GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Sud Asia

Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

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Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

Gli interessi strategici di Cina e USA entrano in collisione

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Negli ultimi dieci anni la Cina è cresciuta enormemente, ridefinendo il suo ruolo a livello economico e geopolitico ed assumendo i connotati di una vera potenza globale. Nonostante i grandi cambiamenti ed il ritmo serrato che li ha contraddistinti, gli imperativi strategici di Pechino continuano ad essere gli stessi, almeno in parte.

In cima alla lista figura ancora il mantenimento dell’unità interna nelle regioni dove prevale l’etnia Han, dislocate prevalentemente lungo il corso di due grandi fiumi, il Giallo e lo Yangtze. Questi territori ospitano la parte più consistente della popolazione cinese ed i settori principali dell’industria e dell’agricoltura nazionali. Mantenere l’unità in questa macro-area è vitale per garantire la coesione del gigante asiatico e consolidare il ruolo del Partito Comunista Cinese come forza egemone. L’obiettivo non è semplice, però. L’uniformità è solo teorica, poiché il gruppo etnico maggioritario del paese si differenzia al suo interno attraverso articolazioni di carattere culturale, sociale ed economico che rendono complicata la ricerca di un punto di equilibrio. Il rallentamento economico, inoltre, contribuisce a rendere il quadro ancora più complesso.

Un’altra sfida fondamentale riguarda il controllo delle regioni cuscinetto, quelle più periferiche, abitate in passato da popolazioni nomadi e caratterizzate, per molto tempo, da confini scarsamente definiti. Nel corso dei secoli la Cina degli Han ha combattuto con i suoi vicini, riuscendo infine ad integrare molte regioni periferiche, dalla Manciuria, fino alla Mongolia, passando per lo Xinjiang, il Tibet e lo Yunnan. Oggi queste aree sono strategiche per Pechino e contribuiscono a rendere il paese la potenza che è, ma pongono molteplici sfide per il potere centrale in termini di coesione e politiche etniche.

Il terzo anello della catena delle priorità fa riferimento  alla protezione delle coste, che si estendono per circa 18 mila chilometri dal Vietnam alla Corea del Nord. Per gran parte della sua storia la Cina ha fatto affidamento sulle dimensioni interne e sulle rotte commerciali terrestri per accaparrarsi le risorse necessarie, rivolgendo scarsa attenzione ai mari. Per lungo tempo, dunque, la Cina non ha voluto disporre di una forza navale potente, concentrandosi sulla difesa delle coste da terra e sviluppando sistemi di navigazione alternativi, attraverso un articolato sistema di canali interni. Oggi la situazione è mutata e la Cina sta rafforzando considerevolmente la sua flotta militare. In queste acque, però, la distanza dall’avversario americano è ancora notevole e le politiche di difesa si concentrano tutt’oggi sul rafforzamento delle protezioni costiere.

Accanto a questi tre imperativi storici, la crescita economica dell’ultimo decennio ha fatto emergere un quarto vincolo strategico: la difesa delle rotte commerciali, delle risorse e dei mercati dalle ingerenze straniere. Oggi la Cina importa almeno quanto esporta, non è più autonoma come un tempo. Il commercio con l’estero è diventato vitale, così come gli investimenti esterni volti ad acquisire tecnologie e know-how. L’affermazione di questo nuovo paradigma ha richiesto una maggiore presenza militare, finanziaria e politica a livello internazionale e ha portato inevitabilmente a una più diretta contrapposizione con gli Stati Uniti e i suoi interessi strategici.

Gli USA, a livello esterno, considerano vitale il controllo degli oceani e il contenimento delle potenze emergenti, la Cina in primis. Pechino, dal canto suo, crede che la propria stabilità economica possa essere messa a repentaglio dal dominio americano sui mari e sulle rotte commerciali e sta rafforzando la flotta per aumentare il peso della sua presenza.

Gli interessi strategici delle due potenze collidono e dall’esito dello scontro dipenderanno gli assetti geopolitici del futuro. La partita principale, al momento, si sta giocando nel Mar Cinese Meridionale dove la Cina reclama il possesso di alcuni arcipelagi per estendere il proprio controllo sull’area e limitare l’egemonia americana sui mari del’Asia meridionale. Gli USA considerano questa politica espansionista come una minaccia alla libertà di navigazione  e come un segnale di eccesiva aggressività da parte di una potenza crescente, sempre più difficile da contenere. Entrambi i paesi hanno le proprie ragioni ed entrambi sono spinti dall’imperativa difesa dei rispettivi interessi strategici.

