GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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EgyptAir: primi frammenti trovati, la ricerca della scatola nera, l’ipotesi dell’incidente

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La coltre nuvolosa sul caso Egyptair pare ancora lontana dal diradarsi. La marina francese insieme a quella egiziana è impegnata in questa task force per ritrovare con “massima priorità corpi e la scatola nera” dell’airbus caduto nel Mediterraneo il 19 maggio durante la tratta Parigi-Il Cairo.
Per ora sarebbero stati ritrovati solo alcuni frammenti metallici della carlinga, uno zaino da bambino indumenti facenti parte dei bagli da stiva, qualche rivestimento dei sedili e un giubbotto salva gente. A distanza di tre giorni, ancora non ci sono ancora certezze su quanto accaduto quella notte.

I quotidiani francesi da Le Monde a Liberation riportano le espressioni caute di entrambi i governi coinvolti, dopo che anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi in un discorso tenuto in televisione proprio durante la mattinata di oggi 22 maggio, ha ripreso a considerare qualsiasi ipotesi aperta.

Sui media francesi si ascoltano molti esperti di aviazione che illustrano le più variegate ipotesi di guasto che possano essersi verificate in maniera così repentina. I segnalatori di fumo sarebbero stati attivati poco prima dello schianto per una dei fumi in gran quantità provenienti dalla toilette anteriore, chi ne sa qualcosa in più dice che potrebbe essere anche una depressurizzazione della cabina ad aver creato questo tipo di fenomeno. In generale l’opinione pubblica è piuttosto vaga nell’esprimersi sull’accaduto e la domanda principale è: possibile che con la tecnologia di cui disponiamo al giorno d’oggi non siamo ancora riusciti a sapere cosa sia successo?

La pista del terrorismo –  intesa come atto mosso da organizzazioni come l’ISIS o Al Qaeda – è sempre meno presa in considerazione per il fatto che nel corso della giornata di sabato sono usciti dei comunicati ufficiali ( almeno da parte dello Stato Islamico) in cui non ci sarebbe nessun tipo di menzione rigurdante l’aereo EgyptAir. La questione in Francia sta iniziando a passare quasi “in secondo piano”, complice l’assenza di notizie determinanti e il fatto che la stampa d’oltralpe ben poco si presta  a dare seguito a tesi “complottiste” non verificate.

da Parigi Laura Laportella

Aereo Egypt Air: cosa sappiamo e quali sono le forze politiche in gioco

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Il caso dell’airbus A320 della EgyptAir scomparso dai radar alle 02.15 del 19 maggio sembra destinato a diventare un nuovo mistero internazionale. Innanzitutto l’elemento che salta di più all’occhio è che a più di 36 ore dal tragico incidente ancora non se ne conoscano con precisione le dinamiche. Altro punto “oscuro” l’ufficializzazione del ritrovo di parti del velivolo nel tratto di mare sotto l’Isola di Creta ( ma più a sud di dove si pensava inizialmente)  solo a 24 ore dalla disgrazia, la collaborazione non solo dei paesi coinvolti direttamente come Francia, Grecia ed  Egitto, ma anche di Russia e USA. A loro modo i due “giganti” hanno offerto aiuto nelle ricerche. La Russia a livello di informazioni di intelligence – come abbiamo visto nel precedente articolo  – e gli Stati Uniti mettendo a disposizione mezzi.

Lungi dal voler prestare troppa fede alle tesi complottiste, in questo caso ci limitiamo solo ad osservare i fatti. Molti sono gli elementi che, a quanto pare, non “quadrano” del tutto, ma intanto i punti fermi al momento sembrano essere tre: innanzitutto che il pilota non ha accennato nemmeno al più lieve dei problemi nel corso della sua ultima comunicazione con la torre di controllo greca. Un altro punto fondamentale: è stato confermato che si è trattato di uno schianto e non di un’esplosione; terzo elemento, ma per questo non meno importante, è il luogo del ritrovamento che ormai è accertato trovarsi nel braccio di mare tra la Grecia meridionale e l’Egitto.

 

Tutto il resto, o almeno molto di esso, fa parte del grande gioco delle ipotesi. Se i media francesi sono estremamente cauti nel riportare qualsiasi tipo di informazione, che deve avere una fonte ufficiale, nel resto del mondo iniziano a sortire notizie dal sentore mitologico. Ad esempio alcuni quotidiani italiani  parlano di una fantomatica  hostess che avrebbe “predetto” l’incidente; altri che più semplicemente calcano la mano sulla teoria  – né scartata, né privilegiata secondo Hollande – dell’attentato terroristico.  

 

Il traffico marittimo ed aereo nella zona dell’impatto tra il velivolo e l’acqua in queste ore è denso, così come lo sarebbe la macchia di petrolio rilevata in loco, come riportato dai media d’oltralpe. Tutti vogliono aiutare a fare chiarezza sull’accaduto, tuttavia questa chiarezza sembra – per la tecnologia a disposizione al giorno d’oggi – troppo lenta ad emergere. Si può solo sperare che non arrivi ad assomigliare troppo al “cold case” italiano di Ustica.

 

da Parigi Laura Laportella

 

NATO e FRONTEX insieme nel Mar Egeo

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Apprendiamo che Frontex e la NATO hanno raggiunto ieri un’intesa comune sulle modalità di  cooperazione congiunta nel Mar Egeo.

