GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Che cos’è #EndSARS, il movimento di protesta nigeriano contro la brutalità della polizia

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Da settimane in Nigeria si protesta contro le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine, in particolare contro la cosiddetta SARS, acronico di Special Anti-Robbery Squad. Si tratta di un’unità speciale della polizia nigeriana da anni accusata di abuso di potere e violazione dei diritti umani.
In tutte le principali città del Paese i cittadini sono scesi in strada con un obiettivo ben preciso: mettere fine alla violenza arbitraria delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Il movimento di protesta è nato online, in particolare su Twitter, con l’hashtag #EndSARS, che ha accompagnato tante testimonianze e prove video che mostrano arresti arbitrari, uccisioni, rapine, stupri, torture e detenzioni arbitrarie da parte della SARS.

La Special Anti-Robbery Squad venne istituita nel 1992 come unità del Dipartimento di Intelligence e Investigazione Criminale della Nigeria, con l’obiettivo di contrastare l’ascesa della criminalità violenta nel Paese. Si tratta di un corpo di polizia che agisce a volto coperto contro crimini quali rapine a mano armata e rapimenti, e che, tuttavia, si è progressivamente trasformato in una forza repressiva pericolosa, che agisce nella più totale impunità.
Amnesty International monitora l’operato di SARS da anni, considerandola altresì responsabile di diversi abusi a danno dei detenuti nelle carceri. A maggio di quest’anno, l’Organizzazione ha diffuso un rapporto che documenta le torture subite da almeno 82 persone rinchiuse nei centri di detenzione SARS, tra gennaio 2017 e maggio 2020. Si tratta prevalentemente di giovani di età tra i 18 e 35 anni, per lo più appartenenti ai gruppi più vulnerabili della società nigeriana, vittime di esecuzioni, torture e sevizie. Questo spiega perché uno degli slogan principali delle proteste sia “We can’t be the future of our Nation if we are dead“.
Le fattispecie documentate dall’Organizzazione internazionale sono note da tempo in Nigeria, tanto che nel 2017 una petizione per l’abolizione di SARS raggiunse il parlamento di Abuja, con il sostegno di un analogo movimento di protesta pacifico nelle principali città del Paese. Le violenze e i soprusi ai danni della popolazione nigeriana, tuttavia, non si sono conclusi.

Proprio per questo la protesta si è riaccesa di recente, più precisamente lo scorso 7 ottobre, a seguito della diffusione di un video che testimonia l’omicidio di un ragazzo.
Le nuove manifestazioni contro la brutalità della polizia hanno ricevuto il supporto di numerose celebrità sportive e della musica in tutto il mondo; proprio grazie all’eco ricevuta, l’11 ottobre scorso, il Presidente Buhari ha dichiarato che avrebbe smantellato SARS, istituendo una nuova unità, la Special Weapons and Tactics (SWAT). Per i manifestanti, tuttavia, si è trattato solo di un mero cambio di denominazione, e la protesta è proseguita con la presentazione di 4 ulteriori richieste, nell’obiettivo di costruire “una società più equa e giusta, senza corruzione e prevaricazione”.
Si chiede il rilascio immediato di tutti i manifestanti arrestati, la creazione di un organo ad hoc che indaghi sulle denunce a carico della polizia, un esame psicologico di tutti gli ex membri della SARS prima dell’assunzione di nuovi incarichi nella polizia nigeriana, nonché la necessità di fare giustizia per tutte le vittime, prevedendo una compensazione per le loro famiglie.
Proprio due giorni fa Amnesty International ha denunciato  una nuova escalation di violenze in varie unità federali del Paese, tale da costringere alcuni governatori ad imporre un coprifuoco di 24 ore per arginare le proteste.

 

Libia: 8 ambasciatori europei presentano le lettere credenziali. Annunciata una nuova stagione di negoziati sotto l’egida dell’ONU

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In linea con la volontà dell’Unione europea di dare impulso al dialogo e agli sforzi di pacificazione in Libia, il 10 ottobre scorso il capo della delegazione dell’UE nel Paese africano e otto ambasciatori europei sono giunti a Tripoli per presentare le proprie lettere credenziali al Capo del Consiglio Presidenziale, Fayez al-Serraj, per la riapertura delle rispettive rappresentanze diplomatiche.