La contrapposizione si è ormai estesa anche al campo della finanza internazionale. Grazie al potere del dollaro e dell’influenza che questo garantisce sui mercati internazionali, gli USA sono sempre stati in condizione di dettare le regole dell’economia internazionale, relegando la Cina ad un ruolo da comprimario. Per rompere il sistema, la Cina spinge per la creazione di un sistema alternativo di commercio e finanzia internazionale e cerca di accrescere il suo ruolo all’intero della Banca Mondiale e nelle altre istituzioni economiche internazionali.

In definitiva, gli interessi cruciali di Cina e Stati Uniti entrano in conflitto a diversi livelli, sia sul piano militare che su quello economico e nessuno dei contendenti può semplicemente aspettare che l’altro faccia le sue mosse. Il rischio dell’attesa sarebbe probabilmente superiore ai costi dell’azione. L’esito dello scontro non è ancora prevedibile e non sappiamo come evolveranno le attuali strategie. Quel che è certo è che uno dei contendenti, se non entrambi, dovrà rinunciare a una parte dei suoi obiettivi strategici.

 

Luca Marchesini

Myanmar: Suu Kyi e la transizione pacifica

Sud Asia di

Per il nuovo Myanmar di Aung Saan Suu Kyi è giunto il tempo dei “colloqui di pace”. Dopo la vittoria della Lega Nazionale della Democrazia (NLD) nelle elezioni di tre settimane fa, la leader del movimento, storica attivista per i diritti umani della ex-Birmania, ha incontrato il presidente Thein Sein, Capo del Governo che nel 2011 ha segnato l’inizio della transizione democratica del paese, dopo 49 anni di dittatura militare.

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L’incontro è durato 45 minuti, durante i quali sono stati discussi i termini di un passaggio di consegne indolore tra l’esecutivo in uscita, di stampo civile ma sostenuto e nominato dalla Giunta, ed il nuovo governo della NLD, vincitrice dalle elezioni dello scorso 8 novembre con una maggioranza schiacciante.

Otto elettori su dieci hanno votato per il partito di Suu Kyi, pur sapendo che il premio Nobel per la pace non avrebbe potuto esercitare direttamente il potere, a causa delle restrizioni costituzionali che vietano a chiunque abbia figli di cittadinanza straniera di diventare primo ministro. Aung Saan Suu Kyi ha però fin da subito chiarito l’intenzione di svolgere un ruolo di guida per il nuovo governo. Il nome di chi ricoprirà il ruolo di primo ministro non è ancora stato reso pubblico, ma sarà lei a prendere le decisioni più importanti per il futuro del paese.

Nelle vesti di leader de facto, l’”Orchidea di acciaio” della Birmania ha incontrato, il 2 dicembre, il presidente uscente Thien Sein ed il capo dell’esercito, Min Aung Hlaing. L’incontro ha avuto luogo a Nay Pyi Taw, la città a 320 chilometri da Yangon che nel 2005 è stata elevata al ruolo di capitale. Nel colloquio, durato meno di un ora, Suu Kyi ha chiesto ai rappresentanti del vecchio blocco di potere di garantire un passaggio di consegne pacifico e indolore. Sein e Hlaing hanno offerto il proprio impegno, assicurando che non ci saranno tentativi di disturbo sulla via della transizione.

Le preoccupazioni della leader della NLD sono dettate dal fatto che i militari conservano un quarto dei seggi nelle due camere che compongono il Parlamento del Myanmar e, con essi, il potere di veto sulle riforme costituzionali e ruoli chiave nei ministeri di maggiore peso. La prudenza è d’obbligo anche in considerazione delle drammatiche esperienze del passato. Il partito di Aung Saan Suu Kyi vinse le elezioni anche nel 1990, ma il risultato venne ignorato dalla giunta militare e, da allora, Suu Kyi fu costretta agli arresti domiciliari per un periodo complessivo di 15 anni. La fiducia, da allora, non è diventata una merce rara.