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Secondo un comunicato stampa UE, queste modalità operative saranno volte a massimizzare l’efficacia, garantire la coerenza e la complementarità dell’operazione di FRONTEX “Poseidon Rapid Intervention” nella zona e gli sforzi delle attività di sostegno della NATO.

“La decisione della NATO di fornire assistenza nella conduzione delle operazioni di ricognizione, monitoraggio e di sorveglianza sugli attraversamenti illegali nel Mar Egeo è un importante contributo agli sforzi internazionali per affrontare il traffico di migranti e l’immigrazione irregolare nel Mar Egeo, nel contesto della crisi dei rifugiati”.

Questo è un altro esempio dell’importanza della cooperazione pratica UE – NATO, già presente in molti teatri di crisi. L’UE, infatti, ha dichiarato ufficialmente di confidare che i suoi sforzi congiunti con la NATO contribuiscano ad affrontare le numerose sfide della crisi migratoria corrente e a ridurre i pericoli connessi agli attraversamenti irregolari nel Mar Egeo.

Così, mentre Frontex continuerà ad operare nel mare Egeo nel quadro della citata operazione “Poseidon Rapid Intervention”, le due organizzazioni internazionali si scambieranno informazioni in tempo reale.

Frontex attualmente impiega 14 navi e due elicotteri nel mare Egeo, che sostengono le autorità greche nella sorveglianza delle frontiere, nel rilevamento dei migranti e nelle operazioni di ricerca e soccorso. In totale, Frontex ha sul campo 739 funzionari, personale e membri di equipaggio sulle isole greche per sostenere anche gli sforzi relativi alla registrazione dei migranti. Dall’inizio del 2016, più di 130 000 migranti sono stati salvati dopo il loro arrivo sulle isole greche.

D’altra parte, le navi della NATO stanno già raccogliendo informazioni e stanno già conducendo un’attività di monitoraggio nel mare Egeo. Il loro campo di azione adesso sarà  esteso anche alle acque territoriali.

I comandanti dell’unità navali impiegate hanno infatti già definito l’area di attività in stretta consultazione e coordinamento con le autorità greche e turche, anche per facilitare l’accesso nelle rispettive acque nazionali.

Lo scopo dell’impiego della NATO non ovviamente è quello di fermare o respingere le barche dei migranti, ma quello di aiutare la Grecia e la Turchia, così come l’Unione Europea, nei loro sforzi per contrastare il traffico di esseri umani e le reti criminali che stanno alimentando questa crisi.

Il comando marittimo della NATO ha preso accordi con Frontex anche a livello operativo e tattico. NATO e FRONTEX scambieranno ufficiali di collegamento e condivideranno informazioni in tempo reale, per consentire a FRONTEX, così come alla Grecia ed alla Turchia, di intervenire in tempo reale.

Questo è un ottimo esempio di come la NATO e l’UE possano lavorare insieme per affrontare le sfide comuni.

Anche Europeanaffairs.media elogia la prontezza e la rapidità di questa decisione comune e ritiene che nell’affrontare la crisi, “il tempo è l’essenza, e la cooperazione è la chiave”.

 

Domenico Martinelli

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Sicurezza e privacy: l’eterno dilemma

EUROPA/INNOVAZIONE/POLITICA/Varie di

“Sicurezza e privacy. Eterno dilemma”. Talvolta è così. Talvolta no. Da un punto di vista relativo ed aziendale, la privacy rientra tra gli aspetti fondamentali propri della sicurezza, significando che un baco nel sistema di privacy comporterà ingenti danni all’impresa ed ai suoi clienti.

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In campo aziendale, ormai a livello mondiale, il problema della privacy è riconosciuto quale uno di quelli fondamentali, tali da implicare – nelle aziende più grandi, la separazione della figura del privacy “officer” o “consultant” da quella più generica del “security manager”.

Ma da un punto di vista assoluto, privacy e sicurezza sono due titani destinati allo scontro. Quanto e come si contrastano? Indubbiamente in Europa assistiamo ad una doppia esigenza: da un lato quella di far crescere e progredire i cittadini europei sotto il profilo dei diritti umani e dei diritti individuali, e la privacy forse, al primo colpo d’occhio sembrerebbe uno dei più importanti diritti individuali, quasi da assurgere, al giorno d’oggi, nella categoria dei diritti naturali. Da un altro punto di visita occorre che le istituzioni nazionali ed europee invadano letteralmente la privacy dei residenti e degli stranieri che chiedono di soggiornare nel vecchio continente.

