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EUROPA - page 56

La Turchia alle urne, Erdogan rieletto con l’52% delle preferenze

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“Una lezione di democrazia”, così Recep Tayyip Erdoğan ha definito il proprio trionfo al primo turno delle elezioni presidenziali e politiche turche, tenutesi il 24 giugno.

Circa l’87% dei 59 milioni di cittadini aventi diritto di voto si è recato alle urne, facendo registrare un’altissima affluenza. Erdoğan, a capo del Paese da 16 anni, ha ottenuto il 52% dei consensi, mentre il 30% dei votanti si è espresso a favore di Muharrem Ince, rivale del leader dell’AKP e principale candidato dell’opposizione nel voto presidenziale, il quale ha raggiunto un risultato insperato fino a pochi mesi fa che, tuttavia, non gli consente di arrivare al ballottaggio.

Si tratta dunque di un’amara sconfitta per l’opposizione turca. Le aspettative di rovesciare il sistema corrotto e totalitario del Sultano del Bosforo, nella convinzione che fosse sufficiente la vittoria di un candidato diverso per dare avvio ad un vero cambiamento, sono state deluse anche dal risultato delle elezioni politiche, le quali sono state anticipate dal Presidente Erdoğan lo scorso aprile.

Tali elezioni si sono svolte secondo le disposizioni della nuova legge elettorale, approvata a marzo e voluta dall’AKP: in particolare, il nuovo sistema elettorale favorisce le coalizioni e permette ai piccoli partiti che si alleano con forze politiche maggiori di entrare in Parlamento, senza dover superare l’alta soglia di sbarramento. In virtù di tale nuova legislazione, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP) ed il Partito del Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi, MHP) hanno fondato la coalizione denominata Alleanza del popolo, inoltre quattro forze di opposizione, quali il Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), il Partito Buono (iYi) di Meral Aksener, il Partito della felicità (Saadet Partisi, SP) dell’islamista Saadet ed il Partito democratico, si sono unite nella coalizione denominata Millet.

Nel dettaglio, la coalizione che sostiene il Presidente, ha ottenuto il 53% dei voti e dunque la maggioranza assoluta; decisivo per la vittoria è stato il risultato del Partito del Movimento Nazionalista, a cui si appoggerà il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo per governare; quest’ultimo ha ottenuto il 42% dei consensi, registrando un calo del 7% rispetto alla precedente legislatura.

Relativamente al cosiddetto “blocco d’opposizione”, esso rimane intorno al 34%; il Partito Popolare Repubblicano, il più antico partito politico della Turchia,ha ottenuto il 22%, registrando un calo del 23% circa, rispetto alle elezioni del 2015; tutti gli altri partiti d’opposizione alleati si trovano intorno alla soglia di sbarramento del 10%.

Risulta essere rilevante l’ingresso in parlamento di una settantina di deputati della formazione politica filo curda di Selahattin Demirtas e ciò consente un’attenuazione della questione del Kurdistan turco.

L’opposizione, ancora prima dell’apertura delle urne, ha denunciato dei brogli elettorali, contestando i dati ufficiali ed alludendo ad una manipolazione governativa; lo stesso Ince ha affermato: “La competizione non è stata equa ma accetto il risultato”. “Nessuno si azzardi a danneggiare la democrazia gettando ombre su questo risultato elettorale per nascondere il proprio fallimento” ha ammonito il leader dell’AKP con riferimento a tali contestazioni.

In alcuni seggi elettorali lo scrutinio si è rivelato complicato, come ad esempio nel sud-est dell’Anatolia e molti osservatori internazionali sono stati fermati dalle autorità; in particolare, una cittadina italiana, Christina Cartafesta, è stata bloccata a Batman, altri tre cittadini italiani sono stati fermati a Diyarbakir (Kurdistan), tre francesi ad Agri e tre tedeschi a Sirnak; essi sono stati prelevati dai vari seggi da parte degli agenti di polizia, condotti nei commissariati e sottoposti a delle indagini.

L’agenzia di stampa turca Anadolu ha riportato che essi si sono presentati come osservatori dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, presenti sul territorio turco al fine di verificare la regolarità delle elezioni, ma hanno tentato di interferire nelle operazioni di voto.

Con la conferma di Erdoğan, si profila un nuovo mandato quinquennale caratterizzato da vastissimi poteri accentrati nella figura presidenziale: secondo la riforma costituzionale, approvata dal Parlamento turco nel gennaio del 2017 e confermata con un referendum del 16 aprile 2017, il Presidente è anche capo dell’esecutivo, incorporando le funzioni proprie del Primo Ministro, come il potere di nomina del governo, dei vicepresidenti, di alti funzionari dello Stato, di 12 dei 15 componenti della Corte Costituzionale, di 6 dei 13 membri del Csm, di diplomatici e di rettori universitari, senza la necessità di ricorrere alla fiducia del Parlamento.

Con tale risultato elettorale, dunque, Erdoğan ha formalizzato il processo di trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale di stampo autoritario.

Il contesto in cui si inserisce il nuovo mandato di Erdoğan risulta essere molto complesso: soprattutto negli ultimi quattro anni le istituzioni statali, le amministrazioni locali, l’esercito, la diplomazia e la giustizia sono stati fortemente provati dalle misure politiche adottate dal Presidente.

In primis, il Sultano ha commesso vari errori economici. Ad oggi gli indici dell’inflazione, dei tassi d’interesse, del rapporto tra il PIL ed il debito pubblico e del disavanzo di bilancio continuano a salire ed al contempo la lira turca sta perdendo valore. La priorità del nuovo governo sarà, dunque, l’economia.

Inoltre, cruciale sarà la politica estera, caratterizzata negli ultimi anni dalle tensioni con l’Iraq, dall’occupazione della Siria, dalla questione del Kurdistan e dalle relazioni sempre più complesse con i Paesi limitrofi ed occidentali.

Rilevante è anche la presenza nel Paese dei profughi siriani ed il numero cospicuo di jihadisti bloccati nel territorio tra Siria e Turchia.

A ciò si aggiungono le tensioni interne, le quali rischiano di degenerare in un conflitto.

La situazione turca così descritta attira l’attenzione dell’Unione Europea ed in particolare, all’indomani di tali elezioni turche, il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas, ha affermato: “La Commissione europea si augura che sotto la presidenza di Erdogan la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come le migrazioni, la sicurezza, la stabilità regionale e la lotta contro il terrorismo”.

 

 

 

 

Vertice Conte – Merkel: collaborazione su più fronti

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Il 18 giugno 2018 a Berlino ha avuto luogo il primo incontro tra il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e la Cancelliera delle Repubblica Federale di Germania, Angela Merkel.

Il vertice ha avuto come tema principale la questione dei migranti, da sempre centrale nella politica nazionale ed internazionale, ma ancor di più nell’ultimo periodo, caratterizzato da posizioni divergenti sia da un punto di vista interno nei governi, sia da un punto di vista esterno negli Stati. Il contesto in cui si è svolto il colloquio tra Giuseppe Conte e Angela Merkel è infatti molto particolare, poiché l’immigrazione è uno degli aspetti più delicati e dibattuti in politica.

Nel governo tedesco è in atto un dibattito politico fra la Merkel e il ministro dell’Interno Seehofer, esponente dell’importante partito della Baviera, il CSU (Unione Cristiano-Sociale in Baviera), che dispone della maggioranza assoluta nello Stato federato conservatore, che si pone come primo Stato tedesco raggiunto dai flussi migratori provenienti da sud. Alla luce di ciò, Seehofer ha presentato un piano al governo tedesco per affrontare la questione dell’immigrazione. In particolare, tra gli altri punti, si richiede di conferire ai Länder il potere di respingere al confine quei rifugiati che hanno la propria domanda registrata in un altro paese europeo di arrivo. La Cancelliera ha preso in considerazione il piano del ministro dell’Interno, ma allo stesso tempo ha posto il veto su quest’ultimo punto, guadagnando maggior tempo per poter negoziare degli accordi con gli altri Stati membri dell’Unione Europea interessati dal fenomeno dell’immigrazione. La Merkel in concreto ha accettato di risolvere entro due settimane con gli Stati europei il problema dell’immigrazione, entro il prossimo vertice di fine giugno.

Anche la questione italiana è altrettanto delicata, ed infatti Conte ha portato all’attenzione della Cancelliera non soltanto la questione dell’immigrazione ma anche altri temi cruciali nella politica italiana di oggi: riforma dei centri di pubblico impiego, disoccupazione, inclusione sociale. Per quanto riguarda il tema migranti, Conte ha ribadito il principio che aveva già espresso a Parigi, secondo cui “chi mette piede in Italia, mette piede in Europa”, ed ha richiesto un cambio di prospettiva all’Unione Europea, ritenuta fondamentale in questa situazione di crisi, alla quale si richiede solidarietà verso l’Italia. Conte sottolinea come anche la Germania sia consapevole del cambiamento che deve avvenire nelle politiche comunitarie in tema di immigrazione, facendo riferimento anche alla crisi di governo tedesca in questo ambito; è necessaria quindi una gestione europea del fenomeno così da garantirne il controllo. La Cancelliera tedesca Merkel si è dimostrata comprensiva nei confronti dell’Italia, affermando di essere disponibile a collaborare in quest’ambito poiché il fenomeno delle migrazioni non riguarda solo l’Italia ma anche la Germania. La Merkel ha condiviso quindi la richiesta del Primo Ministro italiano di solidarietà da parte dell’Unione Europea, il quale ritiene che se l’UE non riesce a cambiare approccio si arriverà alla fine dell’accordo di Schengen, cioè l’insieme delle normeintegrate nel diritto dell’Unione europeavolte a favorire la libera circolazione dei cittadini all’interno dello Spazio Schengene che regolano i rapporti tra gli Stati che hanno siglato la Convenzione di Schengen. Il Premier Conte ha fatto presente che le frontiere italiane sono frontiere europee, sottolineando che l’Italia ha bisogno del sostegno degli altri Stati. La Merkel ha quindi mostrato un’apertura: sulla politica della migrazione si lavorerà a un “pacchetto complessivo”, che comprenda diversi aspetti, quali il rafforzamento delle frontiere esterne, la gestione dei flussi e i movimenti secondari. Inoltre, si vuole potenziare Frontex – l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, il sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dello Spazio Schengen e dell’Unione europea che comprende le autorità nazionali competenti per il controllo delle frontiere (guardia costiera e guardia di frontiera) degli stati membri dell’Unione europea e dello Spazio Schengen e una nuova agenzia– per poi prevedere dei centri di accoglienza dei migranti nei paesi di transito, ma anche delle politiche per la stabilizzazione della Libia che consentano di diminuire i flussi migratori.

Il Presidente del Consiglio italiano ha voluto portare all’attenzione della Cancelliera anche altre questioni cruciali nel governo italiano, che si trova ad affrontare anche problematiche legate alla disoccupazione giovanile e all’inclusione sociale: Conte ha riportato i dati della povertà in Italia, affermando che “lo scorso anno 2,7 milioni di persone, di cui 445 mila bambini sotto i 15 anni, sono state costrette a chiedere aiuto per poter mangiare, contando anche 200mila anziani sopra i 65 anni e circa 100mila persone senza fissa dimora”. L’Europa è quindi essenziale anche sul piano finanziario, e l’Italia esporrà le proprie necessità al prossimo Consiglio europeo, in sede di discussione sul bilancio pluriennale, al fine di orientare i fondi europei verso misure di sostegno a favore dell’inclusione sociale in Italia. Conte ha quindi richiesto una maggiore condivisione dei rischi tra gli Stati membri dell’Unione Europea in ogni campo, non solo quello fondamentale delle migrazioni, ma anche in quello economico e sociale.

La cancelliera Merkel ha riconosciuto i problemi interni italiani dal punto di vista lavorativo e sociale ed anche in questi ambiti si è detta pronta a collaborare con l’Italia, a partire dall’incontro già avvenuto tra i ministri del Lavoro italiano e tedesco. Conte ha infine affermato che “le questioni dell’immigrazione e dell’economia europea sono un’occasione per costruire un’Europa più forte e più equa che possa rispondere ai bisogni primari dei cittadini”.

Minori Stranieri non accompagnati: una valutazione dei minori, di AGIA e UNHCR

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Recentemente è stata diffusa l’anticipazione del rapporto “Minori stranieri non accompagnati: una valutazione partecipata dei bisogni: una relazione sulle visite nei centri emergenziali, di prima e seconda accoglienza in Italia realizzata congiuntamente dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (AGIA), Filomena Albano, e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (UNHCR). Al momento sono 15 i centri coinvolti, 134 i minori incontrati, 21 le nazionalità rappresentate nelle attività di ascolto e 17 anni l’età media dei ragazzi. Le visite proseguiranno fino a fine 2018, dopo di che sarà diffuso il rapporto conclusivo. Nei casi di Minore straniero non accompagnato il “superiore interesse del minore” è una considerazione permanente poiché lo si considera come “il benessere del minore” per circostanze individuali e decisioni assunte sulla base di diritti e bisogni specifici. Questo è un diritto sostanziale in quanto ha diritto che sia valutato, è un principio legale poiché deve essere scelta l’interpretazione più efficace a tutelare il suo interesse e una regola procedurale in quanto ogni decisione deve prima valutare ogni possibile impatto sul minore. Ciò trova la sua logica nell’articolo 12 della convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che inquadra il concetto di partecipazione dei minori e degli adolescenti poiché gli stati contraenti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa tendo conto dell’età e del suo grado di maturità. Questo rappresenta il passaggio fondamentale per cui i bambini e gli adolescenti passano dall’essere “oggetti” a essere “soggetti”, attivi e informati, di diritto. Ciò si esprime attraverso due diritti cardine sanciti dalla convenzione: il diritto del minore di esprimere un’opinione e il diritto di vedere riconosciuto a questa il dovuto peso. Su questi presupposti si basa la ricerca intrapresa da AGIA e UNHCR.

Nell’80% dei 15 centri visitati sono risultate carenti informazioni e orientamento, nel 53% di essi emerge la mancanza di attività di socializzazione, nel 47% delle 15 strutture coinvolte la permanenza in centri di prima accoglienza o emergenziali vanno ben oltre i 30 giorni previsti dalla legge. La problematica più segnalata dagli enti gestori è stata quella dei tempi gravosi per la nomina dei tutori. Ragazzi ed enti insieme hanno tra l’altro fatto rilevare l’impossibilità per i minori stranieri non accompagnati di tesserarsi con la Federazione gioco calcio. Nell’ambito della ricerca sono stati evidenziati i cosiddetti “Protection Gaps”, ovvero fattori di rischio, elementi di vulnerabilità e bisogni di tutela. Tra le problematiche di carattere sistemico vi è la permanenza dei minori nelle strutture di prima accoglienza, anche di carattere temporaneo, oltre i 30 giorni fissati dalla normativa e che si protrae nella maggior parte dei casi sino al compimento della maggiore età, comportando il mancato accesso ai progetti di seconda accoglienza della rete SPRAR, e ai servizi di assistenza e integrazione espressamente previsti per questa categoria di soggetti vulnerabili. In Italia, quasi il 60% dei circa 9.000 minori non accompagnati ospitati nei centri di accoglienza diventeranno maggiorenni nel 2018. La preoccupazione crescente è che, senza opportunità di istruzione o formazione professionale nonché privi di informazioni sui loro diritti e responsabilità, correranno un alto rischio di essere coinvolti in attività illegali e di sfruttamento. A questo si aggiunge l’assenza di procedure definite e omogenee per la Relocation e il Ricongiungimento Familiare ai sensi del regolamento Dublino III dei Minori non accompagnati. La mancanza di informazioni adeguate e credibili comporta il rischio di produrre disorientamento e sfiducia, provocando l’aumento dell’incidenza degli abbandoni volontari dalle strutture. Inoltre, il protrarsi indefinito dell’attesa e nelle incertezze sulle modalità ed esiti delle procedure comporta un ulteriore elemento di frustrazione e angoscia in cui il minore non sa se partirà e in che paese andrà. Ciò non permette al minore, magari, di imparare una lingua per integrarsi nel paese di destinazione. Poi, limitatamente alle strutture di accoglienza temporanea, viene sempre più richiesta la necessità di garantire il regolare svolgimento di attività di informazione e orientamento a misura di minore. A ciò si aggiunge la necessità di garantire percorsi coerenti di integrazione, a partire da una progettualità individuale che consenta l’individuazione dei bisogni specifici e delle risorse e competenze individuali per evitare il disorientamento sul proprio futuro dopo il compimento della maggiore età.

