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Un serbo a Tirana…nel senso del premier

ECONOMIA/Energia/EUROPA di

Quando si parla di “ospitalità” albanese, ebbene, le autorità non hanno fatto mancare nulla dal protocollo al capo del governo serbo: Bože pravde , l’inno nazionale serbo è stato eseguito per la prima volta nella Tirana istituzionale, durante una visita ufficiale. Nella sede di rappresentanza del Palazzo delle Brigate i due premier si sono stretti mani diplomatiche senza lasciare nulla al caso con tanto di tricolore serbo issato.
Questa visita è stata preparata nei dettagli e vissuta “seguendo l’esempio della Germania e della Francia dopo la seconda guerra mondiale”, ha detto il premier Rama, facendo riferimento alla distensione auspicata dei rapporti tra i due paesi balcanici, “ sulla scia del desiderio di intensificare i buoni rapporti”.
Vučić ha raggiunto Tiranail 27 maggio scorso, il giorno dopo la conclusione dei lavori del South-East European Cooperation Process, il consiglio di cooperazione regionale, istituito dalla Bulgaria nel 1996 e presieduto dall’Albania quest’anno. Un summit nel quale è stato ribadito e sottolineato la volontà dei paesi balcanici di puntare all’integrazione europea come obiettivo comune. Bulgaria e Romania hanno manifestato il loro appoggio incondizionato.
Una visione d’insieme che è stata rinforzata durante la visita del capo del governo serbo il giorno dopo, sia da questi che dal premier albanese, Edi Rama.
“Qualcuno in Serbia farà rumore per questa mia visita, come immagino succederà a Rama per avermi invitato. Ma il mio dovere è di guardare al futuro, e nel futuro le relazioni fra di noi sono molto importanti… Pensiamo in modo diverso, parliamo in modo diverso. Ma questo non ha a che fare con il fatto di lavorare insieme. Se saremo abbastanza responsabili, saggi e intelligenti, se non penseremo di risolvere i nostri problemi con i conflitti ma con il dialogo, con rapporti sinceri, aperti e onesti, allora sono sicuro che Serbia e Albania avranno un futuro migliore del passato. Alla storia non possiamo sfuggire, ma il nostro sguardo dovrà essere rivolto al futuro, perciò oggi sono qui per porgere al mio collega Rama la mano dell’amicizia.”
Molto più disinvolto e visionario Rama il quale esprime le relazioni diplomatiche future dichiarando “ Delle relazioni tra Francia e Germania si dice che rappresentino l’asse dell’Europa, spero di non mancare di modestia dicendo che gli albanesi e i serbi vogliono trasformare le loro relazioni in un’uguale testimonianza del fatto che da una storia di guerre sanguinose potrebbe nascere l’esempio di un comune successo di pace”.
In questo momento di pragmatismo politico non si poteva lo stesso evitare un richiamo al punto dolente delle relazioni problematiche tra i due paesi, ovvero la questione del Kosovo e della “Grande Albania”. Il virgolettato è d’obbligo stando alla versione albanese della faccenda. “La Grande Albania per noi non è un progetto o un programma. Si tratta di un’idea nutrita da coloro che non vogliono il bene degli albanesi, non la nostra nazione, che non vuole ampliamenti, a scapito di nessuno, ma la convivenza normale. Progettiamo di unirci sulla strada nell’Unione europea. Se noi avessimo visto la bandiera della Grande Serbia sul drone avremo riso, ma questa è una questione di percezione. Penso che la lezione è stata tratta da entrambi”.
Di tenore molto più sostenuto Vučić sullo stesso tema aveva in un primo momento dichiarato “E’ un fatto che non siamo d’accordo sul Kosovo. La Serbia considera il Kosovo come la sua parte e l’Albania la considera indipendente”. La posizione di Rama, più ironico e morbido, si delinea nella sua dichiarazione in merito: “La mia convinzione è che il riconoscimento del Kosovo sarebbe un grande sollievo per la Serbia, ma non voglio entrare più in profondità in questa questione dal momento che qui siamo tra amici e noi rispettiamo tutti gli amici e le loro sensibilità“. Senza paroloni, ma incisivo e serio il premier serbo ha sottolineato “La grande divergenza fra Belgrado e Tirana sullo status del Kosovo non deve essere un ostacolo ai nostri rapporti bilaterali; nonostante questo, ritengo che questa incongruenza non significhi che non possiamo ammorbidire le differenze con il dialogo”.
Nell’affrontare la crisi che si sta consumando nella Repubblica Macedone dopo i fatti di Kumanovo, entrambi i governi si sono voluti mostrare equi distanti con la volontà di non schierarsi con nessuna delle fazioni e facendosi garanti di una stabilità balcanica necessaria.
A dettare questa nuova fase è ovviamente la prospettiva economica degli investimenti esteri e tra i due paesi, nonché la posizione strategica dei Balcani nei corridoi energetici e nella infrastruttura dei trasporti transnazionale.
Nell’ambito dei Tirana Talks – Vienna Economic Forum (nato nel 2004), il giorno dopo, 28 maggio, si è ufficializzato questo riavvicinamento toccando propriamente i progetti futuri. In esclusiva, si fa riferimento all’autostrada Tirana-Belgrado , passando per il Kosovo, funzionale e simbolica. Serbi e albanesi, monitorati dalla Germania e procedendo sotto gli occhi dell’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer chiedono fondi esteri e investimenti. Hanno finalmente capito che possono diventare seriamente strategici per se stessi e l’Europa. In un contesto di crisi delle frontiere europee, della crisi profonda, difficilissima in Ucraina e nelle ex repubbliche sovietiche, con conseguenze economiche enormi per tutti, i balcanici provano a elevare le rispettive posizioni, cercando di attrarre investimenti, prestigio e credibilità.
Non è una passeggiata nella storia, si tratta di conflitti secolari, di diatribe territoriali e culturali radicalizzate. Si tratta di Berlino con lo sguardo puntato e, soprattutto gli albanesi, si ricordano bene un altro Berlino, quello del Congresso del 1878, quello degli Imperi ( Austria e Turchia) e delle grandi Potenze europee, quello a conclusione del quale gli albanesi si sono visti negati l’esistenza niente di meno che da Bismarck: “Non esiste alcuna nazione albanese”. Erano altri tempi, ma i Balcani si sono visti fare e disfare nei secoli da altri le loro esistenze. Ad ogni modo, era il mondo di ieri.