Questo, com’è ovvio, per chiari motivi di ordine e sicurezza pubblica, al fine di contrastare i tristissimi fenomeni di cui tutti i giorni sentiamo e leggiamo: dall’immigrazione clandestina, al traffico di migranti, dal terrorismo, al riciclaggio di danaro. Ed è per questo che l’Europa si sta dotando di strumenti normativi volti a disciplinare da un lato i doveri/diritti dei cittadini in campo privato e, dall’altro, i doveri/diritti delle istituzioni nei confronti dei cittadini. Stiamo parlando, rispettivamente, del Regolamento e della Direttiva sulla Protezione dei dati. “Regolamento” e “Direttiva” sono due parole molto generiche, che recano invece nomenclature giuridiche molto più complesse e lunghe, ma che, nel settore della protezione dati, fanno immediatamente capire a cosa si riferiscono. In entrambe le fonti normative, di imminente promulgazione – pare che entrambi i provvedimenti abbiano superato gli step della discussione in Trilogo – si definiscono ruoli, competenze, soggetti destinatari ed “attori” del sistema di protezione dati e, conseguentemente, di privacy, che presto riguarderanno Europa, Stati Membri e Paesi c. d. Terzi. Molta importanza verrà ovviamente affidata, si presume, alle autorità nazionali di controllo, ossia ai rispettivi Garanti della Privacy nazionali, che sono già in parte coordinati dal Garante Europeo per la Protezione dei Dati.

Da un punto di vista operativo e spicciolo, comunque, dovrebbe cambiare poco, ma sarà utilissimo dare una volta per tutte uniformità alle singole legislazioni nazionali e prevedere comuni procedure di accesso ai dati e di contenzioso in materia.

In ogni caso, ad oggi, le istituzioni Europee e nazionali che agiscono nel campo della sicurezza sono – in estrema e profonda sintesi – legittimamente titolari delle potestà relative all’uso, alla raccolta ed alla detenzione dei dati, per adempiere ai loro fini istitutivi ed ai loro scopi istituzionali. La c. d. “Iniziativa Svedese”, le c. d. “Decisioni di Prüm” altro non sono che tentativi normativi, già recepiti od in corso di recepimento per migliorare l’uso delle informazioni ed il loro scambio tra Stati membri.

Ed è qui il nodo centrale della questione: secondo la giurisprudenza europea e nazionale, è stata sinora generalmente considerata giusta la compressione del diritto alla privacy, se lo stesso interesse confligge con interessi superiori, quale il diritto alla vita, od il principio secondo cui occorre evitare che un reato venga perpetrato o portato a compimento. E sono di fatto questi i principi, per così dire, filosofici, che sottendono all’esistenza normativa delle più disparate banche dati – talune ancora nemmeno in funzione – che supportano la giustizia e le forze di polizia europee nella loro quotidiana missione di prevenzione del e contrasto del crimine.

Nello specifico settore ci sono state fondamentali sentenze della Corte di Giustizia Europea che hanno disciplinato e completamente ridisegnato l’architettura della protezione dati, specie nei rapporti economici  con i grandi colossi statunitensi, che sono di fatto i monopolisti della comunicazione social e dei provider di servizi online. Ad esempio, si pensi alla famosa sentenza sulla “Data Retention” (a cui facciamo integrale rimando) che ha fatto completamente saltare gli accordi finora perfettamente “efficienti” tra UE e USA. Ogni stato esterno all’UE, che gestisca materialmente dei dati di cittadini europei, prima era di fatto libero nella gestione stessa: o, meglio, pur dovendo assicurare un adeguato regime di protezione dei dati era abbastanza svincolato da forme di controllo e verifica da parte delle istituzioni comunitarie.

Nel caso degli usa si trattava del c. d. principio del “Safe Harbour”. Rivelatosi insufficiente a tutelare la privacy dei cittadini che affidavano ai colossi della telematica mondiale i propri dati, i propri interessi e le proprie fotografie, a seguito della sentenza il “Safe Harbour” è stato completamente rivisto e rimpiazzato dal più sicuro accordo denominato “Privacy Shield”. Istituzione europea deputata alla sigla di tali accordi è la Commissione che, con il nuovissimo sistema giuridico ha messo, per così dire, i paletti agli Stati Uniti, prevedendo garanzie chiare e obblighi di trasparenza applicabili all’accesso ai dati da parte del governo degli Stati Uniti, imponendo obblighi precisi alle società e una robusta applicazione, prevedendo una protezione effettiva dei diritti dei cittadini dell’UE con diverse possibilità di ricorso e ideando un meccanismo annuale di riesame congiunto dell’efficacia dello scudo.

Quindi, riassumendo, l’Europa non è in controtendenza con il buon senso: se da un lato prevede la giusta garanzia di privacy per questioni e diritti fondamentali, dall’altra riesce a bilanciare con forza la propria azione di raccolta delle informazioni necessarie alla salvaguardia dei suoi cittadini, difendendo i suoi interessi e la sua autonomia anche dagli amici oltre l’Atlantico.

Su questo dilemma permangono comunque fortissimi dubbi, specie con riguardo alle legislazioni nazionali. Si pensi, ad esempio, ai paesi in cui è illegale la prostituzione. Molti movimenti politici o semplici correnti di pensiero chiedono a gran voce la legalizzazione e la redazione di apposite norme in materia.

A parere di chi scrive una norma in materia non potrà mai essere promulgata, proprio per motivi di privacy, anche se il topic “prostituzione” è un argomento che ne lambisce molti altri: diritti umani, violenza di genere, sfruttamento, immigrazione, atti di disposizione del proprio corpo e via dicendo. Se fosse emanata una legge che regolarizzi e, di fatto, re-instituisca la prostituzione, la stessa confliggerebbe – a puro titolo esemplificativo – con le norme che impongono alle strutture ricettive di comunicare alle Autorità (e quindi di far inserire nelle banche dati) quali siano i loro avventori.

