GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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COP21

India e Cina per una nuova leadership sul clima?

Asia di

Il mondo cambia rapidamente. Fino a non molto tempo fa gli Stati Uniti di Barack Obama, nel ruolo dei virtuosi, premendo su India a Cina, i “grandi inquinatori”, perché rinnovassero le proprie politiche ambientali e si unissero alla schiera dei paesi impegnati a combattere il cambiamenti climatici. L’accordo di Parigi COP 21, siglato nel 2015 e sottoscritto da tutti i principali attori in gioco, aveva rappresentato, fatti salvi i molti compromessi al ribasso, un esito favorevole per le istanze ambientaliste ed un successo della stessa amministrazione democratica americana.

A meno di due anni di distanza, gli USA di Trump si apprestano ad uscire dall’accordo e India e Cina si candidano a guidare la lotta contro l’inquinamento, senza risparmiare dure critiche alle scelte della nuova presidenza.

Nessuno dei due paesi, però, sembra realmente in grado di assumere la leadership sul fronte della lotta al riscaldamento globale e riempire il vuoto che verrà inevitabilmente lasciato dalla fuoriuscita degli Stati Uniti.

I due governi asiatici stanno gradualmente assumendo posizioni più nette, anche livello pubblico, contro l’inquinamento da combustibili fossili, poiché le rispettive popolazioni sono destinate a soffrire in modo sempre più diretto gli effetti nefasti dei cambiamenti climatici e dell’avvelenamento delle risorse naturali. Al di là delle prese di posizione, di per se rassicuranti, Cina e India non sono però in grado, almeno per ora, di compensare il forte indebolimento del sistema di incentivi economici che gli USA offrivano ai paesi in via di sviluppo in cambio di un maggiore controllo sui propri livelli di inquinamento.

Il cambiamento di rotta in Asia è però evidente e non va sottovalutato. Per decenni i governi di India e Cina avevano guardato con sospetto e fastidio agli appelli dei paesi del primo mondo per una riduzione delle emissioni inquinanti. Chi aveva basato il proprio sviluppo sull’industrializzazione selvaggia, senza farsi troppe domande sulle conseguenze climatiche, chiedeva ai paesi più poveri di limitare le proprie capacità di crescita in ragione della salute del pianeta. Da che pulpito arrivava la predica?

Oggi, però, sia il presidente indiano Modi che il suo omologo cinese Xi Jinping, sembrano aver adottato una diversa visione del mondo. Modi ha definito “un atto moralmente criminale” quello di non tenere fede agli impegni presi sul fronte climatico. Jinping si è rivolto a tutti i firmatari dell’accordo COP 21 ricordando che esso rappresenta “una responsabilità che dobbiamo assumere per le future generazioni”.

La scelta di Trump potrebbe avere conseguenze drammatiche per quello stesso futuro. Oltre alla riduzione degli incentivi economici e delle forniture di dotazioni tecnologiche (gli USA da soli avrebbero dovuto contribuire per circa il 20% del totale), la ritirata americana potrebbe invogliare altri paesi a fare lo stesso. L’accordo di Parigi, inoltre, era stato da molti considerato un risultato al ribasso, incapace di contenere realmente l’innalzamento delle temperature globali nei prossimi anni. Sarebbero necessari tagli decisamente più sostanziali alle emissioni, per invertire la rotta, ma il voltafaccia americano rischia di indebolire anche l’accordo corrente, incoraggiando gli stati più esitanti ad allentare le maglie del proprio impegno.

Gli USA, inoltre, sono il secondo paese più inquinante al mondo e con gli accordi di Parigi si erano impegnati a ridurre del 26-28% l’emissione di gas serra entro il 2025. Senza il loro contributo, si chiedono gli esperti, come sarà possibile rispettare l’obiettivo di limitare l’innalzamento delle temperature, rispetto all’era pre-industriale, al di sotto dei due gradi, come previsto dagli accordi di Parigi?

Difficile dirlo, ma le cose comunque si muovono. Se l’india si impegna a rispettare i propri obiettivi, nonostante 240 milioni di persone nel sub-continente non abbiano ancora accesso all’elettricità, la Cina sembra viaggiare spedita verso la realizzazione dei suoi impegni e ha avviato un progetto di finanziamento sul fronte delle energie rinnovabili (360 milioni di dollari entro il 2020) che fa del gigante asiatico il nuovo leader del settore a livello globale.

Le nuove politiche ambientali, secondo gli studiosi, hanno già iniziato ad avere alcune conseguenze tangibili nei due paesi. La Cina ha rallentato i propri consumi e l’India si appresta a ridurre i progetti di costruzione di nuovi impianti industriali a carbone. Nuova Deli ha poi accelerato gli investimenti sul fronte dell’energia eolica e di quella solare, muovendosi spedita verso l’obiettivo fissato per il 2022: portare la propria capacità di energia da fonti rinnovabili a 175 gigawatt.

