GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Bruxelles

Brexit day, il Parlamento europeo approva l’uscita del Regno Unito

EUROPA di

La sera del 29 gennaio 2020, il Parlamento europeo riunito a Bruxelles ha approvato l’Accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione Europea. Dopo tre anni e mezzo dal referendum del 2016 e da numerosi negoziati, il Regno Unito lascerà l’UE alla mezzanotte del 1° febbraio 2020: si apre la fase della transizione.

L’approvazione del Parlamento

Con 629 voti favorevoli, 49 contrari e 13 astensioni, il Parlamento europeo ha approvato l’Accordo di recesso per portare a compimento la Brexit, l’ultimo passaggio necessario per l’uscita dall’UE, secondo quanto concordato dal governo britannico e dalla Commissione europea.

Il referendum del 23 giugno 2016 – quando 17.4 milioni di persone hanno votato per l’uscita – ha dato inizio al processo; i tre anni di negoziato sono stati tutt’altro che facili, vi sono stati diversi rinvii e molteplici negoziazioni. Proprio per questo motivo, il voto del 29 gennaio è ritenuto di storica importanza. La votazione in Plenaria si è svolta dopo il completamento del processo di ratifica nel Regno Unito, con la raccomandazione positiva della commissione per gli affari costituzionali. I numerosi interventi che si sono susseguiti durante l’assemblea hanno ricordato l’importanza delle relazioni con il Regno Unito, e non sono mancati momenti emozionanti di saluti.

Dopo il voto, gli eurodeputati si sono presi per mano ed hanno cantato una canzone scozzese – Auld Lang Syne – conosciuta anche in Francia con il titolo “Ce n’es qu’un au revoir”, non è che un arrivederci. È stato proprio questo lo spirito che ha accompagnato gli eurodeputati nell’arco della serata: la tristezza dei saluti e la certezza di un futuro ancora insieme, seppur non da Stato membro. Non sono mancati i festeggiamenti però, soprattutto da chi negli ultimi tre anni ha spinto per l’uscita del Regno Unito: Nigel Farage ha affermato di adorare l’Europa e di odiare l’Unione Europea, aggiungendo “Niente più contributi finanziari, niente più Corte di Giustizia Europea, niente più Politica Comune della Pesca, niente più discussioni, niente più bullismo”.

Il Presidente dell’eurocamera è stato invece di tutt’altro avviso: “Mi rattrista profondamente pensare di essere arrivati a questo punto. Cinquant’anni di integrazione non possono dissolversi facilmente” ha affermato Sassoli, aggiungendo che “Dovremo impegnarci, tutti, per costruire nuove relazioni mettendo sempre al centro gli interessi e la protezione dei diritti dei cittadini. Niente sarà semplice. Ci saranno situazioni difficili che metteranno anche alla prova i nostri rapporti futuri. Ma questo lo sapevamo sin dall’inizio della Brexit”. Il Presidente rimane certo del fatto che, in ogni caso, le divergenze verranno sempre superate. Anche il capo negoziatore europeo Michel Barnier si è detto molto toccato dopo il dibattito, che è stato “emozionante e ha avuto toni gravi”.

Il periodo di transizione

Il Regno Unito lascerà l’Unione Europea a partire dal 1° febbraio 2020. Tuttavia, la fase che inizia può essere definita un vero e proprio periodo di transizione, in quanto ci vorrà ancora del tempo prima che i rapporti tra Regno Unito ed Unione Europea si definiscano, precisamente circa un anno. Scadrà a dicembre 2020 tale periodo, dunque qualsiasi accordo sulle relazioni future UE – Regno Unito dovrà essere concluso prima di tale data, così da entrare in vigore il 1° gennaio 2021. Anche questo periodo può essere sottoposto a una proroga, per uno o due anni, ma si dovrà decidere entro il 1° luglio dalla commissione congiunta UE – Regno Unito. Il Parlamento dovrà approvare qualsiasi accordo sulle relazioni future e, se tale accordo fa riferimento a competenze che l’UE condivide con gli Stati membri, anche i parlamenti nazionali dovranno ratificarlo.

Il ruolo del parlamento europeo risulta importante nelle relazioni future, poiché dovrà approvare anche l’accordo finale. Il gruppo di coordinamento del Regno Unito coopererà con la task force dell’UE per le relazioni con il Regno Unito e con le commissioni parlamentari per gli affari esteri e per il commercio internazionale e con tutte le altre commissioni competenti.

Durante questo periodo di 11 mesi, il Regno Unito continuerà a seguire tutte le norme dell’UE e le sue relazioni commerciali rimarranno le stesse, ma non potrà prendere parte ai suoi organi decisionali.