Inevitabilmente un cliente ed una prostituta verrebbero identificati, e potrebbe altrettanto venir tracciato un profilo delle persone che frequentano quella prostituta o che frequentano quella determinata area o che, peggio, si diversificano per le loro abitudini sessuali (che sono, ad oggi, giustamente, un dato sensibilissimo). Eppure è fondamentale per le Autorità conoscere quali siano gli avventori degli alberghi, che sono soggetti alle leggi di pubblica sicurezza e che producono registrazioni dei clienti che possono rivelarsi fondamentali nella risoluzione di casi giudiziari ed investigativi.

Qui il dilemma: tutela degli interessi pubblici o tutela degli interessi individuali?

Domenico Martinelli

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Intelligence: unica risorsa contro il terrorismo?

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A seguito dei tristissimi fatti di Parigi, degli episodi di violenza perpetrata da singoli individui radicalizzati, spesso paranoici e non legati a organizzazioni terroristiche, dagli eccidi in Syria ed in Africa è lecito chiedersi se l’intelligence sia l’unica arma contro il terrorismo.

A nostro parere la risposta è no. O, meglio, non solo. L’intelligence è un campo in cui l’Europa e le Nazioni Unite non esistono ed in cui i trattati di fatto non esistono. L’intelligence, sia esso esterno o interno è qualcosa che esula dai rapporti tra stati e organizzazioni internazionali e, molto spesso, interessa esclusivamente i rapporti bilaterali sussistenti tra Stati, che – come la storia insegna – non sono sempre in rapporto di parità ma, anzi, molto spesso sono in rapporto di sudditanza o dipendenza.

Da sempre, ed ancor più in questi giorni, in Europa si parla di un’intelligence unica, di scambio informazioni, e di collaborazione tra servizi.

Non confondiamo le cose: agenzie europee di sicurezza, Europol in primis, e consessi internazionali del settore non sono intelligence e non fanno intelligence; si tratta di organismi e comitati, molti dei quali in seno all’UE o all’ONU, che elaborano dati, studiano casi, individuano buone prassi, ed emanano raccomandazioni, producendo un ottima mole di lavoro per gli addetti istituzionali e para-istituzionali e per i decisori politici, ma non creano intelligence, indirizzandosi per lo più a forze ed operazioni di polizia di tipo palese e di tipo investigativo e giudiziario. Men che meno sono veritiere le paventate (da alcuna stampa) potenziali operazioni di intelligence poste in essere da organismi cerati sulla base di accordi multilaterali (o bilaterali incorciati) quali l’Eurogendfor (che è un perfetto e meritevole connubio di gendarmerie europee, essenzialmente impegnato a fornire expertise di polizia ed addestramento militare in paesi in via di sviluppo, e ad agire quale forza di interposizione in aree di crisi).

Le differenze normative tra gli Stati europei, di fatto, costituiscono a detta di molti un notevole intralcio alla costituzione di un apparato di intelligence comune. Secondo altri politici, italiani o stranieri che siano, gli Stati europei non vogliono realmente costruire un’unica intelligence perché sono gelosi delle informazioni possedute e non credono di riceverne di altrettanto qualificate da parte dei loro omologhi interlocutori; questo proprio perché la materia non è regolata e perché le regole in questo settore, dove la trasparenza non è una forza – ma necessariamente una debolezza – non si scrivono.

Per questo motivo l’intelligence potrebbe essere una buona arma unica contro il terrorismo, ma tale esercizio non è praticabile nel breve periodo, nemmeno in un regime di massima urgenza qual’è quello che stiamo vivendo.

L’Europa, però, può utilizzare gli strumenti normativi ed operativi di cui nel tempo si è dotata e si è perfezionata, rasentando davvero l’eccellenza.

In tutti gli Stati membri si parla infatti di sicurezza partecipata: un concetto molto ampio, che, per essere spiegato, potrebbe richiamare una dottrina cinese secondo la quale ogni cittadino è tenuto a fare sicurezza, a dare sicurezza ed a custodire anche le informazioni minimali, divulgandole solo alle autorità. La sicurezza partecipata si misura studiando le attività poste in campo dallo Stato a livello centrale, fino ad arrivare alle più infime articolazioni dei piccoli comuni e dei villaggi.

A differenza dell’intelligence unica, il concetto di sicurezza partecipata non è un’utopia: è davvero realizzabile e, forse, è già in corso di realizzazione, addirittura in modo inconsapevole, specie in questi periodo. Ma occhio agli allarmismi. Dietro un hijab non si nasconde sempre una terrorista.

Altro strumento utilizzabile, stavolta dai decisori politici, è ciò che potrebbe derivare dagli esiti dei Consigli e Comitati europei in ambito sicurezza interna. La Strategia della Sicurezza Interna, i Report annuali di Europol sul terrorismo, l’Agenda Europea sulla Sicurezza sono tutti utili strumenti per gli Stati membri per affinare strategie, condividere esperienze e formare una coscienza comune, a livello politico, per contrastare il fenomeno terroristico. Ma, va da sé, i decisori devono poi decidere. Devono agire e far agire gli apparati dei loro stati, promuovendo per quanto possibile non utopie giuridiche, come quella dell’unificazione dei servizi d’intelligence europei, ma disposizioni normative concrete, stringenti e precise.

