestare esattamente dove e quando è accaduto l’ingaggio.

Fin dai primi giorni del l’intervento russo in Siria, Turchia, Stati Uniti e gli altri partner della coalizione hanno espresso serie preoccupazioni circa la possibilità che si potesse verificare questo scenario. I velivoli russi hanno aumentato l’intensità delle loro operazioni in tutta la Siria, con  targeting sia sullo stato islamico che sulle forze ribelli siriane.

In alcuni casi, gli attacchi aerei russi si sono verificati in prossimità di aree in cui Turchia,  Stati Uniti e Francia hanno condotto le proprie operazioni aeree contro lo Stato islamico, aumentando il rischio di urti accidentali.

Ankara e Mosca sono impegnate in discussioni in ambito strategico militare per il diminuire lo sato di conflitto in Siria e hanno mantenuto una stretta relazione diplomatica. L’abbattimento del velivolo russo non fa presagire una immediata escalation militare diretta tra la Turchia e la Russia. Le due parti saranno probabilmente in grado di gestire le ricadute dell’incidente attraverso mezzi diplomatici e attraverso ulteriori contatti militari per definire meglio le loro aree di attività.

La speranza di Turchia sarà che la Russia esercita una maggiore cautela nelle sue operazioni in Siria per evitare tali incidenti in futuro, tanto più che la Turchia si prepara ad approfondire il proprio impegno militare nel nord della Siria a ovest del fiume Eufrate. In effetti, i ribelli prevalentemente turkmeni affiliati.

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Raw Footage: Russian Jet Downed by Turkey – Nov. 24, 2015

Braccio di ferro con il terrore

Medio oriente – Africa di

L’attentato contro il corteo pacifista che il 10 ottobre scorso ha provocato ad Ankara 95 morti e 246 feriti ha avuto un effetto importante: la sospensione da parte delle forze politiche curde di qualsiasi attività fino alle elezioni di domenica 1° novembre.

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Da quando l’appuntamento elettorale del giugno scorso ha restituito forza al partito curdo dell’Hdp e tolto la maggioranza assoluta all’AKP di Erdogan, la Turchia è divenuta teatro di episodi violenti, finalizzati a interrompere i colloqui di pace che dal 2012 erano in corso con il PKK, il Partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan e identificato come forza terroristica. L’impossibilità di formare un governo per il disaccordo maturato fra le parti ha volutamente motivato, da parte di Ergodan, il ritorno alle urne destabilizzando l’equilibrio interno. Il governo di Ankara ha stretto in una morsa di violenza le zone a maggioranza curda, provocando la dura risposta del PKK ritenuto responsabile di alcuni degli attentati che hanno insanguinato la Turchia.

Le conseguenze hanno oltrepassato i confini nazionali. Nella guerra contro Isis, le forze militari turche si sono accanite più contro i miliziani curdi, alleati Usa nella lotta contro il califfato, che verso i terroristi dello stato islamico. Nessuna ammissione era mai trapelata dal governo di Ankara fino alle recenti dichiarazioni del Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, che ha confermato gli attacchi militari contro le forze curde nel nord della Siria.

La versione offerta alla platea internazionale racconta della necessità evidenziata dalla Turchia di proteggere i confini nella zona Ovest dell’Eufrante minacciati dai curdi dell’YPG, sigla che identifica le forze combattenti del PDK, il Partito Democratico curdo, alleate degli Stati Uniti. In realtà il doppio attacco subito dai curdi si è verificato nella città araba di Tal Abyad, strappata ai miliziani dell’Isis, nella zona ad Est del fiume, quindi esattamente all’opposto.

La situazione divenuta con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più delicata, è stata affrontata dall’Hdp con estrema cautela. L’ufficio elettorale di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito, è allestito in un piccolo locale della periferia popolare di Istanbul, privo di bandiere per evitare che la sede venga presa di mira e possa provocare conseguenze ai residenti. Il mese scorso, negozi gestiti da curdi e uffici dell’Hdp sono stati presi di mira da violenze e distruzioni di ogni genere.