Alle problematiche di carattere sistemico si aggiungono quelle particolari di ogni centro che vedono i minori collocati in strutture destinate agli adulti e in cui non hanno i propri spazi; restrizioni della facoltà di movimento per proteggere le potenziali vittime di tratta; mancate garanzie di condizioni di vita adeguate riguardo alla protezione, al benessere e allo sviluppo sociale del minore o la mancanza del soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze del minore. Si sono registrati casi in cui un minorenne ha dovuto scegliere come spendere i propri 15€: se telefonare la madre o comprare scarpe più adatte all’inverno. Un’altra problematica è legata nell’eccessivo isolamento delle strutture che creano impossibilità nelle attività ricreative e di socializzazione ma anche di difficoltà per poter raggiungere i luoghi di istruzione. Spesso per poter raggiungere un centro abitato occorre percorrere una strada provinciale senza illuminazione o marciapiedi, comportando un enorme rischio alla sicurezza. Quello che sembra risultare è che molte delle problematiche siano legate all’esistenza di una normativa contraddittoria e a problemi infrastrutturali che vedono posti isolati privi di trasporti. Durante la ricerca sono stati gli stessi minori ad avanzare delle proposte come quelle di sostegno all’integrazione personalizzato; incontro con le comunità locali per combattere episodi di razzismo; contatto con famiglie per conoscere la cultura italiana; corsi di italiano; possibilità di socializzare con i coetanei e tutori volontari in grado di attivare un rapporto di conoscenza.

         Nel rapporto si sottolinea la necessità di garantire e promuovere spazi protetti di ascolto per i minorenni che giungono in Italia da soli e che hanno dunque specifiche esigenze di protezione, tanto più se fuggono da conflitti o da persecuzioni. A tribunali e garanti si raccomanda di assicurare informazioni esaustive sulla figura e i compiti dei tutori, dei quali è stata sollecitata ancora una volta la nomina.  Si chiede di chiarire e uniformare su tutto il territorio l’applicazione della procedura di ricongiungimento familiare dei minori non accompagnati ai sensi di Dublino III. La pubblicazione dell’anticipazione vuole sollecitare i responsabili a far in modo che le permanenze nelle varie strutture siano contenute nei tempi strettamente necessari. Altra raccomandazione è quella di attivare le procedure di accertamento dell’età solo qualora ci siano fondati dubbi su di essa e sempre su disposizione della Procura presso il Tribunale per i minorenni. Ai servizi sociali, infine, è stato chiesto di vigilare su chi realizza, a livello locale, gli interventi sociali.

La garante Filomena Albano ha affermato che “l’Autorità̀ garante deve essere il ponte tra la persona di minore età e le istituzioni nell’obiettivo di perseguire il diritto all’uguaglianza. Attraverso l’ascolto istituzionale, si intercettano le richieste e i bisogni, traducendoli in diritti e si individuano le modalità̀ per renderli esigibili, portando le istanze di bambini e ragazzi davanti alle istituzioni”. Felipe Camargo, rappresentante dell’UNHCR per il Sud Europa, ha aggiunto che “l’ascolto delle persone di minore età è indispensabile per far emergere i loro bisogni e le loro opinioni, e quindi, assicurare il rispetto dei loro diritti. Con questa importante iniziativa, vogliamo assicurare a questi bambini e adolescenti in condizioni di particolare vulnerabilità misure di protezione adeguate a soddisfare le loro specifiche esigenze di protezione e sviluppo. In particolare, dalle attività fin ora realizzate con i minori, è emerso con forza, il bisogno di essere supportati nel loro percorso di integrazione, in un contesto di accoglienza che deve essere dignitoso e rispettoso del loro superiore interesse”.

          Il 15 giugno AGIA e UNICEF hanno firmato un Protocollo di intesa, della durata di due anni, per sviluppare azioni congiunte di sostegno ai minorenni migranti e rifugiati in Italia con l’obiettivo di facilitare il processo di potenziamento e le attività di inclusione sociale, partecipazione, promozione dei loro diritti. In questo modo le associazioni si impegnano a collaborare per promuovere e realizzare attività di informazione e sensibilizzazione rivolte ai minori stranieri non accompagnati (MSNA) a proposito dei diritti sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC). La comunicazione farà uso di un linguaggio “a misura di bambino/adolescente”, e sarà proposta in un’ottica di valorizzazione delle diversità culturali attraverso azioni che promuoveranno in modo permanente il confronto, l’ascolto e la partecipazione dei bambini e degli adolescenti in tutte le occasioni e sedi opportune, anche e soprattutto a livello istituzionale. Tramite la sottoscrizione del Protocollo di intesa l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e l’UNICEF si impegnano in particolare a diffondere l’uso della piattaforma digitale U-Report on the Move , già sperimentata da UNICEF in oltre 40 Paesi e sviluppata in Italia per favorire l’ascolto e l’accesso alle informazioni dei giovani migranti e rifugiati (U-Reporters). La piattaforma digitale consente ai giovani che si iscrivono di esprimere la propria opinione, in forma anonima, sulle tematiche per loro più rilevanti. In Italia, il progetto U-Report on the Move è stato lanciato dall’UNICEF nel 2017 a sostegno dei minorenni migranti e rifugiati e conta più di 600 iscritti.

Ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani

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Il 18 giugno il Centro studio Roma 3000 ha tenuto il convegno “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi” ed è stata l’occasione per riflettere con ospiti importanti su ciò che succede e su cosa occorrerebbe fare. Le aree di crisi sono ovunque e di molti tipi. Possiamo pensare ai conflitti armati che si svolgono nel mondo, agli scenari dovuti all’economia e alle crisi economiche o a ciò che succede dopo i disastri ambientali. Il filo conduttore vede disagi, necessità di assistenza, diritti negati che hanno bisogno di tutela per uomini, donne e bambini.

     Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), ha sottolineato che ormai nella nostra società è sempre più importante e inevitabile porre l’attenzione alle relazioni internazionali e ai fenomeni collegati. A ciò si collega la necessità di coinvolgere e rendere partecipe l’opinione pubblica poiché certi fenomeni, come i conflitti che cadono in larga misura nel nord africa e nel Medioriente, assumono carattere di cronicità. Nella maggior parte dei casi vi sono attori che hanno interesse a mantenere il caos in casi come quelli del conflitto arabo-israeliano, quello siriano e quello libico. In questi contesti, come ha evidenziato Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), si aggiungono questioni come la pericolosità per gli operatori umanitari. A riguardo abbiamo scambiato qualche rapida domanda:

EA: ultimamente viene messo in risalto la sicurezza degli operatori sanitari, cosa sta accadendo?

Rosario Valastro: ci troviamo in un periodo in cui veramente sembra che le norme del vivere civile abbiano avuto un’involuzione clamorosa di oltre un secolo e mezzo. Abbiamo delle problematiche di pericolo di tutela degli operatori sanitari dove esistono dei conflitti in questo momento. La Siria è quella che purtroppo va alla ribalta per la quantità dei numeri, abbiamo circa 90 tra volontari e operatori che hanno perso la vita in questi anni. Anni in cui anche l’ONU ha perso il conto di quanti civili sono stati uccisi durante la guerra. Ma quello della Siria, ripeto, è alla ribalta per l’enormità dei numeri ma questo accade anche in Yemen, accade anche altrove e pone un serio problema circa la reale volontà delle parti di tutelare la popolazione civile. Noi sappiamo che la tutela degli operati sanitari, delle strutture sanitarie e del materiale sanitario è funzionale alla cura della popolazione civile e alla cura dei soldati feriti. Per questo le strutture sanitarie di per sé sono riconosciute come neutrali, non sono riconosciute come parti del conflitto e vanno tutelate. Se viene a mancare, come sta venendo a mancare, con gli esempi che ho fatto e con altri che si possono fare, allora anche la guerra diventa qualcosa di non più governabile nei confronti delle popolazioni inermi.

EA: può dirci a cosa può essere legata questa escalation?

Rosario Valastro: certamente c’è una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni. Cioè la guerra, chiunque parli della guerra, ha nel suo immaginario qualcosa che non ha delle regole. In realtà, la guerra ha delle regole che sono state costruite nel corso di questo secolo e mezzo dalle convenzioni di Ginevra in poi. Se questo non è più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, e quindi comunque l’obiettivo è vincere a discapito dei morti che riesco a fare, allora queste escalation producono un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di vittime, quindi morti, ma anche di persone che perdono le case e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. Un aumento esponenziale di vulnerabilità che ben poco ha a che vedere con la guerra. La guerra è, come noi sappiamo, colpisci le zone strategiche del nemico, colpisci i depositi di armamenti, colpisci quartier generali. Non colpisci la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Se tu lo fai, come è stato anche fatto durante alcuni conflitti in Europa negli anni ’90, lo fai con delle idee di genocidio, di pulizia etnica, che sono fuori dall’orbita umanitaria.

 

Nel corso dell’intervento ha poi sottolineato che il diritto internazionale umanitario è nato per garantire l’incolumità di operatori umanitari, civili e feriti di guerra ma ad oggi sembra essere ritornati a quei tempi in cui tutto ciò non era garantito. È messo tutto in discussione e stiamo registrando l’imbarbarimento delle condizioni di vita dei civili nelle zone di guerra. Dobbiamo ricordarci che senza gli operatori umanitari si indeboliscono i civili poiché viene meno il rispetto della vita umana, ovvero la condizione principe per il rispetto del diritto dell’uomo.

Grazie all’intervento di padre Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia) è stato possibile approfondire la questione e affrontare il tema delle migrazioni di cui noi assistiamo solo il fenomeno più visibile, quello degli sbarchi. Il tema degli sbarchi è un tema divisivo della politica e dei rapporti tra stati e all’interno degli stati. È un tema che richiama la necessità di adeguate misure di accoglienza per persone che altrimenti rimangono senza futuro, senza storia e senza la possibilità di dare un futuro ai propri figli. A questo proposito abbiamo potuto chiedere un commento sui recenti fatti dell’Aquarius:

EA: può dirci, secondo lei, cosa può significare quello che è successo con la nave Aquarius?

Padre Mussie Zerai: La settimana appena trascorsa, il fatto che l’Aquarius con tutto il suo carico umano è stata respinta, non è un segnale positivo. Non era il modo di gestire o di fare un braccio di ferro con l’unione europea o con malta per arrivare a una soluzione perché usare persone già provate dal viaggio, persone in cerca di protezione e di sicurezza, usate come “armi di ricatto” verso l’Europa non è il modo di fare politica, non è il modo gestire le cose umanamente e civilmente. Io spero che sia una forma provocatoria e isolata che però al tavolo dell’unione europea alla fine mese, in cui i vari paesi o ministri che si incontreranno, troveranno una soluzione complessiva e basata soprattutto sulla solidarietà e non sulle chiusure ed esternalizzazione delle frontiere o su tentativi di scaricare il peso su paesi già fragili sia economicamente che politicamente. Perché scaricare tutto sui paesi del nord africa o dell’africa subsahariana, pesa in tutti i sensi perché quei paesi sono già democraticamente fragili e alcuni addirittura non garantiscono il minimo standard del rispetto dei diritti umani. Vuol dire consegnare queste persone nelle mani di chi violerà questi diritti. Abbiamo visto anche gli accordi fatti con la Libia e i Lager che ci sono nella Libia, sono la chiara testimonianza.

EA: Tramite questa criminalizzazione delle ong e con questo gioco di forza su associazioni che non rappresentano un governo, viene messo in dubbio quel principio di sussidiarietà del privato, ovvero viene messa in discussione anche la nostra capacità di portare il nostro contributo li dove lo stato non riesce o non aiuta dove mette in difficoltà le stesse associazioni?

Padre Mussie Zerai: questo è il tentativo di scaricare le proprie responsabilità perché le ong sono intervenute li dove gli stati hanno lasciato un vuoto. Dopo la chiusura di mare nostrum, si è creato un vuoto da colmare perché la gente continuava a morire. Ecco, la società civile, anche con la presenza delle ong, è venuta in soccorso. Anche tramite l’aiuto delle ong che hanno soccorso, l’Italia, oltre che ha potuto continuare a salvare le vite umane, ha anche risparmiato un miliardo di euro che altrimenti avrebbe dovuto spendere per sforzarsi a salvare vite umane se non si vuole lasciar morire queste persone. Quindi sia sull’aspetto morale etico e civile ma anche sull’aspetto economico, la presenza delle ong per l’Italia e l’Europa è stato di grande aiuto. Criminalizzarli vuol dire scaricare su di loro le proprie responsabilità. Bisognerebbe chiedere agli stati perché hanno lasciato quel vuoto, perché nessun altro programma simile al mare nostrum è subentrato a fare quel lavoro che mare nostrum faceva. Ricordiamo che mare nostrum è nato dopo due grandi tragedie successe a distanza di una settimana nel 2013, il 3 ottobre e successivamente l’11 di ottobre. Che cosa si doveva continuare a vedere? Si voleva continuare a raccogliere cadaveri? Non è quello status che l’Unione Europea, la sua fondazione e i suoi valori  gridati corrispondevano a quella realtà che stavamo assistendo per cui il mediterraneo è diventato un cimitero a cielo aperto e quindi le ong hanno salvato la faccia e l’onore di tutta l’Europa. Criminalizzarli significa essere responsabili.