Printelligence_antiterrorismo_2_940endiamo Europol, agenzia GAI europea, di cui abbiamo già parlato altre volte, qui su European Affairs.

Ogni anno l’Agenzia emana un Rapporto dell’Unione Europea sulla situazione ed il trend del terrorismo, il c. d. “TE-SAT”, documento famoso per gli addetti ai lavori. Europol, da sempre specializzata nell’analisi criminale, distingue giustamente vari fenomeni terroristici, non soffermandosi esclusivamente su quello di matrice islamica, che è al momento quello che desta più clamore. Oltre al terrorismo di ispirazione religiosa, infatti, Europol rammenta che esiste un terrorismo etnico-separatista e nazionalista, un terrorismo di sinistra (di matrice anarco-insurrezionalista, espressione tanto cara agli analisti italiani) ed un terrorismo di destra. Ovviamente Europol si interessa dei fenomeni da un punto di vista complessivo, specie se gli stessi sono connotati da caratteristiche transnazionali e transfrontaliere. Si pensi all’ETA, alla Resistencia Galega o al PKK o ai gruppi antisemiti o islamofobi che, sebbene in misura sicuramente minore, hanno comunque fatto parlare di sé in questi mesi e nell’ultimo biennio. Si pensi, infine, al terrorismo di matrice religiosa: per questo tipo di fenomeno Europol studia ed elenca i vari episodi, conta gli arresti eseguiti dagli Stati membri ed elenca alcune attività criminali che devono essere contrastate perché contribuiscono a rafforzare il terrorismo quali il finanziamento, l’immissione nell’economia legale, i rapporti con l’economia sommersa e criminale e con la criminalità organizzata, e la facilità con cui si trasferiscono informazioni sul maneggio e la costruzione di ordigni esplosivi mediante il deep web (lambendo così il fenomeno del cyber crime).

I dati sono noti, pubblici, ed ogni Stato ha la ricetta per contrastare i fenomeni.

Ci sono Stati che si limitano a sospendere l’efficacia del trattato Schengen. Ovviamente tale soluzione – la più facile – può rivelarsi utile nel breve o brevissimo periodo, ma è letale sul lungo termine. Questo perché i cittadini ed i commercianti sono insofferenti alle limitazioni di libertà acquisite ormai da anni e, inevitabilemente, la politica risente di tali pressioni sicché è facilissimo riallargare le maglie dei controlli alle frontiere dopo pochi giorni, facendo passare poi, secondo la legge del contrappasso, qualunque tipo di merce e di persona.

Qualcuno, specie nei paesi nordici, parla di contro-narrativa: ossia dell’avvio di una vera e propria campagna culturale e mediatica di contro-informazione contro il jihadismo e la radicalizzazione. Addirittura c’è chi vorrebbe prevedere dei programmi di riabilitazione “sociale” per i sospetti e potenziali foreign fighters (qualcuno anche per quali acclarati): evitare la prigione in cambio di un impegno civile nella lotta all’estremismo ed alla violenza religiosi.

Ma anche queste soluzioni ci sembrano poco adeguate e, a dire il vero, abbastanza utopistiche, specie per realtà e architetture giuridiche e politiche di origine “latina”, come quella italiana.

Meglio sarebbe parlare di “resilienza civile”, ossia di una forma di boicottaggio – anche’esso nomativamente e politicamente guidato – degli effetti che il terrorismo può produrre sulla società: campagne di informazione sui pericoli dell’estremismo religioso, da praticarsi nelle scuole sin dalle prime classi, seminari gratutiti di istruzione alle prime azioni da compiere per salvare sé e gli altri a seguito o durante un attentato terroristico, attenzione e focus mediatici frequenti, ma non noiosi e pendanti, sul terrorismo religioso, e sui pericoli del fondamentalismo. Soluzioni di tipo culturale, insomma.

A poco o a nulla serve quell’onda cavalcata da varie fazioni politiche europee, repubblicane o democratiche, per dirla all’americana, che individua la soluzione nella corresponsione di maggiori fondi alle Forze Armate o di Polizia: questo perché qualunque “squilibrio”, specie se improvviso, nel bilancio degli Stati, prima o poi si ripercuote inevitabilmente proprio sul settore che ha “causato” lo squilibrio stesso e gli effetti non possono essere che poco duraturi, se non disastrosi, nei loro risvolti sociali, politici e sindacali.

Bene sarebbe, invece, investire nella controinterdizione economica: ossia nella pratica di un’intelligence economica aggressiva nei confronti anche dei piccoli capitali, delle donazioni per cause religiose non meglio specificate, delle oblazioni per opere umanitarie portate avanti da organizzazioni indubbiamente poco famose, poco note in ambito worldwide e di nascita relativamente giovane. Aggredire l’economia del terrorismo, significa inevitabilmente aggredire la linfa vitale di una tale cattiva escrescenza; del resto la tecnica di aggressione dei patrimoni costituisce il classico metodo di lotta alle forme più radicate di malavita organizzata in tutto il mondo.

