GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Disinnescare il fronte libanese

Quando a Ottobre dello scorso anno Hamas perpetrò il suo attacco terroristico nella striscia di Gaza ottenne, immediatamente, il pieno supporto mediatico delle milizie filoiraniane di Hezbollah.

Tuttavia, anche se nei mesi successivi Hezbollah ha intensificato le sue attività offensive lungo la linea di confine, costringendo Israele ad evacuare diverse decine di migliaia di residenti dai paesi in prossimità dell’area, l’intensità delle operazioni non si è tradotta in uno scontro diretto e nell’apertura di un secondo fronte per Israele.

Nonostante l’incremento delle attività da parte di Hezbollah e la conseguente crescita della risposta israeliana, a sette mesi dall’inizio del conflitto a Gaza rimane ancora un’incognita come possa evolversi la situazione nel settore nord di Israele lungo il confine con il Libano.

Ciò che appare evidente, comunque, è che la precaria situazione di equilibrio preesistente al 7 Ottobre non possa essere più ripristinata e che una nuova soluzione debba essere ricercata. Il punto nodale della questione è se tale soluzione possa essere il frutto di accordi politico diplomatici o il risultato dell’uso della forza.

Allo stato attuale, anche se il rischio di una possibile escalation rimane alto, l’atteggiamento dei principali protagonisti induce a ritenere che si voglia evitare una guerra su larga scala.

Da una parte l’Iran non ritiene di essere ancora pronto a un confronto diretto con Israele e preferisce risparmiare il potenziale di Hezbollah evitando di vedere vanificati gli investimenti fatti nell’area per sostenere una delle risorse strategicamente più importanti nell’ambito della  visione politica in chiave antisraeliana.

Dall’altra parte Israele non intende, almeno per ora, aprire un secondo fronte che comporterebbe un riposizionamento delle forze privando le operazioni a Gaza del necessario supporto specifico.

Gli USA rappresentano il terzo protagonista in quanto una escalation nel Libano comprometterebbe la posizione di Washington nell’intero Medioriente, vanificando gli sforzi diplomatico politici messi in atto dall’amministrazione Biden per avvalorare il ruolo di garante dell’equilibrio nell’area.

Quindi, quali possono essere gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione USA per evitare che l’attuale situazione di attrito si trasformi in un conflitto aperto?

Da un punto di vista diplomatico l’azione che Washington sta sviluppando si articola in due direzioni.

Innanzitutto, la ricerca di un dialogo con la fazione politica di Hezbollah che si basa sulla proposta di un soddisfacente accordo che possa portare a un cessate il fuoco. I termini dell’accordo prevedono i seguenti punti:

  • costituzione di una zona cuscinetto lungo il confine dell’ampiezza di sette chilometri che comporta il ritiro delle forze di Hezbollah;
  • riduzione delle attività aeree di Israele nel Libano meridionale;
  • spiegamento di una forza libanese per il controllo degli accordi a Sud del Litani;
  • avvio di negoziati bilaterali per la definizione delle aree di confine lungo la Blue Line, il cui possesso è oggetto di contesa.

Per supportare tale linea di azione l’Amministrazione USA propone, inoltre:

  • la possibilità di supportare Sleiman Franhgieh il candidato sostenuto da Hezbollah nell’elezione al la carica di presidente del Libano vacante da due anni;
  • l’offerta di supportare economicamente lo sviluppo del Sud del Libano e di concorrere nel pagamento del personale delle Forze Armate Libanesi.

Successivamente, un’intensificazione delle azioni tese a coinvolgere i Paesi dell’area nella ricerca di una soluzione mediata che scongiuri il pericolo di una escalation che avrebbe dannose ricadute su tutta l’area stessa rischiando di compromettere il conseguimento di una situazione di stabilità.

Da un punto di vista politico l’Amministrazione Biden, invece persegue i seguenti obiettivi:

  • supportare Israele sia a livello politico, consentendo al Governo di Netanyahu di resistere alle pressioni interne offrendo la possibilità del raggiungimento di una accordo, che anche se non pienamente soddisfacente, consenta almeno la ripresa di una certa normalità permettendo il ritorno dei circa 80.000 sfollati; sia a livello militare rendendo possibile il consolidamento delle posizioni e il ripristino di un elevato livello di efficienza in termini di materiali e scorte quale deterrente per un eventuale ripresa delle attività da parte di Hezbollah;
  • rafforzare la posizione di Washington nell’area riducendo l’attrito con l’Iran, rinsaldando il ruolo di mediatore preferenziale e di potenza in grado di pervenire alla definizione di una situazione di equilibrio nell’area mediorientale e di garantirne la continuità.

