GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Tag archive

Elezioni - page 2

IL BLOG NAWART PRESS SU VITA

feed_corousel di

Narin vota a un seggio elettorale di Silvan.

Con la voce scossa, Narin ha detto che sarebbe uscita dalle scene per un po’. Due giorni prima era stata arrestata per aver scortato alcuni stranieri al di là delle barricate, lì dove la città di Silvan, situata nel sud-est turco, ha recentemente dichiarato l’indipendenza dallo stato turco. Con il clima di tensione in città e le elezioni alle porte, lei, in quanto membro del Congresso delle Donne Libere curde (KJA) e del partito filo-curdo HDP, non voleva attirare nuove attenzioni su di sé e la sua famiglia. Come biasimarla.

Ma la notte del 31 ottobre ricevetti una telefonata: “Domani vi va di monitorare il clima elettorale e l’affluenza ai seggi qui a Silvan? Vi porto io.” La notte deve averle portato un diverso consiglio, ho pensato senza farmi però ulteriori domande.

La mattina seguente, 1 novembre, veniamo accolte da Narin nella sede dell’HDP di Silvan. E’ di ottimo umore, tutt’altra immagine rispetto a quella che mi prefiguravo. Fino a qualche mese fa Narin era una giornalista per l’agenzia mediatica DIHA ma, “dopo aver coperto l’assalto e il massacro contro i curdi da parte dello Stato Islamico a Kobane,” spiega, “ho capito che ero troppo coinvolta e che non potevo, e non mi andava, di essere solo una testimone di quello che succedeva.”

“Volevo impegnarmi per la mia gente, e lottare assieme alle donne curde,” Narin continua. In poche ore, e con lei a farci da guida in una città spaccata a metà, dove da un lato regna una calma strana, fatta di tanti elettori che si affrettano verso le urne mentre mezzi corazzati ne osservano i movimenti, e dall’altro ci sono barricate, trincee, tendoni e guerriglieri armati pronti a sfidare l’esercito turco, ci avviciniamo a un mondo dove le donne sono in assoluto primo piano.

Camminare con Narin per la città significa essere fermati ogni due per tre da amici, parenti, compagni di partito. A lavorare dentro uno dei seggi è la sorella, una timida studentessa della facoltà di legge di Kahramanmaras, nel sud conservatore e religioso del paese, dove attacchi e provocazioni contro la minoranza curda si sommano giorno dopo giorno. “Non potete neanche immaginare quante delle sue compagne di classe hanno mollato tutto e si sono unite al PKK,” dice Narin. “Lei dice di non volerlo ma, se decidesse di prendere le armi e reagire contro il sistema, non potremmo farci nulla.”

Al di là delle barricate incontriamo una giovane sorridente dalle guance arrossate dal freddo e il kalashnikov a tracolla, e un’anziana signora in abiti tradizionali seduta di fronte a lei. L’una coordina le azioni paramilitari tra i giovani del suo quartiere, l’altra porta approvvigionamenti ai combattenti perché, “questa battagli ci riguarda tutti, ma proprio tutti, da vicino,” afferma con veemenza.

La lancetta dell’orologio scorre veloce e si fa sempre più vicina alle 4, ora di chiusura dei seggi. Narin deve affrettarsi e tornare al centro dell’HDP per monitorare lo spoglio dei voti, e noi andiamo con lei.

Mentre scompare richiamata da mille voci, ci sediamo in una stanza, dove un gruppo di donne del partito, fumando una sigaretta dopo l’altra e sorseggiando del tè, consultano freneticamente i loro smartphone. “Ottenere seggi in Parlamento è un’ottima opportunità per entrare nell’arena politica,” spiega Zuhal Tekiner, co-sindaca di Silvan, “ma noi abbiamo già il nostro Congresso che, sebbene non riconosciuto dalle autorità turche, viene implementato in tutte le municipalità del Kurdistan turco e da equa rappresentazione a tutte le classi sociali.”

“Donne e uomini indistintamente,” conclude ammiccando alle amiche e colleghe sedute intorno, mentre Narin sporge la testa dentro la stanza e ci saluta tutte con la mano.