Si tratta degli ambasciatori di Germania, Belgio, Austria, Danimarca, Finlandia, Polonia, Spagna e Svezia, mentre la rappresentanza diplomatica ungherese risulta già operativa da qualche settimana.

Nel corso delle riunioni congiunte tra i diplomatici europei, al-Serraj e il Ministro degli Affari Esteri Mohammed Saiala, le autorità di Tripoli hanno ringraziato l’Italia per essere stata l’unico paese a non chiudere la propria ambasciata in loco dall’inizio delle ostilità, neppure durante l’attacco alla capitale avviato dal generale Haftar tra l’aprile 2019 e il giugno scorso. Le autorità libiche hanno riconosciuto il valore del gesto italiano, rinnovando l’auspicio che le altre ambasciate europee e la delegazione UE rientrino presto a Tripoli.

L’incontro si è prospettato come un’occasione per ribadire la volontà comune di continuare a dare seguito alle conclusioni adottate nell’ambito della Conferenza di Berlino, che nel gennaio 2020 ha tracciato il cammino da percorrere per una soluzione politica al conflitto libico. In quell’occasione, i governi di Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Repubblica del Congo, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e USA, insieme agli Alti Rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e dell’Unione Europea, sancirono il loro impegno per garantire la sovranità e l’integrità territoriale del Paese nordafricano, nella consapevolezza che solo un processo politico “guidato dai libici e dei libici”, potesse portare ad una pace duratura.

Nel corso delle riunioni, gli ambasciatori degli Stati europei hanno rinnovato la necessità di giungere ad un accordo di cessate il fuoco permanente, ripristinando il monopolio statale dell’uso legittimo della forza in tutto il Paese. Per il tramite degli ambasciatori degli Stati membri, l’Unione europea si è dichiarata pronta ad intensificare il proprio impegno per l’istituzione di un meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco, in stretto coordinamento con la missione delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL).

“Abbiamo sottolineato che l’UE, come avvenuto di recente con i cinque nuovi elenchi di sanzioni, è pronta ad adottare misure restrittive nei confronti di coloro che minano ed ostacolano il perseguimento degli obiettivi fissati alla Conferenza di Berlino, inclusa l’attuazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite in Libia”.

A tal proposito, la missione UNSMIL ha recentemente annunciato che la Tunisia ospiterà a inizio novembre il primo incontro in presenza del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), una volta concluse le consultazioni di preparazione allo stesso, il cui inizio è fissato al 26 ottobre prossimo. L’obiettivo del Forum sarà quello di creare consenso rispetto ad un quadro di governance unificato per il Paese, preparando le condizioni per arrivare ad indire elezioni politiche e presidenziali nel minor tempo possibile. Al LPD Forum parteciperanno i rappresentanti dei vari territori libici, sulla base dei principi di inclusione ed equa rappresentatività geografica, etnica, politica, tribale e sociale.

Di recente, infatti, gli sforzi della comunità internazionale per raggiungere una soluzione politica al conflitto libico si sono intensificati, come dimostra l’incontro in videoconferenza del 5 ottobre scorso tra le delegazioni di Tripoli e Tobruk, nel quadro del cosiddetto “Berlino 2”, un incontro volto a dar seguito al meeting del 19 gennaio scorso. Organizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite e della Germania, il meeting ha visto la partecipazione dei Paesi membri del cosiddetto “Comitato internazionale di follow-up”, composto dai Paesi e dalle Organizzazioni internazionali che presero parte all’incontro di gennaio, e di tutti i Paesi confinanti con la Libia, sotto la presidenza del Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas e del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres.

Al via il tour nordafricano del Segretario alla Difesa USA contro l’influenza di Mosca e Pechino

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Il 30 settembre scorso il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Mark Esper, ha iniziato un tour in Nordafrica, nell’obiettivo dichiarato di “rafforzare le vecchie alleanza e stabilirne di nuove”. Tunisi è stata la prima tappa capo del Pentagono, seguita dalla visita in Algeria e in Marocco.

Qui, come pure in Tunisia, le visite di funzionari militari statunitensi avvengono di frequente, vista la consolidata cooperazione tra i due Paesi e Washington nel settore della difesa. Diverso è invece il caso dell’Algeria. Infatti, da quasi 15 anni un Primo segretario alla Difesa statunitense non giungeva ad Algeri, in ragione della vicinanza tra l’ex Presidente Bouteflika e i governi di Mosca e Pechino. L’ultimo Segretario alla Difesa USA a visitare il Paese era stato Donald Rumsfeld nel 2006.