Il futuro accordo di libero scambio

Il periodo di transizione dovrebbe dare luogo ad un nuovo accordo di libero scambio, necessario perché il Regno Unito lascerà il mercato unico e l’unione doganale alla fine della transizione. Tale accordo consentirà alle merci di circolare nell’UE senza controlli o costi aggiuntivi. In mancanza dell’accordo invece, vi sarebbero maggiori tariffe da pagare e altri tipi di barriere commerciali. Commercio e sicurezza sono i due temi principali dei futuri accordi: dal sistema dei dazi al rapporto di concorrenza tra aziende britanniche ed europee, alla tutela dei diritti dei cittadini e alla salvaguardia di importanti progetti come l’Erasmus. Il Parlamento europeo è riuscito ad includere tutti i benefici e i diritti di sicurezza sociale nell’ attuale accordo, così come i diritti per le generazioni future e il controllo giudiziario della Corte di giustizia europea.

Il coordinatore del Parlamento per la Brexit Guy Verhofstadt ha affermato: “Idealmente, dovremmo essere in grado di andare oltre un accordo di libero scambio con il Regno Unito. Non soltanto “no tariffe” e “no quote” ma anche “no abbandono” – questo significa che le nostre norme sociali e ambientali europee saranno pienamente rispettate nelle nostre future relazioni commerciali”.

I luoghi comuni. Perché in Europa ridono di noi (ogni tanto).