La mano pesante di Erdogan ha colpito, nel tentativo di arrivare di nuovo alla maggioranza assoluta, tutte le possibili espressioni di critica nei confronti della politica dell’AKP. I media indipendenti hanno subito forti pressioni e ridimensionamenti se non la chiusura definitiva. I canali social sono regolarmente minacciati e ridotti. Tante, nella disperata corsa al potere, sono le cause giudiziarie intraprese nei confronti di quanti sono ritenuti responsabili di offese espresse, verbalmente o in qualsiasi altra modalità, contro Erdogan, come successo ad uno studente reo di aver pubblicato frasi non gradite sulla pagina di Facebook.

Il quotidiano turco Hürriyet è stato oggetto di violenze di massa dopo l’accusa di aver diffuso menzogne. L’elenco delle violenze rivolte alla stampa e ai suoi referenti si allungano includendo casi ancora da chiarire. Rientrano nella lista la morte di Jacky Sutton, ex inviata di guerra per la Bbc, trovata morta il 19 ottobre scorso nella toilette dell’aeroporto Ataturk di Istanbul dove stava aspettando il volo per Erbil, e la scomparsa di Serena Shim, giornalista trentenne, alle dipendenze di Press Tv, rimasta uccisa il giorno dopo, in Turchia, vicino al confine con la Siria a causa di incidente d’auto.

La Shim stava rientrando in albergo dopo aver lavorato a Suruc, nella provincia turca di Sanliurfa, consapevole di essere nel mirino dell’intelligence turca in riferimento ad alcuni reportage dedicati all’ambigua posizione turca nei confronti della lotta all’ Isis nella zona di Kobane. I sondaggi prodotti fino ad ora non lasciano apparentemente molte possibilità all’AKP di rientrare in possesso della maggioranza assoluta. Gli esiti del 1° novembre ci riveleranno il vero peso del terrore.
Monia Savioli

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Turchia e rinnovata repressione contro i curdi: cosa sta succedendo?

Negli ultimi giorni il governo turco sta portando avanti una vasta operazione repressiva contro la società civile, i partiti e i guerriglieri curdi.

IMG_0270Per la sua intensità, si può dire che è un bombardamento come non se ne vedevano da anni. Un attacco doppio, portato avanti sia contro le postazioni dei guerriglieri del PKK sia contro villaggi abitati dai civili. E’ ormai evidente che Erdogan ha deciso di intervenire sia dentro la Turchia sia nel resto del Medioriente, andando ad attaccare tutte quelle componenti che provano ad avanzare istanze democratiche. Ma perchè questa accelerazione? Principalmente a che scopo ?

IMG_0271Giovani, universitari, lavoratori, lavoratrici, militanti del movimento lgbt, insieme al movimento curdo, si sono ritrovati insieme per le strade contro un governo repressivo e sempre più autoritario. La risposta immediata del governo è stata quella di entrare nelle case, arrestare, uccidere per strada, vietare qualsiasi cosa, attaccare militarmente i cortei. Il popolo della Turchia conosce il significato di un colpo di stato militare. Possiamo dire che in questo caso si è trattato di un golpe  “politico” dello stato, visto che si tratta di decisioni adottate illegalmente circa le operazioni militari, senza la copertura di un governo.

Alle ultime elezioni politiche del 7 giugno il partito di Erdogan, l’Akp, ha visto diminuire di  molto il proprio consenso, mostrando di aver perso politicamente in Medioriente, e perdendo cosi anche la sua immagine di fronte al mondo intero.

IMG_0272E’ ormai evidente che la risposta di Erdogan alla sconfitta elettorale sia ancora una volta una forte repressione. Sono passati ormai quasi due mesi dalle elezioni ma il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu non ha ancora trovato alleati per formare un nuovo governo. Questo rende ancora più debole la posizione di Erdogan il quale, ciononostante, approfittando dell’assenza di un governo, continua a prendere decisioni illegali in maniera golpista e fascista. Nel ricercare consensi, visto che non si riesce a superare l’impasse e a formare un nuovo governo, presto la Turchia andrà di nuovo alle elezioni, e lo scopo è quello di spingere ancora una volta i curdi all’angolo, etichettandoli come “terroristi”, indebolendo l’Hdp.