Le parole del ministro dell’energia indiano, Piyush Goya suonano chiare e decise : “Non ci stiamo impegnando sul cambiamento climatico perché ce lo ha detto qualcuno, è anzi un articolo di fede per il nostro governo”. Anche la stoccata rivolta ai paesi più industrializzati ben rappresenta il cambio di paradigma: “Sfortunatamente il mondo sviluppato non dimostra lo stesso impegno nel rispettare le proprie promesse, che potrebbero aiutare ad accelerare la rivoluzione dell’energia pulita.”

Saranno dunque capaci le potenze asiatiche di supplire alle mancanze americane e caricare sulle proprie spalle questa rivoluzione? L’impegno è evidente ma resta il problema economico. La leadership americana sul fronte ambientale, nell’era Obama, si era espressa attraverso un finanziamento di 3 mila miliardi di dollari in favore dei paesi più poveri, per sostenerli nello sviluppo di energie alternative. Questo fondo è stato ridotto di due terzi da Trump e né Pechino né Nuova Deli intendono mettere sul piatto tutti questi soldi. Piuttosto, i due giganti sembrano disposti a svolgere un ruolo di coordinazione e indirizzo, rafforzando la condivisione di conoscenze sul fronte tecnologico tra le nazioni coinvolte.

Usando le parole di Varad Pande, un ex-consulente del Ministero dell’Energia indiano, quella che si costruisce oggi sarà “una leadership dal sapore diverso”.

Decisa e speziata, si spera, come il curry.

In Cina continua l’emergenza inquinamento

Asia di

Il vertice Cop21 di Parigi sul clima volge al termine e i delegati lavorano febbrilmente per trovare un accordo conclusivo che non si risolva in una mera dichiarazione di intenti. La Cina è fortemente coinvolta nel dibattito, sospesa com’è tra le esigenze dello sviluppo industriale e la necessità di tagliare le emissioni ed i gas serra, per il bene del pianeta e dei suoi stessi cittadini.

La Cina, nonostante un certo rallentamento, cresce ancora a ritmo sostenuto ed alimenta il proprio sviluppo industriale con un elevatissimo consumo di carbone e di altri combustibili inquinanti. Lo scorso 2 dicembre, al vertice di Parigi, Pechino ha annunciato l’intenzione di ridurre drasticamente le principali emissioni inquinanti, nell’arco di 4 anni. Entro il 2020 dovranno essere tagliate del 60% e, nello stesso lasso di tempo, si prospetta una riduzione, a livello industriale, di 180 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Resta da capire cosa la Cina intenda per “principali sostanze inquinanti” e se, tra queste, verranno inseriti anche i gas serra. Al di là dello scetticismo manifestato da alcuni, sembra che Pechino voglia ridisegnare il suo modello si crescita, riducendo l’uso di carbone e puntando maggiormente su forme di energia pulita e rinnovabile.

La questione ambientale non riguarda solo il futuro prossimo del paese. Anche il presente è pesantemente coinvolto, perché l’inquinamento dell’aria ha già raggiunto livelli decisamente allarmanti sia a Pechino che nelle altre grandi città della Cina. Ad inizio settimana nella Capitale è scattato l’allarme rosso, dopo che si erano registrati livelli di smog di gran lunga superiori ai limiti consentiti, con ricadute nocive per la salute dei cittadini. Le misure di emergenza, che prevedevano la chiusura delle scuole e dei cantieri edili ed una netta riduzione della circolazione privata, si sono rivelati efficaci e il sole è tornato a fare la sua comparsa sui cieli a lungo oscurati della megalopoli. L’allarme rosso per ora è cessato, ma il problema è stato solo allontanato.

L’allerta inquinamento non riguarda la sola Pechino. Nelle grandi città della Cina settentrionale non sono state adottate misure di alcun tipo e decine di milioni di cittadini continuano a respirare aria estremamente tossica, con valori di nocività sono persino superiori a quelli che avevano portato alla paralisi della Capitale. Come riportato dal New York Times ad Anyang, nella provincia di Henan, l’indice di qualità dell’aria ha fatto segnare un valore di 999, tre volte più alto di quello registrato a Pechino ad inizio settimana. Nella città di Handan, nella provincia di Hebei, è andata leggermente meglio , con l’indicatore che si è fermato a 822. Per intenderci, un valore di 300, negli Stati Uniti, è già considerato pericoloso per la salute dell’uomo.

Buona parte dell’inquinamento che attanaglia Pechino non viene prodotto dai tubi di scarico delle auto, ma proviene dalle regioni del nord, dove per soddisfare il fabbisogno industriale vengono bruciati quotidianamente enormi quantitativi di carbone. Il governo centrale e le amministrazioni provinciali sono dunque chiamati ad intervenire tempestivamente per proteggere la salute dei loro cittadini, imponendo l’adozione di procedure di emergenza standardizzate, in tutte le regioni del paese, che coinvolgano anche i cantieri e le fabbriche.

Superata l’emergenza, si tratterà di capire rapidamente come conciliare le esigenze di uno sviluppo industriale che ha portato il PIL cinese a superare quello americano con gli imperativi della salute pubblica, in Cina e non solo. Gli impegni annunciati dalla delegazione cinese alla conferenza sul clima di Parigi sembrano un primo passo nella giusta direzione, ma ai proclami dovranno seguire azioni concrete. In tempi molto brevi.

Luca Marchesini
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