GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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MEDIO ORIENTE

Washington e il Medio Oriente

U.S. President Joe Biden pauses during a meeting with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu to discuss the war between Israel and Hamas, in Tel Aviv, Israel, Wednesday, Oct. 18, 2023. (Miriam Alster/Pool Photo via AP)

Negli ultimi quindici anni il centro di gravità della politica estera di Washington si è spostato dal teatro Euroasiatico a quello Indo – Pacifico come conseguenza della scelta geostrategica di contrastare in quella Regione la crescente influenza cinese tendente a realizzare un nuovo sistema di ordine globale.

Questa priorità ha comportato un progressivo décalage dell’attività diplomatica USA sia in Europa, sia, soprattutto, nel Medio Oriente.

Nell’area europea, infatti, la possibilità di vincolare la Russia allo scenario europeo, limitandone la libertà di azione in quello asiatico, è stata realizzata con un impiego circoscritto delle risorse nazionali statunitensi, grazie a una gestione della crisi ucraina condotta coinvolgendo i partner europei della NATO mediante lo sfruttamento abilmente gestito della voglia di rivincita dell’Europa orientale e risuscitando il concetto di guerra fredda.

Diversamente, nell’area mediorientale il progressivo raffreddamento dell’interesse USA a svolgere un ruolo primario quale potenza garante della sicurezza e della ricerca di un equilibrio regionale aveva favorito, come conseguenza, lo sviluppo delle iniziative diplomatiche di Cina e Russia e l’aumentare delle tensioni nell’area a causa dell’emergere dei contrasti connessi alla volontà da parte di alcuni Paesi di assumere il ruolo di potenza regionale.

Le precedenti due Amministrazioni e quella attuale avevano progressivamente ridotto la presenza geostrategica nei Paesi dell’area adottando linee diplomatico-politiche ambigue e prive di visione a lungo termine, creando la sensazione della inaffidabilità della volontà statunitense di rivelarsi un alleato su cui poter contare per la propria sicurezza.

L’esplodere della crisi di Gaza ha costituito l’opportunità per la diplomazia di Washington di rivedere le proprie azioni e ridefinire i suoi interessi nella regione mediorientale.

Il riorientamento della posizione USA e la sua volontà a riassumere il ruolo di protagonista nella ricerca dell’equilibrio geostrategico del Medioriente non sono avvenuti con immediatezza, in quanto è stato necessario vincere l’inerzia iniziale per invertire il processo in atto e riconfigurare la propria posizione da parte dell’Amministrazione corrente.

Infatti, a seguito dei tragici fatti del 7 ottobre Washington ha agito, inizialmente, garantendo il pieno supporto politico, diplomatico e militare a Israele.

Subito dopo, però, ha avuto inizio un’intensa attività diplomatica che ha visto impegnato il Segretario di Stato Antony Blinken nel prendere contatto con tutti i maggiori attori politici dell’area al fine di iniziare a tessere le fila per individuare quali potessero essere le condizioni per pervenire a una soluzione della crisi.

Il tour de force tra le capitali arabe ha richiesto diversi passaggi e una lunga serie di colloqui per valutare le possibili proposte e identificare gli ulteriori eventuali elementi sui cui poter costruire le ipotesi di soluzione della crisi.

L’impegno diplomatico del Segretario ha prodotto una proposta per un piano volto a ottenere la fine dei combattimenti ma, soprattutto, a identificare una strategia per la gestione di quello che sarà il dopo conflitto.

L’accoglienza tiepida e piena di riserve che ha caratterizzato la risposta al piano da parte degli attori principali di questa crisi non può essere considerata come un successo di questa prima proposta, ha anzi confermato come la soluzione della crisi di Gaza sia ancora lontana dall’essere realizzata; tuttavia, l’impegno e la sollecitudine che sono stati profusi nella sua preparazione hanno dimostrato che l’interesse geostrategico di Washington si è riorientato verso il Medio Oriente.

Indipendentemente dalla possibilità o meno di vedere coronata da successo la proposta statunitense, l’elemento importante da sottolineare è il cambio di passo dell’Amministrazione, che ha confermato di ritenere nuovamente fondamentale un suo impegno nella regione.

Questo reindirizzamento dell’interesse geostrategico USA in Medio Oriente ha comportato alcune conseguenze di importanza rilevante.

