GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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BIOGRAFIE

Il Comandante

È in uscita al cinema il film “Il Comandante”, che ci farà conoscere la figura di Salvatore Todaro, interpretato dal bravo Pierfrancesco Favino. Andrò a vedere il film, ma prima della visione intendo ricordare la figura di quest’eroico sommergibilista, pluridecorato al Valor Militare. È una figura epica della nostra Storia militare. Il suo è stato un eroismo connotato da intelligenza e da profonda umanità. Nei prossimi giorni uscirà anche un film su Napoleone, che sarà molto acclamato. Napoleone è una figura molto nota al grande pubblico. Todaro lo è molto meno, anche se, nel mio piccolo, ho già tentato di ricordarlo in varie occasioni, poiché lo considero un simbolo dell’ardimento italiano.

Salvatore Bruno Todaro, nato a Messina nel 1908, crebbe a Sottomarina, oggi frazione di Chioggia (Venezia), dove la sua famiglia, di chiare origini siciliane, trasferì dopo il terremoto che colpì la città dello stretto, per seguire il padre, sottufficiale del Regio Esercito.

Ammesso all’Accademia Navale di Livorno, completò gli studi nel 1927 con la nomina a guardiamarina. Nel 1928, riuscì a frequentare il corso da osservatore aereo, così unendo i due suoi grandi amori: il mare e l’aria. In una mirabile sintesi di questi due elementi, nella sua carriera avrebbe sempre tentato di vincere il mare per elevarsi verso l’alto.

L’ardimento nel volo sarebbe, però, tramontato nel 1933 a causa di un incidente, che, a soli 25 anni, l’avrebbe costretto a portare il busto per tutta la vita. Dal punto di vista tattico, fu un sommergibilista “sui generis”, poiché preferì il contatto in superficie con l’avversario, prediligendo l’uso del cannoncino dalla torretta piuttosto che l’impiego dei siluri in profondità. Fu un idolo per i suoi marinai, ai quali donò un pugnale, come arma da combattimento, per poter guardare sempre negli occhi l’avversario. Era uomo di profonda cultura: conosceva testi antichi e aveva una passione per la nascente psicanalisi, fino a sperimentare sui suoi la teoria dell’inconscio collettivo. Per questo lo chiamarono “Mago Bakù”. Molti a bordo gli davano addirittura del “Tu”, una anomalia nel mondo militare. Erano quelli che il Comandante Todaro aveva decorato sul campo con la frase: “Da oggi tu mi darai del Tu”. Questa “onorificenza del Tu” valeva tantissimo per i suoi fedelissimi, che lo adoravano. Era un Capo che dava sempre l’esempio per ardimento e spirito di sacrificio: era il primo ad esporsi ai pericoli, a soccorrere o incoraggiare i suoi, ai quali trasmetteva autorevolezza e fiducia. La sua figura di Comandante, con quel pizzetto di barba nerissima e con quello sguardo magnetico, generava subito emulazione.

Oggi, ben oltre i racconti sul Comandante, ricordiamo il fatto che, su tutti, ha unito il suo ardimento militare ad un profondo senso di umanità. Era la notte del 16 ottobre 1940. Al largo delle Canarie, Todaro, a capo del sommergibile “Comandante Cappellini”, affondò il cargo belga Kabalo, che trasportava ricambi aeronautici inglesi. Per quell’azione, sarebbe stato decorato in vita con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, ma sarebbe rimasto nella Storia per quanto avrebbe compiuto dopo l’affondamento. Infatti, decise di raccogliere tutti i 26 naufraghi della nave belga e di rimorchiarli su una zattera per 4 giorni nell’Atlantico. Quando si spezzò il cavo che tirava quella scialuppa, il Comandante non esitò ad ospitare i naufraghi a bordo. Li sbarcò, poi, incolumi, in un porto neutrale alle Azzorre. Nel salutare l’incredulo comandante belga, l’Italiano gli disse: “Sono un uomo di mare come lei. Sono convinto che al mio posto lei avrebbe fatto come me”. Lo salutò, poi, militarmente alla visiera, ma, notando che il belga rimase a guardarlo, gli chiese: “Ha dimenticato qualcosa?”, “Sì” – gli rispose il belga con le lacrime agli occhi -“Ho dimenticato di dirle che ho quattro bambini: se non vuole dirmi il suo nome per mia soddisfazione, accetti di dirmelo perché i miei bambini la possano ricordare nelle loro preghiere”. “Dica ai suoi bambini di ricordare nelle loro preghiere Salvatore Todaro”.