Padre Mussie Zerai ha poi sottolineato che il diritto dei deboli è di fatto un diritto debole perché non viene rispettato tanto che oggi parliamo di dover tutelare le leggi e le convenzioni. 27 anni fa padre Mussie è arrivato come minore non accompagnato e venne affidato al comune di Roma ma ricevette aiuti non previsti dalla legge. Ad oggi molti minori scappano dai centri perché si sentono in gabbia e non vedono una prospettiva per il proprio futuro, in molti spariscono e non si sa che fine fanno. È quello che succede a chi arriva per mare nei casi di respingimento, soprattutto nei casi di respingimento in Libia dove non sono assicurati i diritti umano e dove le persone (soprattutto chi migra) possono essere soggette a trattamenti inumani e degradanti. A ciò si aggiunge che la corte internazionale dovrebbe pronunciarsi dato che l’ONU ha recentemente condannato uno di quei comandanti con cui ci si sono fatti accordi per contenere i flussi migratori. È una di quelle persone che di giorno indossano la divisa e di notte lavorano con e come trafficanti. È un fenomeno che per poter essere risolto ha bisogno di prevenzione e lavoro costante nel lungo termine. L’Eritrea è l’esempio che anche la dittatura crea dei rifugiati. Una dittatura che usa la presenza di un vicino scomodo come giustificazione per costringere i giovani a una leva obbligatoria indeterminata che non dà futuro. In Eritrea non vi è una costituzione che tutela i cittadini, non vi è una stampa libera, non vi è libertà di movimento o libertà religiosa. Tutto questo produce una fuga di massa verso il paese più vicino ma spesso trovano condizioni peggiori e, non potendo tornare a casa, proseguono il viaggio. Una delle poche soluzioni perseguibili è quello di risolvere, certamente nel lungo termine, i conflitti ma spesso vi è un’immobilità politica. Per esempio, l’Etiopia ha comunicato di voler fare pace con l’Eritrea ma l’Italia, che è tra i garanti per la pace di Algeri, non ha fatto alcuna mossa. Se si facesse questa pace cadrebbe ogni alibi del regime e finirebbe l’esodo di giovani e giovanissimi che scappano prima che scatti l’obbligo della leva. Ultimamente si parla di istituire degli Hotspot dell’Unione Europea in Africa, campi di identificazione, ma non si tiene conto che ci sono tanti campi rifugiati che hanno un problema di sicurezza. Anzi, gli stessi campi sono il centro del traffico degli esseri umani come accade tra il Sudan e il Sinai: il campo era sotto gestione dell’UNHCR ma i militari sudanesi, addetti alla sicurezza, erano pagati dai trafficanti. I militari la notte facevano entrare i trafficanti che sceglievano le persone da vendere o a cui togliere gli organi per il traffico di organi. Le prove si hanno grazie al lavoro di BBC e CNN che ha documentato il ritrovamento dei corpi abbandonati nel deserto e che, dopo un’attenta autopsia, riportavano l’estrazione di organi.

L’Africa non ha bisogno di aiuto in denaro, è ricco di risorse già di suo, ma serve aiuto per trasformare la ricchezza in democrazia e diritti. L’Africa perde 190 miliardi in risorse naturali e umane ogni anno e ne riceve 30 dai donatori. Il vero peso delle migrazioni è quindi nei paesi di partenza poiché il costo del viaggio può essere sostenuto solo da pochi. Per esempio, in Etiopia un visto per l’Italia costa 10.000 dollari, un visto Schengen costa 15.000 dollari, mentre la tratta che fanno milioni di persone per arrivare da noi costa 5.000 dollari. Occorre che quei 190 miliardi siano trasformati in dignità, diritti e futuro. Occorre, poi, ricordare che la guerra in Libia non è stata una guerra libica ma una guerra tra stati dell’Europa, i libici sono stati sotto Gheddafi per 42 anni. Lo stesso vale per la guerra in Sud Sudan in cui combatte chi ha investito nelle pipeline per portarle nel Mar Rosso o nel Mar Indiano. Ciò che va sottolineato è che nessuno paese africano produce armi e che queste vengono comprate da paesi come la Russia, la Germania, la Cina, gli Stati Uniti e dalla stessa Italia (solo per citarne alcuni) e che andrebbe vietata la vendita di armi in queste zone.

     Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia) ha portato sul piatto della discussione anche i conflitti che sono ancora aperti nella nostra Europa e di cui si parla troppo poco come quello in Ucraina e nella regione del Donbass (a riguardo il Centro Studi Roma 3000 ha tenuto un convegno a novembre). L’ambasciatore spera che quella che viene chiamata “guerra silenziosa” non diventi la “guerra dimenticata” poiché sono state riscontrate gravi violazioni di diritti umani nella penisola della Crimea dove avvengono sistematiche restrizioni alle libertà di espressione, di credo, di riunione e di partecipazione. In questo senso vi è un’impossibilità di avere un’educazione o una formazione nella propria lingua (tataro o ucraino), vi è la chiusura dei mezzi di informazione e vi sono 64 cittadini prigionieri politici tra tatari e registi e scrittori ucraini che dal 2014 sono in condizioni paragonabili ai Gulag sovietici. Oltre a questo vi è il reclutamento di giovani ucraini da parte dei russi. Il 14 giugno il parlamento europeo ha votato una risoluzione per cui chiede il rispetto dei principi democratici e la libertà per Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia.

In tutti queste problematiche vi sono anche i bambini, come l’intervento di Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”) ha sottolineato. Un miliardo e 500 mila bambini ad oggi non hanno una protezione, cioè più della metà dei bambini al mondo, e 357 milioni di bambini vivono in aree di conflitto (1 bambino su 6), ciò rappresenta un aumento del 75% dagli anni Novanta. Queste guerre lunghe e croniche colpiscono i bambini e spesso vengono colpiti volontariamente per tattica. Colpire loro vuol dire colpire l’infanzia, le famiglie, la comunità e il futuro. Le guerre vedono concentrare i propri obiettivi sulle scuole e gli ospedali, quelli che una volta erano i luoghi sacri di protezione e assistenza a civili e ai feriti. La relatrice recentemente è stata nel campo profughi di “Zaatari” dove si sono rifugiati i bambini o dove sono nati. Solo in questo campo nascono 80 bambini a settimana e la permanenza media è di 15 anni. Le persone che vi ci sono rifugiate all’inizio pensavano di tornare in Siria in breve tempo, poi sono state prese dallo sconforto e infine hanno sviluppato la resilienza. I genitori intervistati nei campi pensano che dare un’educazione ai bambini è un’arma per poter tornare a casa, in Siria, dove il sistema scolastico e quello sanitario è collassato completamente. In questo senso è importante lavorare anche dopo la guerra dato che deve essere stimolata e assistita la resilienza delle persone in modo da poter avere un futuro e una prospettiva.

Nei contesti di crisi, come evidenziato da Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”) nel suo intervento, può essere importante l’apporto delle aziende. In questo senso è importante l’aspetto privatistico che emerge nel rapporto “datore di lavoro – lavoratore”: i datori di lavoro, ancora prima del rapporto stesso, non devono avere una condotta discriminatoria verso le persone per etnia, religione o orientamento sessuale. Tutto ciò rientra anche a livello internazionale tramite l’impegno dell’ILO nel dettare linee guida per le aziende come quella che riguarda la tutela e la libertà di associazione e sindacati in quanto necessari per tutelare i propri diritti. Nelle linee guida vengono prese in considerazioni tematiche quali il lavoro minorile e le categorie vulnerabili come migranti, donne incinte o donne di ritorno dalla maternità. Inoltre, è importante l’aspetto pubblicistico rappresentato dal rapporto “Azienda – Stato”. In questo senso deve esserci una responsabilità sociale delle imprese che da una parte, tramite l’esportazione di lavoro all’estero, hanno opportunità di business e dall’altra possono portare forme di sviluppo economico per quei paesi in via di sviluppo o in crisi. L’apporto di imprese rispettose dei diritti umani è importante per evitare quei fenomeni che vanno dal disastro del Rana Plaza ai campi di Rosarno, in cui lo sfruttamento e la violazione dei diritti umani viene fatta in nome del profitto. Oltre a questi aspetti le imprese che lavorano in aree di crisi, magari essendo imprese di ricostruzione edile o di ristorazione, possono apportare il proprio sostegno alle varie Ong.

In Afghanistan sono morti 10.000 civili, in Yemen 50.000, in Siria non ci sono dati ufficiali dell’ONU ma la Croce Rossa Italiana conta la morte di 70 operatori umanitari, nel 2017 Save the Children ha perso 4 persone in un attacco kamikaze nel centro operativo in Afghanistan, in Donbass negli ultimi 3 anni si contano più di 10.000 vittime e di 1 milione e 700 mila persone spostane nel proprio paese. A questi numeri si aggiungono quelli che vedono la nascita, solo quest’anno, di 18.000 bambini nei campi profughi e nelle pessime condizioni dei campi. Questi sono numeri ma i vari interventi hanno trovato un punto fondamentale di incontro, dietro a questi numeri ci sono le storie di persone, di uomini, di donne, di bambini e di famiglie. Dall’incontro esce la volontà di voler parlare innanzitutto delle persone e delle vite delle persone e si ricorda che l’assistenza ai più deboli è richiesta degli stessi pilastri dell’unione europea e della nostra cultura. Questi pilastri ci impongono di aiutare chi è in difficoltà, di mettere le persone al centro del dibattito, di mettere il singolo con la propria storia di fronte all’enormità del numero e di mettere al centro le persone e non il profitto. Parlare di persone nei vari casi dibattuti ci permette di lottare la disumanizzazione che spesso viene fatta anche involontariamente e di tutelare il diritto dei più deboli per renderlo il diritto più forte perché spesso si fa abuso della parola sicurezza ma sono i più vulnerabili ad averne bisogno. Occorre ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani e rispettare la vita, perché tutte le vittime che abbiamo ricordato sono vittime della mancanza di rispetto alla vita.

 

Durante il convegno sono intervenuti: Alessandro Conte (presidente Centro Studi Roma 3000), Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”), Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia), Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia), Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”).

 

Coordinate per l’estate: il Caso Aquarius

EUROPA/POLITICA di

Era una notte buia in cui, da una parte, era difficile distinguere dove fosse il mare e dove iniziasse il cielo notturno, e, dall’altra, il sole si stava preparando ad albeggiare. In questi frangenti un rimorchiatore si adopera per il soccorso di due gommoni ma la situazione si fa critica non appena una delle due imbarcazioni si distrugge, facendo cadere 40 persone in acqua. Alla fine, sono 229 le persone recuperate, delle luci rosse illuminano le facce dei sopravvissuti: c’è chi festeggia, chi sa o pensa che non è ancora finita, c’è chi bacia i bambini e cerca di dargli il proprio affetto. Queste sono state le persone che l’Aquarius ha salvato il 10 giugno e a queste si aggiungono le 400 persone soccorse dalla Marina Militare Italiana, dalla Guardia Costiera e da navi mercantili. È una notte intensa, in totale vengono raccolte 629 persone: tra loro 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte, soccorse attraverso 6 diverse operazioni. Il ministro degli interni, con l’aumento delle partenze nei giorni precedenti, aveva dichiarato che avrebbe impedito alle Organizzazioni Non Governative (ong) che operano nel mediterraneo di continuare a svolgere il loro “ruolo di taxi del mare”. A questa dichiarazione segue una lettera urgente al governo di Malta, con cui si dichiarano chiusi i porti italiani e si dice che il porto di “Valletta” (capitale maltese) è il più sicuro. Malta risponde che però non è sua competenza in quanto il soccorso è avvenuto nella Search and Rescue area (la SAR) libica con il coordinamento del centro di Roma. Per Malta devono sbarcare in Libia, in Tunisia o in Italia per una questione di principio: la necessità che vengano rispettate le regole. Il ministro degli Interni italiano dichiara che questa è “un Italia che comincia a dire no, al traffico di esseri umani, al business dell’immigrazione clandestina e che l’obiettivo è quella di garantire una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia”. Aggiunge che nel mediterraneo ci sono navi con bandiera olandese, spagnola, britannica o di Gibilterra, che ci sono Ong tedesche e spagnole, che c’è Malta che non accoglie, che c’è la Francia che respinge alla frontiera e una Spagna che difende i confini con le armi. Intanto si procede verso Nord in attesa dell’assegnazione di un porto sicuro. Cala la sera e arrivano le istruzioni dal coordinamento della Guardia Costiera italiana di rimanere in Standby a 35 miglia Nautiche dall’Italia e 27 da Malta.

     Questa è un primo riassunto di ciò che è successo il primo giorno del “Caso Aquarius”, il seguente vede le persone a bordo unite nella preghiera mattutina ancora ignari dello stallo diplomatico, donne incinte, persone con gravi ustioni chimiche, medici che lavorano a pieno regime per garantire le cure a tutti, diversi pazienti con sindrome di annegamento e ipotermia, nonché paura per le scorte che scarseggiano. Passa il tempo e, tra le dichiarazioni del primo ministro Spagnolo acquisite dai media all’interno della nave e per mancanza di ufficialità da parte del MRCC italiano, arriva il momento di avvisare le persone a bordo. Gli operatori mostrano sulla cartina dove sono fermi e riportano della chiusura dei porti. Crescono ansia e disperazione a bordo, c’è chi minaccia di buttarsi in mare per paura del rimpatrio in Libia. Nel frattempo, in Italia, Il ministro degli Interni tiene una conferenza stampa dove dichiara di voler creare un fronte di discussione in cui ci deve essere il primo segnale per non sostenere il peso, si esprime la disponibilità di trasbordare donne e bambini che si trovano a bordo e che si vuole gestire la situazione, in futuro, salvando le persone prima delle partenze. Durante la conferenza stampa sottolinea di voler operare sui costi dei “finti profughi” dichiarando che solo 6 su 100 sono rifugiati politici e che altri 4 su 100 sono possibili titolari di protezione sussidiaria. Il discorso continua dicendo che il costo è di 35€ cada uno e che deve scendere alla media europea, dichiarando, anche, che vuole “vedere se con meno soldi queste associazioni saranno ancora così generose”. Il ministro degli interni vuole lavorare anche sui tempi poiché dallo sbarco fino al termine della procedura di accertamento della domanda passano 3 anni e di voler lavorare su tutte quelle forme che definisce tutte italiane per garantire “ai rifugiati veri assistenza e che sono vittime degli sprechi di denaro”.

Commentando la situazione, Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia, ha dichiarato: “I bambini e gli adolescenti e le persone più vulnerabili che sono a bordo della nave Aquarius di SOS Mediterranée non possono rimanere vittime di una disputa tra stati. Le condizioni di sofferenza, privazioni e paura che hanno certamente vissuto in Libia e durante nel viaggio non possono essere ingiustamente prolungate. È necessario e urgente garantire loro un approdo sicuro senza ulteriori indugi. Le dispute tra stati vanno risolte in sede diplomatica senza prendere in ostaggio donne e bambini”.

Elisa De Pieri, ricercatrice di Amnesty International sull’Italia, ha così commentato la situazione: “Chiudendo i loro porti, Italia e Malta non solo stanno voltando le spalle a oltre 600 persone disperate e in condizioni vulnerabili, ma stanno anche violando i loro obblighi di diritto internazionale. Gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell’Aquarius hanno rischiato la vita in viaggi pericolosi per fuggire dalle terribili violenze in suolo libico solo per finire in mezzo a un’inconcepibile disputa tra due stati europei. Tenere le navi delle organizzazioni non governative ferme in mare in attesa di un porto dove approdare significa solo che meno navi di soccorso sono operative per aiutare chi può trovarsi in difficoltà proprio in questo momento. Italia e Malta devono aprire i loro porti e gli altri stati dell’Unione europea devono condividere la responsabilità di offrire protezione, soccorso e procedure d’asilo”.

     Si avvicina di nuovo la sera, la situazione è statica e, nel frattempo, la nave Diciotti della marina militare italiana con 937 migranti si dirige verso Catania. Solo nella giornata successiva, dopo i rifornimenti ad opera delle autorità italiane, si ha una decisione e si procede per spostare alcune persone sulle navi italiane per formare una carovana verso la spagna. Il viaggio, come sappiamo, ha visto delle difficoltà legate alle condizioni del mare e si è concluso domenica a Valencia. La storia ha visto inoltre delle tensioni tra Francia e Italia (con Macron che ha definito “vomitevole” la decisione dell’Italia) e, come sembra, la volontà della Francia di prendere parte dei migranti attraccati in spagna. Qui, in ogni caso, si può leggere il resoconto presentato da Salvini al senato.

