GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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EST EUROPA

Due anni dall’inizio della guerra, nel tragico anniversario lo speciale di European Affairs

Guerra in Ucraina di

Sono passati due anni dal 24 febbraio 2022, il giorno in cui la Russia ha iniziato la sua guerra lampo, prima un attacco informatico per bloccare il sistema di comunicazione militare e poi l’invasione con le truppe di terra. Le immagini delle colonne di carri armati sulle strade asfaltate e nei centri abitati hanno fatto il giro del mondo, attoniti davanti ai televisori nessun europeo pensava di vedere una guerra di questo tipo ai confini dell’unione. Leggi Tutto

Ucraina: Il ministro della difesa sui social, “questo attaccao aereo è stato il più pesante della guerra”

EST EUROPA/EUROPA di

“Un massiccio attacco missilistico da parte di uno stato terroristico sul nostro territorio. Da molti mesi i russi accumulano missili per questi scopi: attacchi contro edifici residenziali, centri commerciali e ospedali in città ucraine pacifiche” ed “è ovvio che con le scorte di missili che hanno” i russi “possono continuare e continueranno attacchi” come quello odierno in diverse regioni del Paese con un bilancio di almeno 28 morti. Lo ha scritto su Facebook il ministro ucraino della Difesa, Rustem Umerov, che cita l’Aeronautica ucraina secondo cui i russi negli attacchi delle ultime ore “hanno usato missili balistici aviolanciati, missili balistici, missili da crociera, missili terra-ria e droni kamikaze Shahed” oltre ad aver “lanciato con 18 bombardieri strategici missili X-101/X-505”.

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Kiev bombardata, tra le vittime anche dei bambini

Guerra in Ucraina di

Putin ha celebrato la Giornata internazionale del bambino con un’altra uccisione di piccoli ucraini

Primo giugno, giornata internazionale del bambino, i russi hanno commesso un altro crimine di guerra: un attacco con missili balistici Iskander (ne sono stati lanciati dieci) in direzione di Kyiv, uccidendo tre civili, tra cui un bambino e sua madre. Si tratta di un altro crimine efferato commesso dai russi, che simboleggia la natura terroristica della Russia di Putin, che sta commettendo un genocidio contro gli ucraini per volontà di Putin.

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Il Dragone cambia pelle. L’evoluzione della politica estera di Pechino

 

Durante i giorni scorsi il Presidente russo Putin ha ospitato a Mosca il leader cinese Xi Jinping in visita ufficiale per una tre giorni di incontri diplomatico – politici.

Il vertice russo-cinese si è concluso con la pubblicazione di un documento congiunto nel quale sono stati ribaditi i parametri concettuali della convergenza delle posizioni geostrategiche dei due Paesi: la conferma dell’asse ideologico Mosca – Pechino quale alternativa al dominio USA, il supporto non condizionato alla Russia per l’Ucraina, la volontà di attrarre il Global SUD nella sfera di influenza russo-cinese e il consolidamento di una partnership economico finanziaria sino-russa in grado di bilanciare e annullare gli effetti del sistema occidentale delle sanzioni.

Indubbiamente, il profilo programmatico che deriva dalla formulazione di un tale documento rappresenta un elemento di estremo interesse per le conseguenze che investono lo sviluppo dello scenario internazionale, ma non risulta essere l’evento fondamentale che ha conferito un’estrema valenza geopolitica al vertice di Mosca.

Il fattore critico e di gran lunga più interessante per il prossimo futuro è risultato essere la conferma del ruolo che Pechino ha deciso di svolgere a livello internazionale con la presentazione della proposta di soluzione della crisi ucraina, che la Cina ha elaborato e discusso con il partner russo.

Anche se il documento era stato annunciato antecedentemente al meeting di Mosca, la sua presentazione durante l’incontro tra Putin e Xi conferisce un aspetto formale all’iniziativa di Pechino che si propone, non solo, come potenza neutrale interessata alla soluzione del conflitto, ma come grande potenza disposta a ricoprire il ruolo da protagonista nella gestione dell’ordine mondiale.

A sostegno di tale tesi deve essere intesa la dichiarazione di Xi di voler nei prossimi giorni contattare Zelensky per sondare la disponibilità dell’Ucraina a discutere la proposta cinese.

Questo cambiamento dell’orientamento della politica estera di Pechino risulta essere l’elemento di massima importanza che il vertice ha evidenziato, confermando che il successo del riavvicinamento diplomatico tra Arabia Saudita e Iran, conclusosi attraverso l’opera mediatrice della Cina, non ha rappresentato un’azione circoscritta nell’ambito di uno scenario locale, ma ha costituito il primo passo della nuova linea politica di Pechino.