La prima: l’azione diplomatica del Segretario Blinken ha anticipato quella di eventuali altri attori geopolitici interessati a poter svolgere un ruolo da protagonisti, tagliando fuori non solo la Russia ma soprattutto la Cina, conferendo agli USA una posizione di vantaggio da sfruttare per rinforzare la sua importanza nell’area.

La seconda: la condotta del Segretario e dell’Amministrazione USA è stata caratterizzata da due fattori importanti quali la disponibilità a dialogare con tutte le entità politiche della Regione e la dimostrazione, indipendentemente dal supporto politico-diplomatico dato a Israele, di avere la volontà per esercitare pressioni politiche sul Governo di Netanyahu. Questi due fattori hanno conferito un notevole peso all’impegno di Washington che favorisce la possibilità per gli USA di ritornare a svolgere il ruolo di protagonisti dell’equilibrio nella regione.

La terza, invece, ha prodotto due differenti effetti i cui risvolti sono implicitamente connessi alla politica interna americana. In primo luogo, la possibilità per l’Amministrazione attuale di dimostrare di avere recuperato una visione geostrategica globale che affianca all’interesse per un diverso peso del rapporto euroatlantico, la necessità di contrastare l’avanzata cinese anche al di fuori del contesto Indo-Pacifico. In secondo luogo, la possibilità di sviluppare nell’area mediorientale un’azione diplomatica caratterizzata da una maggiore equidistanza tra i vari protagonisti conferisce alla posizione statunitense una chance di successo maggiore per ricoprire il ruolo di potenza in grado di garantire un equilibrio duraturo.

La combinazione di questi due effetti costituisce, infatti, un atout da giocarsi per l’attuale Amministrazione nelle prossime elezioni presidenziali al fine ottenere il supporto di quei settori non favorevoli alla crisi ucraina e contrari al supporto incondizionato verso Israele.

Come detto, le proposte di Washington per la soluzione della crisi non sono magari perfette e quindi stentano a essere condivise, la difficoltà a orientare le scelte del Governo israeliano verso la soluzione identificata per il dopo conflitto  è particolarmente importante e il progetto presentato richiede una ulteriore serie di consultazioni diplomatiche da parte dei Governi dell’area, tuttavia l’elemento fondamentale è la ritrovata volontà di iniziativa che sta caratterizzando l’azione di Washington nella Regione.

Ovviamente è prematuro affermare che questa inversione di rotta da parte dell’Amministrazione USA possa o meno aver creato le premesse per colmare il solco che si era formato tra i Paesi del Medioriente alleati od orientati a favore di Washington negli ultimi anni, restaurando la fiducia e il senso di affidabilità della politica americana quale potenza leader nella Regione.

Anche se la politica statunitense riuscirà a ridare consistenza e credibilità alla sua posizione di grande potenza indispensabile per l’equilibrio nell’area, i rapporti con altri grandi protagonisti della scena mondiale (Cina in primis) che hanno rivoluzionato la diplomazia della/nella Regione continueranno a far sentire il loro influsso e dovranno, comunque, essere tenuti in considerazione nella impostazione della visione che l’Amministrazione statunitense (democratica o repubblicana che sia nel futuro non ha importanza) dovrà impostare per conseguire i propri obiettivi geostrategici in una Regione fondamentalmente critica per la costruzione di un nuovo ordine mondiale liberale e democratico.

 

Ankara e la ricerca dell’equilibrio geopolitico

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during his meeting with mukhtars at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, March 16, 2016. REUTERS/Umit Bektas – RTSAPB4

In occasione della imminente visita di Putin in Turchia il Presidente Erdoǧan ha dichiarato l’intenzione di svolgere il ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto ucraino facendosi promotore di una possibile situazione negoziale tra le due parti.

L’iniziativa sembra voler sottolineare la volontà della Turchia di riprendere a svolgere quel ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geopolitico di Erdoǧan, conferendo alla diplomazia del Paese il ruolo di garante degli equilibri regionali.

Il tentativo di rientrare a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche dell’area euroasiatica, quale protagonista, è stato determinato dalla necessità di ribilanciare la posizione di flessibilità pragmatica caratteristica della Turchia di Erdoǧan compromessa dall’atteggiamento unilaterale fortemente critico espresso nei confronti di Israele nell’ambito del conflitto in atto a Gaza.