Mandato di arresto per Becchetti, il patron di Agon Channel

BreakingNews/EUROPA di

La procura della capitale albanese ha emesso un ordine di cattura per Francesco Becchetti, imprenditore romano, nipote dell’ex ras delle discariche Manlio Cerroni, proprietario di Agon Channel, rete televisiva che produce nel paese balcanico e trasmette anche un canale in italiano sul nostro digitale terrestre. Il mandato riguarda anche la madre Liliana Condomitti. Le accuse, per entrambi, sono quelle di riciclaggio e “falso in documentazione”.

Circa un’anno e mezzo fa

Al telefono: ” Guardo la tv, c’è un nuovo canale che ha aperto. A proposito, infatti te lo volevo chiedere: questo è un’italiano, uno che lavorava con l’immondizia, ne sai qualcosa?”, – “No, come si chiama?”,- domando a mia volta incuriosita. “Beh, Agon Channel, ma come si chiama il tipo proprio non mi viene”.

Capita che a casa ci torno in ferie ad agosto 2014 e, finalmente, guardo Agon Chanel: una catapulta catodica che ti getta indietro nei primi anni ’90, quando da bimbi albanesi s’imparava l’italiano con “la televisione”. Tornando alla realtà, “il tipo” un nome ce l’ha, anche ben noto ai media, anche a quelli investigativi: Francesco Becchetti.