Nel corso della visita in Tunisia, Esper ha incontrato il presidente Kaïs Saied ed il ministro della Difesa Ibrahim Bertagi, con il quale ha sottoscritto una Roadmap decennale per la cooperazione bilaterale in campo militare. Il focus è posto sul potenziamento delle capacità operative delle forze armate tunisine, con primo riferimento alla lotta al terrorismo e alla stabilizzazione di un’area geopolitica complessa, nella quale, oltre alla crisi libica e alla perdurante instabilità del Sahel, si è aggiunto il recente colpo di Stato in Mali.

Maggiore attesa c’era per la tappa in Algeria, e l’incontro con il presidente Abdelmadjid Tebboune, giunto alla guida del Paese alla fine dello scorso anno, con la vittoria alle elezioni dopo vent’anni, ovvero quattro mandati, targati Abdelaziz Bouteflika. Le sue dimissioni, pronunciate il 2 aprile 2019, sono state lette da Washington come un’opportunità. A tale proposito, il Segretario USA ha dichiarato la volontà di “approfondire la cooperazione con l’Algeria su questioni chiave, come la sicurezza regionale e la minaccia dei gruppi estremisti”. Analogamente, Stephen Townsend, capo del Comando USA per l’Africa noto come AFRICOM, ha dichiarato che l’Algeria è per gli USA “un partner fondamentale” nella lotta al terrorismo, ribadendo la necessità di rafforzare la collaborazione reciproca, dando avvio ad una nuova alleanza “che guardi a sud, verso l’instabilità del Sahel, e a nord, verso le acque calde del Mediterraneo”.

Oltre a rafforzare i legami con la Tunisia ed allontanare l’Algeria dalle mani della Russia, l’obiettivo del tour nordafricano di Esper è anche quello di contrastare la crescente influenza cinese, ormai contraddistinta da un discreto hard power nella regione. Da circa tre anni a Gibuti c’è una base militare cinese, e l’Algeria, il sesto importatore d’armi al mondo, dai dati dell’autorevole istituto svedese Sipri, figura come la terza destinazione dell’export militare di Pechino, come pure di Mosca.

Eppure, alla fine del 2019, dopo l’annuncio sul ritiro di militari USA dalla Siria, emersero indiscrezioni su un piano del Pentagono per ridurre l’impegno in Africa rispetto ai circa settemila militari presenti, per lo più impegnati nel contrasto al terrorismo internazionale. Un’intenzione confermata lo scorso gennaio dallo stesso Esper, nell’ambito di una “revisione complessiva” degli impegni all’estero, che trovò l’opposizione del generale Townsend, da poco più di un anno alla guida di AFRICOM, che evidenziò il rischio delle mire di Russia e Cina per l’estensione delle proprie intese militari e commerciali nel Continente.

Non è possibile predire se tale consapevolezza si tradurrà in un passo indietro rispetto alla riduzione della presenza militare americana, ma, ciò che è certo, è che l’esito del tour nordafricano del capo del Pentagono giocherà un ruolo fondamentale nella decisione definitiva.

Libia: Ankara respinge le sanzioni UE, “Operazione Irini premia Haftar e punisce il GNA”

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Ankara ha condannato le sanzioni imposte dall’UE a carico di una compagnia battente bandiera turca, accusata di violazione dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite in Libia. Lo scorso 21 settembre, infatti, l’Unione ha disposto il congelamento dei beni della nota compagnia Avrasya Shipping, già nel mirino degli Stati europei dopo l’incidente militare di alcuni mesi fa, avvenuto tra una delle navi da carico della compagnia ed una nave francese, nelle acque del Mediterraneo orientale. L’imbarcazione francese faceva parte della missione europea nota come Operazione Irini, istituita nell’intento di garantire il rispetto dell’embargo sulle armi nel Paese africano. In quell’occasione, una fregata di Ankara impedì alla nave francese di ispezionare il carico dell’imbarcazione, determinando quello che Parigi ha definito come “un atto ostile”. Il Presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, negò l’accusa di traffico di armi, affermando che la nave da carico trasportasse aiuti umanitari, e accusando Parigi e l’Unione Europea di diffondere “critiche infondate”.