Il criterio che ha guidato la politica estera turca sotto la presidenza di Erdoǧan è stato quello di una diplomazia pragmatica volta ad accrescere l’importanza e il prestigio della Turchia al fine di svolgere un ruolo centrale, non solo nel bacino mediterraneo orientale, ma estendendo tale ruolo a tutta l’area euroasiatica.

Il concetto di proiezione geostrategica della Turchia, che ha visto il Paese intervenire in tutti gli scenari di crisi dall’area, Libia, Siria, Ucraina, Caucaso, è stato permeato dal criterio dell’adozione di una visione  realista e sempre attenta a essere percepita, quando possibile, nel ruolo di mediatore o garante di un equilibrio volto ad evitare profondi sconvolgimenti.

Il caso più emblematico di questa linea diplomatico strategica è l’atteggiamento che Erdoǧan ha assunto nei confronti della crisi ucraina.

La Turchia ha sostenuto la sovranità ucraina, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, ha aspramente criticato le azioni russe ed è stato il primo Paese a supportare con aiuti militari l’Ucraina.

Tuttavia, ha controbilanciato queste sue attività ponendo la massima attenzione a mantenere stabili i legami di natura economica con la Russia, ha appoggiato in maniera tiepida le risoluzioni internazionali di condanna contro Mosca, si è opposto alle sanzioni e agli sforzi per isolare diplomaticamente Putin, incrementando gli scambi e le relazioni economiche con la Russia.

Inoltre, a più riprese, ha svolto il ruolo di mediatore sfruttando la posizione di grande potenza (regionale) in grado di riscuotere la fiducia di ambedue i contendenti, portando a termine accordi importanti come le condizioni di esportazione del grano e lo scambio di prigionieri.

Anche la posizione assunta nei confronti della annessione della Svezia alla NATO deve essere interpretata alla luce della volontà di ricercare un equilibrio dell’intero sistema favorevole agli interessi della Turchia e propedeutico al suo ruolo di Paese leader. Il veto è caduto quando sono stati conseguiti i due obiettivi di Erdoǧan: assunzione di una linea di condanna della Svezia dell’organizzazione del PKK e avvio del processo di acquisizione di un lotto di F16 da parte USA.

Il tutto ribilanciato dall’apertura diplomatica nei confronti della Russia concretizzata nel summit di questi giorni, che rappresenta l’occasione per riprendere il ruolo di mediatore, oltre a far coincidere l’evento con la prima visita di Putin in un Paese dell’Alleanza Atlantica dopo l’inizio della crisi e nonostante la richiesta di provvedimenti coercitivi emessa da organismi internazionali nei confronti di Putin stesso.

Ma è nell’area mediorientale dove questa posizione di equilibrio è stata completamente offuscata e messa in discussione a seguito della dura presa di posizione di Erdoǧan nei confronti di Israele e del suo leader Netanyahu.

Gli interessi turchi nell’area sono estesi e abbastanza articolati.

In primo luogo, vi è il rapporto stretto con il Qatar, che rappresenta il partner economico più importante per finanziare i progetti di crescita della Turchia.

In secondo luogo, ci sono le attività condotte nello scenario siriano volte sia a contrastare l’ISIS, sia a circoscrivere il fenomeno dell’autonomia curda. Qui l’intesa con la Russia e la possibilità di una sovrapposizione di interessi con l’Iran fanno da bilanciere alla posizione di membro della NATO che, se pur in alcuni casi tiepida e sfumata, rimane, comunque, un punto non in discussione.

In terzo luogo, deve essere considerato il rapporto con i restanti Paesi del Golfo che è contraddistinto da una alternanza di aperture e di parziali chiusure diplomatiche, ma che persegue l’obiettivo di affermare la Turchia come un Paese capace di assicurare la stabilità dell’area in alternativa a un predominio iraniano.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, vi è la questione religiosa, dove l’avvicinamento di Erdoǧan verso una visione meno laica del Paese e più orientata ad una maggiore ortodossia, conseguenza delle alleanze politiche interne che hanno reso possibile le ultime due elezioni del presidente, consente alla Turchia di aspirare al ruolo di guida del mondo islamico.