Kalivac – Albania

Se si prova a fare una ricerca in rete, sui motori di ricerca, e si digita “Kalivac Albania”, il primo risultato che viene fuori è la pagina di uno studio professionale d’ingegneria idro-elettrica con base a Roma e se si apre la pagina troviamo la scheda lavori per la costruzione di un impianto idro-elettrico, commissionato da Enelpower nel periodo 2000-2001. Il secondo risultato è il sito web della Hydroelectric Beg – Becchetti Energy Group. I sito è aggiornato al 2011 e il progetto viene ancora descritto come “in una joint venture con Deutche Bank” e in conclusione si legge: ” To date, 40% of the works have been completed. The start-up is expected for 2012 – A oggi, il 40% dei lavori è stato completato. L’ avvio è atteso per il 2012″.

Il 2012 giunse, passò e lasciò Kalivac, sud dell’Albania, con uno squarcio di cantieri abbandonati e operai non pagati. Il resto avvenne nelle aule giudiziarie. La BEG aveva ottenuto una concessione trentennale e tanti incentivi dal governo albanese, sempre nel tentativo di attirare investitori stranieri nel paese.  La Enelpower avrebbe dovuto partecipare a costruire e gestire in società l’ impianto da 100 megawatt per un’ investimento di 160milioni di euro. Tutto finisce quasi in un batter d’occhio e il colosso energetico si ritira e Becchetti cita in giudizio Enelpower per “non aver mantenuto gli impegni finanziari alle scadenze previste”. In Italia viene respinta la richiesta di risarcimento di 120 milioni e la BEG si fa concedere una proroga dal governo albanese. Il 2007 vede realizzarsi l’accordo con Deutche Bank che, però, salta anche in questo caso. Il risarcimento viene riconosciuto alla BEG dal tribunale albanese per un ammontare di oltre 20milioni di euro e, forte di questo, Becchetti non esita a citare in giudizio di nuovo Enelpower, sempre in Albania, vedendosi riconosciuti 440milioni di euro.

Agon Channel

La tv di Becchetti “albeggia” ( traduzione della voce “agon”) nel 2013 a Tirana. Recluta stranoti volti televisivi albanesi, paga in euro, propone una formula descritta come “innovativa”, ma che rimanda quasi immediatamente alla tradizione della tv generalista italiana e alla formula sdoganata dei talent show. Il resto è storia: la decisione “epocale” di trasmettere in Italia da Tirana, l’arrivo di star della tv italiana, con un certo diletto per quelle “sulla via del tramonto” professionale in patria, la sovraesposizione dell’immagine dello stesso Becchetti nei media e nei rotocalchi di costume.

Ritorno al futuro

“La procura della capitale albanese ha emesso un ordine di cattura per Francesco Becchetti, imprenditore romano, nipote dell’ex ras delle discariche Manlio Cerroni, proprietario di Agon Channel, rete televisiva che produce nel paese balcanico e trasmette anche un canale in italiano sul nostro digitale terrestre. Il mandato riguarda anche la madre Liliana Condomitti. Le accuse, per entrambi, sono quelle di riciclaggio e “falso in documentazione”. Disposto anche il sequestro delle quote delle sua società. Al centro dell’inchiesta giudiziaria, avviata un anno fa, il progetto per la costruzione di una delle più grandi centrali idroelettriche del paese, mai realizzata”, si legge nei comunicati stampa che fanno girare la notizia poco prima dell’ora di pranzo del 9 giugno 2015.

La vicenda giudiziaria dà l’avvio a una nuova fase nei rapporti tra Becchetti e le autorità albanesi. Immediate anche le prese di posizione “pro” e “contro” il personaggio. Berisha ( sì, sì, è lo stesso) tuonava contro il governo Rama, il quale starebbe “facendo di tutto per chiudere il becco a chi lo attacca”. Qualche commentatore più “realista” si pone la questione dell’attendibilità di tale operazione clamorosa contro un’ imprenditore straniero in Albania: e se i fatti smentissero questo zelo della giustizia albanese, “che figura ci fa l’Albania”?