Il flusso migratorio

     Le decisioni di Italia e Malta, ma anche quella Spagnola, di certo non modificano le basi geopolitiche dei flussi migratori. Occorre, innanzitutto, riconoscere che non si tratta di “un’emergenza” poiché è una “realtà strutturale”, di cui gli sbarchi rappresentano solo la parte più visibile, e che si tratta di un flusso alimentato dalle condizioni avverse nei paesi di origine e non dalle ong. Gli esempi non parlano solo di guerra ma anche di profonde crisi umanitarie o di violazioni di diritti umani. Per esempio, in Eritrea è in vigore l’obbligo di prestare servizio militare a tempo indeterminato. Questo fenomeno continua nonostante i richiami da parte della comunità internazionale a limitare il periodo a 18 mesi e a non sottoporre i minori all’addestramento militare, che spesso avviene in campi militari in condizioni gravi e dove le donne subiscono forme di trattamento come la riduzione in schiavitù sessuale o la tortura. Altro caso può essere la Somalia che, oltre alle problematiche politiche, vede un flusso migratorio dovuto al cambiamento climatico, questo dovuto ad alluvioni e siccità che causano carestie ed epidemie. Ma anche fenomeni di terrorismo come quelli in Nigeria ad opera del gruppo armato di Boko Haram, o fenomeni che vedono esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e tortura dei detenuti. Va sottolineato, poi, che per sostenere i paesi di origine attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

     Per il momento, quindi, l’azione si è concentrata prevalentemente sugli accordi bilaterali o comunitari con stati o attori politici extraeuropei (come quello con la Turchia) che possono solo contenere le partenze o facilitare i rimpatri ma sono, inoltre, sempre a rischio rinegoziazione. Rischio che sembra concretizzarsi nel momento in cui, in coincidenza dell’entrata del nuovo governo Italiano, vi è un picco delle partenze dalla Libia, dove sembrerebbe siano ridotti i controlli e dove dovrebbe dirigersi il ministro degli interni italiano a fine giugno, come da lui stesso annunciato. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea, tra cui l’Italia, hanno attuato una serie di misure per sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e il mar Mediterraneo rafforzando la capacità della Guardia costiera libica di intercettare migranti e rifugiati e riportarli in Libia. L’Italia e altri stati dell’Unione europea hanno fornito alla Guardia costiera libica vario supporto, tra cui almeno quattro motovedette e la formazione del personale. All’inizio del 2018 la Guardia costiera italiana ha iniziato a trasferire a quella libica il coordinamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali vicine alla Libia: ciò è stato reso possibile solo dalla collaborazione delle navi e del personale in Libia della Marina italiana. Solo nell’aprile 2018, la Guardia costiera libica ha intercettato e riportato in Libia 1485 migranti e rifugiati, portando a 5000 (secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) il totale delle persone intercettate nei primi quattro mesi dell’anno. I migranti e i rifugiati intercettati vengono trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale. Questi centri sono tristemente noti per il carattere arbitrario e indeterminato della detenzione e, anche qui, per le violazioni dei diritti umani. I migranti e i rifugiati intervistati dai ricercatori di Amnesty International hanno denunciato terribili violenze tra cui torture, lavori forzati, estorsioni e uccisioni illegali da parte di funzionari libici, trafficanti e gruppi armati. Amnesty International ha denunciato queste pratiche e ha accusato i governi europei di essere complici fornendo attivo sostegno alle autorità libiche negli intercettamenti e nei trasferimenti nei centri di detenzione.

     A ciò si aggiunge che già nel 2012 l’Italia ha avuto la condanna definitiva dalla corte europea dei diritti dell’Uomo per la doppia violazione dell’articolo 3 della CEDU, per la violazione dell’articolo 4 del protocollo 4 della CEDU e per la violazione dell’articolo 13 della CEDU. Le violazioni riguardavano il fatto di aver esposto i ricorrenti al rischio di trattamenti inumani e degradanti in Libia, di averli esposti al rinvio nei paesi di origine per cui è stato ricordato il principio Refoulement indiretto (in caso di espulsione lo stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo stato verso cui rinvia offra garanzie sul fatto che non persegua trattamenti proibiti), perr aver impedito l’esame delle condizioni particolari dei ricorrenti e per non aver garantito l’acceso a un rimedio interno per fare ricorso al respingimento.  Si trattava del Caso Hirsi jamaa e altri c. Italia: era il maggio 2009 quando circa 200 persone su 3 barche dirette in Italia sono state intercettate dalle motovedette italiane nella zona SAR Maltese. Queste sono state trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia in conformità degli accordi Bilaterali con la Libia dell’allora Governo Berlusconi.

     In relazione alle azioni dell’ex ministro degli Interni Minniti, molte associazioni hanno sottolineato che queste mosse hanno portato alla contrazione dei flussi migratori a fronte dell’aumento della percentuale di morti o dispersi in mare. A maggio Save the Children ha reso noto che nel primo trimestre del 2018 vi è stato un ulteriore contrazione del flusso migratorio a partire da luglio 2017. I dati ufficiali del ministero dell’interno in questo periodo contavano 6296 sbarchi con una variazione negativa del -55% rispetto al trimestre precedente. L’organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) a maggio ha dichiarato che erano stati 383 i migranti morti nella rotta del Mediterraneo Centrale nei primi 4 mesi del 2018. Alla mattina del 7 maggio, il numero totale di migranti arrivati in Italia dall’inizio dell’anno è stato di 9567, un calo di circa il 76 % rispetto agli arrivi dello stesso periodo dell’anno scorso, quando i migranti soccorsi e arrivati in Italia furono 41165. Nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Inoltre, l’OIM nota come nel periodo di riferimento vi siano state anche le operazioni di soccorso realizzate dalla guardia Costiera libica: 4964 a fine aprile 2018. Ossia su ogni tre migranti che partono dalla Libia, uno è soccorso dalla guardia costiera libica e riportato indietro.

Il problema della SAR

     Secondo la conferenza dell’international Maritime Organization (IMO) del 1997 il mediterraneo è stato suddiviso in aree di responsabilità in cui l’area Italiana prevede 1/5 del mediterraneo, a cui si aggiunge la Convenzione di Amburgo del 1971 che prevede l’obbligo di istituire il servizio SAR (Search and Rescue) nelle aree di responsabilità. Oggi i salvataggi vengono spesso effettuati a ridosso delle acque territoriali libiche, dunque nella zona SAR della Libia. Essendo evidente che la Libia non possa essere considerata “luogo sicuro”, e con Malta che si tira indietro giustificandosi con l’impossibilità di accogliere nuovi migranti viste le dimensioni dell’isola (su cui abitano poco più di 430.000 persone), la responsabilità ricade sulle autorità italiane. Occorre ricordare che il nuovo attivismo della guardia libica è dovuto al memorandum di intesa di Minniti e che la Libia ha dichiarato la propria SAR ma non è ancora ufficialmente riconosciuta, anche se ha ratificato la convenzione. Quindi, ancora secondo la Convenzione di Amburgo, lo stato che Coordina le operazioni di soccorso deve stabilire il cosiddetto “Porto sicuro”. Il Place of safety è da intendersi come il luogo dove vengono fornite le garanzie fondamentali quali l’assistenza sanitaria e la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale. L’UNHCR ha spinto per una definizione di luogo sicuro anche come “geograficamente più vicino”, ma non sempre il luogo sicuro è lo Stato costiero più vicino al luogo ove avvengono le operazioni di soccorso. Non sono infatti considerati “sicuri” porti di paesi dove si possa essere perseguitati per ragioni politiche, etniche o di religione, o essere esposti a minacce alla propria vita e libertà. Al momento, però, l’assenza di una chiara definizione vincolante di luogo sicuro, e di un accordo su quali stati lo siano, crea incertezza anche rispetto alla recente posizione assunta dall’Italia.

In ogni caso, l’MRCC di Roma non può lasciare morire le persone in mare, salvare la vita in mare è un obbligo sia per il diritto del mare, per esempio con la Convenzione di Montego Bay, che per la costituzione Italiana. Nell’Articolo 2 della costituzione italiana si sancisce la solidarietà come dovere inderogabile in quanto “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Mentre all’articolo 98 della convenzione di Montego Bay si sancisce il dovere di ogni stato di esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e a procedere quanto più velocemente è possibile al soccorso. Inoltre, l’omissione di soccorso è un reato ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione. Ciò obbligherebbe in ogni caso le navi a prestare soccorso. Il contenzioso tra Italia e Malta ha visto l’Italia dire che lo sbarco non deve necessariamente avvenire nel paese che si è preso in carico del coordinamento e che si può stabilire anche un porto di diversa nazionalità, mentre la posizione di Malta è che lo sbarco è di totale competenza di chi si è preso in carico del coordinamento. In generale, Il singolo stato ha la facoltà di esercitare la propria sovranità chiudendo i porti, però tale facoltà non vale in caso di trasferimento di persone in pericolo o che hanno bisogno di cure urgenti. In caso di pericolo, giuridicamente, si andrebbe incontro alla violazione delle convenzioni sui diritti umani, la convenzione di Ginevra e la CEDU. Quindi la chiusura dei porti comporterebbe la violazione di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati, a partire dal principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Il rifiuto di accesso ai porti di imbarcazioni che abbiano effettuato il soccorso in mare può comportare la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) (proteggere la vita e garantire l’integrità fisica e morale), qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, nonché di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali), e tali bisogni non possano essere soddisfatti per effetto del concreto modo di operare del rifiuto stesso. Mentre il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’articolo 4 del Protocollo 4 alla CEDU. Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica.

Protezione internazionale, protezione umanitaria e migranti economici

     Il ministro degli interni, in conferenza stampa, ha dichiarato che quelli che hanno diritto allo status di rifugiato sono solo una minima parte. Secondo i Dati del ministero dell’interno che riguardano le decisioni dei richiedenti asilo nell’anno di riferimento del 2017 vedono l’8% meritevoli dello status di rifugiato, l’8% dello status di Protezione sussidiaria, il 25% del permesso per protezione umanitaria e il diniego nel 58% dei casi totali esaminati (81527 domande esaminate, indipendentemente dalla data di richiesta di Asilo). Occorre qui specificare che solamente per quanto riguarda i meritevoli di protezione internazionale (Rifugiato e Protezione sussidiaria) la quota sarebbe già del 16%, mentre aggiungendo anche la protezione umanitaria (quella che Salvini definisce come forma “tutta italiana”) si sale a un consistente 41%. Occorre tenere in conto che questi dati sono relativi solo alle domande esaminate durante l’anno e che per lungaggini burocratiche possono essere presentanti molto tempo addietro. Occorre poi specificare che per la determinazione dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria o di protezione umanitaria esiste un’unica procedura e che lo status viene determinato solo alla fine. Inoltre, per quanto riguarda la dinamica dello sbarco e dei respingimenti, è impossibile distinguere a priori tra chi è un possibile detentore di queste forme di protezione dai migranti economici: resta pur sempre, a livello di normativa internazionale, il diritto all’esame della propria domanda e il diritto al ricorso in caso di diniego. All’articolo 1 della convenzione di Ginevra per “Rifugiato” si intende il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato (per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica) si trova fuori dal territorio dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale paese, oppure si intende un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o non vuole farvi ritorno. Occorre specificare che lo status di rifugiato non è strettamente correlato alla guerra, bensì alla persecuzione (anche se un’evoluzione recente della giurisprudenza tende a specificare che in contesti di violenza generalizzata i casi di persecuzione possono aumentare) riguardo individui o gruppi. Simile è la “Persona ammissibile alla protezione sussidiaria” per cui si intende il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel paese di origine o, nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva la precedente dimora abituale, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno. Tipologia prevista dal nostro ordinamento è la “protezione umanitaria” quando ricorrono “gravi motivi umanitari”. Questa subentra quando Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non possono essere adottati se ricorrono “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionale dello stato italiano”.  Per casi umanitari si intendono le condizioni di salute, familiari o di età, le pene sproporzionate per la retinenza alla leva e la diserzione o la punizione per la fuga del paese, ma anche carestie o epidemie. Occorre specificare che questo non è uno status ma un’autorizzazione al permesso di soggiorno valida due anni (a differenza dei cinque anni previsti dagli status di protezione internazionale) e che prevede molti meno diritti rispetto alla protezione internazionale. Quindi la protezione umanitaria non è una tutela prevista per i migranti economici, i quali vengono diniegati. Occorre poi dire che la determinazione dello status ha delle problematiche intrinseche alla natura delle persone esaminate. Per esempio, le persone esaminate possono essere state vittime di tortura o possono essere dei minori, per cui, soprattutto per quanto riguarda a persone con disturbi da stress post traumatico, è possibile che si venga diniegati ingiustamente (in quanto il racconto potrebbe essere soggetto a incoerenze o a buchi di memoria) e che si riceva una delle tre forme dopo il ricorso e un esame più attento.

     Ad oggi il resto dell’Unione europea non sta offrendo una azione di aiuto concreta e una soluzione al fenomeno in quanto non vi è una chiara e condivisa idea di come superare il regolamento di Dublino III. Elemento forte nella decisione di chiudere i porti consisterebbe il problema legato al criterio di primo ingresso. Il regolamento Dublino nasce per introdurre i criteri e i meccanismi di determinazione dello stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Per cui la paura secondo cui, per alcune retoriche, in Italia rimarrebbero comunque tutti gli immigrati economici è falsa dato che lo status viene deciso solo al termine della procedura e dato che il sistema Dublino decide lo stato che si prende in carico della procedura.  Ma come funziona in pratica il regolamento Dublino? Per prima cosa lo stato membro delega ad un ufficio specifico l’applicazione del regolamento e la trattazione dei casi; poi gli uffici si scambiano informazioni per applicare i criteri base per stabilire lo stato competente; infine si individua lo stato che “prende in carico” il richiedente e, in caso, si procede al trasferimento. Per procedere al trasferimento in un altro stato devono sussistere i cosiddetti motivi umanitari legati al “Ricongiungimento familiare” oppure vi può essere l’esercizio della clausola di sovranità, per cui lo stato decide autonomamente la presa in carico. Altrimenti il paese responsabile è il paese di prima accoglienza. Date le logiche geografiche i paesi sotto pressione sono i paesi del mediterraneo, dopo i picchi migratori del 2015-2016 ci si è mossi per ripensare il sistema Dublino e nel frattempo si è cercato di inserire un meccanismo di ricollocamento. L’impegno preso nel 2015 dall’Ue con l’Italia era quello di ricollocare circa 35.000 richiedenti asilo verso altri Stati membri entro settembre 2017. Al 27 giugno 2017, dunque a pochi mesi dalla fine del programma di ricollocamento, dall’Italia erano stati tuttavia ricollocati solo 7.277 richiedenti asilo (soprattutto verso Germania, Norvegia e Finlandia). Ma anche se l’Unione europea avesse mantenuto totalmente l’impegno sui ricollocamenti, avrebbe alleggerito l’Italia solo per il 10% del totale delle richieste d’asilo dal 2013 a oggi (circa 345.000). Il meccanismo è nato per poter rimediare alle storture prodotte dal regolamento Dublino ma da una parte l’Europa ha lasciato molto in mano all’Italia (con i paesi del gruppo di Visegràd che neanche si sono interessati), dall’altra non ha funzionato anche per colpa dell’Italia. Il nostro paese non è stato in grado di garantire tempistiche e logistica e non è stato in grado di controllare coloro che vengono respinti dalla richiesta di protezione.