Ovviamente quanto proposto dall’Amministrazione Biden risulta essere una soluzione ottimale ma non perfetta e perché questa ipotesi articolata possa aver successo è necessario che vengano superate le perplessità e le differenze di vedute che contraddistinguono le relative posizioni degli altri protagonisti.

Hezbollah, in primis, ha l’interesse che la situazione non si trasformi in un conflitto aperto in quanto il suo potenziale militare verrebbe seriamente compromesso riducendo le sue capacità di svolgere una pressione costante nello scenario interno libanese. La possibilità di conquistare la carica di presidente del Libano aumenterebbe il prestigio del gruppo e sarebbe un ulteriore passo verso il controllo politico del Paese.

Contestualmente, esistono delle difficoltà ad accettare l’offerta di finanziare la ricostruzione del Sud del Paese da parte USA in quanto diminuirebbe il prestigio dell’organizzazione e la priverebbe della possibilità di gestire gli eventuali fondi per fini propri.

Lo stesso vale per l’offerta fatta per il pagamento degli stipendi alle Forze Armate Libanesi che diminuirebbe la possibilità di estendere il controllo sui militari per indebolire lo Stato.

Da ultimo, la creazione della zona cuscinetto con il ritiro delle forze pregiudicherebbe la narrative di Hezbollah che si basa sull’identificazione del movimento quale difensore dell’integrità del suolo libanese occupato da Israele.

Per quanto riguarda Israele, il Premier Netanyahu è sottoposto a una serie di pressioni politiche difficilmente conciliabili.

L’ala estrema della sua coalizione di governo insiste per evitare concessioni che non siano basate sulla ricerca di soluzioni di forza come premessa per uno scontro che ritengono comunque inevitabile, anche se non imminente.

Le persone che sono state evacuate dalla zona insistono perché si giunga a una soluzione che consenta il ritorno a una situazioni di normalità in una cornice di sicurezza.

Dal punto di vista militare il problema più grosso è rappresentato dalla possibilità di garantire il mantenimento degli accordi per il cessate il fuoco. In questo caso Israele insiste per la possibilità di monitorare il confine con i suoi sistemi di informazione e sicurezza; e per la riconfigurazione della missione di UNIFIL che si è dimostrata un fallimento completo (avvalorando l’ennesima ipocrisia delle Nazioni Unite nella gestione delle crisi) non essendo stata in grado di portare a termine la missione assegnata (disarmare le milizie e controllare la zona cuscinetto).

L’azione diplomatico politica di Washington è diretta a negoziare un cessate il fuoco a Gaza e, contestualmente, a evitare una escalation sul confine libanese che aprirebbe prospettive drammatiche.

L’ipotesi di soluzione individuata rimane al momento di dubbia applicabilità dati i constraints che condizionano la posizione di Hezbollah e di Israele, di conseguenza l’Amministrazione Biden deve riconfigurare la sua visione nell’individuare sia ulteriori eventuali proposte sia soprattutto utilizzare le sue risorse diplomatico politiche per smussare le posizioni dei due protagonisti determinando la possibilità di far convergere le posizioni verso una soluzione negoziale.

Il compito non risulta assolutamente facile in quanto le variabili in gioco sono numerose e particolarmente complicate, inoltre l’Amministrazione Biden non può contare sul sostegno di attori esterni (le Nazioni Unite sono completamente assenti e brillano per una passività imbarazzante, l’Unione Europea ricopre il suo ruolo di grande assente trastullandosi con la riedizione della Guerra Fredda e la Cina non ha ancora deciso se e come deve impegnarsi per svolgere il ruolo di grande Potenza che reclama di diritto) e soprattutto si avvicina un impegno elettorale che impone il conseguimento di un qualche risultato da poter sbandierare per invogliare l’elettorato.

La possibilità di un conflitto che nessuno vuole esiste ed è concreta, ma la volontà di evitare un ulteriore tragedia può spingere i vari protagonisti ad accettare una soluzione che, se non perfetta, rappresenta un punto di inizio per ulteriori sviluppi successivi, di conseguenza si può solo condividere la determinazione di Washington nel cercare di perseguire questa soluzione attraverso la diplomazia.