La vittoria della NLD alle elezioni ha generato entusiasmo e nuove aspettative sul percorso di democratizzazione del paese, soprattutto a livello internazionale. Secondo Miemie Byrd, professoressa di origine birmana dell’ Asia-Pacific Center for Security Studies, interpellata da Al Jazeera, l’ottimismo è però eccessivo.

“Temo che la reazione e l’interpretazione della comunità internazionale (circa le elezioni, ndr), possano esacerbare i conflitti e le sfide attualmente in corso in Myanmar”, ha detto, aggiungendo che il paese ha ancora molta strada da fare sulla via del cambiamento. “Chiunque sarà a capo del nuovo governo sarà limitato dalle sfide precedenti e non potrà procedere velocemente verso le riforme e il progresso. Non puoi prendere un carro da buoi e farlo andare veloce come una macchina”. “La comunità internazionale – ha concluso – dovrà esercitare la sua pazienza ed avere aspettative realistiche” sui tempi del processo di transizione.

 

Luca Marchesini

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Mar Cinese Meridionale: la grande disputa

Asia/Sud Asia di

Gli attori principali di questa storia sono 4: La Cina, le Filippine, gli USA e il Giappone. La posta in gioco è enorme: il controllo delle acque del Mar Cinese Meridionale, dove si incrociano gli interessi delle potenze in gioco.

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Ormai da mesi, gli Stati uniti sono impegnati in una escalation verbale con la Cina. Pechino, infatti, non nasconde le proprie mire espansionistiche sulla porzione di oceano che bagna le sue coste meridionali e sta costruendo isole artificiali per spostare in avanti di alcune decine di chilometri i limiti delle proprie acque territoriali. Un allargamento forzato dei confini che mette in agitazione anche Vietnam, Filippine e Malesia, che su quello stesso tratto di mare avanzano le proprie rivendicazioni.

La Cina ha più volte intimato agli USA di non esacerbare il clima sorvolando gli isolotti artificiali con i propri apparecchi e portando le navi della flotta a navigare in prossimità delle loro coste. Gli Stati Uniti hanno risposto seccamente, appellandosi al diritto marittimo internazionale, ed hanno assicurato ai propri alleati regionali la collaborazione della marina americana per il controllo delle posizioni cinesi.

Va tenuto a mente che, in questa zona di mondo, il controllo delle acque e la possibilità di mettere i propri vessilli su porzioni anche piccolissime di terra galleggiante ha un valore tutt’altro che simbolico. Di fatto, assicurarsi la possibilità di pattugliare determinate vie di comunicazione marittime, attraverso la costruzione di basi militari, permette di controllare direttamente il commercio navale e le vie di accesso a risorse fondamentali sul piano economico e strategico. Dal controllo di uno scoglio isolato o di un tratto di barriera corallina possono scaturire serie ripercussioni sul fronte della crescita economica e della stabilità politica.

Per la Cina è, prima di tutto, una questione di sovranità regionale, con inevitabili ripercussioni globali. Per gli Stati Uniti, la preoccupazione principale è rappresentata dalla libertà di navigazione nel Pacifico, dove gli USA hanno costruito la propria supremazia, dopo la fine della Guerra Fredda, grazie anche all’aiuto degli alleati regionali, in primis Giappone e Corea del Sud. La Cina ha però da tempo messo in discussione questo assunto, emergendo come nuova potenza nel Mar Cinese Meridionale ed esplicitando le proprie mire egemoniche sull’area. Una ridefinizione degli equilibri che per Washington rappresenta un serio problema.

La supremazia sulle acque è da sempre un elemento fondamentale della strategia americana sul piano globale. Il controllo dei mari, assicurato dal primato militare della US Navy, garantisce vie di commercio rapide e sicure per i beni diretti o provenienti dai porti americani e permette di spostare rapidamente ingenti quantità di truppe in caso di necessità, anche a grande distanza. Ma queste stesse esigenze sono diventate ormai vitali anche per la Cina, una potenza globale la cui economia è sempre più votata all’esportazione e che dunque necessita di un maggiore controllo sulle vie commerciali marittime, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, ricco di risorse ittiche e di gas naturale. La Cina sta dunque tentando di rimodellare lo status quo, approfittando della debolezza degli avversari regionali, incapaci di fronteggiare il gigante asiatico sul piano militare e delle incertezze del rivale americano, che non sembra disposto ad usare la forza per contenere le sue mire espansionistiche.