La riforma della giustizia e la lotta alla corruzione è una priorità del governo Rama nel quadro della prospettiva europea. Le elezioni amministrative che si terranno tra due settimane punteranno i riflettori internazionali sul paese e, secondo i suoi oppositori, la reazione contro Becchetti si racchiude in un’azione intimidatoria, che poco ha a che fare con la giustizia.

Fermo restando che la vicenda giudiziaria avrà il suo corso, il pittoresco personaggio dell’imprenditore italiano che offriva “primati”  in qualsiasi settore mettesse mano, che poi sono i soliti ( rifiuti, calcio – anche se inglese e di terza categoria, tv privata), si dilunga in altri capitoli ancora da scrivere.

 

Essere un travestito a Tirana

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Vorremmo farvi assaporare un granello, un assaggio del retrogusto che avrà il documentario Railway Diaries in Albania. Come ogni assaggio, non sveleremo più dello stretto necessario.

Per incontrare una delle nostre due narratrici dobbiamo aspettare le 10 di sera. “Andate nel parchetto dietro il Teatro dell’Opera dopo le 10 e chiedete di Angela” ci consiglia Xheny, attivista di Tirana. Prima di farvi venire con noi nel parchetto però, dobbiamo chiedervi di sintonizzarvi sulle nostre stesse note. Vi ricordate quella scena particolare di Todo Sobre Mi Madre di Almodovar, quella in cui Manuela arriva a Barcellona per ritrovare Lola e si imbatte su Agrado? C’era una sequenza in taxi con il sottofondo musicale di Tajabone, una canzone senegalese cantata da Ismael Lo. Ecco, c’è bisogno di questa musica per entrare nella giusta atmosfera di quel giovedì sera in cui abbiamo incontrato Angela.

Non c’è stato bisogno di andare in periferia, non c’erano le ronde di macchine attorno ai fuochi. Non c’erano seni in mostra o provocazioni. Era tutto molto più tristemente reale. Proprio di fianco a Piazza Skanderbeg, dove c’è il Tirana International Hotel, il teatro dell’Opera e le sedi del municipio e del parlamento di Tirana, nel cuore pulsante delle istituzioni. Lì dietro, in un parchetto poco illuminato ci siamo imbattute nella nostra Agrado. Aveva un paio di enormi occhi lucidi e due gambe scheletriche semi visibili sotto le calze a rete. Le chiediamo dove possiamo trovare Angela e lei ci indica una rete metallica nel buio più totale. Vedendo la nostra titubanza ci accompagna gridando con i suoi toni più acuti “Angela! Angela! Vieni fuori!”. Aspettiamo massimo 2 minuti e arriva la Lola di Almodovar, che nel nostro caso si chiama Angela, traballando su un paio di tacchi 12 con strass.

Si schiarisce la voce rauca prima di chiedere la prima (delle tante) sigarette… con il suo sorriso sdentato. Lola/Angela accetta di passare due giorni insieme a noi, anzi, accetta di farsi seguire. E così abbiamo fatto…

Non vogliamo dirvi niente di più su Lola/Angela, non vogliamo svelarvi le controversie e le battaglie che ha vissuto in una vita più amara che vissuta. Ve lo mostreremo a tempo debito nel primo episodio del nostro documentario…

Nelle miniere di Trepča, 600 metri sotto terra

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Immaginatevi di sentirvi risucchiati verso il centro della terra, vi è mai capitata come sensazione? Lo stomaco raggiunge la gola in un balzo, sotto i piedi è come se si aprisse una voragine e nel frattempo una mosca immaginaria inizia a ronzare in circolo dentro la vostra testa.