In data 4 maggio 2016, la Commissione europea ha presentato la propria proposta per il nuovo Regolamento Dublino, che conteneva alcune novità ma al tempo stesso presentava numerose criticità.  La proposta della commissione prevedeva un miglioramento della definizione di famigliare, l’insistenza sul criterio di primo ingresso (anche irregolare), il filtro pre-dublino che il primo stato d’ingresso deve svolgere, l’inasprimento delle sanzioni per i movimenti irregolari ma soprattutto l’idea per elaborare un sistema di quote e la raccolta centralizzata delle domande di asilo a cui affiancare un meccanismo correttivo che scatta dopo che il paese ha superato il 150% della propria quota. Il lavoro del parlamento europeo integra la proposta con numerosi emendamenti, fino all’approvazione della relazione definitiva da parte della Commissione LIBE del Parlamento europeo in data 6 novembre 2017. Successivamente, la Plenaria del Parlamento ha autorizzato a larghissima maggioranza (390 voti a favore, 175 contrari, 44 astenuti) l’apertura del negoziato con il Consiglio e la Commissione nell’ambito del c.d. trilogo. Il progetto del Parlamento europeo vede: eliminare l’irrazionale e iniquo criterio dello Stato di primo ingresso; adottare un sistema di quote permanenti ispirato al principio di equa condivisione delle responsabilità (art. 80 TFUE) sulla base del rapporto PIL e popolazione; valorizzare in misura molto ampia i legami significativi (quali i legami familiari) tra un richiedente e uno Stato, al fine di velocizzare la procedura, risparmiare sui costi, ridurre gli incentivi a realizzare movimenti secondari, favorire il percorso di integrazione ove la domanda venga accolta; incoraggiare gli Stati a valorizzare i canali di ingresso legale da paesi terzi; configurare incentivi e disincentivi ragionevoli ed efficaci, sia per gli Stati membri che per i richiedenti asilo.

     Come previsto dal meccanismo decisionale, ora tocca al Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i ministri degli Stati membri, dove non è stata ancora raggiunta una posizione comune. Al consiglio dell’Unione Europea si è incominciato a discutere e il nodo centrale della riforma, che rappresenta il nodo della discordia, è proprio relativo all’introduzione delle quote di ripartizione dei richiedenti asilo all’interno dello spazio europeo e il superamento del principio di primo ingresso. Le quote di ripartizione sono sempre state osteggiate in particolare dai paesi dell’Europa orientale, il cosiddetto gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Nell’ultima incontro di giugno hanno detto no alla proposta Italia, Spagna, Germania, Austria, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Non si è espresso il Regno Unito, mentre gli altri paesi dell’Unione europea, non soddisfatti dalla proposta bulgara, hanno tuttavia lasciato la porta aperta al negoziato. Tra questi Grecia, Malta e Cipro che hanno sempre condiviso le stesse posizioni del governo italiano sulla necessità di introdurre le quote. Il problema odierno consiste nel fatto che ora l’Italia sembra cercare un alleato nell’Ungheria. I paesi guidati da governi nazionalisti come Ungheria e Polonia hanno sempre osteggiato la riforma del sistema d’asilo europeo, sostenuta invece dai paesi mediterranei come Italia e Grecia. Le ultime mosse dell’Italia sembrano spaccare il fronte del mediterraneo e cercare un alleato in Orbàn. Ad aprile Amnesty International ha lanciato l’allarme avvertendo che il Governo ungherese sta cercando di approvare leggi che renderanno impossibile alle Ong di proseguire con il loro lavoro di assistenza e protezione di chi ha bisogno. Secondo l’associazione l’obiettivo sarebbe quello di mettere a tacere le Ong indipendenti e apertamente critiche. Il 13 febbraio scorso sono state presentate al Parlamento una serie di leggi chiamate “Stop Soros”, che impongono un nulla osta di sicurezza nazionale e un permesso governativo per quelle Ong che il governo considera “a sostegno della migrazione”. In particolare, queste proposte colpiscono le organizzazioni che promuovono campagne, condividono materiale informativo, organizzano reti e reclutano volontari per sostenere l’ingresso e la permanenza in Ungheria di persone che cercano protezione internazionale. Queste leggi richiederebbero inoltre alle Ong di pagare una tassa pari al 25% di qualsiasi finanziamento estero volto a “sostenere la migrazione“. Il mancato rispetto di questi requisiti potrebbe portare a sanzioni esorbitanti, alla bancarotta e infine alla chiusura delle Ong prese di mira. Le proposte del governo ungherese rientrano in una più ampia campagna anti-immigrazione. Tutto ciò comporterebbe una delle direttrici più ambigue e oscure sulle politiche italiane che riguardano la migrazione, in quanto da una parte si vuole una maggiore ripartizione delle responsabilità mentre dall’altra sembra cercare alleati nelle schiere di paesi che non vogliono le quote o paesi che hanno alzato i muri come unica soluzione alla propria questione riguardante le migrazioni. Nel frattempo, a livello europeo si è parlato dei fondi per la sicurezza dei confini esterni e dei rimpatri.

Le Ong e prospettive per il futuro

     Il ministro degli Interni Salvini aveva già annunciato una stretta alle attività delle ONG e le dichiarazioni durante i giorni della questione Aquarius hanno confermato questa linea. Altro caso curioso è il fatto che Salvini in aula ha citato nella faccenda “Soros”, ritenendolo coinvolto nella faccenda delle migrazioni tramite gli investimenti e mettendo in dubbio, solo per questo, l’operato delle Ong. Il primo passo verso i controlli dell’operato delle Ong, però, è stato fatto a luglio del 2017 con l’adozione da parte di Minniti di un codice di condotta, la cui mancata sottoscrizione o inosservanza degli impegni comporta contromisure e sanzioni. Da quel momento le operazioni delle SAR di fronte a Tripoli passano alla Guardia costiera libica. Tra le misure previste dal Codice di condotta vi è l’impegno delle Ong a non entrare nelle acque territoriali libiche “salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata”, di non ostacolare l’attività di SAR della Guardia costiera libica, non devono fare comunicazioni finalizzate ad agevolare la partenza delle barche che trasportano migranti, devono informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita, non possono trasferire le persone soccorse su altre navi, “eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc) e sotto il suo coordinamento anche sulla base delle informazioni fornite dal comandante della nave”, si impegnano “a una cooperazione leale con l’autorità di pubblica sicurezza del previsto luogo di sbarco dei migranti”. Infine, si invita alla trasparenza delle fonti di finanziamento. Un punto di rottura sul codice di condotta era rappresentato dalla richiesta di uomini armati a bordo, motivo per cui delle associazioni non firmarono. A causa della stretta e del rapporto non facile con la Guardia costiera libica alcune Ong hanno deciso di interrompere le attività nel Mediterraneo. Nei periodi di massima crisi risalenti al 2015 e al 2016 le navi delle Ong che prestavano aiuto erano arrivate sino a 13 mentre oggi sono appena 3, a questo occorre tenere conto che sono diminuiti dei possibili testimoni di traffici, di respingimenti illegali in Libia o di naufragi. È logico attendersi che la maggiore incidenza di salvataggi in mare da parte di imbarcazioni delle Ong (passata dal 1% del 2014 al 41% nel 2017), assieme alla tendenza di queste ultime a operare nei pressi delle acque territoriali libiche (come rilevato dall’agenzia europea Frontex), possano aver spinto un maggior numero di migranti a partire, aumentando di conseguenza il numero di sbarchi. Ma i dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane. A determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori, tra cui per esempio le attività dei trafficanti sulla costa e la “domanda” di servizi di trasporto da parte dei migranti nelle diverse località libiche.

    In questi giorni, come detto da altri, abbiamo visto un festival della propaganda politica e diventa difficile distinguere tra propaganda e realtà. Oltre alle dichiarazioni nella politica, fatte spesso per slogan in cerca di voti, si sta instaurando una narrazione fatta di “Taxi del mare”, o “Vice-Scafisti”, che operano dal limite delle acque libiche all’Italia. Una narrazione che vede immigrati attirati verso il nostro paese da politiche miopi, dalla malavita in cerca di schiavi per l’attività di agricoltura, per la prostituzione o per lo spaccio di droga. Probabilmente non si tiene in conto che tutte queste dinamiche che vedono come protagonisti i migranti sono il risultato di un sistema di accoglienza debole, di una burocrazia per certi versi schizofrenica e di una mancata legalità nel nostro paese. Occorre ricordare che è il nostro paese che tramite la mancanza di legalità e la presenza di leggi ingiuste che fa scivolare nell’irregolarità. Possiamo pensare al fenomeno del “Lavoro in nero”, dove in molti lavorano senza contratto” o quello del “Lavoro in grigio”, caratterizzato da sotto-salario e irregolarità contributive. È un paese in cui la presenza di un contratto non rappresenta, soprattutto per il migrante, la garanzia di un equo rapporto di lavoro e dove spesso i contributi dichiarati sono risultati nettamente inferiori al numero di giornate lavorative effettivamente svolte. È un paese in cui vi è il problema della cosiddetta “Agromafia” ovvero le attività della criminalità organizzata nel settore agro-alimentare: un contesto che vede gli agricoltori onesti che abbandonano i campi e imprenditori di ogni tipo che lucrano nell’ombra e che cercano di impossessarsi dei fondi dell’Unione Europea prendendo il controllo delle Organizzazione dei produttori (OP) o dei mercati ortofrutticoli. È un paese in cui certe classi di persone vengono ghettizzate e l’unica alternativa che trovano sono le attività di manovalanza che le varie mafie offrono come la prostituzione, lo spaccio o anche lo stesso caporalato o che vede i migranti lavorare nei campi. Questo succede anche perché sono fortemente vincolati da uno stato di necessità, non solo per il denaro, ma per leggi che vincolano al contratto di lavoro o a un certificato di residenza. È il risultato di una burocrazia che chiede la residenza a chi vive per strada o subordina un documento a un contratto di lavoro nel paese del lavoro in nero. Per cui i diniegati dalle commissioni hanno solo 3 speranze: il ricorso in tribunale, la residenza e il contratto di lavoro. Da qui nasce un mercato nero tutto italiano dove vengono venduti contratti di affitto o contratti di lavoro a tempo determinato (per poi andare a lavorare in nero da un’altra parte).

Occorre poi notare che si viene a creare il mito del “Business dell’Immigrazione” ovvero un calderone fatto di trafficanti africani e libici, mal gestione emergenziale di alcuni centri di accoglienza per criminalizzare tutto il mondo italiano della solidarietà. È, poi, una narrazione che vede accettare i migranti trasportati sulla nave della Marina Militare ma non quelli imbarcati dalla guardia costiera sull’Aquarius. Molti di questi discorsi si basano su un pensiero che vede le Ong agire indipendentemente nelle operazioni di salvataggio. La realtà vede però la richiesta di azione alle “navi private” e viene coordinata dalla centrale operativa di Roma della guardia costiera alla quale perviene la segnalazione e autorizza agli sconfinamenti nelle acque territoriali libiche nei casi di emergenza. Questi sconfinamenti vengono visti da molti come la prova della complicità coi trafficanti ma, anche attraverso l’azione dei tribunali, non è mai emerso un legame di tale genere. Per esempio, recentemente il Tribunale del riesame di Ragusa ha dissequestrato le navi della spagnola Open arms “fermata” a marzo.

     Rimane il fatto che per controllare il fenomeno migratorio “illegale” (per evitare che ci siano ancora morti in mare) o per evitare tutti quei fenomeni legati alla tratta, occorre trovare soluzioni alternative. In questo senso possiamo pensare al progetto-pilota dei “Corridoi Umanitari” realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, completamente autofinanziato. Il principale obiettivo è quello di evitare tutte le problematiche avanzate fino a qui e di fornire un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo. È un modo sicuro per tutti perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane. All’arrivo in Italia, i profughi sono accolti a spese delle associazioni in strutture o case, gli viene insegnato l’italiano e iscrivono i bambini a scuola per aiutare l’integrazione nel paese e ad aiutarli a cercare lavoro. Questi corridoi sono il frutto di un Protocollo d’intesa con il governo italiano: le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi possono presentare domanda di asilo. Altre soluzioni potrebbero essere quelle di coinvolgere le varie associazioni (invece di criminalizzarle) che lavorano nel campo dell’assistenza per evitare un’azione frammentata e per poter garantire una soluzione più efficiente.

In ogni caso, il rischio è che il caso Aquarius rappresenti un precedente mortale. Nel momento in cui la nave “Aquarius” dell’organizzazione non governativa Sos Mediterranee ha fatto rotta verso il porto spagnolo di Valencia, la ricercatrice di Amnesty International sull’Italia Elisa De Pieri ha rilasciato questa dichiarazione: “Chiudendo i loro porti, i governi italiano e maltese hanno aggirato il principio del soccorso in mare e pregiudicato l’intero sistema di ricerca e soccorso. Se le cose proseguiranno in questo modo, l’azione di vitale importanza delle Ong verrà scoraggiata e compromessa e migliaia di migranti e rifugiati saranno lasciati alla deriva nel Mediterraneo. L’offerta del governo spagnolo di accogliere la nave ‘Aquarius’, se da un lato è un commovente esempio di solidarietà, dall’altro mette in evidenza la calcolata insensibilità delle autorità italiane e maltesi. Siamo di fronte a un precedente che inevitabilmente costerà vite umane”.

     Per concludere, in molti hanno parlato di vittoria ma la situazione, a livello italiano ed europeo, è la stessa. Si è dichiarato lo stop al business dell’Immigrazione ma il sistema di accoglienza è lo stesso. È una storia che ha visto una semplice presa di forza contro un Organizzazione non governative (quindi non contro un governo) e contro centinaia di persone che hanno sofferto, soffrono e soffriranno senza una vera accoglienza e con il clima discriminatorio delle parole. È una situazione che vede la messa in discussione del diritto al non respingimento, in cui viene messo in dubbio la stessa solidarietà e in cui viene messo in dubbio il principio di sussidiarietà dei privati (per cui noi possiamo fare qualcosa in mancanza dello stato). Viene messa in discussione la stessa nostra costituzione al cui articolo 10 dice: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Nei prossimi tempi occorrerà riflettere su cosa può succedere senza la protezione umanitaria: più rimpatri? Diminuiranno i costi? Ridurre forme di assistenza come il pocket money e qui famosi 35€ cosa comporterà realmente? Forse occorrerebbe, al di là di tutto, riflettere che trattare le persone in base ai costi comporta meno affiancamento dell’umano. Occorrerebbe riflettere che per queste persone sentirsi dire che sono un peso o che sono mantenute comporta una frustrazione e degradazione dell’animo. Occorre ricordare che il viaggio di ogni persona non finisce all’arrivo in un posto se l’anima rimane a casa ma finisce quando trova un posto tranquillo in cui si sente a casa. Occorre accogliere animi e non solo corpi per permettere anni di vita a persone che ne hanno bisogno e per permettere vita negli anni. Forse non possiamo svincolarci da riflessione sui costi ma iniziare un approccio di questo tipo, pensato sulle persone, può essere un passo importante. Il Consiglio europeo di fine giugno potrà offrire all’Italia l’occasione per contestare le normative vigenti in Europa in materia d’asilo per poter offrire una soluzione concreta. Comunque sia, le direttrici che si seguiranno sembrano essere già decise con il caso Aquarius.

Storica intesa tra Atene e Skopje: un nuovo nome per la Macedonia

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Al termine di lunghi negoziati, il 12 giugno, la Grecia e la Macedonia hanno raggiunto un accordo storico risolvendo la disputa pluridecennale relativa al nome dell’ex Repubblica jugoslava.