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Metodologie di pagamento quali l’hawala o il chitti banking sono ormai molto conosciute e rappresentano un rischio per chi, Stato o persona, ne è in qualche modo vittima. Ma tali metodi sono rischiosi anche per chi li pratica, questo specie in un’Europa che ha fatto dell’antiriciclaggio uno dei suoi principali cavalli di battaglia, sfornando con sempre maggior frequenza direttive e decisioni che impongono agli Stati membri adeguamenti normativi urgenti e che hanno regalato  – come nel caso italiano – una definizione sempre più nitida della fattispecie del riciclaggio e delle responsabilità anche in campo amministrativo, oltre che penale, che da essa derivano.

Riassumendo: forze militari e di polizia dedicate e costituite da un consistente numero di professionisti; provvedimenti normativi chiari, mirati, di lunga durata, non oppressivi e non circoscritti alle sole emergenze; operazioni culturali e mediatiche che educhino – nel rispetto di ogni confessione religiosa – sì alla tolleranza ecumenica, ma anche alla totale intolleranza verso qualsivoglia forma di violenza ispirata alla o dalla fede;  lotta indiscriminata contro ogni forma di criminalità economica che possa anche minimamente rendersi sospetta di appoggiare, anche solo idealmente, il terrorismo e la radicalizzazione.

In attesa di un’unica Procura europea contro il terrorismo, di un unico esercito europeo, di un’unica agenzia europea di intelligence, sono queste, secondo noi, le ricette alternative per sconfiggere il terrorismo.

 

 

 

Eunavfor Med, stallo per la terza fase

Varie di

Sospeso il terzo step della missione Eunavfor Med, volta ad arrestare l’attività dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. Il 7 ottobre scorso, il Parlamento Europeo aveva annunciato il potenziamento delle missioni militari nel Mediterraneo, finalizzate all’abbordaggio, perquisizione e confisca delle imbarcazioni utilizzate dagli scafisti. L’obiettivo successivo era quello di arrestare i trafficanti e distruggerne i mezzi direttamente a terra, con operazioni da effettuarsi sul suolo libico e nelle acque territoriali del Paese. A tal fine, si rendeva necessario un mandato delle Nazioni Unite, a sua volta legittimato da un’autorizzazione del Governo libico ancora inesistente.

La firma dell’accordo di dicembre in Marocco tra alcune componenti della vita politica e sociale libica per la formazione di un esecutivo di unità nazionale si è rivelata illusoria. In data 25 gennaio il Parlamento di Tobruk ha negato la fiducia alla lista di 32 ministri presentata dal premier Fayez al-Sarraj. Ne è derivata un’incertezza politica, istituzionale e sociale del Paese che potrebbe avallare i gruppi estremisti dello Stato islamico e al-Qaeda, con conseguenze disastrose per la sicurezza generale del vecchio continente. Nello specifico, EunavforMed resta momentaneamente “sospesa” alla fase attuale, quella della lotta agli scafisti al largo delle acque libiche senza un mandato di effettiva autorizzazione all’intervento territoriale, risolutivo dell’emorragia migratoria che destabilizza l’Europa. Sebbene la comunità internazionale appoggi Sarraj, ricevuto in Italia due mesi fa dal premier Matteo Renzi, la situazione si fa critica.

Da più parti si ipotizzano futuri raid aerei francesi e inglesi contro le basi Isis in Libia, favorite dall’attuale caos istituzionale. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito l’urgenza di dar vita al Governo di accordo nazionale e concentrarsi sulla comune lotta al terrorismo. Dello stesso parere il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini, che ha definito l’attentato del 7 gennaio a Zlitan contro un centro di addestramento della polizia come parte della “strategia attuata dello Stato Islamico per rinviare l’insediamento del governo di unità nazionale concordato tra le parti e l’Onu”. Senza un esecutivo riconosciuto a livello internazionale, EunavforMed è destinata allo stallo.
Viviana Passalacqua

Indonesia, la polizia sulle tracce della rete terroristica

Asia/Varie di

 

All’indomani dell’attacco di Jakarta, rivendicato dallo Stato Islamico, che ha lasciato sul terreno cinque morti tra attentatori e vittime civili (un cittadino locale ed un canadese), la polizia Indonesiana è riuscita ad identificare alcuni dei terroristi rimasti uccisi ed ha effettuato i primi arresti, nei dintorni della capitale ed in altre regioni del paese.

L’attacco è iniziato giovedì mattina alle 10.40, ora locale, con una serie di sei esplosioni, in rapida successione, in una zona commerciale della capitale indonesiana. Due attentatori hanno aperto il fuoco sui clienti di una caffetteria Sturbucks colpita da una delle deflagrazioni, mentre due kamikaze si sono fatti esplodere nei pressi di un incrocio stradale dove stazionavano alcuni poliziotti.  Le forze dell’ordine hanno risposto rapidamente, circondando la zona e attaccando gli attentatori con l’ausilio di auto e mezzi corazzati. La sparatoria è durata diverse ore, finché i tre terroristi rimasti ,dopo essersi asserragliati in un cinema, sono stati abbattuti.

L’attacco è stato rivendicato dall’ISIS con un comunicato online. Secondo la polizia locale, dietro gli attentati si celerebbe la regia di Bahrun Naim, un jihadista indonesiano che combatte con l’ISIS in Siria e che mira a diventare il leader dell’organizzazione sul fronte del sud-est asiatico.