Ad ogni modo, le attività costruttive cinesi nel mezzo del Mar Meridionale hanno provocato la fortissima irritazione dei vicini del sud-est asiatico, a partire dalle Filippine che rivendicano la propria sovranità su molte delle piccole isole cementificate dalle attività costruttive cinesi. La Cina pensa però di poter tenere sotto controllo i paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, agendo direttamente sull’organizzazione a livello politico ed azionando le proprie leve di influenza economica e militare nei confronti dei singoli interlocutori. Pechino confida altresì di poter gestire le reazioni di Washington, nella convinzione che gli USA eviteranno ogni escalation, temendo un conflitto diretto nelle acque del Mar Cinese Meridionale. I fatti, fino ad oggi gli anno dato ragione.

Resta da capire qual è la posizione del Giappone all’interno di questo puzzle. La potenza del Sol Levante è forse l’unico avversario che la Cina teme davvero, in questo momento. Per la prima volta dopo decenni, il Giappone sembra deciso ad assumere un ruolo più attivo nel pacifico e nel Mar Cinese Meridionale. Recentemente Tokio ha stretto nuovi accordi con Manila e con altri paesi dell’ASEAN per condurre operazioni congiunte e per facilitare le operazioni di rifornimento della sua flotta e dei suoi velivoli. Come contropartita, ha offerto alle Filippine e al Vietnam navi e velivoli per la marina e la guardia costiera. Il Giappone ha anche raggiunto un accordo con gli USA per svolgere operazioni congiunte di pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale, a partire dal prossimo anno.

Perché questo inedito attivismo? Il Giappone è un isola e dispone di poca terra e di poche risorse naturali. Tokio deve dunque necessariamente salvaguardare i propri interessi sui mari, per garantire la sussistenza dell’economia nipponica, ed ha compreso che il nuovo espansionismo cinese rappresenta una minaccia che non può restare senza risposte.

Dal punto di vista di Pechino, la nuova politica di Tokio rappresenta un problema di difficile soluzione, sopratutto se il Giappone agisce in sinergia con gli Stati Uniti per la creazione di una forza congiunta nel Mar Cinese Meridionale. La risposta per ora è diplomatica. Attraverso diversi canali Pechino sta cercando di convincere Washington a non impegnarsi a fianco del Giappone, suggerendo che Tokio starebbe perseguendo unicamente i propri interessi nell’area. In prospettiva, la Cina paventa anche una possibile escalation militare con le Filippine, sostenute dal Giappone, per il controllo delle isole contese. Uno scenario che metterebbe gli USA nella spiacevole condizione di dover scegliere se intervenire o meno a fianco del proprio alleato, con tutte le conseguenze che la scelta comporterebbe sul piano militare e politico.
Luca Marchesini

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La Cina dice stop alla politica del figlio unico

Sud Asia di

Il 18° Plenum del Partito Comunista Cinese, che ha delineato i tratti del piano quinquennale che porterà il gigante asiatico alle soglie del prossimo decennio, è destinato a passare alla storia per le decisioni relative alle politiche demografiche. I 200 membri del Comitato Centrale del partito, riuniti giovedì scorso, hanno infatti sancito la fine della ultra-trentennale politica del figlio unico.

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Già nel 2013 le maglie delle restrizioni si erano allargate ed era stato concesso alle coppie composte da figli unici di avere fino a due bambini. Da oggi, questa possibilità sarà concessa a tutti, senza in correre in multe e sanzioni da parte delle autorità.

La politica del figlio unico fu introdotta in Cina nel 1979, con lo scopo di ridurre la sovrappopolazione in un paese ancora povero e scarsamente industrializzato. In termini meramente numerici, le politiche di controllo demografico ebbero successo. Secondo alcune stime, hanno permesso di ridurre il numero di abitanti di 400 milioni, rispetto alle proiezioni legate al precedente tasso di natalità. Lo stretto controllo statale sulle nascite ha prodotto però anche effetti negativi. Negli ultimi 36 anni sono nati più maschi che femmine, in Cina, determinando un forte disequilibrio di genere e conseguenti tensioni sociali. Inoltre, la politica del figlio unico ha portato ad un progressivo invecchiamento della popolazione ed alla riduzione del numero di giovani in età da lavoro, a fronte di un aumento speculare della quota dei pensionati. Il rischio, per la Cina, era di invecchiare troppo prima ancora di raggiungere un benessere diffuso.