Dopo la conferma della sua leadership interna con l’approvazione di un terzo mandato, il rafforzamento della cerchia di alleati fedeli con nuove nomine negli incarichi cardine del sistema politico, il superamento indenne delle critiche all’opzione Zero-Covid, adesso Xi Jinping ha intrapreso un nuovo step per condurre la Cina a imporre il proprio concetto di ordine internazionale e conquistare quel ruolo di egemonia mondiale che appartiene al DNA cinese da secoli.

Abbandonando la visione di Deng che rifiutava il coinvolgimento diretto nel contesto geostrategico mondiale, Xi ha dato inizio al nuovo corso della politica estera cinese.

Per poter consolidare la sua posizione in un tale contesto la partnership con la Russia – partnership e non alleanza, questo deve essere chiaro – risulta essere fondamentale per una serie di motivi di immediata comprensione. Innanzi tutto, questa amicizia senza limiti permette alla Cina di non dover distogliere parte delle sue risorse per fronteggiare un Paese ostile lungo le sue estese frontiere settentrionali. Successivamente, l’Orso Russo, agendo come lo spauracchio in una rinnovata Guerra Fredda, fantasticata e ardentemente rivissuta dall’Europa orientale e baltica, calamita l’attenzione di una NATO e di una Unione Europea sempre più a trazione orientale, focalizzandoli su uno scenario, oramai, di secondaria importanza, che li priva di una visione strategica globale e li costringe a concentrare le loro risorse nel punto sbagliato. Ultimo elemento di interesse, ma non meno importante, risulta essere la possibilità di usufruire delle enormi risorse naturali che la Russia possiede e che la Cina non ha, che consentirebbero a Pechino di disporre di un ulteriore vantaggio per supportare il processo di sviluppo interno.

L’elemento critico fondamentale della visione cinese nel sostenere il processo di costituzione di un ordine mondiale, alternativo a quella che viene percepita come un’egemonia occidentale, rappresenta un paradigma concettuale e ideologico certamente non originale, che, inizialmente, si è sviluppato attraverso gli schemi della contrapposizione di opposte teorie politiche basate, principalmente, sulla identificazione di sistemi economico finanziari differenti (capitalismo e socialismo).

Tale paradigma, persa questa sua connotazione ideologica, si è, quindi, trasformato in una lotta manichea tra il Bene e il Male, rappresentati dai sostenitori del sistema democratico opposto a quelli che perseguono una impostazione autoritaria.

Questa visione tipicamente occidentale si è sublimata nella narrativa che ha contraddistinto, dall’inizio, l’ultima e più attuale fase della crisi ucraina: l’Ucraina è l’ultimo baluardo della democrazia e della libertà dell’Occidente contro la barbarie autocratica che viene da oriente.

La miopia che contraddistingue questa visione geopolitica è stata usata dalla Cina per costruire la sua narrative a supporto della necessità di un nuovo ordine.

Senza dover inventare nulla ha ripreso i concetti culturali sviluppati dall’Occidente (pace, collaborazione, libero sviluppo della tecnologia a favore di tutti, benessere sociale, ruolo fondamentale delle Istituzioni Internazionali), li ha integrati con la propria visione (i concetti di democrazia e di libertà individuali non sono univoci, devono essere adattati alla realtà culturale dei vari Paesi, non ingerenza nelle tematiche interne degli Stati), li ha mischiati per bene e ha servito la propria mano, proponendo un nuovo ordine multipolare, democratico, pacifico dove le alleanze lasciano il posto alla collaborazione tra Stati, dove il Global Sud sia protagonista e non più terra di conquista e dove, soprattutto, la Cina sia la potenza dominante ed equilibratrice dell’intero sistema!

In linea di principio il discorso non fa una grinza in quanto usa e ripropone i valori culturali cari all’Occidente, anche se la loro declinazione è leggermente differente. Insiste sui principi geopolitici condivisi dall’Occidente e sulla preminenza delle Istituzioni da noi create. Fa riferimento a una pace cosmica e una collaborazione disinteressata.

Ma in realtà propone un sistema completamente differente, dove i valori culturali e i principi liberali sono stravolti a beneficio di un’organizzazione di relazioni internazionali non più guidate e sorrette da concetti universali e applicabili indistintamente al genere umano, ma adattate ai singoli casi a seconda della convenienza dello Stato.