Il salvataggio di naufraghi nemici non era una novità per gli italiani: due mesi prima, il 12 agosto 1940, anche il sommergibile “Alessandro Malaspina” del comandante Mario Leoni aveva rimorchiato i 45 uomini dell’equipaggio della petroliera britannica “British Fame” verso il primo porto sicuro. Il caso del Cappellini fu peculiare perché, a causa della citata rottura del cavo, Todaro imbarcò i 26 naufraghi nemici nel suo sommergibile. Qualcun altro avrebbe detto che la sua umanità pose a rischio affondamento il sommergibile con tutti i suoi uomini, ma, per lui, quel gesto rientrava nel Codice d’Onore del Mare.

Lo straordinario comportamento del Comandante non fu, però, apprezzato dall’ammiraglio Dönitz, comandante in capo dei sommergibilisti tedeschi, che criticò aspramente: “questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il Signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il Don Chisciotte del mare”. Todaro rispose, con una frase lapidaria, riportata da molte fonti e mai smentita, rimasta celebre nella storia della nostra Marina: “Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle!”.

Todaro continuò le sue azioni epiche nell’Atlantico: il 5 gennaio 1941, tra le Canarie e l’Africa, il Cappellini affondò, sempre col cannone della torretta, il piroscafo armato inglese “Shakespeare”. Anche in questo caso il Comandante raccolse 22 nemici superstiti, alcuni gravemente feriti, ponendoli in salvo sull’isola di Capo Verde.

Proseguendo la crociera, il sommergibile giunse a largo di Freetown (Sierra Leone), dove affondò la nave britannica Emmaus. Durante la battaglia un aereo inglese colpì con due bombe il Cappellini, causando gravi danni. Nonostante ciò, Todaro riuscì a portare il sommergibile fino al porto neutrale di Gran Canaria, ove sbarcò i feriti e riparò lo scafo per riprendere il mare il 23 gennaio 1941. Raggiunse poi con successo il porto di Bordeaux, sede del Comando BETASOM, da dove i sommergibili italiani combatterono la “Battaglia dell’Atlantico” con gli U-Boot tedeschi.

Per queste missioni, Todaro fu decorato in vita con la sua prima Medaglia d’Argento al Valor Militare (durante la sua carriera gli furono concesse in vita tre Medaglie d’Argento e due di Bronzo al Valor Militare).