Fin dall’istituzione della missione europea nell’aprile 2020, la Turchia e il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli hanno duramente criticato l’iniziativa, definendola inefficace; trascurando il controllo dei confini terresti del Paese, la missione viene altresì accusata di favorire, o almeno non contrastare, l’arrivo di armi e munizioni destinate all’esercito del generale Khalifa Haftar.

Nonostante le smentite di Ankara, l’Unione ha confermato le accuse a carico della compagnia turca, approvando, lo scorso 21 settembre, sanzioni finalizzate al congelamento dei beni della compagnia Avrasya Shipping. Anche in questo caso, la reazione di Ankara non si è fatta attendere, e, per il tramite del Ministro degli Esteri,  ha dichiarato che “l’Operazione europea Irini premia Haftar e punisce il Governo libico riconosciuto dall’ONU”, aggiungendo che le sanzioni, dal suo punto di vista, non avrebbero alcun valore.

All’interno della dichiarazione pubblicata dall’agenzia Anadolu, il Ministro turco ha affermato che l’Unione Europea dovrebbe abbandonare la sua posizione di parte, scegliendo di agire a fianco della Turchia nel quadro di operazioni di consultazione e cooperazione, nell’intento di garantire un’effettiva stabilità nella regione.

Oltre alle sanzioni contro la compagnia turca, l’UE ha adottato sanzioni anche nei confronti di due cittadini libici e di altre due note compagnie: Sigma Airlines del Kazakistan e Med Wave Shipping della Giordania. Quest’ultima, in particolare, è considerata tra i principali esportatori di armi a favore di Haftar e del suo esercito.

Quando si cerca di ridurre le tensioni nel Mediterraneo orientale, prendere una decisione così sbagliata è spiacevole”, ha aggiunto il Ministro degli Esteri turco, riferendosi alle trattative in corso per favorire la de-escalation tra Grecia e Turchia sui diritti di sfruttamento energetico delle risorse naturali nel Mediterraneo orientale. Al riguardo, Ankara è stata più volte accusata di compiere “gesti provocatori”, innescando nuove tensioni tra i Paesi interessati con l’avvio di  attività di esplorazione e perforazione energetica nelle acque contese di quell’area del Mediterraneo. Sebbene le tensioni tra Atene ed Ankara negli ultimi giorni si siano ridotte, in risposta alle sanzioni dell’UE la Turchia potrebbe tornare a compiere azioni unilaterali in quell’area del Mediterraneo, a discapito degli interessi di Grecia e Cipro, e per le quali potrebbe rischiare di essere destinataria di nuove sanzioni europee.

Libia: il premier al-Serraj annuncia le dimissioni entro fine ottobre

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La sera del 16 settembre scorso il Primo ministro libico, nonché capo del Consiglio Presidenziale del governo di Tripoli, Fayez al-Serraj, ha annunciato la volontà di dimettersi dal suo incarico entro la fine di ottobre. L’annuncio è avvenuto in occasione del discorso che il Presidente ha pronunciato per l’anniversario della morte di Omar al-Mukhtar, considerato l’eroe nazionale che guidò la resistenza anticoloniale contro l’Italia negli anni Venti.

Consapevole della situazione di instabilità in cui il Paese vive dal febbraio 2011, al-Serraj si è detto timoroso rispetto agli sviluppi successivi, primo fra tutti il percorso che porterà alla delicata designazione di una nuova “autorità esecutiva”, incaricata di guidare il Paese nel corso della transizione. Proprio per questo, l’annuncio ufficiale vi sarà, presumibilmente, al termine dei colloqui necessari per giungere alla formazione di un nuovo esecutivo e alla nomina di un nuovo primo ministro.

Notando le divergenze e i fenomeni di polarizzazione che animano il “clima politico e sociale” del Paese, il Primo ministro ha insistito sulla necessità di evitare qualsiasi “rischio di rottura”, accusando “le parti libiche ostinate” di acuire ulteriormente tali fenomeni di “schieramento”.