E la Cina non ha fatto mistero di questa sua interpretazione, anzi, non ha perso occasione per propagandarla e dichiararla con documenti pubblici: la dichiarazione congiunta prima delle Olimpiadi a febbraio dello scorso anno, il documento di condanna degli Stati Uniti emanato dal Ministero degli Esteri cinese di inizio anno e adesso la dichiarazione finale del meeting appena concluso.

Tutto questo in aggiunta alla crescente proattività a tutto campo che ha contraddistinto la Cina negli ultimi anni con iniziative diplomatico-economico-finanziarie in Medio Oriente, in Africa, nel Pacifico.

Insomma, non si tratta di una operazione segreta volta a svelare all’improvviso un complotto teso a sovvertire l’ordine mondiale, ma una scelta programmatica precisa, chiara e pubblicizzata senza riserve e senza peli sulla lingua.

Ma questo non basta per un Occidente sempre più incapace di guardare al di là di un orizzonte limitato e senza profondità. Un Occidente che continua a giocare a Risiko invece di comprendere che il mondo è definitivamente cambiato, dove le regole che noi vogliamo usare non sono più accettate e condivise dagli altri, dove ancora pensiamo e ragioniamo in termini di interesse privato e nazionale, illudendoci che il Vecchio Continente sia ancora il centro del mondo.

Il sistema USA sta disperatamente cercando di tracciare una rotta da dare alla propria geopolitica, barcollando nell’illusione utopica di poter sanzionare il mondo intero, qualora questo non condivida la sua visione.

L’Europa bluffa con se stessa illudendosi di essere un modello di virtù e di valori da imitare a occhi chiusi, senza rendersi conto che ancora si rifà a un sistema di relazioni internazionali che risalgono a un concetto che ormai appartiene al passato, accanendosi nel sostenere un sistema che privilegia gli interessi delle singole nazioni a scapito di una unione europea reale e coesa.

Se non fosse estremamente pericoloso per il nostro futuro assetto nel contesto internazionale, sarebbe perfino ridicolo l’atteggiamento di paesi come la Francia e Germania, che ancora ritengono di potersi contendere la guida di un continente, o come il Regno Unito che, una volta svincolatosi dalla zavorra dell’Unione Europea, credeva di essere diventato di nuovo l’Impero Britannico.

L’Occidente, insomma, sta illudendo sé stesso, precipitato in un conflitto che non sa come fermare e che lo sta danneggiando sempre di più, travolto da una retorica che fa riferimento a un mondo scomparso (non ci darà una nuova Norimberga perché non ci sarà una resa senza condizioni), ma non è capace di fermarsi e di guardare al futuro con lucidità.

La Cina ci ha battuto sul tempo proponendosi come la Grande Potenza che dirime i conflitti, assicura la prosperità e garantisce l’ordine mondiale. Purtroppo, l’Occidente nella sua presunzione si ostina a non volerlo capire!

 

 

 

UCRAINA: PRIGOZHIN, RECLUTERO’ 30MILA UOMINI PER LA WAGNER ENTRO MAGGIO

Guerra in Ucraina di

Mosca, 18 mar. (Adnkronos) – Il capo del gruppo russo di mercenari Wagner, Yevgeni Prigozhin, ha dichiarato di voler reclutare altri 30mila uomini entro metà maggio. L’annuncio, riferisce la Cnn, arriva
in un messaggio video su Telegram, in cui Prigozhin afferma di reclutare 5-800 uomini al giorno, con punte di 1200. A gennaio, Prigozhin ha interrotto il reclutamento nelle carceri. Recentemente ha annunciato di aver aperto 42 centri in tutta la Russia per ingaggiare nuovi mercenari destinati a combattere in Ucraina.

Alfredo Bosco e Andrea Sceresini bloccati a Kiev, revocati gli accrediti per seguire la Guerra in Ucraina

Guerra in Ucraina di


Dal 6 febbraio dopo oltre un anno di attività sul campo ai due giornalisti è stato revocato l’accredito necessario per seguire il conflitto. I due reporter – che lavorano per varie testate europee, tra cui LA7, Mediaset, il Manifesto, l’emittente tedesca Rtl, l’Espresso, il Fatto Quotidiano, le Figaro Magazine, la Croix, sono esperti di reportage in zona di guerra, Alfredo Bosco ha seguito dal 2014 la crisi Russo-Ucraina ma nel suo curriculum ci sono attività giornalistiche nei punti più caldi del globo, dal medio oriente al Messico dove ha raccolto le testimonianze della lotta al narco traffico. Leggi Tutto

Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!