Tuttavia la resistenza dentro e fuori la Turchia è fortissima, come spesso ha gia’ dimostrato di essere in grado di fare il popolo curdo, abituato a sollevarsi contro la repressione. Da una parte l’Hdp ha ricevuto un ampio consenso elettorale, superando di tre punti l’odiosa soglia del 10% per poter entrare in parlamento; dall’altra il Pkk ha dimostrato al mondo di essere l’unica forza in grado di fermare ISIS (Daesh) in Medioriente. Mentre eserciti regolari hanno abbandonato il campo a ISIS, le forze della guerriglia sono intervenute mettendo in salvo migliaia di civili, senza distinzione di etnia e religione, proteggendo tutta la popolazione. Da qui la sua continua crescita di consenso popolare dentro e fuori la Turchia. Fatto di cui Erdogan si sta rendendo conto, temendone le conseguenze.

IMG_0273E che ne è del processo di pace che era in corso tra Ocalan ed lo Stato Turco il governo Turco, e che nei gli ultimi mesi si è definitivamente interrotto mettendo Ocalan in un isolamento ormai da 4 mesi. L’Akp ha sempre usato i negoziati con i curdi per offrire all’Europa un’immagine aperta e tollerante; in realtà la sua politica è stata quella di provare a dividere il movimento curdo e le posizioni di Ocalan dalle forze della guerriglia  e dai rifugiati curdi in Europa, provando cosi’ a spaccarlo e a indebolirlo. Non essendo riuscito ad annientare il movimento con le armi, ha cercato di farlo politicamente sfruttando le contraddizioni insite in ogni processo di pace.

Inoltre non dimentichiamo che l’Akp non ha mai riconosciuto la rivoluzione in Rojava e ha negato uno statuto per il popolo curdo, il quale sta cercando di applicare la cosiddetta “autonomia democratica”. Al contrario, ha cercato di annientarla, finanziando e lasciando libertä di movimento entro e attraverso i suoi confini a ISIS. Con la vittoria di Kobane e il respingimento di ISIS fuori dal Rojava, i piani dell’Akp sono falliti. Inoltre sono spesso comparse notizie relative sia all’interno sia all’esterno della Turchia, circa la sempre più plateale connivenza tra servizi segreti turchi e ISIS.

Il 20 luglio scorso, nella cittadina vicina al confine turco-siriano di Suruc, sono stati uccisi 32 giovani socialisti provenienti dalle più grandi città turche. Suruc la conosciamo bene, è il villaggio nel quale si è dato sostegno internazionale alla resistenza di Kobane. Migliaia di attivisti da tutto il mondo, tanti anche dall’Italia, si sono recati proprio a Suruc per offrire il proprio sostegno e aiuto, mentre le guerrigliere e i guerriglieri resistevano a Kobane contro l’attacco di ISIS. Per questo i 32 giovani socialisti erano a Suruc il 20 luglio, per continuare a dare sostegno alla ricostruzione di Kobane. Usando questo attentato come pretesto, il premier turco Ahmet Davutoglu ha deciso di entrare in azione militarmente, motivando questa decisione con la pericolosita’ di ISIS, e bombardandone le postazioni. Nient’altro che propaganda falsa e ipocrita. In questi ultimi due giorni di operazione, l’attacco contro ISIS è durato in tutto 13 minuti. E le postazioni attaccate erano vuote. Qualcuno li aveva forse avvertiti?