Pubblicato il bando del Master UniPA di I Livello in Europrogettazione e Professioni Europee

EUROPA di

L’Università degli Studi di Palermo attiva per l’Anno Accademico 2023/2024 il Master Universitario di I Livello in “Europrogettazione e Professioni Europee”, con sede presso il Dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali.

Il Master, della durata di 1 anno per un totale di 1500 ore e 60 CFU, è coordinato dal Prof. Gaetano Armao e mira a fornire competenze approfondite nell’ambito della progettazione europea, per facilitare l’accesso ai finanziamenti comunitari e formare professionisti in grado di lavorare nelle istituzioni e nelle imprese che si rapportano con l’Unione Europea.

Il percorso formativo prevede lezioni frontali, seminari, tirocini e stage per 14 CFU, lo sviluppo di una tesi finale con prova finale per 6 CFU. Le attività didattiche si svolgeranno il venerdì pomeriggio e il sabato mattina.

Il corpo docente è formato da professori ed esperti dell’Ateneo palermitano e professionisti esterni: Gaetano Armao, Antonello Miranda, Salvatore Muscolino, Enzo Bivona, Angelo Cuva, Santa Giuseppina Tumminelli, Mauro Antonio Buscemi, Pietro Luigi Matta, Rosario Genchi, Emilio Vergani.

Possono accedere al Master i laureati magistrali e triennali in ambito politico, giuridico, economico, sociale, internazionale. La scadenza per la presentazione delle domande di ammissione è fissata al 15 Aprile 2024.

Attraverso il percorso formativo del Master si punta all’approfondimento della
conoscenza dell’Unione europea e dei meccanismi che ne governano la macchina
istituzionale, per consentire l’individuazione delle molte opportunità di crescita
professionale e culturale presenti nell’ambito della progettazione europea e
facilitare l’accesso ai finanziamenti europei, con particolare attenzione rispetto
alle possibilità esistenti nell’ambito del Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027.
A conclusione del corso i partecipanti saranno in grado di adottare un approccio
strategico alla progettazione europea e presentare un progetto europeo studiato
nei dettagli. In questo senso, si metterà in risalto l’importanza data dal saper
disegnare e implementare tecniche e modelli operativi pensati nell’ambito
di una progettazione europea saldamente basata sulle evidenze empiriche
(evidence-based practices).
L’offerta formativa del Master consta di due unità didattiche interrelate e integrate
l’una con l’altra in una prospettiva d’insieme: la prima è dedicata allo studio
della storia politica e istituzionale dell’Unione europea, trattandone la questione
dei flussi migratori o quanto attiene alla politica estera e di difesa nel più vasto
scenario mediterraneo e internazionale; la seconda è finalizzata all’analisi dei temi
legati alla progettazione europea, con riferimento alle conoscenze necessarie per
la partecipazione ai bandi, approfondendo le tecniche di gestione dei progetti
europei e le strategie con cui identificare priorità delle politiche pubbliche dell’UE
funzionali alla redazione di progetti vincenti, al budgeting, alle procedure di
rendicontazione e di audit.
Coerentemente con la finalità, gli obiettivi e i risultati di apprendimento attesi, il
Master intende preparare le seguenti figure professionali: Dirigenti e funzionari
di imprese; Dirigenti e funzionari di Enti pubblici, locali e regionali; Dirigenti e
funzionari e dipendenti di Associazioni di categoria, sindacali, del terzo settore,
del volontariato, di Organizzazioni internazionali e non governative e di Università
ed Enti di ricerca; Liberi professionisti, europrogettisti a disposizione di istituzioni
e aziende; Project manager in enti pubblici e aziende pubbliche o private.

Maggiori informazioni sul bando di ammissione e le modalità di iscrizione sono disponibili sul sito: https://rb.gy/whfqpo

Elezioni presidenziali in Russia. Report da Mosca

ASIA PACIFICO di

Mosca. Le elezioni presidenziali in Russia del 2024 rappresentano un punto cruciale per il paese e per la stabilità geopolitica dell’intera regione euroasiatica. Con l’attuale presidente, Vladimir Putin, come indiscusso favorito, l’evento assume un significato più ampio, servendo da barometro per valutare il suo consenso dopo due anni di turbolenze internazionali e significativi cambiamenti nella politica globale. Leggi Tutto

Washington e il Medio Oriente

U.S. President Joe Biden pauses during a meeting with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu to discuss the war between Israel and Hamas, in Tel Aviv, Israel, Wednesday, Oct. 18, 2023. (Miriam Alster/Pool Photo via AP)

Negli ultimi quindici anni il centro di gravità della politica estera di Washington si è spostato dal teatro Euroasiatico a quello Indo – Pacifico come conseguenza della scelta geostrategica di contrastare in quella Regione la crescente influenza cinese tendente a realizzare un nuovo sistema di ordine globale.