Tuttavia, nonostante le critiche dirette di Erdoǧan nei confronti di Israele e le dichiarazioni di supporto alla comunità palestinese, la Turchia è fuori dal contesto diplomatico che lavora per giungere a una soluzione mediata della crisi.

Malgrado, infatti, le buone relazioni con il Qatar la diplomazia turca è stata esclusa dal processo dove, invece, sia Egitto che Arabia Saudita svolgono un ruolo principale. Questo fattore ha sbilanciato la posizione di Ankara privandola della possibilità di influenzare gli eventi e relegandola ad un ruolo sussidiario che mette a serio rischio le sue aspirazioni di leadership.

Per poter comprendere tale situazione di impasse è utile fare le seguenti considerazioni.

Dopo una età dell’oro nelle relazioni turco – israeliane contraddistinte da iniziative diplomatiche quali il riconoscimento quasi immediato di Israele e la non partecipazione al ciclo delle guerre arabo – israeliane e proseguite anche da Erdoǧan nei suoi mandati iniziali, sia con un intenso scambio commerciale e con intese di carattere economico, sia con una proattiva azione diplomatica mirata a raggiungere una soluzione al problema palestinese sostenuta da una collaborazione attiva con le fazioni moderate di Hamas e dell’Autorità Palestinese, i rapporti hanno iniziato a intiepidirsi per sfociare in una serie di azioni politiche decise nei confronti di Israele che hanno creato profonde divergenze tra i due Paesi.

L’acuirsi delle relazioni diplomatiche è stato sottolineato da una serie di prese di posizioni intransigenti e dirette da parte di Erdoǧan che hanno interessato gli ultimi dieci anni e che sono determinate del crescente supporto alla causa palestinese espresso dal Presidente turco.

La decifrazione di questa linea politica del Presidente è particolarmente complessa se consideriamo i seguenti fattori critici.

Nonostante la maggioranza della popolazione sia a favore di una posizione di mediazione o di neutralità nei confronti della crisi tra Hamas e Israele, le azioni di Erdoǧan hanno indirizzato la sua politica in senso opposto, privando Ankara della libertà d’azione e della flessibilità necessarie a prendere parte al processo di mediazione in atto.

I rapporti tra Autorità Palestinese e Turchia, sebbene, non critici non hanno mai rappresentato il cardine della politica di Ankara e il sostegno dato alla causa palestinese non è mai stato determinante e incisivo, inoltre, anche i rapporti tra Hamas e la Turchia non sono stati caratterizzati da una visione coincidente, infatti, pur essendo di credo sunnita, Hamas ha legami molto più stretti con l’Iran che rappresenta l’antagonista principale della Turchia nell’area specifica.

Inoltre, all’inizio della crisi di Gaza Erdoǧan ha mantenuto una posizione di neutralità offrendosi come mediatore per raggiungere una possibile soluzione negoziale, per poi abbandonare repentinamente questa linea di condotta equilibrata e prediligere atteggiamenti di critica feroce nei confronti di Israele.

Alla luce di tali fattori la linea politica di Erdoǧan può essere perciò, motivata dalle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il supporto alla questione palestinese è dettato da considerazioni esclusivamente personali che ne influenzano la visione politico-diplomatica.

In secondo luogo, il supporto alla causa palestinese deriva anche dalla necessita di gestire la componente islamica della sua compagine di governo al fine di non essere schiacciato da pressioni interne che potrebbero compromettere la sua posizione di forza e la stabilità del governo stesso.

In terzo luogo, l’ostilità e il risentimento per essere stato messo ai margini del processo di distensione tra i Paesi del Golfo e Israele, avviato e sostenuto da USA e Arabia Saudita prima della crisi.

Da un ultimo, ma non meno importante, un errore di valutazione nell’aver voluto assumere un ruolo intransigente e decisamente ostile verso Tel Aviv nell’ottica di cogliere l’opportunità di rilanciarsi come leader della comunità islamica regionale che appoggia e sostiene Hamas.

Le conseguenze diplomatico-politiche di queste linee di azioni hanno posto la Turchia, e a maggior ragione il suo leader, in una situazione precaria rischiando di vanificare le aspirazioni di Ankara a poter ricoprire il ruolo dichiarato di potenza regionale

Indubbiamente la sensibilità politica di Erdoǧan gli ha consentito di comprendere che questa situazione ha compromesso l’equilibrio del suo baricentro politico e che il persistere in una tale direzione avrebbe comportato una serie di conseguenze negative e quindi ha immediatamente invertito la tendenza.