Braccio di ferro con il terrore

Medio oriente – Africa di

L’attentato contro il corteo pacifista che il 10 ottobre scorso ha provocato ad Ankara 95 morti e 246 feriti ha avuto un effetto importante: la sospensione da parte delle forze politiche curde di qualsiasi attività fino alle elezioni di domenica 1° novembre.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Da quando l’appuntamento elettorale del giugno scorso ha restituito forza al partito curdo dell’Hdp e tolto la maggioranza assoluta all’AKP di Erdogan, la Turchia è divenuta teatro di episodi violenti, finalizzati a interrompere i colloqui di pace che dal 2012 erano in corso con il PKK, il Partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan e identificato come forza terroristica. L’impossibilità di formare un governo per il disaccordo maturato fra le parti ha volutamente motivato, da parte di Ergodan, il ritorno alle urne destabilizzando l’equilibrio interno. Il governo di Ankara ha stretto in una morsa di violenza le zone a maggioranza curda, provocando la dura risposta del PKK ritenuto responsabile di alcuni degli attentati che hanno insanguinato la Turchia.

Le conseguenze hanno oltrepassato i confini nazionali. Nella guerra contro Isis, le forze militari turche si sono accanite più contro i miliziani curdi, alleati Usa nella lotta contro il califfato, che verso i terroristi dello stato islamico. Nessuna ammissione era mai trapelata dal governo di Ankara fino alle recenti dichiarazioni del Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, che ha confermato gli attacchi militari contro le forze curde nel nord della Siria.

La versione offerta alla platea internazionale racconta della necessità evidenziata dalla Turchia di proteggere i confini nella zona Ovest dell’Eufrante minacciati dai curdi dell’YPG, sigla che identifica le forze combattenti del PDK, il Partito Democratico curdo, alleate degli Stati Uniti. In realtà il doppio attacco subito dai curdi si è verificato nella città araba di Tal Abyad, strappata ai miliziani dell’Isis, nella zona ad Est del fiume, quindi esattamente all’opposto.

La situazione divenuta con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più delicata, è stata affrontata dall’Hdp con estrema cautela. L’ufficio elettorale di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito, è allestito in un piccolo locale della periferia popolare di Istanbul, privo di bandiere per evitare che la sede venga presa di mira e possa provocare conseguenze ai residenti. Il mese scorso, negozi gestiti da curdi e uffici dell’Hdp sono stati presi di mira da violenze e distruzioni di ogni genere.

La mano pesante di Erdogan ha colpito, nel tentativo di arrivare di nuovo alla maggioranza assoluta, tutte le possibili espressioni di critica nei confronti della politica dell’AKP. I media indipendenti hanno subito forti pressioni e ridimensionamenti se non la chiusura definitiva. I canali social sono regolarmente minacciati e ridotti. Tante, nella disperata corsa al potere, sono le cause giudiziarie intraprese nei confronti di quanti sono ritenuti responsabili di offese espresse, verbalmente o in qualsiasi altra modalità, contro Erdogan, come successo ad uno studente reo di aver pubblicato frasi non gradite sulla pagina di Facebook.

Il quotidiano turco Hürriyet è stato oggetto di violenze di massa dopo l’accusa di aver diffuso menzogne. L’elenco delle violenze rivolte alla stampa e ai suoi referenti si allungano includendo casi ancora da chiarire. Rientrano nella lista la morte di Jacky Sutton, ex inviata di guerra per la Bbc, trovata morta il 19 ottobre scorso nella toilette dell’aeroporto Ataturk di Istanbul dove stava aspettando il volo per Erbil, e la scomparsa di Serena Shim, giornalista trentenne, alle dipendenze di Press Tv, rimasta uccisa il giorno dopo, in Turchia, vicino al confine con la Siria a causa di incidente d’auto.

La Shim stava rientrando in albergo dopo aver lavorato a Suruc, nella provincia turca di Sanliurfa, consapevole di essere nel mirino dell’intelligence turca in riferimento ad alcuni reportage dedicati all’ambigua posizione turca nei confronti della lotta all’ Isis nella zona di Kobane. I sondaggi prodotti fino ad ora non lasciano apparentemente molte possibilità all’AKP di rientrare in possesso della maggioranza assoluta. Gli esiti del 1° novembre ci riveleranno il vero peso del terrore.
Monia Savioli

[/level-european-affairs]

Egitto: elezioni di facciata

Medio oriente – Africa di

Dopo il primo turno delle elezioni legislative che hanno sancito una netta e prevedibile vittoria del partito “Per amore dell’Egitto” del presidente Fattah al Sisi e, al contempo, un’affluenza ferma a meno del 25%, martedì 27 ottobre gli egiziani sono tornati alle urne per il ballottaggio riservato agli oltre 200 candidati non eletti il 17 e 18 ottobre.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Secondo gli analisti locali ed internazionali, la popolarità di al Sisi andrebbe misurata in base all’affluenza elettorale: pertanto, la misura del consenso per l’ex generale è palese. Dopo la rivoluzione e le elezioni del 2012, sancite dalla vittoria del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, l’Egitto è tornato a rieleggere il proprio parlamento. La sete di libertà della maggioranza del popolo egiziano, testimoniata dalla rivoluzione del 2011, è stata però fermata dall’attuale regime.