Faccio una doverosa premessa: questo articolo sarà pieno di luoghi comuni. Oltre i classici “pizza, spaghetti, mandolino… e mafia”. Chi mi conosce sa che vado fiero dei miei pregiudizi. Il mio tentativo sarà non quello di sfatarli, bensì quello di confermarli e, forse spiegarli. Luoghi comuni sull’Italia e gli italiani, visti da Bruxelles. Non parlo solo delle Istituzioni europee… ma della gente, del sentire comune. Della proverbialità a cui è ormai assurto il nostro essere italiani. Eppure questi signori d’oltralpe (i nostri “fratelli” europei) hanno dimenticato che Roma, le istituzioni, il diritto, la civiltà, la religione, la cultura, li abbiamo inventati noi. No, non è così. Questo lo dicono tutti. Non è che all’estero non sappiano che l’Italia è l’artefice di tutto quanto di sensato sia oggi di uso comune nel continente: il fatto è che gli italiani fanno di tutto, ma proprio di tutto per far cadere il nostro glorioso passato nell’oblio. E forse nemmeno loro lo conoscono, il loro passato. Primo luogo comune.
Fermo subito qualunque scettico: non sono un auto-razzista (termine oggi molto in uso dai sovranisti per indicare sinistroidi estremisti, boldriniani e immigrazionisti vari). Se è per questo, non sono neppure un sovranista, o almeno non mi ritengo tale. O, almeno, non del tutto. Non secondo me, europeista convinto.
C’è un vecchio video di Bruno Bozzetto su Youtube (lo trovate a questo link), dedicato a tutti coloro che credono che gli Italiani siano uguali agli altri europei. Quel video, stupendo e geniale, riepiloga in pochi minuti le differenze tra noi e gli altri popoli europei sulla politica (le poltrone da cui i nostri leader non si staccano mai), il modo di parcheggiare, il modo di guidare il modo di prendere il caffè… E sapete una cosa? Quel video è azzeccatissimo. Purtroppo. Ricorda quanta poca sobrietà ci sia ormai da tempo nei nostri costumi, ahinoi non solo in contesti informali. Guardatelo. Adesso, però, vi do la mia versione.
Cominciamo dall’aereo: se prendete un volo da Bruxelles, della Brussels Airlines (la vecchia “Sabena”, per intenderci), partite ad un orario prestabilito: è puntale il boarding, un po’ meno la partenza (siamo comunque non oltre i 15 minuti) ed in linea di massima in un’ora e quaranta minuti siete a Roma (arrontondiamo pure a due ore, ma non per auto-piaggeria). Durante la fila nessuno fa il furbo: chi è in economy si mette in coda subito per cercare di prendere posto prima, chi è in business o flex si rilassa un po’ di più e si mette in una fila ordinata di poche persone. Le hostess (assolutamente non necessariamente statuarie, e non necessariamente belghe né belle – questi sono luoghi comuni) cominciano sin da subito a “bollare” anche i bagagli a mano che dovranno viaggiare comunque nella stiva. Chi tardi arriva, male alloggia. Anche in un regime di oligopolio, quale è quello della tratta tra la “Capitale d’Europa” e le capitali nazionali. Se qualcuno si mette in fila con la business, e all’atto dell’imbarco possiede un biglietto economy, viene gentilmente invitato a mettersi in coda alla fila. Per ultimo.
La stessa cosa non succede se viaggiate, sempre da Bruxelles, ma con altra compagnia aerea (non dirò quale, ma tanto avete capito, no? Sempre quella…). La fila si forma abbastanza puntualmente, ma non così ordinatamente. Il boarding è comunque molto puntuale, ma la fila per la business class è inspiegabilmente lunga e, peggio ancora, si allunga quando ormai è quasi esaurita. Così che qualche sedicente business man, di corsa, riesce casualmente ad infilarsi al momento giusto nella fila dei suoi presunti pari. Poi sfila e si imbarca l’economy. Ma con un piccolo problema: siccome c’è stato qualche furbacchione dell’economy che si è infilato nella coda della business, le signorine (che sfoggiano sempre i colori di quella compagnia aerea…sempre quella) sono costrette ad aumentare o ad anticipare la “bollinatura” dei bagagli a mano da portare nella stiva. E da dove cominciano? Non dagli ultimi, ovviamente, ma dai primi che si trovano davanti. Così funzionari ministeriali, professori universitari “smart”, politici grullini (e non è un errore di battitura) che fanno finta di viaggiare in economy, e turisti che si erano virtuosamente messi in coda per primi, dovranno aspettare a fine corsa il loro bagaglio in un famoso aeroporto italiano (sempre quello), mentre gli ultimi, i furbi, essendo ultimi, lasceranno per primi l’aeroporto, quando gli altri, gli scemi, sono ai nastri.
Tutto questo lascerebbe indifferente l’italiano medio, normalmente aduso ad essere sorpassato da consimili più furbi e a non protestare, quasi per quieto vivere. Bisognerebbe litigare veramente con tutti. Ma, ovviamente, tra i passeggeri di quel volo, talvolta c’è qualche erudito eurocrate, cresciuto a birra e crauti, o a birra e waffle, che storce il naso, ride, fa battute sull’Italia e gli Italiani. No: non è colpa sua. E’ colpa nostra. E questo è un luogo comune.
Vi tralascio i rimbrotti, le battute, i musi lunghi e gli sbuffamenti quando si parte dall’Italia, da quel famoso aeroporto italiano, verso Bruxelles. Indipendentemente dalla compagnia con cui viaggiate, dovete calcolare almeno 45 minuti di ritardo prima che l’aereo si sollevi. Nei casi peggiori (invero residuali) l’aereo si solleva quasi quando avrebbe dovuto atterrare dall’altra parte. Come mai si accumuli sempre questo ritardo, non è dato saperlo. Luoghi comuni.
Arriviamo a Bruxelles. Lì, in generale, l’accozzaglia di gente più o meno seria e più o meno sobria per le strade, e nei negozi e nei locali fa sì che la bestia italica si confonda abbastanza. C’è chi ride sguagliatamente, ma non è necessariamente appartenente a un gruppo di pugliesi o di napoletani. Potrebbero essere anche irlandesi (del resto simili a noi) o olandesi (essendo davvero uomini liberi, loro possono fare qualunque cosa). Più difficile che si tratti di francesi. Impossibile siano tedeschi. I nord africani ci guardano con circospezione, perché gli stranieri lì siamo noi, non loro. La città, in molti vicoli, è “aulente” di pipì e di fritto. Luoghi comuni.