La decisioni prese dal Plenum avranno però effetti solo nel lungo periodo ed occorreranno decenni prima di invertire la tendenza e porre rimedio alle distorsioni determinate dal ferreo controllo demografico. E non è detto che i risultati saranno quelli sperati. La Cina è di fatto un paese diviso in due, sul fronte economico e sociale. 400 milioni di Cinesi vivono sulle coste, nelle regioni più sviluppate, dove il costo della vita è maggiore e dove risiede la gran parte della nuova classe media. Gli altri 900 milioni continuano a vivere nelle aree interne meno sviluppate, dove gli effetti della crescita economica hanno tardato ad arrivare. E’ probabile che le popolazioni di queste zone, con la fine della politica del figlio unico, cresceranno più rapidamente rispetto a quelle delle aree costiere, rendendo il solco tra le due anime della Cina contemporanea ancora più profondo.

Il problema è accentuato anche dal rallentamento dell’espansione economica. Durante gli anni in cui il PIL cresceva a due cifre, si riteneva che la Cina più povera avrebbe inevitabilmente beneficiato, sul lungo periodo, dell’onda lunga dello sviluppo. Per il prossimo quinquennio, però, il Plenum ha programmato una crescita “medio-alta”, nell’ordine del 6-7% annuo. La richiesta di manodopera a basso costo da parte delle zone costiere, di cui le regioni interne si sono sempre fatte carico, potrebbe diminuire di conseguenza. La riduzione dell’offerta di lavoro, parallelamente ad un nuovo slancio demografico, graverebbe dunque pesantemente sulle zone rurali più povere, con conseguenze sociali difficilmente prevedibili.
Luca Marchesini

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The Railway Diaries:tornare a raccontare sulla Via della Seta

Asia/EUROPA/Sud Asia/Varie di

Da Venezia a Samarcanda. Epici viaggi raccolti nella storia delle prime relazioni internazionali, degli scambi, dello studio interculturale. Epici per dimensioni e per impegno. Tale rimane il tracciato della Via della Seta, epico. Riecheggia fantasie lontane, esotiche. Un milione di volti che spopolano pagine, fogli illustrati, documenti ufficiali, giunti con autorevolezza fino ai nostri giorni.

A “illuminarne” la contemporaneità, con professionalità e un pizzico di poesia questa volta saranno le freelance del neonato collettivo giornalistico Nawart Press, Costanza Spocci, Eleonora Vio, Giulia Bertoluzzi, Tanja Jovetic e lo faranno…in treno. Per costruire The Railway Diaries dovranno attraversare i Balcani e passeranno per Grecia, Turchia, Iran, fino ai paesi dell’Asia centrale. Un’estate per documentare nuovi vecchi mondi.

“Quello che proponiamo con il progetto The Railway Diaries, e più in generale attraverso Nawart è di dar un volto e una voce a chi non ce l’ha per far si che lo scambio culturale possa arricchire anziché dividere”. Protagoniste del viaggio narrato saranno le donne e le espressioni delle loro vicende da paese a paese. Il fenomeno delle Vergini Giurate in Albania del nord, le sacerdotesse zoroastriane in Iran o le donne nel Kurdistan iracheno.

The Railway Diaries sarà una narrazione diversificata e multimediale, dalle tante modalità di rappresentazione: foto, video-reportage, articoli da pubblicare nei media, blog e infine la produzione di un documentario finale che ne raccoglierà l’esperienza. Per ora il progetto verrà illustrato in tre lingue, italiano, inglese e francese, ma si punta ad ampliarne l’espressione.

Chi è Nawart Press?

E’ un’idea concretizzata che unisce specificità e professionalità del mondo giornalistico diversificate. Una realtà nata dalla voglia delle nostre protagoniste a darsi una dimensione propria nel mondo che cambia, un’indipendenza, una propulsione alle esperienze di lavoro sin qui maturate. The Railway Diaries altro non è che il progetto pilota di Nawart che esprimerà sul campo quello che è l’idea di un giornalismo orizzontale, graduale, rispettoso che è alla base della sua funzione.

Perché il Crowdfunding?

Il progetto è stato lanciato per il crowdfunding su BECROWDBY.   La raccolta fondi ci serve  per partire, andare” spiega Eleonora “ proprio sfruttando l’intuizione del lavoro collettivo, della responsabilità in prima persona, ma dà anche la possibilità a chi rimane, a chi sta a casa di partecipare, sostenendoci e influenzando il progetto facendolo crescere in una o più direzioni condivise.”