Il Comandante, poi, chiese di essere sbarcato dai sommergibili. Nel novembre 1941 fu trasferito alla Xª Flottiglia MAS, un’unità speciale, il cui nome rimase legato a memorabili imprese, come quella di Alessandria d’Egitto del 19 dicembre 1941. Todaro, con il grado di capitano di corvetta, fu assegnato all’“autocolonna Moccagatta“, con cui avrebbe partecipato dal maggio 1942 al blocco navale di Sebastopoli, nel Mar Nero. In queste ardite operazioni si distinse ancora, tanto da meritare la terza Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Nel novembre 1942 Todaro fu destinato alla base dell’arcipelago di “La Galite” in Tunisia, al comando del motopeschereccio armato “Cefalo”, con l’obiettivo di condurre una serie di attacchi al porto di Bona, importante base avversaria. Nel dicembre 1942, uno “Spitfire” inglese mitragliò il peschereccio, prima di essere messo in fuga dalla contraerea. Subito dopo, i suoi marinai chiamarono Todaro, ma non sentirono risposta. Entrarono nella sua cuccetta, dove lo trovarono con gli occhi chiusi, come se dormisse. Guardandolo meglio, notarono che una piccola scheggia gli aveva trapassato la tempia. “Il Comandante Todaro è morto”, gridò un marinaio, piangendo. Era il 14 dicembre 1942. Salvatore Todaro aveva 34 anni. La sua memoria è onorata con la Medaglia d’Oro al Valor Militare, per la seguente motivazione: “Ufficiale superiore di elette virtù militari e civili. Capacissimo, volitivo, tenace, aggressivo, arditissimo, al comando di un sommergibile prima e di reparto d’assalto poi, affrontava innumerevoli volte armi enormemente più potenti e numerose delle sue, e dimostrava al nemico come sanno combattere e vincere i marinai d’Italia. Assertore convinto della potenza dello spirito, malato ma non esausto, mai piegato da difficoltà materiali, da considerazioni personali, da logoramento fisico, ha sempre conservato intatte volontà aggressiva e fede e mistica dedizione al dovere intesa nel senso più alto e più vasto. Mai pago di gloria e di successi, non sollecito di sé. ma solo della vittoria, riusciva ad ottenere il comando di sempre più rischiose imprese finché, nel corso di una di esse, mitragliato da aerei nemici, immolava la sua preziosa esistenza alla sempre maggiore grandezza della Patria. Purissima figura di uomo e combattente, esempio fulgidissimo di sereno, intelligente coraggio e di assoluta dedizione.”

Nei prossimi giorni, sentiremo parlare di Salvatore Todaro, questo guerriero del mare che, come visto, combatté sempre “a viso scoperto”. Nel film, rivedremo l’epopea del soccorso ai naufraghi del Kabalo, un gesto che è rimasto nel Libro d’Oro della nostra marineria. Rimorchiare le loro zattere per salvarli e, poi, ospitarli addirittura nello spazio claustrofobico del battello non fu solo una prova di generosità, ma mise a rischio la vita dell’equipaggio.

Nell’attesa di vedere il film, per chi volesse immergersi nell’atmosfera vissuta da Todaro consiglierei di vedere su “YouTube” gratuitamente “Uomini sul fondo”, film girato nel 1940 con l’assistenza di Roberto Rossellini: un’opera che, sebbene voluta dalla propaganda dell’epoca, anticipa la forza del neorealismo. In rete è disponibile anche il film del 1954 «La grande speranza» di Duilio Coletti, che ricorda, in forma romanzata, le vicende del Cappellini e, in particolare, il salvataggio dei naufraghi del Kabalo.

Oggi intendo ricordare un Uomo, che non sognava un mondo senza confini o identità. Salvatore Todaro era un Uomo, che non sognava un mondo senza armi e senza guerra. Appartiene a quella schiera di Militari morti per la nostra Nazione, per difendere Valori che, oggi, in tanti sono fortunatamente liberi di ritenere persino superflui o retrogradi.

L’auspicio è che il lettore che ha avuto la pazienza di leggere tutto quest’articolo, così come lo spettatore che vedrà il film su Todaro, possa riappropriarsi, al di là dei revisionismi, di una Storia fatta di eroismo italiano – militare oltre che umanitario – purtroppo spesso rimosso. Mi auguro che il film possa restituire alla Nazione il Comandante nella sua autenticità, anche nelle sue apparenti contraddizioni, ma senza polemiche e senza che nessuno se ne serva per sbandierare “concetti ideologici” moderni che il nostro Eroe forse non avrebbe mai condiviso.

Il Senatore Francesco Giacobbe nominato nella delegazione italiana dell’Iniziativa Centro Europea (InCE)

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Il senatore del Partito Democratico (Pd) eletto all’estero, Francesco Giacobbe, è stato nominato nella delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’Iniziativa Centro Europea (InCE), costituitasi questa mattina. La delegazione è composta da sette parlamentari, di cui quattro senatori e tre deputati.

Oltre a Giacobbe, il presidente del Senato, La Russa, ha designato Raffaele De Rosa (M5S), Roberto Menia (FdI) ed Elena Murelli (Lega). I deputati nominati dal Presidente della Camera, Fontana, sono Salvatore Caiata (FdI), Isabella De Monte (A-Iv) e Roberto Pella (Fi).