IMG_0274Il 24 luglio inizia l’operazione di bombardamento contro i guerriglieri e le guerrigliere curde nelle montagne della zona di difesa di Medya. Una data infelice per i curdi, quella del 24 luglio, avendo subito nel 1923 a Losanna la divisione del Kurdistan in quattro parti: Iraq, Iran, Turchia e Siria. Gli F-16 turchi sono decollati cinque minuti dopo la mezzanotte dalle città di Diyarbakir e Batman ed hanno sganciato bombe tutta la notte sulle regioni di Zap, Basyan, Gare, Avaşin e Metina. Gli aerei hanno poi colpito Xinere e Kandil e molti villaggi di civili nella regione. Alcune zone sono state colpite tre volte nel corso della stessa notte. Parallelamente si svolge una vasta operazione repressiva in Turchia, della stessa portata di quella del 2009 conosciuta come “operazione KCK”, che ha portato all’arresto di circa 700 democratici in tutto il paese e causato l’uccisione di Abdullah Ozdal di 21 anni nella citta’ di Cizre (Turchia). Tutti questi avvenimenti, in un momento molto delicato in cui il primo ministro sta ancora cercando di formare un nuovo governo, puzzano di “strategia della tensione”. Approfittando dell’attuale vuoto politico, l’Akp porta avanti indisturbato la sua politica di annientamento dei curdi. E questo anche con l’appoggio di Barzani, presidente del Kurdistan regionale (Iraq), che rilascia dichiarazioni di condanna dei bombardamenti turchi ma fondamentalmente si rivela essere portavoce di Erdogan e dell’Akp nel sud Kurdistan, avvallando il gioco di divisione dei curdi. Esponendo tra l’altro il suo paese e il suo popolo al rischio di diventare il “giardino di casa” della Turchia, sperando in un riconoscimento formale del Kurdistan regionale quando il vero obiettivo di Erdogan è sfruttarne le ricchezze e controllarlo politicamente ed economicamente.

La politica dell’Akp appare quindi sempre più chiara e disperata. Le sue politiche in Medioriente sono fallite, per questo sta cercando di riconquistarsi un ruolo che pero’ non ha piu’, perchè la rivoluzione del Rojava ha dimostrato che nessuna politica senza o contro i curdi potrà mai avere successo in Medioriente.

Tutti paesi che in qualche modo sono interessati e/o coinvolti nelle politiche mediorientali cambiano strategia a seconda dei propri interessi. Ma la Turchia insiste nel non cambiare e cerca di continuare come se fossimo ancora al tempo dell’Impero Ottomano. Non hanno capito che il mondo è cambiato, il ruolo della Turchia non è piu’ quello di prima: con le politiche e i “giochetti” degli ottomani non si puo’ vivere, anzi si porta un paese al fallimento totale. La società sta cambiando. I confini stanno cambiando.

Bombardamento-Isis-su-Kobane-1024x680L’unica via d’uscita possibile è quella di democratizzare la Turchia e risolvere tutte le questioni con tutti i popoli che la abitano, che è quella che ha cercato di perseguire Ocalan con il processo di pace. Nel frattempo è evidente che le guerrigliere e i guerriglieri curdi non staranno a guardare, e continueranno a combattere in Rojava contro ISIS, avendo dimostrato di poterli fermare, e in Turchia contro repressione e bombardamenti. Continueranno a combattere contro questa politica dell’Akp che sta portando la Turchia in un pantano. Continueranno a portare avanti la rivoluzione in Rojava come unica via per i popoli in medio oriente. Continueranno a manifestare la loro protesta nelle citta’ del mondo, come avvenuto ad esempio in 15 citta’ in Italia o in 22 citta’ in Germania, o in Giappone, India, Francia, dopo l’attacco di Suruc: i curdi sono abituati a resistere e non si sono fatti piegare, né si faranno piu’ utilizzare come in passato per i giochi delle grandi potenze.

Ormai la rivoluzione è cominciata e non ha confini, quei confini artificiali decisi a Losanna senza aver consultato i popoli: per questo non rimanete silenzio anche voi! I curdi non acetteranno piu la schiavitu. Nessun bombardamenti avra il sucesso..

Questi bombardamenti aldi la del confine turco e’ una violazione del diritto internazionale. Le forze internazionali, democratici della soliderieta hanno avuto un ruolo importante per fermare l’ avanzamento di isis in medioriente. Non dimentichiamo che AKP e un altro faccia di ISIS. Da agire immediatamente per far cessare questa politica dello stato turco.

 

Suveyda Mahmud -Sulaimaniyah
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