Quasi l’80% dei 55 milioni aventi diritto, infatti, è rimasto a casa nella prima tornata per le azioni illiberali di al Sisi. Salito al potere nel 2014 dopo il golpe in cui è stato destituito Morsi, l’attuale leader dell’Egitto ha bollato i Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica, facendo arrestare e condannare a morte l’ex presidente stesso e i leader di questo movimento.

A questo, si aggiunge l’entrata in vigore della nuova costituzione. Se a prima vista contiene alcuni principi liberali, come la eleggibilità per massimo due mandati consecutivi e l’apertura alle minoranze pur mantenendo l’Islam come religione di Stato, un’analisi in profondità mette a nudo la subalternità dell’assemblea legislativa rispetto al presidente, chiamata ad approvare i decreti del capo dello Stato.

In più, le grandi opere, l’apertura ai capitali esteri e l’interventismo in Libia per accattivarsi i consensi presso la comunità internazionale, tre motivi del paragone con Nasser, contrastano con la totale mancanza di welfare e la vicinanza de facto all’ex presidente Hosni Mubarak.

In attesa dell’affluenza e dell’esito del ballottaggio, il primo turno fornisce ulteriori indicazioni sullo stato di salute dell’Egitto. Oltre alla già citata scarsa partecipazione degli elettori, la tornata del 17 e 18 ottobre scorso ha consentito al partito di al Sisi di portare a casa 60 seggi su 60. Mentre, il “Partito degli egiziani liberi” del magnate delle telecomunicazioni Naguib Sawiris e di presunto stampo laico e liberale, che ospita, assieme all’alleato “Per amore dell’Egitto”, alcuni esponenti dell’ex regime di Mubarak, ha eletto subito 5 candidati, mentre 65 sono andati al secondo turno.

“Non è stato facile creare un partito forte senza l’ingerenza del governo. Per noi la coalizione non ha alcuna importanza, sono loro che ci hanno chiesto di entrare per avere più credibilità”, ha affermato Sawiris a Le Monde.

Ottimi risultati, poi, di “Per il futuro della nazione”, formazione politica composta da giovani collegati al golpe del 2013, per i liberali del WAFD. Sconfitta, invece, per “Al Nour”, unico partito in gioco dichiaratamente islamista dopo l’uscita di scena dei “Fratelli Musulmani”, che ha minacciato più volte di ritirarsi a causa di presunti brogli.

Dopo il ballottaggio, l’altra tornata elettorale si terrà il 22 e 23 novembre. Mentre i risultati saranno resi pubblici a dicembre. Tuttavia, l’esito certo è che, dopo la Primavera Araba e la presidenza Morsi, l’Egitto è tornato ad un regime simile a quello di Mubarak, tormentato però dalla presenza ormai stabile di organizzazioni islamiste affiliate al Califfato e operanti soprattutto nella regione del Sinai.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Terrorismo in Turchia: il cordoglio della Nato