Questa priorità ha comportato un progressivo décalage dell’attività diplomatica USA sia in Europa, sia, soprattutto, nel Medio Oriente.

Nell’area europea, infatti, la possibilità di vincolare la Russia allo scenario europeo, limitandone la libertà di azione in quello asiatico, è stata realizzata con un impiego circoscritto delle risorse nazionali statunitensi, grazie a una gestione della crisi ucraina condotta coinvolgendo i partner europei della NATO mediante lo sfruttamento abilmente gestito della voglia di rivincita dell’Europa orientale e risuscitando il concetto di guerra fredda.

Diversamente, nell’area mediorientale il progressivo raffreddamento dell’interesse USA a svolgere un ruolo primario quale potenza garante della sicurezza e della ricerca di un equilibrio regionale aveva favorito, come conseguenza, lo sviluppo delle iniziative diplomatiche di Cina e Russia e l’aumentare delle tensioni nell’area a causa dell’emergere dei contrasti connessi alla volontà da parte di alcuni Paesi di assumere il ruolo di potenza regionale.

Le precedenti due Amministrazioni e quella attuale avevano progressivamente ridotto la presenza geostrategica nei Paesi dell’area adottando linee diplomatico-politiche ambigue e prive di visione a lungo termine, creando la sensazione della inaffidabilità della volontà statunitense di rivelarsi un alleato su cui poter contare per la propria sicurezza.

L’esplodere della crisi di Gaza ha costituito l’opportunità per la diplomazia di Washington di rivedere le proprie azioni e ridefinire i suoi interessi nella regione mediorientale.

Il riorientamento della posizione USA e la sua volontà a riassumere il ruolo di protagonista nella ricerca dell’equilibrio geostrategico del Medioriente non sono avvenuti con immediatezza, in quanto è stato necessario vincere l’inerzia iniziale per invertire il processo in atto e riconfigurare la propria posizione da parte dell’Amministrazione corrente.

Infatti, a seguito dei tragici fatti del 7 ottobre Washington ha agito, inizialmente, garantendo il pieno supporto politico, diplomatico e militare a Israele.

Subito dopo, però, ha avuto inizio un’intensa attività diplomatica che ha visto impegnato il Segretario di Stato Antony Blinken nel prendere contatto con tutti i maggiori attori politici dell’area al fine di iniziare a tessere le fila per individuare quali potessero essere le condizioni per pervenire a una soluzione della crisi.

Il tour de force tra le capitali arabe ha richiesto diversi passaggi e una lunga serie di colloqui per valutare le possibili proposte e identificare gli ulteriori eventuali elementi sui cui poter costruire le ipotesi di soluzione della crisi.

L’impegno diplomatico del Segretario ha prodotto una proposta per un piano volto a ottenere la fine dei combattimenti ma, soprattutto, a identificare una strategia per la gestione di quello che sarà il dopo conflitto.

L’accoglienza tiepida e piena di riserve che ha caratterizzato la risposta al piano da parte degli attori principali di questa crisi non può essere considerata come un successo di questa prima proposta, ha anzi confermato come la soluzione della crisi di Gaza sia ancora lontana dall’essere realizzata; tuttavia, l’impegno e la sollecitudine che sono stati profusi nella sua preparazione hanno dimostrato che l’interesse geostrategico di Washington si è riorientato verso il Medio Oriente.

Indipendentemente dalla possibilità o meno di vedere coronata da successo la proposta statunitense, l’elemento importante da sottolineare è il cambio di passo dell’Amministrazione, che ha confermato di ritenere nuovamente fondamentale un suo impegno nella regione.

Questo reindirizzamento dell’interesse geostrategico USA in Medio Oriente ha comportato alcune conseguenze di importanza rilevante.

La prima: l’azione diplomatica del Segretario Blinken ha anticipato quella di eventuali altri attori geopolitici interessati a poter svolgere un ruolo da protagonisti, tagliando fuori non solo la Russia ma soprattutto la Cina, conferendo agli USA una posizione di vantaggio da sfruttare per rinforzare la sua importanza nell’area.