Mentre intervisto Eleonora colgo la determinazione di chi ha bene in testa l’obiettivo e mi complimento della grinta, ma v’è qualcos’altro di indicibile, ma evidente: lo scalpitare di chi non vede l’ora di partire, quella irrefrenabile sensazione piena di tutto di chi aspetta un treno per andare.

Dalla Russia alla Cina: quando un atteggiamento unilaterale fa giurisprudenza nel diritto internazionale

Asia/Sud Asia di

L’atteggiamento aggressivo di Pechino non nuoce solo ai vicini asiatici. In Estremo Oriente si apre un nuovo fronte geopolitico, in cui Stati Uniti e Unione Europea dovranno mettere in campo un atteggiamento non pregiudiziale.

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Non solo la politica aggressiva della Russia nei confronti dell’Ucraina, con l’istituzione unilaterale di un referendum che ha portato alla secessione della Crimea, può avere ripercussioni sul diritto internazionale. Nel mese di maggio, infatti, si è aperto un altro fronte geopolitico caldo: quello relativo al Mar Cinese. In questo caso, l’attore principale è la Cina.

Forte del suo sviluppo economico impetuoso, Pechino ha messo in campo un atteggiamento aggressivo nei confronti dei paesi limitrofi. Mira, attraverso la politica dell’appropriazione de facto, ad appropriarsi di porzioni di spazi aerei e marittimi degli stati confinanti.

In primis, è il caso del Vietnam. Il governo cinese ha infatti installato una piattaforma petrolifera a circa 200 chilometri dalla costa vietnamita (vicino alle contese Isole Paracel), in acque rivendicate da Hanoi, dando una dimostrazione di forza. Attraverso un atteggiamento unilaterale e approfittando del fatto che questo stato non ha potenze protettrici alle sue spalle, la Repubblica Popolare ha attuato la politica del “fatto compiuto”, conquistando una porzione territoriale non sua.

Questo ha provocato violenti scontri in Vietnam e ha costretto il governo di Pechino a riportare molti connazionali a casa. I dimostranti, nonostante l’atteggiamento contrario delle autorità, si sono riversati nelle piazze di tutto il Paese e hanno dato fuoco ad alcune fabbriche appartenenti a proprietari cinesi, provocando diversi morti.

Ma quello che rischia di verificarsi in Estremo Oriente è un effetto a macchia d’olio. A differenza degli altri stati che si affacciano sul Mar Cinese, la Cina non ha aderito alla Zee (Zona Economica Esclusiva) sancita dall’Onu e firmata non solo dal Vietnam, ma anche da Malesia, Brunei, Filippine e Taiwan. Ed è questo il motivo per cui Pechino si è arrogato il diritto di costruire una piattaforma petrolifera in acque territoriale di non sua appartenenza.

Una dimostrazione di forza che potrebbe ripetersi in futuro sia in Asia sia nel resto del mondo e che potrebbe dare seguito a pericolosi precedenti nel campo del diritto internazionale. Così come il referendum sulla secessione della Crimea è stato riconosciuto unilateralmente dalla Russia, la stessa cosa, sebbene con modalità diverse rispetto ad un plebiscito, si potrebbe ripetere con la Cina.

In entrambi i casi, infatti, il fatto avvenuto e, seppur contestato, potrebbe influire sulla giurisprudenza internazionale e moltiplicare in tutto il mondo atteggiamenti violenti e rivendicazioni unilaterali.

La protezione da parte degli Usa di cui godono Giappone e Filippine sembrano, per il momento, aver frenato in parte la sete di espansionismo cinese. Ma la questione è tutt’altro che chiusa. E spetta all’Occidente e alla comunità internazionale riportare il dialogo al centro delle relazioni e dispute internazionali.

Tuttavia, come nei casi delle crisi che hanno coinvolto i paesi del Nord Africa, la Siria e l’Ucraina, Stati Uniti ed Europa devono mettere in campo un atteggiamento non frutto dei pregiudizi tipico del XX secolo, ma aperto e contestualizzato nei nuovi scenari globali che si sono venuti a creare all’inizio del Nuovo Millennio.

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Giacomo Pratali
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