BreakingNews di

L’ultimo degli attentati consumati in Turchia è datato un mese fa. Era il 10 agosto quando una raffica di esplosioni e scontri a fuoco ha provocato a Istanbul e nella provincia sudorientale di Sirnak alcuni morti fra poliziotti e militari. La paternità degli attacchi è stata attribuita ai seguaci del partito di opposizione curda PKK e ad alcuni esponenti del gruppo di estrema sinistra Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo Dhkp-c che hanno preso di mira, quale ultimo obiettivo, il consolato Usa di Istanbul provocando uno scontro a fuoco con la polizia, terminato senza alcuna perdita. E’ alle vittime di quella mattinata di terrore che è rivolto il messaggio di cordoglio diffuso dal Segretario Generale della Nato, Jeans Stoltenberg, che ha espresso parole di condanna contro gli attacchi terroristici più recenti e solidarietà per il popolo ed il governo turco. Parole simili erano state pronunciate anche a luglio, a seguito dell’esplosione che a Suruc, località ai confini con la Siria, aveva provocato 28 vittime, uccise mentre si trovavano al centro culturale della città per definire il supporto alla ricostruzione della città di Kobane. In quel caso, fra i possibili mandanti dell’attentato, erano stati identificati i terroristi dell’Isis. La rottura della tregua annunciata nel 2013 dal leader storico del PKK, Ocalan, si è definitivamente interrotta, come si legge nel comunicato lanciato dal Partito dei Lavoratori Curdi nel luglio scorso, “dopo gli intensi bombardamenti aerei da parte dell’esercito di occupazione turco”. L’annuncio è bastato ad Ankara e al leader dell’Akp, Recep Tayyip Erdogan, a sostenere con forza la necessità di tornare di nuovo alle urne dopo il trionfo che le forze politiche curde dell’Hdp, guidato da Selahattin Demirtaş, hanno ottenuto nel giugno scorso, superando la soglia del 10% imposta da Erdogan ed entrando, per la prima volta, in Parlamento. La stessa paternità degli attacchi terroristi di inizio agosto attribuiti al PKK sarebbe incerta al punto da ritenerla strumentale alla richiesta di elezioni anticipate lanciata da Erdogan ed ora accolta. La data delle nuove votazioni è stata fissata al 1° novembre. Nel frattempo si è formato un governo esecutivo ad interim che non esclude eccessive intromissioni, mancando precedenti, da parte di Erdogan.

Monia Savioli

Tories o Lab? Il Regno Unito all’ultimo dilemma

EUROPA/POLITICA di

Due giorni al voto per i cittadini del Regno Unito e il mistero s’infittisce. Mai come a questo giro di elezioni generali si è raggiunto tale grado di imprevedibilità. Votare o non votare Tory? Votare o non votare Labour? A proposito, ci risiamo con i testardi scozzesi!

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Quinta potenza economica mondiale, il Regno si interroga sulle priorità che la politica dovrà inserire e affrontare nella prossima agenda quinquiennale. Al civico 10 di Downing Street continuerà ad avere le chiavi il conservatore Cameron o il laburista Miliband? Una cosa è certa, sta per finire l’era del monopolio di governo anche a Londra. I due leader dovranno provvedere ad alleanze estese per poter garantire la governabilità. Quasi una “normalità” per il resto d’Europa, Germania in primis con un modello di alleanze che “funziona” e Italia con qualche “problemino” in più, ma totalmente una novità per i britannici i quali si vedono alternare i governi laburisti o conservatori dal lontano 1922. Una simile situazione era venuta a crearsi già nel 2010 con i Lib Dem di Nick Clegg, con i quali Cameron mise su la coalizione.

Sistema elettorale e composizione del Parlamento

First past the post- così è chiamato il sistema maggioritario uninominale a norma del quale il territorio del Regno Unito è diviso in 650 circoscrizioni elettorali. La suddivisione delle circoscrizioni è divisa in questo modo: 523 in Inghilterra; 59 in Scozia; 40 in Galles; 18 in Irlanda del Nord. Da ciascuna circoscrizione verrà espresso un rappresentante da mandare alla Camera dei Comuni che assieme alla Camera dei Lord, composta da membri nominati, andrà a comporre il futuro Parlamento. La maggioranza assoluta è quantificata in 326 seggi. Un numero però improbabile da raggiungere da entrambi i partiti.

David Cameron ha dalla sua il cosiddetto” establishment” anche e soprattutto per la ripresa veloce del Regno Unito nell’economia dopo il fermo imposto dalla crisi globale. Culla del capitalismo liberale, il Regno Unito ha dato un forte segnale di rilancio, ma i frutti di questa ripresa, ad oggi, si segnalano a livello macro, la classe media deve ancora attendere le future buste paga per poterla verificare su di se.

Ed Miliband, dopo aver vinto al fratello David la leadership del Partito Laburista, Ed “il nerd” o Ed “il rosso” per i conservatori, sta guadagnando punti nei sondaggi in maniera decisiva e costante. Partito sfavorito all’inizio della campagna elettorale, ha saputo giocare molto sull’immagine, puntando all’autoironia, valore aggiunto come sempre nell’animo inglese.

I Lib Dem di Nick Clegg, voto di protesta nel 2010, oggi hanno perso la loro genuinità e vengono visti come parte del sistema. Lo Ukip di Nigel Farage, dopo l’exploit delle elezioni europee di un anno fa rimane l’anima indomata del panorama politico britanico, ma la sua portata antieuropeista e populista non si prevede possa essere determinante il 7 maggio prossimo. Infine troviamo  verdi che, con l’aiuto delle spinte da sinistra, puntano a qualche seggio.