A questo proposito, il premier del GNA ha esortato il “comitato del dialogo”, l’organo che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, sarà responsabile della formazione del nuovo governo, ad accelerare le procedure e ad adempiere ai propri impegni e alla propria “responsabilità storica”, così da garantire una transizione “pacifica e regolare”. Parallelamente, al-Sarraj ha accolto con favore le consultazioni e gli incontri tra i delegati delle due fazioni in lotta, anch’essi promossi dall’ONU, che mirano a unificare le istituzioni prima di indire elezioni legislative e presidenziali.

Come è noto, al Serraj è stato posto a capo del GNA dal marzo 2016, a seguito di 18 mesi di negoziati che nel dicembre dell’anno precedente avevano condotto alla firma dell’accordo di Skhirat, anche noto come Libyan Political Agreement (LPA). A firmare l’accordo, concluso sotto l’egida dell’ONU, furono i 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk — città della Cirenaica attualmente sotto il controllo del generale Khalifa Haftar —, e 69 deputati del Congresso Nazionale di Tripoli – città sede dl Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Serraj.

Tuttavia, i contrasti tra le due fazioni, come è noto, non sono mai cessati, rendendo ancora più difficile l’avvio di una effettiva transizione democratica. Ad oggi, dopo la conclusione nel mese scorso dell’accordo con Tobruk sul cessate il fuoco e la smilitarizzazione di Sirte e Jufra, Serraj è più che mai convinto della necessità di aprire una stagione di cambiamento: il Consiglio presidenziale ha ormai esaurito le sue funzioni, servono nuove elezioni, da indire entro il mese di marzo 2021. Una data che Serraj sarebbe disposto a spostare in avanti, qualora dai colloqui politici in corso dovesse invece emergere la preferenza per una fase transitoria in preparazione del voto. Alcuni osservatori internazionali hanno descritto come “tattiche” le dimissioni di al-Serraj, una mossa per accelerare le trattative in vista di un nuovo esecutivo già nel mese prossimo, e prima delle elezioni americane. Non a caso, è stata annunciata la convocazione, per il 5 ottobre prossimo, di un vertice internazionale sulla Libia, come naturale prosecuzione della Conferenza di Berlino del gennaio 2020.

 

Il Sudan firma uno storico accordo di pace

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Il governo del Sudan e il Fronte Rivoluzionario del Sudan (SRF), l’organizzazione che unisce gruppi ribelli degli stati sudanesi del Darfur Occidentale, del Kordofan Meridionale e del Nilo Azzurro, hanno firmato a Giuba un accordo di pace che mette fine a diciassette anni di guerra civile. Si tratta di un accordo storico, che vede la luce dopo lunghi e complessi negoziati tra le parti in lotta, un passo importante per la transizione democratica ed economica del Sudan.

La guerra tra forze governative e SRF nei territori del Kordofan Meridionale e del Nilo Azzurro, era iniziata nel 2011, a seguito di conflitti non risolti durante la guerra civile sudanese del 1983-2005, mentre il conflitto in Darfur, come è noto, aveva preso avvio già nel 2003. In quest’ultima regione, le fazioni in lotta erano i miliziani arabi della tribù dei Baggara noti come i Jajawid, minoritari nell’area ma maggioritari nel resto del paese, e la popolazione non Baggara della regione, rappresentata dai gruppi ribelli del Sudan Liberation Movement e del Justice and Equality Movement; secondo dati delle Nazioni Unite, solo quest’ultimo conflitto ha portato alla morte di oltre 300mila persone.

Dopo quasi due decenni di guerra civile, il nuovo accordo di pace apre quindi ad un importante processo di riconciliazione. Il Comprehensive Peace Agreement cui si è giunti si compone di otto protocolli, i quali regolano aspetti cruciali delle relazioni tra lo stato centrale e i territori periferici, nel quadro di un rinnovato sistema di governo federale: nei documenti si attribuisce infatti autonomia amministrativa ai governi del Darfur Occidentale, del Nilo Azzurro e del Sud Kordofan, disponendo l’integrazione delle forze militari degli ex ribelli all’interno dell’esercito sudanese entro un periodo di 39 mesi.
L’accordo prevede inoltre l’istituzione di una Commissione nazionale per la libertà religiosa, con il mandato di garantire la tutela dei diritti delle comunità cristiane nel sud del Paese.

Va notato che il percorso che ha portato alla firma dell’accordo è stato lungo e non certo agevole. Bisogna infatti ricordare, che già nel 2006 si era giunti ad un accordo per la pacificazione della regione del Darfur, che tuttavia finì per determinare soltanto una temporanea sospensione delle ostilità, poi riprese pochi mesi più tardi.