I rapporti tra Iran e Azerbaigian sono sempre stati caratterizzati da un’accesa rivalità dovuta sia alla politica di potenza regionale di Teheran sia alle aspirazioni della minoranza azera in Iran di entrare a far parte di un Azerbaigian allargato.

Recentemente questo stato di tensione si è acuito a seguito dell’interesse iraniano di svolgere un ruolo più attivo nel decennale conflitto che investe il Nagorno-Karabakh. Il supporto che Teheran ha offerto all’Armenia ha scatenato una reazione decisa da parte di Baku che ha elevato il livello del confronto portando a un dispiegamento di forze da parte di entrambi i due Paesi lungo la linea di confine.

Tuttavia, se la possibilità di arrivare a uno scontro militare appare abbastanza remota, è opportuno sottolineare quali siano le premesse di questa nuova mossa di Teheran.

In primo luogo, questa escalation nei rapporti con Baku conferma la strategia iraniana di svolgere un ruolo importante, non solo nella regione mediorientale ma anche nel vicino Caucaso, nell’ottica di rafforzare e consolidare il ruolo di potenza regionale che rappresenta l’obiettivo del regime di Teheran.

In secondo luogo, dimostra che le recenti ondate di proteste interne, ritenute spesso in Occidente la premessa di una primavera iraniana, non hanno minimamente scalfitto la linea di politica estera perseguita dall’Iran, confermando la solidità dell’impianto statale del Paese.

Da ultimo, ma sicuramente di non minore rilevanza, questi recenti sviluppi dimostrano che è in atto un processo di ridefinizione degli equilibri regionali come conseguenza dell’andamento del conflitto in Ucraina.

La Russia pur continuando a essere la potenza protagonista dell’area caucasico-mediorientale, deve accettare come contropartita del supporto diretto o indiretto ricevuto nella gestione della crisi ucraina che sia la Turchia sia l’Iran possano svolgere un ruolo più incisivo nel perseguimento dei loro obiettivi geostrategici locali.

In tale scenario, infatti, Ankara cerca di risolvere i problemi legati alla componente militare del PKK che viene percepita come una minaccia costante alla sua integrità territoriale mentre Teheran vorrebbe eliminare la possibilità dell’espansione azera, considerata un probabile stimolo per pericolosi secessionismi nell’area settentrionale dell’Iran.

Ma il fattore più importante da valutare è che, lontano dall’essersi cristallizzato sulla crisi ucraina, lo scenario geopolitico mondiale continua a essere in continua evoluzione e che l’Occidente non lo percepisce.

Quanto avviene nella regione del Caucaso meridionale dovrebbe stimolare nell’Occidente una riflessione a più ampio spettro sulla gestione della crisi ucraina.

Ogni giorno la narrative che i nostri media ci propongono è quella dell’impossibilità di pervenire alla fine della crisi se non attraverso la sconfitta totale della Russia, il suo annichilimento politico, l’imposizione di un cambio di regime che, nella visione utopico-ipocrita dell’Occidente, preconizza la nascita di un sistema democratico, liberale, sottomesso e privo di identità nazionale.

La resa incondizionata, il ritiro oltre gli Urali, l’assunzione della piena e unica responsabilità del conflitto, il pagamento dei danni di guerra, e delle spese di ricostruzione, una nuova Norimberga, sono dei vaneggiamenti politici che fanno riferimento a un passato che non si ripeterà, semplicemente perché le condizioni e la situazione sono profondamente differenti.

Se questa narrative mediatica ha sviluppato un suo appeal che ha consentito di giustificare quelle che sono state in realtà le conseguenze di una valutazione geopolitica sbagliata, l’evoluzione del contesto mondiale ci deve spingere a un approccio al problema più pragmatico, più realista e meno intriso di morale spicciola, dove è imperativo porre fine a questa proxy war continuazione inutile della Guerra Fredda, con il conseguimento di una soluzione diplomatica bilanciata a beneficio di tutti: l’Ucraina, la Russia, l’Europa, gli Stati Uniti.

La domanda che i media occidentali dovrebbero fare è la seguente: è politicamente indispensabile che la crisi si concluda solo con una resa incondizionata e totale della Russia, come il mantra mediatico di Zelensky richiede in ogni apparizione pubblica del leader maximo dell’Ucraina, oppure non appare più opportuno (e diplomaticamente più corretto) ricercare una soluzione mediata che possa porre un termine al conflitto?

Fermo restando l’inaccettabilità del ricorso alla forza come risoluzione delle problematiche internazionali, siamo proprio sicuri che quanto sta avvenendo nell’Europa dell’Est sia solo il risultato di un delirio zarista – imperialista da parte di Putin e, magari, non sia invece la conseguenza di azioni politico-diplomatiche poco avvedute e di errori di valutazione geopolitica?