Ci è capitato oggi, nelle miniere di Trepča, il complesso minerario più grande di tutta Europa ricchissimo in piombo e zinco. La proprietà delle miniere è contesa tra Serbia e Kosovo in una battaglia simbolica quanto politica che è finita sui tavoli negoziali a Bruxelles, diventando di fatto una delle priorità assolute nelle trattative Pristina-Belgrado portate avanti dall’Unione Europea.

Trepča si trova a Mitrovica, una città di confine divisa in due dal fiume Ibar: a nord la parte serba, a sud quella a maggioranza albanese. Un ponte divide due mondi paralleli e solo pochi fanno abitualmente avanti e indietro tra nord e sud. I pochi che per lavoro sono obbligati ad attraversare quotidianamente le due parti si riconoscono dalle loro macchine, tutte senza targa. Le ultime due guerre hanno fomentato un odio che non è ancora assopito, e in città la battaglia si consuma in piazze intitolate a partigiani di ciascuna parte, monumenti e bandiere, serbe e albanesi, che colorano diversamente le due sponde del fiume.

Arrivando da Belgrado in minibus, non appena valicato il “confine”, che per i serbi è un semplice posto di blocco, per le strade ci è capitato di vedere cartelloni enormi con scritte “Questa è Serbia” e gigantografie di Putin appese a ristoranti o stampate nei teloni posteriori dei camion.

Anche la lingua è una barriera non indifferente e sebbene ambo le parti non si distinguano poi più di tanto in quanto al bere fiumi di alcool tutto il giorno, bisogna stare ben attenti a che formula usare quando si brinda.

Così come Mitrovica, anche il complesso di Trepča è diviso, alcune parti addirittura con la Croazia. L’estrazione di minerali avviene in entrambe le parti, ma le raffinerie sono tutte a nord, in quella serba, sebbene la gigantesca ciminiera che sovrasta l’intera città sia spenta da diversi anni.

Stamattina, con gli occhi stropicciati dal sonno, ci siamo avviate verso sud per incontrare i minatori albanesi. Al valico della cancellata della miniera ci aspettava Mostafa, il portavoce del complesso di Trepča, che ci ha subito accompagnato a curiosare in giro per gli edifici e a fare alcune interviste, tra cui anche un rappresentante sindacale che ci ha parlato degli ultimi scioperi di gennaio, non contro l’amministrazione della miniera, ma contro la sua privatizzazione. Da che mondo e mondo, ci spiegava, le miniere sono tutte nazionalizzate, ed è nell’interesse dei minatori mantenerle pubbliche a tutti gli effetti, in modo che la sovranità del Kosovo sul complesso venga riconosciuto una volta per tutte. 3500 persone lavorano per mantenere la miniera attiva tutti i giorni dell’anno, 24 ore su 24 e alcuni di loro lavorano fino a 1100 metri di profondità.

Ma non si va a parlare con i minatori senza scendere in miniera. Così, munite di caschetti, torcia, stivaloni e divise da lavoro, siamo scese anche noi. Una affagottata a mo’ di omino michelin, l’altra che sembrava “appena uscita da un campo di concentramento” e l’altra ancora con uno stivale bucato, che da lì a poco avrebbe regalato grandi emozioni, ci siamo schiacciate dentro il gabbione-ascensore insieme a Mostafa, due minatori e il nostro Luli, l’interprete.

“Pronte alla discesa?”, Mostafa caccia un urlo all’uomo provvidenza, ovvero colui che passa otto ore della sua giornata dentro un gabbiotto a tirar su e giù i minatori dagli inferi.

Click, la gabbia inizia a cigolare, appena il tempo di accendere le lampade e…broooooooom! Veniamo tutti risucchiati.