Il Primo Ministro di Skopje, Zoran Zaev, e di Atene, Alexis Tsipras, hanno annunciato il nuovo nome dello Stato, “Repubblica della Macedonia del Nord”, “Severna Makedonija” in macedone, il quale verrà riconosciuto sia bilateralmente che a livello internazionale. Tale intesa dovrà ottenere l’approvazione dei due Parlamenti nazionali, inoltre, a causa delle pretese elleniche di revisione della Costituzione, sarà indetto un referendum nella rinominata Repubblica della Macedonia del Nord.

Superati tali ostacoli, cadrà il veto di Atene e potranno essere riattivate le procedure di ammissione macedone all’ Unione Europea ed alla Nato.

La Grecia richiedeva da tempo il cambio del nome dello Stato della Macedonia, considerandolo un’usurpazione della storia ellenica ed un’implicita rivendicazione territoriale nei confronti dell’omonima e limitrofa regione greca.

Sin dalla Dichiarazione d’indipendenza dalla Jugoslavia, avvenuta nel 1991, la Grecia ha denunciato la natura e la simbologia irredentista adottata dal nuovo Stato macedone, evidenziate da tre elementi: dal nome, concepito dalla Grecia come lesivo della propria storia e del patrimonio culturale greco, dalla bandiera originaria, caratterizzata dalla Stella di Virginia, simbolo della dinastia di Filippo il Macedone, padre di Alessandro Magno, nonché da alcune clausole costituzionali.

In merito a queste ultime, in seguito alla Dichiarazione d’indipendenza, la Macedonia non è stata riconosciuta dalla Comunità europea, poiché essa ha assecondato le pretese del governo greco di abrogare alcune disposizioni della Costituzione macedone; in particolare venivano contestati l’Articolo 3 secondo cui “Le frontiere attuali sono inviolabili e non possono essere modificate se non in conformità con la Costituzione” e l’Articolo 49 ai sensi del quale “La Repubblica vigila sulle condizioni e sui diritti dei cittadini dei Paesi vicini d’origine macedone, sostiene il loro sviluppo culturale e si incarica della promozione dei rapporti con essi”; tali disposizioni costituzionali erano intese come un’implicita rivendicazione territoriale ed un’ ingerenza negli affari interni degli Stati confinanti.

Al fine di ottenere il riconoscimento, il governo greco di Mitsotakis ha richiesto alla Macedonia di accettare tre condizioni: la rinuncia a qualsiasi rivendicazione territoriale, una dichiarazione in cui si negava l’esistenza di una minoranza macedone in Grecia ed infine, il cambio della denominazione dello Stato, richiesta che venne respinta.

La disputa sul nome si tradusse nella preclusione dell’ammissione della Macedonia ad importanti organizzazioni internazionali e nell’imposizione di sanzioni economiche unilaterali.

Sul piano internazionale si è raggiunto un compromesso con la Risoluzione 817 del 1993, con la quale il Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha ammesso tale Repubblica con il nome provvisorio di Former yugoslav republic of Macedonia (FYROM); lo stesso Consiglio di Sicurezza, con la successiva Risoluzione 845, ha invitato i governi di Atene e di Skopje a risolvere le questioni ancora aperte sotto la mediazione dell’ONU.

La contesa si è attenuata soltanto nel 1995, in seguito alla modifica della bandiera, ed alla stipulazione dell’accordo “Interim agreement”, con il quale la Grecia ha riconosciuto il nuovo Stato con la denominazione adottata dall’ONU e la FYROM, tramite degli emendamenti costituzionali, ha rinunciato a qualsiasi interpretazione intesa come una rivendicazione territoriale, tuttavia la questione del nome rimase aperta.

Relativamente ai rapporti con l’Unione Europea, il 9 aprile del 2001 la Macedonia ha firmato l’Accordo di stabilizzazione ed associazione, mentre il 1° aprile del 2004, il governo di Skopje ha presentato la domanda di adesione all’Unione Europea, ottenendo lo status di candidato a membro dell’UE, conferito dal Consiglio europeo il 17 dicembre del 2005;  nel 2009 la Commissione europea ha raccomandato di procedere con i negoziati, tuttavia Atene ha sin da subito impedito di avviare le procedure.

Benché per molti anni vi sia stata tale disputa e nonostante la Grecia abbia bloccato l’ingresso della Macedonia nell’Unione Europea e nella NATO, già a partire dal 1995, si sono sviluppate importanti relazioni economiche tra i due Stati, destinate a crescere in seguito al raggiungimento della recente intesa storica.

Quest’ultima ha riscosso l’entusiasmo di molte autorità internazionali ed in primo luogo delle istituzioni dell’UE e della NATO. L’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini e Johannes Hahn, il commissario per le politiche di vicinato, si sono congratulati con i Primi Ministri della Grecia e della Repubblica della Macedonia del Nord per il risultato raggiunto, affermando che tale intesa “contribuisce alla trasformazione dell’intera regione dell’Europa sud-orientale”ed auspicando di aprire presto i negoziati di adesione, previa approvazione del Consiglio europeo; è proprio da quest’ultimo che arriva la conferma della disponibilità ad accelerare il processo di adesione dello Stato macedone, in particolare il Presidente di tale istituzione comunitaria ha affermato che i due governi hanno “reso possibile l’impossibile”.

Dello stesso avviso è il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, il quale ha dichiarato: “Invito entrambi i paesi a finalizzare lo storico accordo raggiunto. Questo porterà Skopje sulla strada verso l’adesione alla Nato, e contribuirà a consolidare la pace e la stabilità in tutti i Balcani occidentali”.

 

 

 

 

 

 

Unione Europea tra difesa e pace: 13 miliardi per il Fondo europeo di Difesa

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Il 12 giugno 2018 la Commissione ha adottato l’ultima serie di proposte legislative per i programmi che saranno finanziati dal prossimo bilancio dell’UE dal 2021 al 2027 ed ha proposto di triplicare i finanziamenti per la migrazione e la gestione delle frontiere.

In generale, sulla base di quanto accaduto in passato, la Commissione sta ora proponendo di incrementare significativamente i finanziamenti a livello generale, con 10,4 miliardi di euro per la migrazione, 9,3 miliardi di euro per la gestione delle frontiere, 2,5 miliardi per la sicurezza interna e 1,2 miliardi per la disattivazione più sicura delle attività nucleari in alcuni Stati membri, raggiungendo oltre 23 miliardi di euro complessivi. Inoltre, il sostegno alle agenzie dell’UE in materia di sicurezza, gestione delle frontiere e migrazione aumenterà da 4,2 a 14 miliardi di euro.

La proposta della Commissione è una risposta alle crescenti sfide migratorie, di mobilità e di sicurezza, con strumenti di finanziamento più flessibili per affrontare eventi migratori imprevisti e la protezione delle frontiere, al centro del nuovo bilancio. Il nuovo fondo di frontiera aiuterà inoltre gli Stati membri ad effettuare controlli doganali, si concentrerà su un maggiore sostegno agli Stati membri nel garantire le frontiere esterne dell’UE, garantendo una politica comune in materia di visti dell’Unione che si adegui alle sfide della sicurezza legate alla migrazione e alle nuove opportunità offerte dagli sviluppi tecnologici.

Ponendosi al di fuori del bilancio europeo 2021-2027, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini ha proposto, con il sostegno della Commissione, un nuovo Fondo europeo per la pace che prevede 10,5 miliardi di euro e che vuole contribuire a migliorare la capacità dell’Unione europea per prevenire i conflitti, garantire la pace e la sicurezza internazionale, considerando i meccanismi fuori bilancio già esistenti destinati alla sicurezza e alla difesa, al fine di superare i problemi attuali e le varie limitazioni in materia.

Inoltre, la Commissione ha previsto la creazione di un Fondo europeo per la Difesa (Edf): con circa 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, si vuole promuovere l’utilizzo di nuove tecnologie ed attrezzature avanzate ed interoperabili, così da aumentare la competitività del settore e promuovere la cooperazione tra gli Stati membri. In particolare, il Fondo prevede 4,1 miliardi per finanziare i progetti di ricerca e 8,9 miliardi per finanziare i prototipi e realizzare le attività dei collaudi. Dopo il G7 in Quebec e prima del vertice NATO, l’11 e 12 luglio a Bruxelles, che potrebbe segnare un’altra tappa importante nel rapporto tra Stati Uniti ed Europa, l’affermazione di tale Fondo ha un forte significato simbolico. Il Fondo potrebbe infatti contribuire alla creazione di una strategia dell’Unione Europa, trasformandola in un attore autonomo con una propria politica di difesa e sicurezza. La Mogherini ha affermato che l’Unione europea ha previsto delle misure in materia di sicurezza e difesa che prima erano impensabili, mentre attualmente si può investire nella ricerca e nella cooperazione per sviluppare una capacità di difesa, adottando delle misure che facilitino il movimento delle forze degli Stati membri in Europa. L’obiettivo è coordinare e amplificare gli investimenti realizzati a livello nazionale, senza sostituire gli Stati membri in un settore in cui la sovranità rimane fondamentale; è comunque fuori discussione vedere l’Unione dotarsi di capacità militari.

Queste iniziative sono dovute anche alla cooperazione decisa dagli Stati membri UE nel campo della difesa comune con la PeSCo, la cooperazione strutturata permanente, le cui iniziative godono di finanziamenti, circa il 10%, da parte del Fondo; in particolare, l’Italia partecipa a quattro progetti (sorveglianza marittima e blindati leggeri). La cooperazione strutturata permanente nel settore della politica di sicurezza e di difesa, istituita con una decisione del Consiglio dell’11 dicembre 2017, prevede la possibilità di una collaborazione più stretta tra alcuni Stati membri dell’UE nel settore della sicurezza e della difesa

Gli Stati membri possono sviluppare congiuntamente le capacità di difesa, investire in progetti comuni ed accrescere il contributo a livello operativo delle rispettive forze armate.

Il Fondo previsto dalla Commissione europea, ma anche quello proposto dalla Mogherini, sottolineano la necessità di sviluppare una politica di difesa comune europea, che rispetti la sovranità statale ma allo stesso tempo che possa consentire lo sviluppo di un’Unione europea politica che vada a salvaguardare pace e sicurezza. Si vuole aumentare l’efficacia dei finanziamenti a favore delle operazioni militari per la politica di sicurezza e di difesa comune, al fine di agevolare il contributo dell’Unione alle operazioni di pace condotte dai suoi partner, considerando sia le spese previste dal bilancio 2021-2027, sia quelle esterne per la pace.

La Croce Rossa incontra Paolo Nespoli e l’equipaggio della missione “Vita”

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È una grande gioia ritrovarmi qui insieme a voi. Grazie per avermi dato la possibilità di esservi vicino, di far volare con me la vostra bandiera e di inviarvi un messaggio che mi ha emozionato e mi emoziona ancora adesso”. Con queste parole, l’astronauta Paolo Nespoli ha voluto ringraziare la folta rappresentanza dei volontari della Croce Rossa Italiana, guidata dal Presidente Nazionale Francesco Rocca, in occasione della cerimonia di riconsegna della bandiera con l’emblema dell’Associazione che ha viaggiato con lui fino alla Stazione Spaziale Internazionale nell’ultima missione targata ASI ed ESA. All’auditorium del Museo MAXXI di Roma e in compagnia dell’equipaggio della missione VITA, ha raccontato le emozioni vissute durante il lungo viaggio, illustrato ai presenti i laboriosi preparativi da affrontare prima della partenza per lo spazio e mostrato suggestive foto scattate dalla Stazione Spaziale che mostrano la Terra, le sue fragilità e il concreto effetto dell’opera dell’uomo su di essa. Il Presidente Rocca ha ricordato la commozione dopo la prima pubblicazione del videomessaggio spaziale di Nespoli e ha ricordato le lacrime del pubblico dovute all’importanza di quel messaggio.

Quel messaggio dallo spazio ricordava l’impegno mondiale della Croce Rossa italiana nonostante gli attacchi al personale, gli attacchi agli ospedali, le difficoltà delle situazioni e i rischi che affrontano ogni giorno. “Grazie a Paolo Nespoli e all’equipaggio della missione per l’incredibile emozione che ci hanno regalato. Il videomessaggio che hai voluto indirizzarci – ha detto il Presidente Rocca rivolgendosi all’astronauta – racchiude in poche parole la nostra storia e la nostra vera essenza. Avere avuto l’opportunità di vedere nello spazio l’emblema della Croce Rossa, riconoscibile in tutto il mondo, ha significato toccare con mano l’ampiezza del nostro intervento e la capacità di essere sempre decisivi. Ci ha anche dato modo di riflettere su quanto questo emblema sia oggetto, ancora oggi, di attacchi in molte zone del mondo e, quindi, di quanto sia importante proteggerlo”. Il messaggio ricordava che l’essere umano è attratto dalle distanze per accorciarle e raggiungerle, per rendere visibile ciò che è invisibile.

Per avere una visione di insieme senza pregiudizio. Per guardare le cose a distanza in modo da essere vicino. Ed è questo che rappresenta il lavoro di Croce Rossa, quello di essere più vicini a chi ha bisogno, e questo dovrebbe, un giorno, poter rappresentare tutto il mondo. Da li su, in alto tra le stelle, Paolo ha potuto osservare quella bella sfera blu dove viviamo. Ha potuto vedere lo spettacolo della natura e dell’infinito. Ha potuto cogliere la visione d’insieme. Ma questo comporta anche quello che stiamo facendo noi a questo pianeta e di cui spesso non abbiamo coscienza. Paolo ha visto l’ampiezza degli uragani, immaginandone solo la potenza. Ha visto l’estuario del fiume Betsiboka, un fiume nel centro-nord del Madagascar. Un fiume circondato da mangrovie e caratteristico per la sua acqua di colore rosso ma che è anche la prova drammatica della catastrofica deforestazione intensiva del Madagascar. La rimozione della foresta nativa per la coltivazione e i pascoli negli ultimi 50 anni ha portato a massicce perdite annuali di terreno che si avvicinano a 250 tonnellate metriche per ettaro (112 tonnellate per ettaro) in alcune regioni dell’isola, la più grande quantità registrata in qualsiasi parte del mondo.

Il cambiamento climatico, dovuto alla mano dell’uomo, ogni giorno dà luogo a fenomeni più vari. Si pensi alla Somalia che ha dovuto affrontare il problema della siccità, che ha resto il terreno ulteriormente secco e poco permeabile, e delle alluvioni, che hanno portato morte e malattie. La siccità in Africa Orientale ha messo in ginocchio paesi già colpiti da guerre, crisi politiche e scontri etnici, ciò ha generato crisi umanitarie profonde in paesi come il Sud Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea, il Burundi, il Kenya e, appunto, la Somalia. In questi paesi si alternano siccità ed alluvioni. Per secoli, le popolazioni dell’Africa Orientale hanno dovuto affrontare fenomeni di questo tipo con una cadenza di cinque o sei anni. Recentemente, però, si è assistito a un’accelerazione di questa periodicità a causa del surriscaldamento globale. L’aumento delle temperature ha portato a un progressivo inaridimento delle fonti idriche con un conseguente calo della produzione agricola e un impoverimento dei pascoli. Ne consegue la rarità dei terreni fertili: assistiamo alla desertificazione, la riduzione di spazi coltivabili, e la Desertizzazione, il terreno che diventa deserto. Per esempio, Il Sahel si sta sempre più desertificando ma anche altre aree del mondo soffrono di desertificazione come in Sud America (ad esempio l’Argentina) e in Europa, con la Spagna che ha più del 12% di territorio che è soggetto a processi di desertificazione.