La seconda: la condotta del Segretario e dell’Amministrazione USA è stata caratterizzata da due fattori importanti quali la disponibilità a dialogare con tutte le entità politiche della Regione e la dimostrazione, indipendentemente dal supporto politico-diplomatico dato a Israele, di avere la volontà per esercitare pressioni politiche sul Governo di Netanyahu. Questi due fattori hanno conferito un notevole peso all’impegno di Washington che favorisce la possibilità per gli USA di ritornare a svolgere il ruolo di protagonisti dell’equilibrio nella regione.

La terza, invece, ha prodotto due differenti effetti i cui risvolti sono implicitamente connessi alla politica interna americana. In primo luogo, la possibilità per l’Amministrazione attuale di dimostrare di avere recuperato una visione geostrategica globale che affianca all’interesse per un diverso peso del rapporto euroatlantico, la necessità di contrastare l’avanzata cinese anche al di fuori del contesto Indo-Pacifico. In secondo luogo, la possibilità di sviluppare nell’area mediorientale un’azione diplomatica caratterizzata da una maggiore equidistanza tra i vari protagonisti conferisce alla posizione statunitense una chance di successo maggiore per ricoprire il ruolo di potenza in grado di garantire un equilibrio duraturo.

La combinazione di questi due effetti costituisce, infatti, un atout da giocarsi per l’attuale Amministrazione nelle prossime elezioni presidenziali al fine ottenere il supporto di quei settori non favorevoli alla crisi ucraina e contrari al supporto incondizionato verso Israele.

Come detto, le proposte di Washington per la soluzione della crisi non sono magari perfette e quindi stentano a essere condivise, la difficoltà a orientare le scelte del Governo israeliano verso la soluzione identificata per il dopo conflitto  è particolarmente importante e il progetto presentato richiede una ulteriore serie di consultazioni diplomatiche da parte dei Governi dell’area, tuttavia l’elemento fondamentale è la ritrovata volontà di iniziativa che sta caratterizzando l’azione di Washington nella Regione.

Ovviamente è prematuro affermare che questa inversione di rotta da parte dell’Amministrazione USA possa o meno aver creato le premesse per colmare il solco che si era formato tra i Paesi del Medioriente alleati od orientati a favore di Washington negli ultimi anni, restaurando la fiducia e il senso di affidabilità della politica americana quale potenza leader nella Regione.

Anche se la politica statunitense riuscirà a ridare consistenza e credibilità alla sua posizione di grande potenza indispensabile per l’equilibrio nell’area, i rapporti con altri grandi protagonisti della scena mondiale (Cina in primis) che hanno rivoluzionato la diplomazia della/nella Regione continueranno a far sentire il loro influsso e dovranno, comunque, essere tenuti in considerazione nella impostazione della visione che l’Amministrazione statunitense (democratica o repubblicana che sia nel futuro non ha importanza) dovrà impostare per conseguire i propri obiettivi geostrategici in una Regione fondamentalmente critica per la costruzione di un nuovo ordine mondiale liberale e democratico.

 

Due anni dall’inizio della guerra, nel tragico anniversario lo speciale di European Affairs

Guerra in Ucraina di

Sono passati due anni dal 24 febbraio 2022, il giorno in cui la Russia ha iniziato la sua guerra lampo, prima un attacco informatico per bloccare il sistema di comunicazione militare e poi l’invasione con le truppe di terra. Le immagini delle colonne di carri armati sulle strade asfaltate e nei centri abitati hanno fatto il giro del mondo, attoniti davanti ai televisori nessun europeo pensava di vedere una guerra di questo tipo ai confini dell’unione. Leggi Tutto

Ankara e la ricerca dell’equilibrio geopolitico

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during his meeting with mukhtars at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, March 16, 2016. REUTERS/Umit Bektas – RTSAPB4

In occasione della imminente visita di Putin in Turchia il Presidente Erdoǧan ha dichiarato l’intenzione di svolgere il ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto ucraino facendosi promotore di una possibile situazione negoziale tra le due parti.

L’iniziativa sembra voler sottolineare la volontà della Turchia di riprendere a svolgere quel ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geopolitico di Erdoǧan, conferendo alla diplomazia del Paese il ruolo di garante degli equilibri regionali.

Il tentativo di rientrare a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche dell’area euroasiatica, quale protagonista, è stato determinato dalla necessità di ribilanciare la posizione di flessibilità pragmatica caratteristica della Turchia di Erdoǧan compromessa dall’atteggiamento unilaterale fortemente critico espresso nei confronti di Israele nell’ambito del conflitto in atto a Gaza.