Ci vogliono tre, forse cinque minuti ad arrivare alla nostra destinazione. Dopo i primi momenti di sconcerto si chiacchiera, qualcuno sfumacchia, finché finalmente non raggiungiamo i -600. Fuori dalla gabbia ci imbattiamo in uno dei carrelloni e varchiamo il portone d’accesso ai tunnel.

Meraviglia!

Tunnel dai soffitti altissimi illuminati solo dalle torce si spalancano davanti ai nostri occhi stupefatti. Prima un tratto di con rotaie e terra battuta, poi pantano e mano a mano quasi esclusivamente tratti completamente allagati.La luce fa brillare i minerali nel buio. Ad un certo punto ci travolge una zaffata di aria calda e l’umidità si fa davvero alta, per la gioia delle nostre reflex che si appannano in continuazione. Incontriamo due minatori che con un trivellatore – svedese, i migliori a quanto pare – bucano grandi X rosse segnate su una parete immensa. Lavorano con a disposizione un solo fascio di luce che proviene dal macchinario. Poi mano a mano incontriamo nuovi fasci di luci piccoli, altri minatori e altre macchine che per un momento illuminano un tratto di strada.

Ovunque nei tunnel ci sono segnali per non perdersi: bulloni montati al contrario negli innesti delle tubature dell’aria, frecce disegnate con gessi, lettere in vernice rossa…ma per chi lavora lì da una vita praticamente non ce n’è bisogno. Conoscono tutte le “vie” sotterranee a memoria, dal livello -60 al -1100 e potrebbero percorrerle a occhi chiusi.

E’ un mondo a parte, ci spiega un minatore piuttosto su con l’età, un signore con le rughe che ricoprono gran parte del viso e due occhi belli che raccontano tanto. Mentre lo intervistiamo cerca di farci capire quanto l’essere minatori sia una fierezza, della solidarietà sul lavoro e tra le famiglie, di quanto la vita dell’uno dipenda dalla collaborazione e dalle competenze di quella dell’altro.

Rimaniamo in tutto un’ora e mezza sottoterra, raccogliendo molto materiale, che se pazientate, vedrete rimaneggiato e pubblicato in diverse lingue tra qualche tempo.

Una volta riportate alla luce del giorno dall’uomo della provvidenza e la sua gabbia, ci fermiamo con i nostri compagni di esplorazione appena fuori dalla miniera e ci scattiamo una bella foto ricordo. Siamo sudate, luride e anche un po’ maleodoranti, ma molto, molto felici di aver fatto quest’esperienza.

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La jihad in salsa balcanica

EUROPA/Varie di

Gli ultimi arresti in Italia a seguito dell’operazione Balcan Connection portano quindi a valutare che un gruppo di albanesi e kosovari ha messo su un’organizzazione in Italia per reclutare combattenti per lo Stato Islamico. Lo rendono noto la Procura generale la quale si è concentrata su un gruppo chiamato “Spinners dei Blacani”. Reclutavano combattenti per l’Isis sulla rotta balcanica. E’ di arruolamento con finalità di terrorismo internazionale l’accusa con cui sono stati arrestati Alban ed Elvis Elezi, zio e nipote albanesi, bloccati in un’operazione della polizia coordinata dalla Procura di Brescia, in cui è stato catturato anche El Madhi Halili, un ventenne cittadino italiano di origine marocchina. Per lui l’accusa è di apologia di associazione con finalità di terrorismo internazionale, per un documento pro Califfato in italiano pubblicato sul web.

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Dietro l’arresto di Alban e Elvis c’è ancora la figura del ‘foreign fighter’ Anas El Abboubi, ventiduenne marocchino, ex studente in un istituto tecnico, di Vobarno, nel Bresciano, arrestato per terrorismo internazionale nel 2013, scarcerato dal Tribunale del riesame, e andato in Siria per unirsi a gruppi jihadisti.