La cucina non è un granché. Tranne la carne, il salmone, la birra e le verdure. Quindi niente di speciale. Anche le marche più pregiate di cioccolato hanno stabilimenti in Turchia. Non oso immaginare, se hanno lo stabilimento in Turchia, dove possano comprare le nocciole. Di certo non a Torino o a Viterbo. Luoghi comuni.
Entriamo nelle Istituzioni. Lì si apre un mondo. Chi è accreditato entra senza controlli velocemente, come è giusto che sia. Chi non lo è, passa solo dei controlli se è stata comunque confermata la sua presenza in precedenza e la sua identità è nota. Chi non è nemmeno atteso deve farsi identificare. E qui viene il bello. Di solito gli italiani non sanno che per entrare in questi edifici (che sono sacri, e non sono ironico!) occorre il passaporto o una carta di identità.
La patente? NO.
Ma è europea! NO.
Io sono un giornalista, ecco la tessera professionale! MI DISPIACE. NON E’ UN DOCUMENTO VALIDO (in Belgio, come in molti Paesi europei, non esiste un vero e proprio ordine dei giornalisti come da noi).
Ma in Italia è un documento valido! IN ITALIA. QUI NO.
E allora devo tornare in albergo a riprendere i documenti? OUI, JE SUIS DESOLE’ MONSIEUR.
Luoghi comuni? Non tanto. E intanto la fila dietro si accumula…. e si sente sottovoce, tra risatine soffocate e rabbia smorzata…  “Italians… Italienne… Italienisch….
Una volta dentro, ognuno sa quello che deve fare. E anche gli Italiani sanno farsi valere. Tutti sanno quello che devono dire. La differenza fondamentale, però, è che noi siamo tutti euroscettici. Questa è la verità. Anche gli europeisti italiani più convinti sono euroscettici. Noi in Europa ci andiamo, non ci siamo.  Non vogliamo fare e non facciamo mai brutta figura, specie a livello tecnico, e le amministrazioni, le aziende, le lobby, le autorità indipendenti e le ex partecipate inviano sempre funzionari svegli e di ottimo livello.
Ormai anche noi parliamo benissimo l’inglese ed il francese. E’ difficile che chi vada a quelle riunioni e non sia un buon english speaker non sia accompagnato almeno da qualcuno che si muove bene in quei corridoi. Ma se osserviamo il dossier dei nostri inviati, delegati, politici, etc. possiamo osservare dei veri e propri mattoni di carta, che spiegano per filo e per segno cosa dovranno dire, cosa probabilmente ci verrà detto, cosa è meglio per il Paese che quel delegato dica.
Gli altri… gli altri no. Gli altri conservano l’agenda dell’incontro, qualche altro documento magari proposto dal loro Paese e null’altro. Conoscono la materia. Hanno le idee chiare. Prevedono le strategie altrui. Sono comunque preparati a fronteggiare posizioni avverse, da Stati non sempre amici. Sfidano i rappresentanti della Commissione, quando non sanno già in anticipo come questi si comporteranno.
Per questo noi non siamo in Europa, ma andiamo in Europa. A mio parere, l’Europa per noi è un teatro, dove dobbiamo dimostrare qualcosa. Molte volte veniamo applauditi, non c’è che dire. Altre volte no. Ultimamente no. Ma invece quella è casa nostra. Non dovremmo nascondere nulla, dovremmo dire quello che pensiamo, fare quello che riteniamo più giusto fare. Sbuffare anche noi contro gli altri. Non limitarci a prendere per il culo qualche spilungone allampanato che snocciola numeri o consigli, solo perché non capisce l’italiano e magari ha pure il naso e le gote rosse (luogo comune!).
Siamo anche noi fondatori e fino a poco fa non ce lo ricordavamo. Perché non ce lo ricordavamo? Perché non ne abbiamo approfittato? Perché finora mai nessuno aveva osato fare la voce grossa, da parte italiana, nei corridoi e nelle aule di Bruxelles.
Non parlo del Parlamento europeo, dove qualche deputato più o meno stravagante, per toni o per contenuti, ha fatto talvolta parlare di sé. Italiani in primis.
Parlo del Consiglio dell’UE, del Consiglio Europeo e della Commissione europea. In questi consessi, diciamolo, prima dell’attuale governo, anche durante Presidenza italiana, nessuno aveva fatto parlare dell’Italia. La “Italian issue”, anzi le “Italian issues” sono cosa recente. Si può essere più o meno d’accordo con Salvini, per carità. Io sono d’accordo, per alcuni contenuti. Quello che mi è piaciuto – aldilà dei contenuti – è stata la pervicacia, l’insistenza, la coerenza e la forza con cui questi contenuti sono stati espressi.
Lasciate stare, solo per un attimo, se siete o meno d’accordo e se mi caverete o meno gli occhi per quanto vi ho appena detto. Praticamente Salvini ha avuto l’abilità di mettere i famosi puntini sugli “i” (luogo comune!) a quei Paesi che lo facevano prima con noi. La differenza è che mentre gli altri puntano e puntavano il ditino verso di noi perché magari non eravamo puntuali nell’implementazione di qualche normativa, perché magari rispondevamo in maniera vaga a domande precise o perché eravamo comunque troppo prolissi, adesso abbiamo puntato noi il dito verso di loro. Lasciatemelo dire… sui dossier migration, relocation, repatriation e altri simili, l’Europa aveva ed ha proprio toppato nei riguardi del nostro Paese. E, secondo me, non c’è nulla di inumano nel dire che ogni Stato membro dovrebbe fare la sua parte, che non possiamo essere – con la Grecia – gli unici Paesi in cui l’Europa debba esercitare l’accoglienza. Non è possibile, non ce la facciamo. E prima di Salvini, lo dicevano anche i governi di sinistra (ai governi di sinistra va comunque reso il merito – il grande merito – di aver notevolmente diminuito il numero delle procedure di infrazione nei differenti settori in cui l’Italia era indietro normativamente). Diciamo che Salvini ha fatto in modo che si passasse dalle parole ai fatti. Abbiamo dato effettivamente fastidio. Abbiamo semplicemente chiesto che tutti – e non solo noi – fossero chiamati ad applicare le regole. Oggi la maggior parte degli Italiani con un minimo di erudizione conosce meglio, di sicuro, il diritto comunitario (prima dato in pasto ai soli addetti ai lavori), Dublino (più o meno), Frontex (ovviamente non ne conosce lo stato giuridico.. e l’Agenzia non si chiama neanche più così) e via discorrendo. Credo che in questo, stavolta, sia stata – a ragione – l’Italia a puntare il dito, grazie a Salvini. Forse avrei urlato meno. Ma ognuno ha il suo stile. Luogo comune.