Ad oggi, dopo la caduta di al-Bashir nel 2019 e l’insediamento del governo presieduto dall’ex funzionario delle Nazioni Unite Abdalla Hamdok, il percorso di pacificazione sembra poter dare risultati più credibili. La pacificazione delle regioni meridionali del Kordofan meridionale e del Nilo azzurro, oltre che del Darfur, è sempre rientrata tra le priorità dell’agenda politica del Primo Ministro Hamdok, considerandola come la precondizione fondamentale per il successo della transizione democratica avviata ormai da un anno. Accogliendo la maggior parte delle richieste dei ribelli, il governo è ora finalmente riuscito a concludere un accordo storico, accolto con entusiasmo anche dai leader dei movimenti ribelli, che al momento della firma hanno alzato i pugni in segno di vittoria.

I presupposti per una pace duratura, intesa come condizione fondamentale per garantire l’assetto democratico, appaiono oggi ben più fondati che in passato. Il 3 settembre scorso, ad esempio, il Primo Ministro Hamdok e il ribelle al-Hilu hanno firmato una dichiarazione d’intenti in cui, tra le altre cose, si prevede che la separazione tra stato e religione dovrà essere posta a fondamento della nuova costituzione sudanese, così come richiesto dai pochi gruppi ribelli non firmatari dell’accordo di pace. La volontà dimostrata da questi ultimi a proseguire i negoziati, allargando la base di consenso interno attorno all’accordo, è un segnale positivo per la fine definitiva del conflitto.

 

 

Prima visita dell’Alto Rappresentante Borrell in Libia: “preservare l’integrità territoriale, la sovranità e l’unità nazionale” priorità dell’agenda UE

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L’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell, per la prima volta dall’inizio del suo mandato, martedì primo settembre ha tenuto una visita ufficiale in Libia.

Nel corso della visita, Borrell ha incontrato il capo del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, Fayez al-Serraj, e il Presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, nell’intento di incentivare gli sforzi europei verso la ripresa del dialogo politico in Libia,  favorendo il raggiungimento di una soluzione pacifica al conflitto. Nel discutere degli ultimi sviluppi nel Paese, l’Alto Rappresentate dell’Unione ha altresì ribadito che la Libia rimane in cima all’agenda politica dell’UE, il cui obiettivo è preservare la sovranità, l’integrità territoriale, e l’unità nazionale del Paese nordafricano.

Come è noto, la visita giunge qualche giorno dopo l’accordo del 21 agosto tra al-Serraj e Saleh per l’avvio di un cessate il fuoco, il ritorno dei foreign fighters, ed il rilancio del processo politico per l’avvio di riforme strutturali giungendo ad elezioni politiche.

Nelle sue riunioni a Tripoli e ad al Qubah, Borrell ha accolto con favore l’intesa raggiunta, sottolinenando la necessità di una sua rapida ed effettiva attuazione. Già il giorno successivo alla conclusione dell’accordo l’Unione europea, per il tramite dell’Alto rappresentante, aveva dichiarato:

Questo è un primo passo avanti costruttivo, che dimostra la determinazione dei leader libici a superare l’attuale situazione di stallo e crea una nuova speranza per un terreno comune verso una soluzione politica pacifica alla crisi libica di lunga durata e la cessazione di tutte le interferenze straniere nel paese. Sosteniamo pienamente l’accordo sui principi per cessare immediatamente tutte le attività militari in Libia, richiedendo la partenza di tutti i combattenti stranieri e mercenari presenti in Libia, e riprendere il processo negoziale nel quadro del processo di Berlino”.

Anche in questa occasione, l’Alto rappresentante ha incoraggiato i partner internazionali a dare ascolto ed incoraggiare l’impegno degli interlocutori libici, intenzionati a lavorare per attuare questi principi nel quadro della Conferenza di Berlino, guidata dalle Nazioni Unite. A questo, secondo Borrell, l’unico processo capace di offrire “un’opportunità realistica per il dialogo politico, necessario per porre fine al conflitto libico”. Le discussioni del funzionario europeo con le controparti libiche hanno infine toccato il tema dell’embargo sulle armi imposto dall’ONU e del ruolo svolto, in tal senso, dalla missione aerea e navale a guida europea conosciuta con il nome di Irini.