Questa organizzazione ha fatto nascere cellule jihadiste che lavorano sul reclutamento prevalentemente in Italia, dove sono concentrati moltissimi migranti lavoratori di provenienza dai Balcani. Fino ad ora sono quattro le cellule individuate dagli investigatori tra Roma, Milano, Lucca e Siena.

A Roma pare operino con più inisistenza nella zona di Centocelle, quartiere popolare sito a est della capitale. Tanti “attivisti” o sospettati tali sono finiti sotto inchiesta perché risultano essere potenzialmente pericolosi e appartenenti alla fascia più estremista. Circa 150 gli albanesi dell’ Albania e del Kosovo saliti alla ribalta delle indagini anti terrorismo come jihadisti e combattenti per lo pseudo Califfato islamico in territorio siriano e iracheno. Un lavoro di reclutamento continuo e pericoloso che si sviluppa anche all’interno delle carceri tra detenuti. Due figure chiave del jihadismo in salsa balcanica sono Genc Balla e Bujar Hysa, autoproclamati imam che hanno concentrato la loro attività proprio mentre erano detenuti in Italia.

Secondo la Procura di Tirana, i due venivano finanziati da altre fonti site in Kosovo, Albania e Macedonia ed erano sostenuti da un altro personaggio, tal Ebu Usejd, proveniente da un’altra città albanese, Elbasan, il quale con il suo aiuto e quello di altri finanziatori ha facilitato l’operato di Balla e Hysaj reclutando e mandando combattenti dall’Italia.

A gennaio, dopo la strage della redazione satirica francese del Charlie Hebdo e quel che ne è conseguito nei giorni a seguire, si è tenuta la riunione dei ministri degli esteri dell’UE dove si è fatto il punto su quel che rappresenta la difficoltà maggiore nella lotta al terrorismo in territorio europeo, ovvero l’identificazione dei quartieri, delle aree più contaminate dalla propaganda jihadista e il monitoraggio continuo degli stessi.

Quella dei reclutati e reclutanti di origine balcanica è un’ulteriore realtà che si aggiunge con la stessa pericolosità dei jihadisti d’origine medio-orientale. Diversi sono i motivi. Prima di tutto la posizione favorevolissima alle porte d’Europa di questi paesi e la possibilità di viaggiare senza grandi difficoltà attraverso i Balcani verso la Siria. La propaganda jihadista punta a radicalizzare l’islam storicamente moderato, soprattutto in Albania, una popolazione mai dedita alle lotte religiose. L’identità albanese non è mai stata legata alla religione e in nome della stessa non si è combattuto. L’unico momento storico in cui si è fatto appello alle cosiddette radici cristiane è stato precisamente nel sec. XV quando sotto la guida dell’eroe nazionale albanese, Scanderbeg, ha avuto luogo la resistenza albanese contro gli invasori ottomani, musulmani quindi.

In Kosovo, Bosnia, Macedonia e, più generalmente, nelle popolazioni musulmane del territorio della ex Jugoslavia questa realtà è ben più importante. Qui la religione è stata intesa ben più radicale anche come effetto della guerra in Bosnia nei primissimi anni ’90, numerosi sono i gruppi wahabbiti che operano sui territori.

Il Presidente albanese, Nishani, ha dichiarato che l’attività terroristica non conosce confini, oramai. “ Siamo consapevoli che l’attività dei gruppi terroristici è iniziata in modo strutturato dal punto di vista ideologico e pratico dall’11 settembre 2001 dopo gli attentati alle Torri Gemelle a New York. In seguito si è allargata con la nascita di numerose organizzazioni. Gli ultimi sviluppi in Siria, Iraq e in Europa dimostrano che che questa attività terroristica non conosce, appunto, confini: ogni paese, ogni democrazia, ogni società e ogni cittadino si sentono sotto minaccia. E’ d’obbligo allora che nelle nostre istituzioni venga valutato questo pericolo alla nostra libertà e sicurezza, coordinando un’azione comune nel quadro delle alleanze”.

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Sabiena Stefanaj
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