Chi confonde le acque di tories e lab è l’SNP, il Partito Nazionale Scozzese con a capo il Primo Ministro donna, Nicola Sturgeon. Dopo aver perso il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito a settembre 2014 la popolarità della Sturgeon non è che aumentata. Una ventata di parole “di sinistra” e di grinta che fanno  la differenza. Escludendo ogni punto d’incontro con Cameron, si presume che l’SNP possa coalizzarsi con i laburisti di Miliband in caso di vittoria di questi, ma solo due giorni fa, lo stesso Miliband ha negato questa possibilità. Partendo dal presupposto che nessuno dei leader ha mai parlato o reso esplicite le possibili alleanze, pare inverosimile la chiusura totale della possibilità di alleanze tra questi due partiti.

Battaglia di seggi, battaglia di news. Lo schieramento dei grandi quotidiani, The Guardian e Financial Times in testa, rispettivamente per i laburisti e i conservatori è altrettanto un aspetto fondamentale. Il potere mediatico anglosassone determina più di una manciata di voti e si svolge ad altissimi livelli. Una copertura invidiabile dell’argomento su tutti i fronti, la City della finanza, le città operaie, le periferie del Regno vengono battute come in un trekking mainstream delle intenzioni di voto.

In sintonia con le ventate dal basso nel mondo occidentale, anche nel Regno Unito si continua ad auspicare una politica inclusiva con pressioni dal basso e sopratutto dai “giovani disillusi”, vedendo in questi il veicolo tramite il quale attingere a una nuova politica, più vera, più reale, più tangibile, fuori dall’establishment.

Europa: Should I stay or should I go?

Pochissima Europa in questa campagna elettorale da tutte le forze politiche coinvolte. David Cameron, in caso di vittoria indirà un referendum se rimanere o meno nell’UE. Miliband non lo farà. Stranota la posizione dell’UKIP, altre invece sono le priorità del SNP. Non è un mistero lo scetticismo britannico nei confronti dell’Europa unita, ma in caso di vittoria di Cameron e di eventuale uscita del Regno Unito dall’UE a indebolirsi sarà quest’ultima,  in caso contrario con presumibile rafforzamento del SNP a dover fare i conti con l’indebolimento interno sarà lo stesso Regno Unito.

Appuntamento, il 7 maggio dalle 7.00, Greenwich Mean Time.

[/level-european-affairs]

Sabiena Stefanaj

Nigeria: Buhari vince a sorpresa, ma Usa e Gb denunciano brogli

Medio oriente – Africa di

Il musulmano Buhari batte il presidente uscente Goodluck. Il passato del neo Capo dello Stato, unito alle interferenze politiche denunciate da Usa e Gb, fanno presagire un rischio per la tenuta democratica del Paese africano

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
È stato il musulmano Muhammadu Buhari a vincere le elezioni presidenziali della Nigeria svoltesi a fine marzo. Il candidato dell’Apc, Congresso dei Progressisti, ha battuto il presidente uscente (e cristiano) Jonathan Goodluck. Il partito del neo vincitore va al potere per la prima volta nella storia del Paese africano.

Ma, nonostante Goodluck abbia subito accettato la sconfitta, il 2 aprile, pochi giorni dopo la tornata elettorale, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno parlato di possibili brogli. Al netto dei 3 milioni di voti di scarto, i due Stati denunciano interferenze politiche durante lo scrutinio.

A rendere concreti i sospetti, sono i precedenti di Buhari. L’ex generale, infatti, era stato protagonista del golpe del 1983, grazie al quale era solito al potere fino al 1985. In seguito, non è più stato rieletto per i tre mandati successivi, ma si è comunque reso protagonista di violenze verso la parte cristiana della Nigeria.

Nigeria alle prese con il nemico Boko Haram, presente soprattutto Borno, dove il nuovo presidente ha governato negli anni ’70 e ha fatto il pieno dei voti in queste elezioni. La possibile collaborazione nell’ombra, al netto delle dichiarazioni contrarie durante la campagna elettorale, tra il governo e il gruppo jihadista, potrebbe mettere a repentaglio non solo la tenuta democratica del Paese, ma anche gli impianti petroliferi a Lagos e dintorni e la presenza stessa di molte potenze occidentali nella zona. L’interesse economico e industriale spinge quindi Usa e Gran Bretagna a vigilare sulle prime mosse del presidente Buhari. Il pericolo è che si ripeta uno scenario analogo a quello libico.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Giacomo Pratali
0 £0.00
Vai a Inizio
×