 

Durante l’incontro con il primo ministro Sarraj e i membri del suo gabinetto, l’Alto Rappresentante dell’UE ha discusso anche di altre questioni di interesse comune, come la gestione dell’immigrazione e le recenti manifestazioni antigovernative a Tripoli. Nella capitale, Borrell ha poi incontrato il Presidente della National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanalla, per discutere della preoccupante situazione del blocco petrolifero, la quale, a detta dell’Alto Rappresentante, richiede urgentemente una risoluzione internazionale per prevenire un collasso di un settore cruciale per l’economia e la prosperità del Paese.

Libia: al-Serraj e Saleh annunciano il cessate il fuoco, nuove elezioni a marzo

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Dopo quasi 17 mesi di guerra, il 21 agosto scorso il capo del Consiglio presidenziale libico Fayez al-Serraj e il Presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Saleh hanno annunciato la sospensione delle ostilità con un cessate-il-fuoco su tutto il territorio libico. La svolta è arrivata “alla luce della situazione attuale e dell’emergenza coronavirus”, precisando che “la tregua impone anche la demilitarizzazione di Sirte e Jufra”, come proposto recentemente dal governo di Washington.

Al Serraj si è però spinto oltre, annunciando elezioni presidenziali e parlamentari entro marzo “sulla base di un’adeguata base costituzionale su cui le due parti concordano”. In un comunicato distinto, il Presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh – ritenuto braccio politico e burocratico del maresciallo Khalifa Haftar – ha chiesto “a tutte le parti di osservare il cessate-il-fuoco immediato [..], così da “sbarrare la strada a qualsiasi intervento militare straniero, [..] con il conseguente allontanamento dei mercenari e lo smantellamento delle milizie, ripristinando la piena sovranità nazionale“. Inoltre, Saleh ha suggerito l’istituzione di una forza di polizia ufficiale nelle varie regioni, in preparazione all’unificazione delle istituzioni statali, in attesa dell’ultimazione dei lavori della Commissione militare 5+5 sotto l’egida delle Nazioni Unite.

L’annuncio ha raccolto l’immediato sostegno di numerosi attori internazionali, a partire dalla missione dell’ONU in Libia, Unsmil, che ha chiesto “l’immediata esecuzione della coraggiose scelte attuate“. Anche l’Italia, che ha sostenuto in maniera costante e attiva gli sforzi dell’ONU nel quadro del processo di Berlino assieme ai principali partner UE, ha accolto con favore i comunicati emessi, dichiarando con un comunicato della Fernesina, che l’Italia “continuerà a svolgere il suo ruolo attivo di facilitazione per una soluzione politica alla crisi libica, esortando tutte le parti interessate a dare un seguito rapido e fattivo al percorso delineato nei comunicati del Consiglio Presidenziale e dalla Camera dei Rappresentanti“. L’iniziativa ha ricevuto il plauso anche del presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, principale sponsor del generale Khalifa Haftar.

Per quanto ci siano buone ragioni per sperare che la tregua sia duratura, l’apparente distensione tra le parti in conflitto non implica che si vada verso una soluzione politica della crisi libica, né tantomeno verso una riunificazione ed una effettiva pacificazione nei prossimi mesi, in ragione delle numerose divergenze tra i due contendenti. L’appello del Capo del Consiglio presidenziale di Tripoli allo svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari entro marzo, ad esempio, è assente nel comunicato di Saleh, che, al contrario, insiste nel portare avanti la Dichiarazione del Cairo, che prevede un nuovo Consiglio presidenziale “ristretto” con tre membri in rappresentanza di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica. La possibilità di indire nuove elezioni non è quindi menzionata, anche perché queste porterebbero al superamento del parlamento di Tobruk in carica dal 2014. Un altro punto di contrasto è inoltre la proposta di Saleh di insediare il nuovo organo legislativo nella città di Sirte, attuale linea del fronte, possibilità che porterebbe alla fine dell’esecutivo di al-Serraj, nato con gli accordi di Shkirat del 2015.

Nei prossimi mesi sarà necessario monitorare e se e come le autorità di Tripoli e Tobruk riusciranno a rendere effettiva la tregua a cui si è giunti, convincendo le milizie a consegnare le armi per formare un esercito e delle forze di polizia unificate, primo passo per avviare un efficace processo di stabilizzazione all’interno del Paese.