La visione dell’Occidente, nel corso della sua storia, è stata caratterizzata da un proselitismo con vocazione missionaria volta a propagandare i propri valori, sia nel campo religioso sia in quello culturale, nella convinzione assoluta che essi fossero non solo i migliori ma, anche, gli unici ai quali il genere umano dovesse aspirare per realizzarsi compiutamente.

Il punto non è quello di disquisire se il nostro sistema di valori sia realmente universale o meno, ma quello di chiederci se quello che noi, Occidente, consideriamo vero sia, realmente, ciò che gli altri percepiscono come realtà.

Nella fattispecie, il nostro costrutto culturale e sociale ci ha portato a identificare il significato che noi diamo ad alcuni valori come assioma assoluto e universale, senza il minimo dubbio che questo significato sia condiviso anche dagli altri a cui noi imponiamo, come assoluti, questi valori.

Inoltre, i traumi profondi che il XX secolo ha inciso nella nostra coscienza collettiva ci hanno spinto a identificare la soluzione ideale per sconfiggere i nostri incubi nella creazione di alcune istituzioni internazionali, che, permeate di buoni propositi e basate sui valori culturali di una società occidentale ritenuta universale, ci hanno consentito di sviluppare una specie di eden in un mondo dove il conseguimento del benessere e della pace sono ancora obiettivi di un orizzonte lontano.

L’ONU, l’Unione Europea, la NATO sono l’espressione diretta della nostra aspirazione a una serenità e una sicurezza universale e incondizionata. Chiunque metta in discussione questo assioma deve essere condannato e va fermato per il bene universale.

Anche qui il punto non riguarda la valutazione di merito di queste organizzazioni, ma concerne il fatto di come queste organizzazioni siano viste e percepite da chi non ne fa parte.

Nel particolare, sia l’Unione Europea sia, soprattutto, la NATO sono considerate con sospetto e con paura dalla Russia nella cui matrice storico-culturale queste organizzazioni sono identificate come una minaccia alla propria indipendenza e alla propria sicurezza.

Quando la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha fatto emergere il problema del vuoto di potere nell’Est Europa la soluzione adottata è stata quella di inglobare i Paesi dell’Europa Orientale nella NATO e nell’Unione Europea nel tentativo di assimilare le nuove democrazie al contesto occidentale.

Ma questo processo non ha tenuto conto della percezione russa del problema, che si è manifestata nel momento in cui l’ombra della UE e della NATO si è proiettata sull’Ucraina (vertice NATO di Bucarest del 2008: Bucharest Summit Declaration – Issued by the Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council in Bucharest on 3 April 2008 – para 23. “NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO. We agreed today that these countries will become members of NATO…..”).

L’alternanza di governi pro Russia e pro USA che hanno caratterizzato la scena ucraina nel presente millennio, la difficoltà dei vari movimenti nazionalisti di accettare minoranze linguistico culturali di matrice russa in Ucraina e il tentativo di usare il Paese per conseguire obiettivi geostrategici da ambo le parti (Occidente e Russia) hanno avuto come conseguenza diretta l’acuirsi della crisi e il suo trasformarsi in conflitto.

Questo, nella narrativa occidentale, ha poi assunto la fisionomia di una crociata delle forze del bene dove un’Ucraina democratica e liberale difende la democrazia e la libertà dell’Europa minacciate dall’autocratismo zarista.

Purtroppo, la realtà è differente. La crisi ucraina è la conseguenza del concatenarsi di una serie di azioni diplomatico-politiche e di valutazioni geostrategiche superficiali, effettuate da parte di entrambe le parti in causa, dove gli interessi in gioco sono di carattere economico (l’Ucraina è un territorio enormemente ricco) e geopolitico (la percezione della sicurezza dei confini e il ruolo sulla scena mondiale). La Russia non attenta alla nostra democrazia e alla nostra libertà, che sono valori troppo radicati nella nostra cultura per essere minacciati da questa crisi.

La reale minaccia all’Europa siamo noi stessi quando abiuriamo ai nostri valori, quando non vogliamo vedere oltre la superficie, quando non ammettiamo una prospettiva differente dalla nostra, quando neghiamo la realtà perché mette in risalto i nostri errori. Questo è quello che sta accadendo nella gestione della crisi ucraina, vogliamo eliminare l’effetto perché non accettiamo la causa: Delenda Mosca!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

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Maurizio Iacono
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