Ma cosa smonta tutto questo? Cosa fa ridere gli altri di noi? Il fatto che siamo deficitari su molti altri fronti. Otteniamo una vittoria e dieci sconfitte. Luogo comune. Non siamo eurocrati. Non lo saremo mai.
Il problema è che a una strategia ben precisa nel settore affari interni, corrispondono strategie fumose sugli altri tavoli. Primi tra tutti i tavoli economico-finanziari. E’ inutile commentare i fatti di questi giorni. La procedura di infrazione, la cena tra il Presidente Conte e Juncker, i commenti prima e dopo la cena, la quota 100 e il reddito di cittadinanza. Tutte cose trite e ritrite dalla stampa nazionale ed estera. Io, personalmente, reputo scellerata la gestione di questi dossier in campo nazionale… e credo sia pressoché impossibile far capire agli eurocrati la presunta ed asserita bontà di alcuni provvedimenti macroeconomici come questi (ma figuriamoci!).
Il problema è che, per fare la voce grossa, bisognerebbe avere tutte le carte in regola. Allora è fastidioso sentire Junker che – seppur in un clima almeno apparentemente amichevole – dice di amare l’Italia perché da giovane, in Lussemburgo, era circondato da immigrati italiani. Che cosa vuol dire? Perché questa sottolineatura? Non poteva dire solo di amare l’Italia perché è un paese bellissimo e ricco di monumenti? Non avrebbe potuto utilizzare un luogo comune positivo?
Allora quello che a me non va giù è che proprio perché noi non siamo perfetti a tutto tondo, in tutti i settori, gli altri approfittano delle sbavature. Proprio perché è un luogo comune che in Italia i controlli non siano rigidi. Allora i gendarmi francesi scaricano migranti sui nostri confini, come fossero immondizia (ma che umanità è questa?)… gli svizzeri approfittano della notte per non accogliere nemmeno donne e bambini (no comment).
Insomma: qual è la ricetta per evitare luoghi comuni e risatine su di noi? Basterebbe, davvero, che ognuno facesse bene quel poco che gli è richiesto di fare. Affrontare le sfide europee sicuramente con spirito critico, ma ben sapendo che il sistema non si può scardinare con alzate di testa o con proposte folli, che mai saranno accettate. Il sistema si può cambiare, osservando le regole, dall’interno. In maniera silenziosa e costante. Bisognerebbe formare una classe dirigente che sin dalle scuole superiori possa ambire a ricoprire ruoli di prim’ordine nelle istituzioni europee. Bisognerebbe far capire alla popolazione che l’Europa non è qualcosa di altro da noi, ma è qualcosa di cui anche noi facciamo parte.
E questo è un altro bug del nostro sistema. Gli italiani (pochissimi) che ricoprono ruoli anche non di spicco nelle istituzioni UE ci sono arrivati con le proprie gambe. Vincitori di concorso, davvero qualificatissimi, impossibili da scartare o da bocciare, sono arrivati a Bruxelles e lì hanno messo la loro bandierina. Ho conosciuto italiani, nelle istituzioni, che fingevano di non capire che in una sala ci fossero dei connazionali, e rivolgersi a loro in inglese. Ho visto e sentito italiani dire di essere “della Commisisone” e, quindi, non propriamente italiani, in quella veste. Ma non credo sia colpa dei diretti interessati. Sono italiani che non sono stati sostenuti dal Paese, per arrivare dove sono arrivati. Sono italiani che talvolta si sono sentiti in in imbarazzo per i ritardi del nostro Paese. Altri Paesi conoscono in anticipo le posizioni aperte nelle istituzioni e pianificano per tempo, con una formazione mirata, chi dei loro dovrà riempire quella casella. Nel nostro settore esiste una formazione “europea” adeguata soltanto nel comparto difesa e sicurezza. I militari che vanno all’estero sotto egida UE svolgono corsi di formazione per quanto più possibile omogenei e, infatti, nei teatri operativi gestiti dall’UE, nell’ambito della PESC e della PSDC, l’Italia ha sempre stra-ben-figurato. Capacity building, peace making, stability policing, sono cose che abbiamo letteralmente inventato noi.
Le altre compagini ministeriali, ahimé, conservano nicchie di eccellenza isolate, che viaggiano in Europa o fuori da essa, ma con le sue insegne, senza un “addestramento” omogeneo, che in Patria li abbia preparati insieme agli altri pari-ruolo o pari-qualifica. Magistrati, professori, cooperanti, funzionari dei trasporti, dell’istruzione, delle comunicazioni, conoscono l’inglese perché magari lo hanno sempre coltivato da soli, a loro spese, e si sono affacciati solitariamente agli impegni europei. Qualcuno è in missione. Qualcuno è in aspettativa. Qualcuno è fuori ruolo. Indennità diverse, compensi diversi, compiti diversi ed obiettivi (nazionali) poco chiari. Chiarissimi sono invece gli scopi della loro missione, per l’Europa.
Se ci sforzassimo di rendere univoci gli sforzi, di mettere a sistema la nostra pregiatissima cultura giuridica ed amministrativa, di addestrare tutti coloro che a vario titolo vanno all’estero (non solo in Europa), se facessimo leva non solo sull’orgoglio e sulla preparazione personali, ma fornissimo una omogenea preparazione italo-europea, sicuramente avremmo italiani più responsabili, che varcano i confini nazionali per entrare in quelli europei, davvero a testa alta. Ed il nostro Paese ne trarrebbe un vantaggio di immagine (e non solo) addirittura (ne sono sicuro!) superiore a quello di altri Paesi.
Sfatando, finalmente i luoghi comuni.