Se le dimostrazioni di supporto per la causa palestinese fanno riferimento a una retorica altisonante, l’approccio diplomatico sta mutando, nell’ottica di proporre una Turchia interessata alla collaborazione e alla ricerca di soluzioni negoziali.

In attesa di poter svolgere un ruolo più attivo nella crisi di Gaza, Erdoǧan ha puntato su un altro teatro, quello ucraino, dove proponendo una sua ipotesi di soluzione alla crisi ha rilanciato immediatamente l’immagine di una Turchia disponibile al dialogo e alla mediazione in grado di poter svolgere quella funzione di garante dell’equilibrio geopolitico adeguata a interpretare il ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geostrategico di Erdoǧan.

Conflitto nella striscia di Gaza, urgente il cessate il fuoco

MEDIO ORIENTE/Senza categoria di

Mentre dai fronti di guerra dell’Ucraina, dopo quasi due anni, non viene percepito alcun segnale di possibile cessazione e soluzione del conflitto, un’altra polveriera è esplosa nella fin troppo martoriata terra di Palestina, con l’attacco a Gaza deciso dal governo di Tel Aviv, a seguito del terribile e sanguinoso attentato di Hamas del 7 ottobre che ha provocato una strage di militari e civili, seguita dal sequestro di circa 250 ostaggi, ai fini di aprire nuovi margini di trattativa con Israele.

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Libano, bombe Israele vicino a base italiana dell’Onu

MEDIO ORIENTE di

L”artiglieria israeliana ha effettuato poco fa tre bombardamenti di artiglieria contro località nel sud del Libano, situate nei pressi della base italiana della missione Onu (Unifil) nel sud del Libano, senza
fare vittime o danni materiali al compound militare.
Lo riferiscono testimoni oculari vicini alla base di Shamaa, quartier generale del contingente italiano che in Libano conta più di un migliaio di soldatesse e soldati. Le fonti affermano che l’artiglieria israeliana ha preso di mira la zona di Tayr Harfa, Jebbine e Yarin a tre chilometri di distanza dalla base di Shamaa.

Medio Oriente: la pace “impossibile” e la convivenza necessaria

MEDIO ORIENTE di


Il dramma degli ostaggi israeliani, la catastrofe umanitaria a Gaza, in breve il fiume di violenza che scorre in Terrasanta mal cela una realtà evidente a chiunque osservi la situazione senza pregiudizi politici o religiosi. Ciò che rende questa guerra disperata e disperante è il fatto che nessuna delle parti in conflitto ha obiettivi strategici realizzabili: Hamas non può neanche immaginare di cancellare lo Stato ebraico (sarebbe militarmente e politicamente impossibile) e Israele ha della propria sicurezza solo un concetto “tattico” (rispondere colpo su colpo e con la massima durezza, pur sapendo che Hamas sopravviverebbe anche alla completa distruzione di Gaza).

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Parte la conferenza di Parigi per gli aiuti umanitari a Gaza

MEDIO ORIENTE di

La “conferenza umanitaria” su Gaza convocata da Emmanuel Macron a Parigi ha l’obiettivo di facilitare la consegna degli aiuti umanitari alla Striscia, resa difficile dai bombardamenti israeliani in risposta all’attacco di Hamas il 7 ottobre. La conferenza si è inaugurata stamattina presso il Palazzo dell’Eliseo, simbolo della presidenza francese nel cuore di Parigi. Nonostante l’assenza di Israele, Macron ha discusso con il premier Benjamin Netanyahu la scorsa martedì e prevede ulteriori colloqui al termine dell’assemblea, secondo fonti della presidenza francese. Leggi Tutto

DIFESA: NAVE VULCANO CON A BORDO OSPEDALE “ROLE 2” PRONTA A PARTIRE PER IL MEDIO ORIENTE.