“Sono molto onorato di aver ricevuto questo incarico. Si tratta di un ruolo importante per favorire gli scambi socio-culturali ed economici fra il nostro Paese e quelli dell’Europa centrale. Inoltre, rappresenta un’opportunità per continuare a sostenere le politiche in favore degli italiani all’estero e le aziende italiane che sono alla ricerca di nuovi mercati e opportunità”, ha dichiarato Giacobbe, che questa mattina ha presieduto la prima seduta dell’Assemblea italiana in qualità di componente anziano.

L’InCE, fondata nel 1989, è oggi parte attiva del processo di integrazione europea dei Paesi membri e non, combinando l’azione diplomatica con la gestione diretta di fondi, programmi e progetti di cooperazione funzionali a tale obiettivo. L’associazione è anche impegnata a rafforzare la collaborazione con le organizzazioni internazionali e regionali, nonché a creare collegamenti strategici con altre istituzioni pubbliche o private, organizzazioni non governative e istituti di ricerca.

Questa nuova nomina sottolinea l’importanza dell’Italia nel promuovere gli scambi socio-culturali ed economici con l’Europa centrale e rafforzare la collaborazione tra i Paesi membri dell’InCE. Il coinvolgimento di parlamentari di diversi partiti politici dimostra inoltre l’unità del Paese nel perseguire questi obiettivi comuni.

Il catanese Rosario Valastro è il nuovo presidente nazionale della Croce Rossa Italiana

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Rosario Valastro è il nuovo presidente della Croce Rossa italiana. Già presidente facente funzione a seguito delle dimissioni di Francesco Rossa e per ben due mandati vicepresidente dell’associazione, Valastro è stato eletto ieri sera con oltre 370 preferenze (oltre il 62% dei votanti). Al suo fianco, all’interno del Consiglio direttivo, sono stati eletti: Adriano De Nardis, Debora Diodati e Antonio Calvano. Il nuovo rappresentante dei giovani sarà, invece, Edoardo Italia.

“Insieme ai consiglieri eletti,- ha dichiarato il neopresidente Valastro – lavoreremo per una Croce Rossa capace di essere ancora baluardo dell’umanità, forte dei suoi sette princìpi (umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontariato, utilità e universalità, ndr) e della capacità di tendere la mano verso chiunque ne abbia bisogno”. In qualità di presidente del Consiglio direttivo sarà chiamato a deliberare sui programmi e sui piani delle attività della Cri, indicando le priorità e gli obiettivi strategici di volta in volta previsti e sorvegliando su ogni altra questione di tipo amministrativo.”

Nato a Catania il 1 luglio del 1974, Rosario Maria Gianluca Valastro ha alle spalle una laurea in Giurisprudenza e una specializzazione in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni. Già iscritto all’albo degli avvocati di Catania, ha iniziato il suo percorso all’interno della Croce Rossa Italiana nel lontano 1993, come volontario. Nel tempo, ha poi assunto diverse cariche, sia a livello nazionale che europeo; tra le tante, quelle di ispettore di gruppo, ispettore provinciale e poi regionale, vice ispettore nazionale, fondando anche la scuola nazionale di formazione per i giovani. Consigliere qualificato in materia di applicazione del diritto internazionale nei conflitti armati, per il suo impegno in favore dell’organizzazione ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Nel maggio 2016 è stato eletto vicepresidente nazionale vicario, incarico che gli è stato riconfermato anche nel 2020. Dal 2021 è membro della commissione per lo studio e lo sviluppo del diritto internazionale umanitario, costituita presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Gotico Americano di Arianna Farinelli, una foto della crisi identitaria degli Stati Uniti

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“Ci accoglie tra le ovattate moquette dell’élite occidentale, poi spalanca sotto i nostri piedi la voragine delle ipocrisie che la mettono in pericolo.”