 

 

I curdi all’Europa: riabilitate Ocalan e il Pkk

Medio oriente – Africa di

Un duplice richiamo alla Turchia, affinchè modifichi l’atteggiamento assunto sino ad ora e all’Europa, per invitarla a considerare la questione curda come politica e non terroristica. Il rapporto fra Turchia ed etnia curda è tornato alla ribalta nelle due giornate organizzate a Bruxelles nell’ambito della 12a conferenza internazionale dal titolo “Vecchia crisi-nuove soluzioni. L’Europa, la Turchia, il Medio Oriente e i Curdi” organizzata dalla Turkey Civic Commission in collaborazione con il Kurdish Institute of Brussels nella sede del Parlamento Europeo, a Bruxelles, il 26 e 27 gennaio scorso.

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Il documento di sintesi proposto al termine della due giorni in cui si sono confrontati i vari protagonisti, dal Premio Nobel iraniano Shirin Ebadi, al leader dell’Hdp curdo e membro del parlamento turco Selahattin Demirtas, ha posto l’accento su responsabilità vecchie e future. E, soprattutto, sulla questione curda, ancora drammaticamente aperta unitamente a quella degli orrori causati dalle orde del Califfato.

Il dopo elezioni di giugno in Turchia, si legge nel documento, ha riproposto gli stessi abusi inferti ai diritti umani dei curdi negli anni ’90. Un ritorno al passato sottolineato dall’introduzione di coprifuoco illegali, privazione di acqua, cibo, elettricità e medicine e dall’uccisione di civili scomodi. “Queste misure – si sottolinea nel documento – mostrano un completo disprezzo della volontà democratica del popolo”. L’appello lanciato a “movimenti sociali, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni non governative, alleate di governo e governative, istituzioni” riguarda la chiusura delle ostilità fra curdi e turchi, riaccesasi nell’estate scorsa, attraverso la fine di assedi e coprifuoco, l’esclusione di civili e aree residenziali dagli scontri fra forze turche e membri del partito dei lavoratori di Ocalan, il PKK, il rientro di quanti sono stati costretti a fuggire e la condanna dei colpevoli delle violazioni perpetrate a danno dei diritti umani.

La fine del conflitto fra turchi e curdi può tradursi, secondo la risoluzione individuata dalla conferenza, in “un impatto positivo sulla lotta nella regione contro i gruppi jihadisti, come ISIS”. “La Turchia – si legge nel documento – deve smettere di appoggiare i gruppi jihadisti in Siria e deve impegnarsi ad essere un efficace membro della coalizione internazionale contro ISIS. Deve abbandonare le politiche anticurde e lavorare al fianco dei curdi e dell’opposizione democratica siriana per arrivare ad una soluzione politica”. L’Europa viene chiamata in causa e spronata a considerare la questione curda da un punto di vista che escluda la matrice terrorista con cui l’opera del PKK e del suo leader Ocalan è stata bollata.