Questo, se si pensa al Lago di Aral, è dovuto anche allo sfruttamento non adeguato delle risorse da parte dell’uomo. Di conseguenza la terra coltivabile diventa un bene prezioso ed entrata in scena il Land-grabbing. Quando parliamo di Land-grabbing, possiamo parlare di un neocolonialismo agricolo messo in luce dai movimenti finanziari ad opera di alcuni paesi ricchi di capitale che affittano o acquistano grandi appezzamenti di terre fertili all’estero. Si può pensare a una nazione come l’Arabia Saudita che, poiché poco fertile, è dipendente dalle importazioni di prodotto finito e non controlla il processo di produzione. Per cui questo paese, andando a fare affari con governi facilmente corrompibili o con governi non ufficiali, acquista grandi appezzamenti di terreno e manda a lavorare cittadini del proprio territorio. Il problema è che i soggetti che affittano, nella grandissima parte dei casi, sono i paesi più poveri e con gravi problemi istituzionali.

Questo fenomeno nasce dalla necessità di acquistare o affittare terreno fertile perché non lo si ha a disposizione ma crea povertà e insicurezza alimentare in quei paesi poveri che li affittano. Alla fine, la somma di questi problemi porta alla necessità di associazioni come la Croce Rossa in grado di portare aiuti alle crisi umanitarie. Ma c’è anche la possibilità di un’altra strada. La ricerca spaziale potrebbe dare una risposta. Missioni come la missione VITA, come quella umana e come Vitality, Innovation, Technology, Ability, portano grande innovazione. Nella missione sono stati portati avanti molti progetti ed esperimenti scientifici come quelli mirati ad analizzare i danni subiti dalla retina in microgravità che possono portare a sviluppi negli studi per curare il glaucoma e la degenerazione maculare senile, o ad altri esperimenti per distinguere le cause della degenerazione cellulare di chi è affetto da atrofia muscolare, o per chi soffre di osteoporosi ma anche lo studio di nuovi metodi di analisi. Tra questi, vi è per esempio, lo studio Multi-Trop (dell’Università Federico II di Napoli con la partecipazione degli studenti di un liceo scientifico di Portici) un esperimento educational, studierà dove si dirigono le radici delle piante una volta germinate da un seme, se crescono in microgravità che potrebbe rivelarsi fondamentale in vista di future coltivazioni su Marte. Oltre a questo vi sono stati altri esperimenti che hanno testato la possibilità di coltivare in ambienti estremi anche con temperature rigide e terreni poco ricchi di nutrimenti.

Lo sforzo di Paolo Nespoli si inserisce nel contesto di Expedition 53, che ha visto coinvolti anche astronauti americani e russi che hanno svolto a loro volta centinaia di esperimenti di biologia, biotecnologia, osservazione della Terra e fisica nelle speciali condizioni di microgravità offerte dalla ISS. Nella spedizione, Randy Bresnik è stato protagonista di ben tre attività extraveicolari, durante le quali insieme ai colleghi Mark Vande Hei e Joe Acaba ha sostituito alcune parti del braccio robotico della Stazione, Canadarm2. Ryazanskiy ha a sua volta partecipato ad un’EVA insieme al cosmonauta Fyodor Yurchikhin, che lo scorso agosto hanno rilasciato alcuni nanosatelliti e raccolti campioni di materiali dall’esterno della ISS, oltre ad effettuare alcune attività di manutenzione del segmento russo. Questi sono solo pochi esempi del perché la ricerca spaziale è importante per la cura del nostro pianeta e con le parole di Paolo possiamo dire “essere vivi non vuol dire solo avere un cuore che batte, ma anche un cervello che funziona e mani che lavorano; vivere insieme, credere nello sviluppo, gestire correttamente le risorse, usare l’innovazione per portare questa vita su altri pianeti e migliorarla sulla Terra”.

Accorciare le distanze però vuol dire, nella corsa spaziale, anche accorciare le distanze verso Marte. Ciò sta creando una nuova economia che vede le maggiori potenze del mondo in cooperazione. Obama annunciò di voler portare l’uomo su Marte entro il 2030, Elon Musk vuole portarci “uomini pronti a morire” entro 10 anni, abbiamo assistito alle vicende del lander italiano Schiaparelli precipitato sul pianeta rosso a “pochi” centinaia di km dall’approdo. Oggi, abbandonato il bipolarismo, alla Nasa e alla Roscosmos si sono affiancate Bric Economy come Cina e India, e nuovi attori regionali, dall’Europa all’Asia, che lanciano le loro sfide agli astri e testano la loro sapienza tecnologica. Quella che sembra la novità più rilevante e destinata a cambiare gli equilibri è l’entrata in campo di soggetti privati come Elon Musk, Jeff Bezos di Amazon, Branson di Virgin, player della new economy come Google e Facebook, e venture capital. Sono molti gli attori in campo, dunque. In ciò si 53 paesi ormai dispongono di satelliti operativi e circa 60 paesi hanno in corso di realizzazione propri investimenti in ambito spaziale e il numero totale sale a circa 80 se si aggiungono i Paesi che progettano di partire a breve termine. Per capire come il settore sia in ascesa, basta pensare che è stato uno dei pochi a non essere intaccato dalla crisi finanziaria globale del 2007.

 Assistiamo alla nascita della Space economy su cui gli osservatori e i player si confrontano, organizzano convegni, pianificano gli interventi. Lo spazio rappresenta un comparto di grande valenza economica, è un elemento abilitante di un numero sempre più rilevante di reti e piattaforme applicative nei più diversi settori di attività. L’espressione “Space Economy” cattura questa dimensione pervasiva delle attività spaziali, che si integrano con le tecnologie digitali, contribuendo in modo sempre più diffuso e crescente all’economia di un paese avanzato. La nuova Space Economy è un mix tra budget istituzionali e commerciali, diversi contractor in competizione e una crescita esponenziale in cui fanno l’ingresso i grandi investitori privati in un settore tradizionalmente chiuso come quello spaziale. La Space Economy, che secondo l’ultimo report dell’Agenzia spaziale europea nel 2015 ha fatturato globalmente 291,4 miliardi di euro (+1% rispetto al 2014) ridefinisce i rapporti di forza: anche se lontani dagli USA, il tema ha bussato con forza alla porta dell’Agenzia Spaziale Europea con un mondo ricco di scienza e tecnologia di primissimo livello che ha avuto grandi successi negli ultimi anni ma che agisce con i tempi lunghi tipici delle organizzazioni multilaterali. Dall’economia alla politica il passo è breve. Lo spazio era e resta un ambito strategico poiché è uno degli strumenti più efficaci a supporto della proiezione geopolitica di un Paese, sia a livello globale che regionale. La particolarità consiste nel fatto che le infrastrutture spaziali amplificano le capacità operative e di intelligence, come avviene per il cyberspace. Inoltre, la geopolitica dello spazio si fa sulla Terra e, per il momento, non c’è collisione di interessi poiché la collaborazione è necessaria soprattutto nello sviluppo e nella ricerca per i costi e per le tecnologie che impongono sinergie. La corsa allo spazio, iniziata con fini politici e militari, è diventata, attraverso le complicate orbite della storia, un viaggio di uomini che cooperano insieme per studiare lo spazio e ciò che esso può dare all’umanità.

Oggi la collaborazione spaziale internazionale è un sistema, sempre in bilico tra competizione e collaborazione, dove nuove potenze emergenti come Cina e India stanno cambiando gli equilibri. In questo contesto l’Italia è leader di moduli spaziali abitabili, lanciatori, sensoristica, fotonica, tecnologia dei satelliti SAR (radar) che possono vedere con qualsiasi tipo di condizioni metereologiche. La nostra costellazione di questo tipo di satelliti, CosmoSkymed, è un’eccellenza che nel mondo ci invidiano. Sul lato della Governance il nostro paese sta facendo passi importanti con l’approvazione di qualche anno fa di un piano stralcio Space Economy che è stato finanziato con 350 milioni euro di fondi richiesti al CIPE sul fondo sviluppo e coesione (FSC). Uno degli obiettivi del piano Space Economy del governo è la completa automazione dei mezzi di trasporto aerei, marittimi e terrestri nel prossimo trentennio (2015-2045).

Nella Space Economy i numeri sono ancora piccoli, in Italia vale circa 1,6 miliardi di fatturato per 6.000 addetti ma siamo un’eccellenza di livello mondiale grazie agli accordi con ESA e NASA che hanno portato il volume di affari spaziale negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2019 a valere circa un miliardo di euro. Occorre ricordare che l’Italia è tra i fondatori dell’ESA e il terzo contributore dopo Germania e Francia. Il nostro paese ha ruoli di primo piano tecnologico e scientifico e le nostre aziende che lavorano per l’ESA sono di primissimo ordine. Basti pensare che il lanciatore Vega di Avio, realizzato a Colleferro, è una parte fondamentale delle politiche di accesso indipendente allo spazio, ed è anche un caposaldo dei lanciatori Ariane 6. Inoltre, quasi 50% dei moduli abitabili della stazione spaziale internazionale, sono stati realizzati a Torino da Thales Alenia Space Italia, joint venture tra Leonardo Finmeccanica e i francesi di Thales.

Dietro a tutto questo si deve ricordare che vi è la storia di uomini e di donne che hanno lavorato duro per seguire i propri sogni e per apportare un cambiamento alle nostre vite. Sogni che passano attraverso la preparazione in ambienti angusti o in situazioni estreme, attraverso simulazioni come il freddo russo che tocca i meno 30 gradi o come ammaraggi nell’oceano dove si deve sopravvivere per 3 giorni ma anche attraverso la scienza in cui i nostri astronauti sono le braccia degli scienziati o addirittura le cavie. Sono storie che passano anche attraverso rituali come quello russo di andare sulla tomba di Gagarin prima delle partenze e attraverso viaggi lunghissimi come quello che va da Huston al Cosmodromo Kazako (dove vanno 12 giorni prima in isolamento per evitare contaminazioni). Questo viaggio è iniziato con la partenza della Sojuz dalla stessa rampa di lancio usata da Gagarin e ha regalato l’emozione di per poter vedere “il mondo che ti passa sotto a 8 km/h al secondo” o anche la bellezza di momenti conviviali come la preparazione della prima pizza spaziale, dell’Aloha Friday spaziale oppure i momenti importanti di comunicazione con la propria famiglia. È il ritorno a terra è solamente un’altra emozione che si aggiunge, forse l’emozione più forte di tutte. È l’emozione di chi torna a casa e può sentire di nuovo gli odori della terra, è l’emozione di tornare ad essere umani.

Al termine dell’incontro e una volta riconsegnata la bandiera della Croce Rossa Italiana che ha viaggiato nello spazio, Paolo Nespoli ha ricevuto dalle mani del Presidente Rocca la Medaglia d’Oro al Merito della Croce Rossa Italiana “per aver dimostrato come volontà, passione e curiosità verso l’altro siano motori imprescindibili per il progresso umano. Per aver lanciato, da quel punto privilegiato in cui si è trovato per ben tre volte nella sua vita a osservare la Terra, un messaggio di umanità e di speranza, privo di pregiudizio e diffidenza. Per aver colto e saputo raccontare l’abnegazione, l’umana solidarietà e lo spirito di sacrificio che contraddistinguono l’operato dei 17 milioni di volontari della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, in grado di raggiungere ogni angolo del mondo per essere più vicini a chi ha più bisogno. Per aver portato anche nello spazio il nostro emblema, riconosciuto già in tutto il pianeta come simbolo di umana solidarietà, soccorso e aiuto”. Al resto dell’equipaggio della missione VITA, inoltre, consegnato il Diploma di benemerenza con Medaglia di Prima Classe.

 

Francesco Rocca (Croce Rossa): Continua il massacro nel Mar Mediterraneo, non possiamo rimanere in silenzio

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Durante lo scorso fine settimana sono due gli eventi tragici che si sono consumati in mare. Alle 2 di notte un motoscafo su cui viaggiavano i migranti ha avuto un’avaria ed è affondato vicino all’isola di Kekova Geykova, nel golfo di Antalya al largo della Turchia. La guardia costiera turca è riuscita a trarre in salvo tre uomini e una donna, una quinta persona è stata salvata da un peschereccio mentre un’altra è dispersa. Nella tratta verso l’isola greca di Kastellorizo, hanno perso la vita sei bambini, due uomini e una donna. Nel frattempo, a queste vittime si sono aggiunti i cadaveri ripescati al largo della costa orientale della Turchia, dove una barca con 180 persone a bordo si è capovolta e almeno 112 persone sono annegate poiché l’imbarcazione era lunga circa nove metri e non poteva contenere più di 70 persone. Queste vittime si aggiungono a molte altre. Solo nei primi 4 mesi del 2018 hanno perso la vita 619 migranti e il numero continua ad aumentare. Alla mattina del 7 maggio, il numero totale di migranti arrivati in Italia ha subito un calo di circa il 76 per cento rispetto agli arrivi dello stesso periodo dell’anno scorso ma, nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Questi numeri fanno si che il mediterraneo, soprattutto per quanto riguarda il mediterraneo centrale, ha le rotte migratorie più mortali e pericolose al mondo.

Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana e della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC), ha dichiarato: “Durante lo scorso fine settimana in poche ore, oltre 110 persone sono morte nel Mar Mediterraneo, al largo delle coste della Tunisia e della Turchia. Non possiamo rimanere in silenzio quando il massacro in mare continua. Mentre apprezziamo tutti gli sforzi finora compiuti dalle Nazioni Unite a New York durante i negoziati ancora in corso per il Global Compact per la migrazione, la situazione sul campo non sta cambiando. Al contrario, sta peggiorando. Qualsiasi decisione politica che metta a rischio vite umane è inaccettabile. C’è un bisogno urgente di risposte internazionali per proteggere le vite e la dignità umana delle persone che migrano“.

Il 19 settembre 2016, i leader mondiali hanno adottato la “Dichiarazione di New York” con l’obiettivo di gettare le basi per affrontare insieme la crisi migratoria, è una dichiarazione politica che tiene conto dell’agenda 2030 e mira alla crescita inclusiva dei migranti. Con questa ci si impegna per la prevenzione e la lotta contro la Xenofobia e si sottolinea che la discriminazione dei migranti è un’offesa ai diritti umani. La prima fase del processo di negoziazione è iniziata ad aprile del 2017 e si è conclusa in Messico agli inizi di dicembre con la raccolta di tutti i pareri e i suggerimenti dei vari governi, ad eccezioni degli Stati Uniti che hanno abbandonato i lavori preferendo gestire in maniera unilaterale la questione migratoria. Questa settimana gli Stati membri delle Nazioni Unite si incontreranno a New York per il “quinto round” di negoziati sul Global Compact per la Migrazione e, in questo contesto, le priorità dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) sono le seguenti: proteggere tutti i migranti in ogni fase del loro viaggio dalla violenza, dagli abusi e da altre violazioni dei loro diritti fondamentali; garantire ai migranti, a prescindere dal loro status giuridico, l’effettivo accesso ai servizi di base essenziali; dare priorità ai diritti e alle esigenze dei bambini migranti in quanto vulnerabili; garantire che le leggi, le politiche, le procedure e le pratiche nazionali siano conformi agli obblighi esistenti dettati dal diritto internazionale e rispondere alle esigenze di protezione e assistenza dei migranti.