Il criterio che ha guidato la politica estera turca sotto la presidenza di Erdoǧan è stato quello di una diplomazia pragmatica volta ad accrescere l’importanza e il prestigio della Turchia al fine di svolgere un ruolo centrale, non solo nel bacino mediterraneo orientale, ma estendendo tale ruolo a tutta l’area euroasiatica.

Il concetto di proiezione geostrategica della Turchia, che ha visto il Paese intervenire in tutti gli scenari di crisi dall’area, Libia, Siria, Ucraina, Caucaso, è stato permeato dal criterio dell’adozione di una visione  realista e sempre attenta a essere percepita, quando possibile, nel ruolo di mediatore o garante di un equilibrio volto ad evitare profondi sconvolgimenti.

Il caso più emblematico di questa linea diplomatico strategica è l’atteggiamento che Erdoǧan ha assunto nei confronti della crisi ucraina.

La Turchia ha sostenuto la sovranità ucraina, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, ha aspramente criticato le azioni russe ed è stato il primo Paese a supportare con aiuti militari l’Ucraina.

Tuttavia, ha controbilanciato queste sue attività ponendo la massima attenzione a mantenere stabili i legami di natura economica con la Russia, ha appoggiato in maniera tiepida le risoluzioni internazionali di condanna contro Mosca, si è opposto alle sanzioni e agli sforzi per isolare diplomaticamente Putin, incrementando gli scambi e le relazioni economiche con la Russia.

Inoltre, a più riprese, ha svolto il ruolo di mediatore sfruttando la posizione di grande potenza (regionale) in grado di riscuotere la fiducia di ambedue i contendenti, portando a termine accordi importanti come le condizioni di esportazione del grano e lo scambio di prigionieri.

Anche la posizione assunta nei confronti della annessione della Svezia alla NATO deve essere interpretata alla luce della volontà di ricercare un equilibrio dell’intero sistema favorevole agli interessi della Turchia e propedeutico al suo ruolo di Paese leader. Il veto è caduto quando sono stati conseguiti i due obiettivi di Erdoǧan: assunzione di una linea di condanna della Svezia dell’organizzazione del PKK e avvio del processo di acquisizione di un lotto di F16 da parte USA.

Il tutto ribilanciato dall’apertura diplomatica nei confronti della Russia concretizzata nel summit di questi giorni, che rappresenta l’occasione per riprendere il ruolo di mediatore, oltre a far coincidere l’evento con la prima visita di Putin in un Paese dell’Alleanza Atlantica dopo l’inizio della crisi e nonostante la richiesta di provvedimenti coercitivi emessa da organismi internazionali nei confronti di Putin stesso.

Ma è nell’area mediorientale dove questa posizione di equilibrio è stata completamente offuscata e messa in discussione a seguito della dura presa di posizione di Erdoǧan nei confronti di Israele e del suo leader Netanyahu.

Gli interessi turchi nell’area sono estesi e abbastanza articolati.

In primo luogo, vi è il rapporto stretto con il Qatar, che rappresenta il partner economico più importante per finanziare i progetti di crescita della Turchia.

In secondo luogo, ci sono le attività condotte nello scenario siriano volte sia a contrastare l’ISIS, sia a circoscrivere il fenomeno dell’autonomia curda. Qui l’intesa con la Russia e la possibilità di una sovrapposizione di interessi con l’Iran fanno da bilanciere alla posizione di membro della NATO che, se pur in alcuni casi tiepida e sfumata, rimane, comunque, un punto non in discussione.

In terzo luogo, deve essere considerato il rapporto con i restanti Paesi del Golfo che è contraddistinto da una alternanza di aperture e di parziali chiusure diplomatiche, ma che persegue l’obiettivo di affermare la Turchia come un Paese capace di assicurare la stabilità dell’area in alternativa a un predominio iraniano.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, vi è la questione religiosa, dove l’avvicinamento di Erdoǧan verso una visione meno laica del Paese e più orientata ad una maggiore ortodossia, conseguenza delle alleanze politiche interne che hanno reso possibile le ultime due elezioni del presidente, consente alla Turchia di aspirare al ruolo di guida del mondo islamico.

Tuttavia, nonostante le critiche dirette di Erdoǧan nei confronti di Israele e le dichiarazioni di supporto alla comunità palestinese, la Turchia è fuori dal contesto diplomatico che lavora per giungere a una soluzione mediata della crisi.