“L’Unione europea – viene sottolineato – non deve limitarsi a semplici richieste di un cessate il fuoco, ma deve anche essere proattiva nel definire il percorso verso una soluzione pacifica. A questo fine, il PKK, quale parte attiva della soluzione, non deve più considerato come organizzazione terroristica”. Fra le altre richieste individuate anche il rinnovo della Costituzione turca votata nel 1980 a seguito del colpo di Stato militare, la garanzia dei diritti legati alla libertà di pensiero e di espressione, la liberazione dei civili imprigionati e la realizzazione di un corridoio umanitario al confine tra Turchia e Siria.

 

Monia Savioli

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Grecia, Spannaus: «Perché l’Ue insiste su una politica che non funziona?”

EUROPA/Varie di

La crisi del debito greco è uno dei temi geopolitici più caldi. La Germania ha imposto il pacchetto di salvataggio la scorsa settimana. Mentre gli Stati Uniti ha svolto un’opera di dissuasione politica nei confronti della Ue, per evitare che Atene si spostasse nell’orbita di Mosca. Per parlare di queste questioni, European Affairs hanno intervistato Andrew Spannaus, giornalista e Direttore di Transatlantico.info.

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Con la cessione di Tsipras su tutta la linea, la Grecia diventa di fatto un protettorato di Bruxelles o, per meglio dire, di Berlino?

“Si è persa una grande occasione, almeno per ora. Dopo aver parlato della necessità di passare dalla fase dell’austerità a quella della crescita, nella sostanza non è cambiato nulla. L’establishment europea – guidata dalla Germania, ma troppo facile dare la colpa solo a lei – ha raddoppiato, adoperando ogni ricatto possibile pur di non ammettere il fallimento del modello economico degli ultimi vent’anni.
Si tratta di una sconfitta non solo per la Grecia, ma per l’Europa stessa, in quanto si mostra 1. di non essere disposti a rivedere i propri errori, pur di non mettere in discussione i dogma dell’economia finanziaria; 2. che questa Europa non è compatibile con la democrazia.
La domanda più grossa è chi comanda a Bruxelles e a Berlino? Perché si segue una politica che chiaramente non funziona? Gli errori del passato sono una cosa, ma decidere di peggiorare la situazione continuando con la politica tagli e tasse dimostra che c’è qualcos’altro in ballo. L’Europa si è allontanata dalla propria storia e ora risponde ad interessi diversi”.

 

“Nonostante gli errori in questi 5 mesi, sono orgoglioso di avere difeso i diritti del nostro popolo”. Questa è la dichiarazione di Tsipras al Parlamento greco, chiamato a pronunciarsi sulle misure imposte dall’Europa: secondo lei, Syriza ha tradito sia il mandato elettorale sia l’esito del referendum?

“Il Governo greco si è alternato tra posizioni dure e posizioni più accomodanti negli ultimi mesi. Lo scopo è sempre stato di influenzare le trattative e di portare a casa qualche concessione. Ad un certo punto sembrava che Tspiras avesse deciso di fare sul serio: prima le aperture verso la Russia, e poi il referendum. Alla fine però ha ceduto ai ricatti e ha dimostrato di non essere disposto a rischiare la rottura.
Il popolo greco aveva chiaramente respinto l’austerità; il problema è che in teoria voleva anche rimanere in Europa. Dunque mentre si può sicuramente criticare Tsipras, rimane il fatto che le due cose non erano compatibili: Europa = austerità, dunque non c’era soluzione.
I giochi comunque non sono finiti. Se sarà attuato il piano imposto alla Grecia la situazione peggiorerà ancora, quindi il problema potrebbe riproporsi presto. In più, il dibattito politico è cambiato: non si possono più nascondere le contraddizioni e la debolezza della politica economica attuale. Prima o poi qualche leader politico, qualche paese, deciderà che non si può più andare avanti così”.

 

Il Fondo Monetario Internazionale ha definito il debito greco insostenibile:il piano Ue andrà comunque avanti?

“Il piano andrà avanti, ma non funzionerà. I primi “salvataggi” della Grecia – in cui i soldi pubblici sono andati a salvare i bilanci delle banche private, soprattutto tedeschi e francesi – dovevano creare le condizioni per far ripartire l’economia. La stessa cosa si è detta per l’Italia. La realtà invece è stato un pesante calo del Pil, nel caso greco a livelli catastrofici (-30%). Pensare di ripagare un debito di questo tipo tagliando ancora la spesa è semplicemente folle. La soluzione corretta è di ristrutturare e cancellarne una parte, e soprattutto di attuare una politica di investimenti per creare la crescita. Questo significa disattendere certi dogmi, puntando per esempio sull’importanza della spesa pubblica mirata. I debiti giusti – una parte – possono essere ripagati solo se si rilancia l’economia; con la politica attuale questo non potrà avvenire”.