Il Generale Badrodin Haiti, il capo della polizia nazionale, ha dichiarato che due degli attentatori erano stati già condannati ed incarcerati in passato per attività legate all’islamismo radicale ed ha diffuso il nome di uno dei due, Afif Sunakim, che in passato aveva scontato una condanna a sette anni. Il capo della polizia di Jakarta, l’ispettore Generale Tito Karnavian, ha poi rivelato che nella capitale erano in corso operazioni antiterrorismo per catturare i membri di alcune cellule pronte ad entare in azione.

Nella sua rivendicazione l’ISIS ha spiegato che lo scopo degli attacchi era colpire l’Indonesia per il suo supporto alla coalizione internazionale che combatte Daesh in Siria ed Iraq. Secondo la polizia indonesiana, il gruppo che ha organizzato gli attentati è collegato con altre cellule attive nel paese, a Java e Sulawesi. Naim, nello specifico, sarebbe stato collegato al MIT, un gruppo jihadista indonesiano attivo sull’isola di Sulawesi che si dichiara alleato dello Stato Islamico. Dal 2002, anno di un sanguinoso attentato a Bali nel quale morirono 202 persone, l’Indonesia ha sempre tenuto la guardia alta, arrestando in totale più di mille persone nell’ambito di operazioni antiterrorismo. Alcuni jihadisti, però, sono stati rilasciati nel corso degli anni e gli attacchi di giovedi, sottolinea il capo della polizia, dimostrano come essi possano ancora rappresentare un pericolo concreto.

Secondo il capo della polizia nazionale Haiti, gli ultimi attentati rappresentano un salto di qualità nel confronto tra le forze di sicurezza e l’estremismo islamico. Il fatto che sia emerso un collegamento diretto tra l’ISIS ed i gruppi locali rappresenta una novità preoccupante e di grande rilievo. Gli inquirenti inoltre ritengono che l’azione sia stata organizzata e finanziata direttamente dalla Siria, con il tramite di Bahrun Naim.

Anche il presidente indonesiano Joko Widodo ha fatto sentire la sua voce, dopo gli attentati, con un tweet: “Non c’è posto per il terrorismo sulla terra – ha scritto – ed ogni cittadino del mondo deve fare la sua parte per combatterlo”

2016: Direttiva Europea sulla CyberSecurity. O nel 2018?

INNOVAZIONE/POLITICA/Varie di

 

La Direttiva Network and Information Security NIS dell’Unione Europea e’ pronta al lancio. Presentata alla fine del 2013 insieme alla Cyber Strategy targata UE, dopo una lunghissima gestazione ha ricevuto due semafori verdi: all’accordo in Parlamento, e il Parlamento del 7 dicembre ha fatto seguito, il 18 Dicembre, il via libera del Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper).

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Il 14 Gennaio 2016 e’ arrivato anche il voto (32 favorevoli su 34) della Commissione per il Mercato Interno del Parlamento. Sembra solo una formalità adesso il voto finale del Parlamento, che dara forza esecutiva al provvedimento.

Il cui scopo e’ quello di stabilire una policy condivisa in materia, tale da garantire uniformità di approccio verso un settore strategico, e il 2015 lo ha confermato in pieno, quale quello della Cybersecurity.

La Direttiva individua e disciplina tre aspetti chiave.

Innanzitutto impone agli Stati Membri l’adozione di un regime regolamentare comune, che si deve estrinsecare nell’istituzione di un’Autorita’ dedicata, con compiti di regolamentazione, relazione e punto di contatto fra la società civile, il mondo delle imprese, i governi nazionali e le istituzioni europee.

I singoli paesi dovranno contestualmente definire il framework legale e regolamentare per la disciplina della materia, nonche promuovere la nascita di CERT (Computer Emergency Response Team) nazionali.

Il secondo pilastro della direttiva consiste nella creazione di un network europeo di cyber security. Delle ipotesi al vaglio quella che sembra aver preso piede (ma si aspetta la ratifica parlamentare prima di andare a vedere nel concreto se sara’ quella adottata), e’ la costituzione di un network duale: 1. un gruppo di cooperazione fra la Commissione, l’ENISA (European Union Agency for Network and Information Security) e i rappresentanti dei singoli stati; 2. un gruppo costituito dai rappresentanti dei CERT nazionali.

Il terzo, e discusso, pilastro concerne il risk management. La NIS sottopone alla propria disciplina tutti quei soggetti che operano nell’ambito dei cd “servizi essenziali”: energia, trasporti, banking, mercati finanziari, salute, acqua e infrastrutture digitali.

I parametri che circoscrivono i servizi essenziali sono tre:

  1. Fornire servizi essenziali;
  2. Il servizio fornito dipende dal funzionamento dei sistemi informativi;
  3. Un incidente dovuto ad un attacco cyber potrebbe generare un blocco del servizio.

Ad essi si aggiungono tutti i fornitori di servizi digitali, nonche’ marketplace quali Amazon, Ebay o motori di ricerca quali Google.

In capo a tutti questi soggetti graveranno obblighi di non poco conto, quali l’implementazione di uno standard minimo di sicurezza e la comunicazione all’Authority di tutti gli attacchi di una certa rilevanza a cui sono soggetti.