Gotico Americano, questo è il titolo del romanzo d’esordio di Arianna Farinelli, uscito nelle librerie questa settimana. Edito dalla Bompiani, il racconto fa parte della collana Munizioni (a cura di Roberto Saviano), espressione tramite cui, in senso metaforico, si vuole accostare la serie di racconti a degli strumenti d’interpretazione per difendersi dalla realtà di oggi.

Lungo la linea tra narrativa e saggistica, l’autrice intende descrivere e criticare la realtà americana in cui lei stessa vive, ossia il panorama urbano di una grande metropoli come New York segnata da due eventi, il primo la crisi economica del 2008 e il secondo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti nel 2016.

Proprio da questo avvenimento ha inizio la trama; la protagonista, Bruna, una professoressa di Scienze Politiche presso l’università di New York, riflette sulla sua vita e quella dei propri cari, a partire dal marito Tom i cui genitori sono figli di immigrati italiani che, una volta conseguito l’american dream, sono entrati nel tessuto americano borghese e conservatore, e con i quali Bruna ha un pessimo rapporto. Così la vita della professoressa s’intreccia con quella dell’altro protagonista del libro, Yunus, un suo alunno afro-americano con cui lei ha ritrovato la passione. La vita del ragazzo certamente non è facile e alcuni eventi, come la morte in carcere del padre, lo hanno portato a provare un forte senso di estraniazione verso la società di oggi; Bruna prova a capire questo rancore ma Yunus trova progressivamente riparo nella religione islamica poiché è l’unica capace di rispondere alle sue domande.

L’intento di Arianna Farinelli è quello di scattare una sorta d’istantanea della Grande Mela, città in cui si intrecciano vite differenti fra loro, ma che hanno come comune denominatore la disillusione verso la vita, l’insofferenza per i ruoli che essa ci impone e la crisi identitaria che ne scaturisce; è questo il filo rosso della narrazione, a cui fa da sfondo l’America post crisi, una società che sembra aver perso i valori che l’hanno resa grande e che, alla globalizzazione, epoca contraddistinta dall’intensificazione delle relazioni sociali e dall’avvicinamento dei modelli culurali, risponde in maniera divisiva, inconsapevole dell’ineluttabilità.

Gotico Americano è un romanzo che affronta a viso aperto le questioni politiche e sociologiche del tempo, ed è proprio dalla lente con cui l’autrice analizza gli Stati Uniti di oggi, che prende significato il titolo. American Gothic come il quadro di Grant Wood in cui viene rappresentata una coppia di fronte a una fattoria americana, presumibilmente la propria casa, con lui che impugna un forcone quasi a proteggerla; questi individui così austeri vogliono salvaguardare un qualcosa che ormai è diventato passato, come la loro posizione nella società di oggi, inconsapevoli che presto diverranno, spiega Arianna Farinelli durante la presentazione del libro, “la più grande delle minoranze”.

Nel romanzo il piano personale dei protagonisti si mescola a quello collettivo, in quanto legati da una forte crisi d’identità, perché in fondo non c’è salvezza dell’individuo che prescinda dalla comunità in cui si vive, anche in una grande metropoli come New York. Certi aspetti del libro, ci tiene a precisare Farinelli, rispecchiano fedelmente la realtà, come il carcere dove ingiustamente muore il padre di Yunus, Rikers Island ora prossimo alla chiusura; la scrittrice riprende delle storie veramente vissute come quella di Kalief Browder, ragazzo che appena sedicenne si tolse la vita una volta uscito dal carcere a causa delle numerose violenze di cui era stata vittima in quei tre anni di incarcerazione senza processo; o come la radicalizzazione di Yunus stesso, che per molti aspetti richiama le storie di quei tanti ragazzi che sentendosi emarginati sono arrivati, come il protagonista, a compiere la più tragica delle scelte, partire per combattere con il Califfato Islamico.

Di cosa abbiamo bisogno allora per affrontare queste situazioni? Risponde Bruna, di amore incondizionato per il prossimo, ma anche della consapevolezza che la propria libertà non può neppure iniziare se coloro che ci stanno accanto non sono liberi, poiché la libertà altrui è una responsabilità comune.

Andrea Elifani
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