 

Quanto è stato decisivo il ruolo degli Stati Uniti nello sbloccare la trattativa tra Ue e Grecia? E’ esistita, o esiste tuttora, una reale possibilità che Atene si avvicinasse a Mosca?

“Esiste una leggenda in Europa, su come gli Stati Uniti sono contro l’Euro e hanno paura dell’Unione Europea. Ebbene, la realtà è che, anche a volere essere “cattivi”, cioè a pensare che gli americani non vogliano vedere un’Europa forte, non c’è proprio nulla da temere fino a quando vige la politica economia attuale. Nel nome dell’unione si sta rovinando la forza e anche la coesione tra i paesi europei. L’Ue è nata su altre basi, ma dagli anni Novanta si è passati al modello del cosiddetto libero mercato e della grande finanza. Questo fa bene a pochi, non crea benessere diffuso.
In secondo luogo, questo mito è stato sfatato dalla posizione americana in questa crisi: gli Stati Uniti non volevano vedere una rottura dell’Europa, proprio per via di un possibile sconvolgimento degli equilibri geopolitici. Tsipras ha mostrato di aver capito la vera posta in gioco quando da San Pietroburgo ha ha parlato di “un nuovo mondo economico emergente” in cui “il centro dello sviluppo economico si sta spostando verso altre aree”.
L’Occidente ha deciso di fare quadrato, per evitare di offrire una sponda al “nemico” Putin. In realtà però la politica europea di ulteriore austerità rischia di rendere ancora più attrativa l’alternativa dei Brics: numerosi paesi si stanno già smarcando dalle istituzioni finanziarie occidentali proprio per evitare di essere succubi di un sistema dominato dalla grande finanza”.

Giacomo Pratali

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Ue, migranti: retromarcia sulle quote e l’Italia tace

EUROPA di

Scende da 40mila a 32mila il numero dei migranti, sbarcati quest’anno in Italia e Grecia, da ricollocare. Il provvedimento sarà in vigore da ottobre. I duri scontri del vertice sull’immigrazione del 26 giugno scorso lasciano lo spazio ad una tacita rassegnazione di Roma.

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Passo indietro sul fronte delle quote di migranti da redistribuire tra i Paesi dell’Unione Europea. Nella riunione tra i 28 membri di Bruxelles del 20 luglio, è stato deciso che il numero di migranti totali da accogliere saranno 32mila e non 40mila come previsto dalla proposta della Commissione Europea del 26 giugno. A questi, si devono aggiungere le 20mila persone, siriani ed eritrei, provenienti dai campi profughi.

La dura trattativa della nottata tra il 25 e 26 giugno appare un lontano ricordo. La presa di posizione del presidente del Consiglio Ue Tusk contrapposta alla reprimenda del presidente della Commissione Juncker al termine dei negoziati di un mese fa assomigliano ad un teatrino. Così come le tanto attese quote, proclamate all’epoca come “obbligatorie”, altro non sono che “volontarie”.

Mancano dunque circa 20mila migranti da ricollocare rispetto a quanto prefigurato a giugno. Intanto, da ottobre, circa 32mila persone giunte in Italia e Grecia saranno ricollocate in altri Paesi. Oltre agli annunciati no delle sempre più antieuropeiste Austria e Ungheria, stupisce il sì parziale dell’Irlanda, esentata secondo i trattati europei assieme a Gran Bretagna e Danimarca, all’accoglienza di 600 persone. In vetta, invece, troviamo la Germania con circa 10mila, la Francia con quasi 7000, l’Olanda con circa 2000.

Sul fronte ricollocamento dei profughi, le cifre appaiono diverse perché diverso, in senso positivo, è stato l’atteggiamento degli Stati membri Ue. Oltre ad Italia, Germania e Francia, spiccano a sorpresa la Gran Bretagna, l’Austria e la Spagna, oltre anche alla presenza di Paesi non-Ue come Svizzera e Norvegia.

A parte la suddivisione dei 20mila profughi, il resto del quadro resta opaco. Oltre all’accordo al ribasso, i 28 Paesi membri non si sono pronunciati sulle quote previste per il 2016, delle quali si riparlerà a fine 2015. L’accoglienza tiepida, ma “positiva dell’Italia”, secondo le parole del ministro degli Interni Alfano, stonano con i toni duri espressi nell’incontro di un mese fa dal primo ministro Renzi: “Se non siete d’accordo sulla distribuzione dei 40 mila migranti, non siete degni di chiamarvi Europa. Se volete la volontarietà, tenetevela”. A cosa è dovuto questo cambio di atteggiamento da parte di Roma?
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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