Malgrado, infatti, le buone relazioni con il Qatar la diplomazia turca è stata esclusa dal processo dove, invece, sia Egitto che Arabia Saudita svolgono un ruolo principale. Questo fattore ha sbilanciato la posizione di Ankara privandola della possibilità di influenzare gli eventi e relegandola ad un ruolo sussidiario che mette a serio rischio le sue aspirazioni di leadership.

Per poter comprendere tale situazione di impasse è utile fare le seguenti considerazioni.

Dopo una età dell’oro nelle relazioni turco – israeliane contraddistinte da iniziative diplomatiche quali il riconoscimento quasi immediato di Israele e la non partecipazione al ciclo delle guerre arabo – israeliane e proseguite anche da Erdoǧan nei suoi mandati iniziali, sia con un intenso scambio commerciale e con intese di carattere economico, sia con una proattiva azione diplomatica mirata a raggiungere una soluzione al problema palestinese sostenuta da una collaborazione attiva con le fazioni moderate di Hamas e dell’Autorità Palestinese, i rapporti hanno iniziato a intiepidirsi per sfociare in una serie di azioni politiche decise nei confronti di Israele che hanno creato profonde divergenze tra i due Paesi.

L’acuirsi delle relazioni diplomatiche è stato sottolineato da una serie di prese di posizioni intransigenti e dirette da parte di Erdoǧan che hanno interessato gli ultimi dieci anni e che sono determinate del crescente supporto alla causa palestinese espresso dal Presidente turco.

La decifrazione di questa linea politica del Presidente è particolarmente complessa se consideriamo i seguenti fattori critici.

Nonostante la maggioranza della popolazione sia a favore di una posizione di mediazione o di neutralità nei confronti della crisi tra Hamas e Israele, le azioni di Erdoǧan hanno indirizzato la sua politica in senso opposto, privando Ankara della libertà d’azione e della flessibilità necessarie a prendere parte al processo di mediazione in atto.

I rapporti tra Autorità Palestinese e Turchia, sebbene, non critici non hanno mai rappresentato il cardine della politica di Ankara e il sostegno dato alla causa palestinese non è mai stato determinante e incisivo, inoltre, anche i rapporti tra Hamas e la Turchia non sono stati caratterizzati da una visione coincidente, infatti, pur essendo di credo sunnita, Hamas ha legami molto più stretti con l’Iran che rappresenta l’antagonista principale della Turchia nell’area specifica.

Inoltre, all’inizio della crisi di Gaza Erdoǧan ha mantenuto una posizione di neutralità offrendosi come mediatore per raggiungere una possibile soluzione negoziale, per poi abbandonare repentinamente questa linea di condotta equilibrata e prediligere atteggiamenti di critica feroce nei confronti di Israele.

Alla luce di tali fattori la linea politica di Erdoǧan può essere perciò, motivata dalle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il supporto alla questione palestinese è dettato da considerazioni esclusivamente personali che ne influenzano la visione politico-diplomatica.

In secondo luogo, il supporto alla causa palestinese deriva anche dalla necessita di gestire la componente islamica della sua compagine di governo al fine di non essere schiacciato da pressioni interne che potrebbero compromettere la sua posizione di forza e la stabilità del governo stesso.

In terzo luogo, l’ostilità e il risentimento per essere stato messo ai margini del processo di distensione tra i Paesi del Golfo e Israele, avviato e sostenuto da USA e Arabia Saudita prima della crisi.

Da un ultimo, ma non meno importante, un errore di valutazione nell’aver voluto assumere un ruolo intransigente e decisamente ostile verso Tel Aviv nell’ottica di cogliere l’opportunità di rilanciarsi come leader della comunità islamica regionale che appoggia e sostiene Hamas.

Le conseguenze diplomatico-politiche di queste linee di azioni hanno posto la Turchia, e a maggior ragione il suo leader, in una situazione precaria rischiando di vanificare le aspirazioni di Ankara a poter ricoprire il ruolo dichiarato di potenza regionale

Indubbiamente la sensibilità politica di Erdoǧan gli ha consentito di comprendere che questa situazione ha compromesso l’equilibrio del suo baricentro politico e che il persistere in una tale direzione avrebbe comportato una serie di conseguenze negative e quindi ha immediatamente invertito la tendenza.

Se le dimostrazioni di supporto per la causa palestinese fanno riferimento a una retorica altisonante, l’approccio diplomatico sta mutando, nell’ottica di proporre una Turchia interessata alla collaborazione e alla ricerca di soluzioni negoziali.