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

Oggi, al termine delle operazioni di carico, l’unita sarà pronta a lasciare il Porto di Civitavecchia per Cipro dove si ricongiungerà alle navi italiane già presenti nell’area (“San Giusto”, “Fasan”, “Margottini” e “Thaon di Revel”) attualmente impegnate nell’Operazione “Mediterraneo sicuro” e da lì sarà pronta per essere schierata ove ritenuto più idoneo il suo impiego.

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La situazione in Medio Oriente dopo il 7 Ottobre

L’attacco che Hamas ha condotto contro lo Stato di Israele, lo scorso 7 Ottobre, rappresenta un ulteriore episodio del conflitto che devasta il Medio Oriente da circa un secolo (anno più, anno meno).

Per poter comprendere tale nuova fase di questa guerra infinita, è necessario esaminare gli aspetti che ad essa sono connessi al fine di potere avere una visione complessiva del suo significato.

Come tutti i conflitti, anche questo si svolge su piani paralleli ineluttabilmente interconnessi e le cui conseguenze richiedono una comprensione d’insieme per identificare le eventuali ipotesi di soluzione. Leggi Tutto

LA FALLA DELL’INTELLIGENCE ISRAELIANA RISCHIA DI FAR CADERE IL GOVERNO DI NETANYAHU

MEDIO ORIENTE di

Il gruppo di Hamas ha attaccato a sorpresa cittadini e militari, alle prime ore dell’alba del 7 ottobre, il sud dello Stato di Israele provocando una drammatica escalation nell’area mediorientale, a causa del default dei servizi segreti israeliani che non hanno funzionato negli ultimi anni. Il gruppo di miliziani islamici, pare anche che al suo interno ci fossero dei terroristi legati ai gruppi terroristici di matrice jihadista, ha armato, pianificato ed eseguito un vero e proprio attacco manu militari, che gli stessi israeliani lo hanno paragonato all’attacco terroristico avvenuto l’11 settembre del 2001 contro gli Stati Uniti. Questo attacco a sorpresa ha portato alla mente un simile attacco, avvenuto proprio cinquant’anni fa, da parte dell’Egitto contro Israele durante lo Yom Kippur del 6 ottobre 1973, la festa dell’espiazione più importante del calendario ebraico, che portò direttamente alla caduta del governo di Golda Meir, evento quest’ultimo che potrebbe ripetersi con Benjamin Netanyahu che rischierebbe di finire la sua carriera politica.

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Una nuova guerra in Medio Oriente?

 

Le modalità con le quali, nel settore della Striscia di Gaza, l’organizzazione di Hamas ha condotto l’attacco contro lo Stato di Israele hanno drammaticamente elevato il livello della tensione che contraddistingue l’area, accrescendo il pericolo che la situazione possa evolversi dando luogo a un vero e proprio conflitto.

Il successo che ha caratterizzato la fase iniziale delle operazioni di Hamas ha colto di sorpresa un’opinione pubblica generalmente poco attenta agli sviluppi della situazione mediorientale e geopoliticamente concentrata su se stessa, che si è meravigliata per l’assenza, apparente, di un qualsiasi segnale che potesse presagire una tale operazione.

Purtroppo, invece, questa ripresa violenta delle dinamiche che caratterizzano la regione era stata ipotizzata e considerata come un’eventualità possibile a breve termine.

Quello che può essere considerato come una sorpresa e che come tale ha colto parzialmente sbilanciato Israele è stato il settore in cui questo attacco si è sviluppato: la Striscia di Gaza.

Nei mesi passati lo sviluppo di una serie di eventi aveva concentrato l’attenzione degli analisti nei confronti del settore settentrionale di Israele dove le attività dell’organizzazione di Hezbollah lungo il confine con Libano avevano alzato il livello della tensione in maniera estremamente pericolosa provocando reazioni abbastanza dure da parte del Governo Israeliano.

Indubbiamente l’operazione lanciata da Hamas ha conseguito un iniziale successo sfruttando la sorpresa causata sia dalla portata delle operazioni sia delle modalità tattiche adottate per l’attacco, ma la controreazione israeliana è stata immediata.

Adesso, il vero elemento critico di questa crisi è rappresentato dal livello della risposta che Israele intenderà adottare, in quanto le conseguenze avranno effetti complessivi che condizioneranno pesantemente l’attuale quadrò geostrategico regionale.

La situazione di Israele in questo momento è particolarmente delicata sia sul piano interno sia su quello internazionale.