Si tratta di un effort economico e di una pubblicita’ di informazioni di non poco conto, in grado di influire pesantemente sul business o la mission di un’organizzazione.

Pertanto, e qui si intravede una prima criticita’ della direttiva, qualora uno stato membro vari un sistema sanzionatorio “leggero”, potrebbero generarsi, in tutto il sistema, effetti facilmente prevedibili.

Un altro aspetto che vale la pena di notare e’ quello relativo al timing di applicazione della direttiva stessa. Dal momento dell’entrata in vigore, i singoli Stati avranno 21 mesi per il varo di una normativa nazionale di riferimento e la creazione delle authorities. A questi si aggiungono ulteriori sei mesi per il censimento degli operatori dei servizi essenziali. Si tratta di un tempo enorme, specialmente quando si parla di minacce cyber, che evolvono con un tasso di crescita esponenziale. E mentre i governi di tutta Europa auspicano l’adozione di misure di cyber security quale mezzo necessario per la prevenzione al terrorismo, anche al prezzo della limitazione di alcune liberta’, l’Unione se la prende comoda, con la speranza che non si ripeta un’altra Parigi.

 

Leonardo Pizzuti

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2016, anno della Direttiva Europea sulla CyberSecurity. O nel 2018?

Varie di

La Direttiva Network and Information Security NIS dell’Unione Europea e’ pronta al lancio.

Presentata alla fine del 2013 insieme alla Cyber Strategy targata UE, dopo una lunghissima gestazione ha ricevuto due semafori verdi: all’accordo fra il Parlamento e il Parlamento del 7 dicembre ha fatto seguito, il 18 Dicembre, il via libera del Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper).

Sembra solo una formalità adesso il voto positivo del Parlamento, che dara cosi forza esecutivo al provvedimento.

Il cui scopo e’ quello di stabilire una policy condivisa in materia, tale da garantire uniformità di approccio verso un settore strategico, e il 2015 lo ha confermato in pieno, quale quello della Cybersecurity.

La Direttiva individua e disciplina tre aspetti chiave.

Innanzitutto impone agli Stati Membri l’adozione di un regime regolamentare comune, che si deve estrinsecare nell’istituzione di un’Autorita’ dedicata, con compiti di regolamentazione, relazione e punto di contatto fra la società civile, il mondo delle imprese, i governi nazionali e le istituzioni europee.

I singoli paesi dovranno contestualmente definire il framework legale e regolamentare per la disciplina della materia, nonche promuovere la nascita di CERT (Computer Emergency Response Team) nazionali.

Il secondo pilastro della direttiva consiste nella creazione di un network europeo di cyber security. Delle ipotesi al vaglio quella che sembra aver preso piede (ma si aspetta la ratifica parlamentare prima di andare a vedere nel concreto se sara’ quella adottata), e’ la costituzione di un network duale: 1. un gruppo di cooperazione fra la Commissione, l’ENISA (European Union Agency for Network and Information Security) e i rappresentanti dei singoli stati; 2. un gruppo costituito dai rappresentanti dei CERT nazionali.

Il terzo, e discusso, pilastro concerne il risk management. La NIS sottopone alla propria disciplina tutti quei soggetti che operano nell’ambito dei cd “servizi essenziali”: energia, trasporti, banking, mercati finanziari, salute, acqua e infrastrutture digitali.

I parametri che circoscrivono i servizi essenziali sono tre:

  1. Fornire servizi essenziali;
  2. Il servizio fornito dipende dal funzionamento dei sistemi informativi;
  3. Un incidente dovuto ad un attacco cyber potrebbe generare un blocco del servizio.

Ad essi si aggiungono tutti i fornitori di servizi digitali, nonche’ marketplace quali Amazon, Ebay o motori di ricerca quali Google.

In capo a tutti questi soggetti graveranno obblighi di non poco conto, quali l’implementazione di uno standard minimo di sicurezza e la comunicazione all’Authority di tutti gli attacchi di una certa rilevanza a cui sono soggetti.

Si tratta di un effort economico e di una pubblicita’ di informazioni di non poco conto, in grado di influire pesantemente sul business o la mission di un’organizzazione.

Pertanto, e qui si intravede una prima criticita’ della direttiva, qualora uno stato membro vari un sistema sanzionatorio “leggero”, potrebbero generarsi, in tutto il sistema, effetti facilmente prevedibili.

Un altro aspetto che vale la pena di notare e’ quello relativo al timing di applicazione della direttiva stessa. Dal momento dell’entrata in vigore, i singoli Stati avranno 21 mesi per il varo di una normativa nazionale di riferimento e la creazione delle authorities. A questi si aggiungono ulteriori sei mesi per il censimento degli operatori dei servizi essenziali. Si tratta di un tempo enorme, specialmente quando si parla di minacce cyber, che evolvono con un tasso di crescita esponenziale. E mentre i governi di tutta Europa auspicano l’adozione di misure di cyber security quale mezzo necessario per la prevenzione al terrorismo, anche al prezzo della limitazione di alcune liberta’, l’Unione se la prende comoda, con la speranza che non si ripeta un’altra Parigi.

Alessandro Conte
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