In attesa di poter svolgere un ruolo più attivo nella crisi di Gaza, Erdoǧan ha puntato su un altro teatro, quello ucraino, dove proponendo una sua ipotesi di soluzione alla crisi ha rilanciato immediatamente l’immagine di una Turchia disponibile al dialogo e alla mediazione in grado di poter svolgere quella funzione di garante dell’equilibrio geopolitico adeguata a interpretare il ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geostrategico di Erdoǧan.

Bombardate nella notte le postazioni Houti, in volo aerei Usa e GB

ASIA PACIFICO di

Gli attacchi aerei notturni delle forze armate statunitensi e britanniche contro obiettivi Houthi nelle aree dello Yemen controllate dal gruppo armato filo iraniano hanno scatenato una serie di reazioni e preoccupazioni a livello internazionale. Questi attacchi sono avvenuti in risposta agli attacchi precedenti degli Houthi contro navi commerciali nel Mar Rosso, che hanno minacciato la libertà di navigazione in una delle rotte marittime più importanti al mondo.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha dichiarato di aver ordinato tali attacchi per proteggere la sicurezza delle navi internazionali e il libero flusso del commercio internazionale. Ha anche sottolineato che, se necessario, adotterà ulteriori misure per garantire la protezione del suo popolo e la continuità del commercio globale.

Le forze statunitensi, insieme al Regno Unito e con il sostegno di Australia, Bahrain, Canada e Paesi Bassi, hanno effettuato con successo attacchi su oltre 60 obiettivi legati agli Houthi sostenuti dall’Iran. Questi obiettivi includevano nodi di comando, depositi di munizioni, sistemi di lancio, impianti di produzione e sistemi radar di difesa aerea.

Questo rappresenta il primo attacco noto degli Stati Uniti contro gli Houthi nello Yemen. Gli attacchi sono stati condotti utilizzando aerei da combattimento e missili Tomahawk, mirando a obiettivi strategici che avrebbero potuto evitare i continui attacchi degli Houthi alle navi nel Mar Rosso.

La Russia ha reagito richiedendo un’urgente riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in risposta agli attacchi statunitensi e britannici contro lo Yemen. Hezbollah, un gruppo libanese, ha condannato l’aggressione anglo-americana e accusato gli Stati Uniti di essere complici nelle tragedie e nei massacri commessi dalla “nemico sionista” nella regione.

L’Arabia Saudita ha espresso preoccupazione per gli attacchi e ha invitato a “moderazione” per evitare un’escalation nella regione del Mar Rosso, sottolineando l’importanza della sicurezza e della stabilità in quella zona e la necessità di garantire la libertà di navigazione.

Da parte loro, i ribelli Houthi hanno condannato gli attacchi anglo-americani e hanno dichiarato che continueranno a prendere di mira le navi dirette verso Israele. La situazione rimane molto delicata e suscita preoccupazione a livello internazionale.

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Grave situazione di caos in Ecuador: dichiarato stato d’emergenza dopo l’evasione del boss Fito, con almeno 10 morti

AMERICHE di

L’Ecuador è attualmente in preda al caos. Il presidente Daniel Noboa ha dichiarato uno “stato di conflitto armato interno” e ha imposto lo stato d’emergenza di 60 giorni in risposta all’evasione di Adolfo Macias, noto come Fito, il boss del narcotraffico, da un carcere di massima sicurezza a Guayaquil. Questo evento ha scatenato una serie di violenze apparentemente coordinate in tutto il Paese, con un bilancio finora di almeno dieci morti. Leggi Tutto

Ucraina, l’Ambasciatore Yaroslav Melnyk “ Eventi filorussi? L’Italia vittima delle manipolazioni del Cremlino

EUROPA di

 ‘l’obiettivo è seminare discordia e distogliere attenzione da cinici bombardamenti’ dichiara l’Ambasciatore Melnyk.

“Stiamo vedendo che l’Italia, purtroppo, sta diventando una vittima delle manipolazioni del Cremlino, poiché la quantità di eventi pianificati per il prossimo futuro è impressionante: Modena, Lucca, Milano, Bologna e altri”. E’ quanto denuncia l’ambasciatore ucraino a Roma, Yaroslav Melnyk, in una dichiarazione all’Adnkronos, in riferimento ad una serie di appuntamenti previsti nei prossimi giorni in alcune città italiane, da una mostra-convegno ‘pro russa’ su Mariupol a Modena alla presenza, in videocollegamento, del filosofo Alexander Dugin ad un evento a Lucca. Leggi Tutto

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