Infatti, all’interno le difficoltà incontrate dal Governo del premier Netanyahu nel portare avanti una serie di riforme politiche hanno acceso il dibattito politico creando una situazione di tensione nella società israeliana; mentre lo scenario estero è condizionato dal processo di normalizzazione dei rapporti con i vicini che passa obbligatoriamente per l’Arabia Saudita e dalla necessitò di contrastare l’influenza iraniana.

Per quanto attiene, invece, alle motivazioni che hanno indotto Hamas a scatenare il suo attacco queste possono essere identificate nei fattori che condizionano l’operato dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) anch’esse originate da criteri di politica interna e di politica estera.

In sintesi, l’ANP ha da tempo perso il controllo della Striscia di Gaza che è governata dall’organizzazione di Hamas e ultimamente ha visto il suo potere erodersi anche in Cisgiordania a favore di Hamas. L’attacco di questi giorni potrebbe essere il tentativo di Hamas di proporsi come il difensore del popolo palestinese e rivendicare il ruolo politico che adesso è della ANP.

La possibilità da parte di Israele di includere l’Arabia Saudita nel processo di normalizzazione viene considerata come una inaccettabile perdita di influenza della causa palestinese nel mondo arabo e come tale osteggiata. La possibilità di spingere Israele a scatenare una reazione particolarmente incisiva nei confronti di Gaza avrebbe l’effetto di congelare l’adesione del regno saudita ad un accordo per il riconoscimento di Israele.

Infine, non può essere trascurato l’interesse dell’Iran che, quale finanziatore e ispiratore dei movimenti islamici come Hamas, potrebbe aver sollecitato l’attacco per poter trarre elementi di valutazione riguardo alle reazioni israeliane nell’ottica del perseguimento dei suoi obiettivi di distruzione dello Stato di Israele.

Di conseguenza la risposta di Israele dovrà tenere conto di numerose variabili e di situazioni i cui pro e contro sono particolarmente significativi.

Un primo elemento, che sicuramente potrebbe condizionare le scelte successive, è rappresentato dalle dichiarazioni di supporto che sono venute dal contesto internazionale unitamente a quelle di condanna dell’azione di Hamas, che rappresentano un fattore particolarmente positivo per la loro prontezza (ha stupito l’immediata dichiarazione dell’Unione Europea per tramite della Presidente della Commissione) e che dimostrano una predisposizione favorevole in quanto affermano il diritto alla difesa da parte di Israele.

Un secondo fattore è rappresentato dalla necessità di calibrare una risposta che sia abbastanza decisa da eliminare o ridurre la minaccia di Hamas senza stimolare una reazione da parte di Hezbollah lungo il confine con il Libano o innescare una ennesima intifada nella Cisgiordania.

Infine, il particolare momento offre una possibilità a Netanyahu di ottenere un consenso politico interno che a seguito di una bilanciata soluzione di questa crisi, gli consentirebbe, probabilmente di ottenere il supporto di fazioni politiche più moderate che renderebbero meno significativa l’attività che la componente oltranzista del suo Governo sta cercando di imporre, riequilibrando, così la situazione di tensione sociale in atto nel Paese.

Se la situazione sul campo si sta evolvendo rapidamente a favore delle forze Armate di Israele (IDF) per ristabilire accettabili condizioni di sicurezza, le azioni che il Governo di Israele deciderà di adottare sono condizionate da una molteplicità di fattori che richiederanno soluzioni calibrate ed equilibrate, dove la volontà di adottare misure cinetiche definitive nei confronti di Hamas dovrà essere condizionata dalla necessità di conseguire una vittoria, soprattutto, politica e non solo militare.

E’, infine, opportuno sottolineare come la popolazione della Striscia di Gaza e quella israeliana adiacente siano le vere vittime di questa ennesima dimostrazione di come le organizzazioni terroristiche come Hamas, supportate e finanziate da Stati totalitari (Repubblica Islamica dell’Iran in primis) possano arrogarsi il diritto di essere riconosciuti come i rappresentanti di uno Stato o di una Nazione, quando invece le loro azioni sono dettate, esclusivamente, dal soddisfacimento di interessi di potere che nulla hanno a che fare con i diritti e la difesa della popolazione palestinese.

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Maurizio Iacono
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