Occorre ricordare che queste persone si muovono per vari motivi: guerra, povertà, cambiamenti climatici (si pensi alle recenti alluvioni in Somalia) o persecuzioni (per razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un gruppo sociale) subendo esperienze atroci come la tortura, lo stupro o le mutilazioni genitali (solo per citarne qualcuna). Occorre ricordare che si muovono con la speranza di avere una speranza per il futuro e che in molti percorrono mezzo continente solamente per poter salire su imbarcazioni precarie dirette verso l’Europa. Occorre ricordare perché molti di questi migranti, se arrivano, finiscono in scenari come quello di Gioia Tauro mentre qualcuno gli dice che “la pacchia è finita”. Occorre ricordare perché non possiamo rimanere in silenzio.

Le tante facce dell’esclusione: il rapporto di Save the Children sull’infanzia

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Save the Children ha recentemente lanciato il rapporto “Le tante facce dell’esclusionepoiché povertà, conflitti e discriminazioni di genere minacciano l’infanzia di oltre la metà dei minori al mondo. Più di 1,2 miliardi di bambini rischiano di morire prima di aver compiuto 5 anni, di soffrire le conseguenze della malnutrizione, di non andare a scuola e ricevere un’istruzione o di essere costretti a lavorare o a sposarsi troppo presto. Senza sufficienti azioni urgenti il mondo non riuscirà a raggiungere l’obiettivo di garantire, entro il 2030, salute, educazione e protezione a tutti i minori, come previsto dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile approvati dall’Onu nel 2015. In questo senso anche il nostro paese deve compiere moltissimi passi poiché povertà economica ed educativa continuano a privare bambini e adolescenti delle opportunità necessarie per vivere l’infanzia che meritano e costruirsi il futuro che sognano. Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children ha dichiarato: “Non possiamo più permettere che così tanti bambini corrano il rischio di perdere la propria infanzia già dal momento in cui vengono al mondo e che siano costretti sin da subito a fare i conti con condizioni di forte svantaggio e ostacoli difficilissimi da superare. Ciò avviene perché semplicemente sono delle bambine, oppure perché nascono e crescono in contesti caratterizzati dalla povertà o dalla guerra, dove per loro altissimo è il rischio di essere costretti al lavoro minorile, di subire sulla propria pelle le conseguenze della malnutrizione oppure, per quanto riguarda le ragazze, di essere costrette a sposare uomini spesso molto più grandi di loro quando sono ancora soltanto delle bambine”. Nel rapporto viene stilato il secondo End of Childhood Index di Save the Children che confronta i dati più recenti per 175 paesi e valuta dove il maggior numero di bambini sta perdendo la propria infanzia. Singapore e Slovenia si classificano al primo posto nella classifica punteggio di 987 e altri sette paesi dell’Europa occidentale si classificano tra i primi 10 poiché raggiungono punteggi molto alti per la salute, l’educazione e lo stato di protezione dei bambini. Il Niger è l’ultimo tra i paesi intervistati, con 388 punti.

Classifica End of Childhood index

I contesti di povertà e le gravi conseguenze sul futuro dei bambini

Nei paesi in via di sviluppo un minore su cinque vive in povertà estrema ma questo problema riguarda anche le aree economicamente più avanzate, con ben 30 milioni di bambini e ragazzi che nei Paesi OCSE vivono in povertà relativa grave. Vivere in un contesto di povertà crea forti ostacoli alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla protezione dei bambini, alla loro possibilità di partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano da vicino e incide fortemente sulla possibilità di andare a scuola e ricevere un’educazione.  I bambini sperimentano in modo differente la povertà rispetto agli adulti: essere cresciuto in povertà ha un impatto negativo sullo sviluppo e l’apprendimento, oltre ad aumentare l’esposizione al rischio. Questi effetti durano una vita e vengono trasmessi da una generazione all’altra in quanto questi bambini non perdono l’infanzia perché poveri ma perché gli viene negato un buon inizio nella vita. Ciò avviene perché sperimentano una salute peggiore e tassi di malnutrizione e morte più alti, hanno una probabilità più alta di essere coinvolti nel lavoro minorile, di sposarsi precocemente o di essere precocemente in gravidanza. Non importa dove vivono, i bambini che vivono in povertà sono esposti a minacce di ogni tipo. Possono subire lo sfruttamento e l’abuso. Subiscono frequentemente bullismo e discriminazione, soprattutto a scuola, che causa ansia, frustrazione e rabbia. I bambini di tutto il mondo esprimono sentimenti di vergogna, insicurezza e disperazione. Nei paesi più ricchi, i bambini poveri riportano lo stigma e l’esclusione sociale nella ricezione di pasti scolastici gratuiti, di vestiti sporchi o non “alla moda”, o per non avere gli ultimi gadget, o perché non hanno i soldi per partecipare a eventi scolastici e altre attività di gruppo dei pari o perché non riescono a invitare gli amici a casa in quanto vivono in alloggi sovraffollati o sub-standard. Non mancano poi i bambini che lavorano per sostenere le proprie famiglie e così perdono il riposo, il gioco, la ricreazione e perdono l’opportunità di partecipare alla loro comunità, alla loro religione, allo sport e alle attività culturali. Dal rapporto di Save the Children emerge la stretta correlazione tra povertà e lavoro minorile, tra povertà e matrimoni precoci e tra povertà e gravidanze precoci.

I diritti negati dei minori nelle zone di guerra

Nelle aree segnate da guerre e crisi umanitarie è molto complicato, oltre che pericoloso, poter raccogliere dati aggiornati e avere una fotografia esatta che rappresenti realmente le difficilissime condizioni che sono costretti ad affrontare i bambini, perché si tratta di Paesi al collasso, dove le persone fuggono in massa per mettere in salvo le proprie vite e dove in molti casi nemmeno gli aiuti umanitari riescono a raggiungere la popolazione. Pensiamo, per esempio, a Paesi come la Siria o lo Yemen, dove i bambini, nelle loro giovanissime vite, finora non hanno conosciuto altro che bombe, violenza e disperazione; oppure alle gravi crisi umanitarie di cui sono vittime i bambini Rohingya, i bambini in fuga dalla Repubblica Democratica del Congo o i tanti minori gravemente malnutriti che lottano per sopravvivere in Somalia, uno dei Paesi più poveri al mondo, sconvolto negli ultimi mesi da una gravissima siccità e da decenni dilaniato da instabilità e violenze. Contesti in cui i bambini vengono derubati della propria infanzia e in cui nessun di loro, in nessuna parte del mondo, dovrebbe mai trovarsi”, ha affermato Valerio Neri. Nelle aree di crisi, soffrire la violenza, assistere alla violenza o temere la violenza può causare disabilità permanenti e traumi emotivi profondi. Inoltre, la separazione dai familiari e le difficoltà economiche possono esporre ragazze e ragazzi allo sfruttamento sotto forma di lavoro minorile, matrimonio infantile, violenza sessuale e reclutamento da parte di gruppi armati. A questi si aggiungono i pericoli meno visibili per i bambini in conflitto, ovvero la mancanza di cibo e il crollo dei servizi essenziali come assistenza sanitaria, igiene e istruzione. Sebbene l’istruzione sia disponibile in alcuni campi profughi, questa è spesso disorganizzata, temporanea, con risorse insufficienti, sovraffollata e limitata all’istruzione elementare. I bambini spesso non possono accedere alle scuole nei campi esterni per motivi di sicurezza, mancanza di documentazione, restrizioni alla circolazione di determinati gruppi di popolazione, per il costo relativo all’istruzione (ad es. per uniformi, tasse scolastiche, scuola pranzi, libri, trasporti) o la mancanza di competenze linguistiche necessarie per partecipare. Per esempio, circa i due terzi dei rifugiati vivono in aree dove nessuna delle lingue ufficiali è la lingua ufficiale nel loro paese di origine. Anche la xenofobia e la stigmatizzazione sono sfide per molti bambini rifugiati che hanno perso l’istruzione. Senza istruzione, i bambini sfollati affrontano un triste futuro e, soprattutto in tempi di crisi, l’educazione può offrire stabilità al bambino, protezione e la possibilità di acquisire conoscenze critiche e abilità. Le scuole possono anche servire come spazi sociali che uniscono famiglia e membri della comunità creando legami di fiducia, guarigione e supporto. Non fornire istruzione per i bambini sfollati può essere estremamente dannoso, non solo per bambini, ma anche per le loro famiglie e le società poiché perpetuano i cicli di povertà e conflitto. Nei Paesi in conflitto, malnutrizione, malattie e mancanza di accesso alle cure sanitarie uccidono molto più delle bombe.  A causa dei conflitti, sono ben 27 i milioni di minori che sono attualmente tagliati fuori dall’educazione, perché le loro scuole sono prese di mira dagli attacchi, occupate dai gruppi armati o perché i genitori hanno paura di mandare i figli a scuola. La perdita delle necessità di base richieste per l’infanzia, minaccia sia la sopravvivenza immediata che il futuro a lungo termine dei bambini. Inoltre, il conflitto tende a deprimere l’economia e ad aumentare il genere di disuguaglianze nei paesi poveri, rendendo una brutta situazione peggio per i bambini più vulnerabili.

Cholera patients isolated in a tent due to lack of rooms in the isolation ward. Hospital in Sana’a governorate Yemen.

Le discriminazioni contro le bambine e le ragazze 

Oggi le bambine e le ragazze hanno certamente molte più opportunità che in passato, tuttavia ancora troppe di loro, specialmente quelle che vivono nei contesti più poveri, sono costrette ad affrontare quotidianamente discriminazioni ed esclusione in svariati ambiti, dall’accesso all’educazione alle violenze sessuali, dai matrimoni alle gravidanze precoci. Nei contesti di povertà, rispetto ai loro coetanei maschi, le ragazze hanno maggiori probabilità di non mettere mai piede in classe nella loro vita. Stime recenti rivelano che circa 15 milioni di bambine in età scolare (scuola primaria) non avranno mai la possibilità di imparare a leggere e scrivere rispetto a 10 milioni di coetanei maschi. Spesso le famiglie più svantaggiate credono che dare in sposa le proprie figlie sia l’unica via possibile per assicurare il loro sostentamento, ciò comporta che i matrimoni precoci siano tra i fattori trainanti della negazione dell’opportunità di apprendere e ricevere un’educazione. Oggi, nel mondo, 12 milioni di ragazze si sposano ogni anno prima dei 18 anni e ai ritmi attuali si stima che entro il 2030 tale cifra supererà i 150 milioni. Le ragioni del matrimonio infantile variano di molto a seconda del contesto ma la maggior parte di essi si basa su situazioni che peggiorano durante i conflitti. Paura di stupro e violenza sessuale, la paura di gravidanze prematrimoniali indesiderate, la vergogna o il disonore famigliare, la paura di rimanere senza un tetto o la fame sono le ragioni riportate dai genitori e dai bambini per il matrimonio precoce. In alcuni casi, il matrimonio è stato utilizzato per facilitare la migrazione da paesi colpiti dal conflitto e campi profughi.  Quindi il fenomeno delle spose bambine è particolarmente rilevante anche nelle aree colpite dai conflitti, dove in molti casi le famiglie organizzano i matrimoni per proteggere le figlie da abusi e violenze sessuali. Tra i rifugiati siriani in Giordania, ad esempio, la percentuale di ragazze sposate prima di aver compiuto i 18 anni è cresciuta dal 12% nel 2011 al 32% nel 2014. In Libano, attualmente, risulta sposata prima dei 18 anni più di 1 ragazza profuga siriana su 4, mentre in Yemen la percentuale di spose bambine supera i 2/3 del totale delle giovani nel Paese, rispetto alla metà prima dell’escalation del conflitto. Il problema consiste nel fatto che si stima che 1 donna su 3 a livello mondiale abbia avuto esperienza di violenza fisica o sessuale nella propria vita e per lo più per mano dei loro partner. I tipi di violenza sperimentati possono includere selezione del sesso prenatale (feticidio – rimozione del feto femminile), infanticidio femminile, abbandono, mutilazione genitale femminile, stupro, matrimonio infantile, prostituzione forzata e delitto d’onore. Spesso la violenza sessuale e la prostituzione forzata vengono camuffate dal “matrimonio”. Queste sono gravi violazioni di diritti umani e sono state usate come armi da guerra in tutti i continenti e a questo si aggiunge che i bambini che sfuggono alla guerra e alla persecuzione sono particolarmente vulnerabili a diventare vittime della tratta. Le Ragazze e i ragazzi sono entrambi colpiti, ma il doppio delle ragazze lo sono segnalato come vittime della tratta: mentre le ragazze tendono ad essere trafficate per matrimoni forzati e la schiavitù sessuale, i ragazzi sono tipicamente sfruttati nei lavori forzati o come soldati.

A tale fenomeno è poi strettamente collegato quello delle gravidanze precoci: una questione particolarmente preoccupante considerando che le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano la prima causa di morte al mondo per le giovani tra i 15 e i 19 anni. La gravidanza da teenager è una sfida globale che colpisce sia i paesi ricchi che i paesi poveri allo stesso modo, ma i tassi di natalità sono più alti nei paesi dove ci sono meno risorse. In tutto il mondo, questo fenomeno ha più possibilità di manifestarsi nelle comunità emarginate, in cui vi è mancanza di istruzione e di lavoro, dove vi è disuguaglianza di genere, dove vi è mancanza di servizi di salute sessuale e riproduttiva e dove le donne e le ragazze hanno un basso status. È stato stimate che il 10-30% delle ragazze che abbandonano la scuola lo fanno a causa della gravidanza anticipata o del matrimonio; a causa del loro livello di istruzione inferiore, sono molte le madri adolescenti che hanno meno capacità e opportunità per occupazione e ciò alimenta i cicli di povertà. Save the Children ha sottolineato che mettere fine ai matrimoni e alle gravidanze precoci porterebbe a benefici economici entro il 2030 rispettivamente pari a 500 e 700 miliardi di dollari all’anno. La fine dei matrimoni precoci potrebbe risparmiare nei paesi in via di sviluppo trilioni di dollari poiché ridurrebbe la fertilità e la crescita della popolazione per migliorare i guadagni e la salute dei bambini. Il matrimonio minorile non colpisce solo la vita di milioni di ragazze ma ha anche un enorme impatto sull’economia. L’analisi di Save the Children mette, infine, in evidenza la piaga delle violenze fisiche e sessuali (dalle mutilazioni genitali femminili agli stupri alla prostituzione forzata) di cui troppo spesso le bambine e le ragazze sono vittime nel mondo.

Neri ha concluso dicendo che “Sono ancora troppi, come sottolinea il nostro rapporto, gli ostacoli che impediscono a tantissimi bambini e bambine al mondo di vivere a pieno la propria infanzia. Dalla lotta alla malnutrizione e a ogni forma di violenza, dall’accesso alla salute e all’educazione, chiediamo pertanto ai governi di impegnarsi concretamente ed efficacemente perché nessun bambino venga più lasciato indietro e a nessuno di loro venga più sottratto il proprio futuro”.

Women from a displaced community in a remote isolated location called ‘Found a Well’ in Western Sanaag under Somaliland rule. These pastoralist communities have congregated together at a known water source as their livestock herds have been depleted by the drought. Families report losing 80-90% of their livestock due to the drought. The only humanitarian assistance they have received to date has been a visit by Save the Children’s mobile Health Clinic.
Rainer Maria Baratti
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