Colpo di Stato in Mali: arrestati il Presidente e il Primo ministro. Arriva la condanna della Comunità internazionale

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Nella giornata di ieri, 18 agosto, il Presidente del Mali Ibrahim Boubacar Keïta ed il suo primo ministro Boubou Cissè, sono stati arrestati a Bamako da un gruppo di soldati in rivolta.

A dare l’annuncio è stato uno dei leader dell’ammutinamento: “Possiamo dirvi che il Presidente e il Primo ministro sono sotto il nostro controllo. […] Non è un golpe, ma un’insurrezione popolare”.  La notizia dell’arresto è stata poi ufficializzata nella serata di ieri dal portavoce del governo maliano, il quale ha denunciato i conseguenti disordini interni. Secondo l’agenzia Ap, poco prima di questo annuncio, alcuni testimoni avevano visto mezzi militari circondare la residenza presidenziale, mentre alcuni soldati sparavano colpi in aria.

Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato”, annunciando per oggi una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza, su richiesta di Francia e Niger.

“Il Segretario Generale condanna fermamente queste azioni e chiede l’immediato ripristino dell’ordine costituzionale e dello stato di diritto in Mali”, si legge nella nota di un portavoce. La condanna dei due arresti è arrivata anche dall’Unione Africana e dall’Unione europea che, per il tramite dell’Alto Rappresentante Josep Borrell, ha dichiarato di condannare con forza il golpe, aggiungendo di rifiutare “ogni cambiamento anti-costituzionale”, poichè questo non potrà essere, in nessun caso, “una risposta alla profonda crisi socio-politica che sta spaccando il Paese”.

L’ammutinamento arriva infatti dopo mesi di proteste sociali e scontri mortali tra manifestanti e forze dell’ordine del Paese. Una variegata coalizione di oppositori politici, leader religiosi e membri della società civile ha da tempo intensificato le manifestazioni per chiedere le dimissioni di Keita, accusato di cattiva gestione dello Stato.

A questo si aggiunge una “situazione sociale deleteria”, denunciata dal leader sindacale Sidibè Dèdèou Ousmane. Il Movimento del 5 giugno-Raggruppamento delle forze patriottiche del Mali (M5-Rfp) -, alla guida della protesta, lo scorso 13 agosto ha rifiutato un incontro con il Presidente, ponendo come conditio sine qua non per un eventuale colloquio, la fine della “repressione” contro i suoi militanti.
Poche ore dopo l’annuncio del rapimento da parte dei militari ribelli, il Presidente Keith ha annunciato le sue dimissioni con un discorso in diretta tv. “Ho deciso di lasciare il mio incarico, […] non voglio che venga versato il sangue per restare al potere”, ha dichiarato, annunciando lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e del governo.

I militari ribelli, tramite il loro portavoce Ismael Wague, promettono intanto una transizione politica civile, che conduca ad “elezioni generali in un arco di tempo ragionevole”. Inoltre, nelle prime ore di oggi è stata annunciata l’istituzione di un Comitato nazionale per la salvezza del popolo (Cnsp), con la promessa di riportare stabilità nel Paese, gettando le basi per “un nuovo Mali”.

“Noi, forze patriottiche riunite nel Comitato nazionale per la salvezza del popolo, abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità davanti al popolo e alla storia. [..] La società civile e i movimenti socio-politici sono invitati a unirsi a noi per creare insieme le migliori condizioni per una transizione politica civile che porti a elezioni generali credibili per l’esercizio democratico”.

Egitto al voto per la prima elezione del nuovo Senato

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Nelle giornate dell’11 e del 12 agosto in Egitto si sono svolte le operazioni di voto per l’elezione dei membri del Senato, il secondo ramo del parlamento, reintrodotto dalle riforme costituzionali approvate nel giugno scorso.

Come segnala il quotidiano Al-Ahram, sono stati circa 63 milioni gli egiziani chiamati alle urne, esortati a recarsi presso i seggi delle 27 commissioni pubbliche previste, ciascuna rappresentante le diverse province del Paese.

Il Senato egiziano sarà composto da un totale di 300 membri, di cui due terzi scelti fra candidature singole e liste di partito bloccate, mentre i restanti cento saranno nominati direttamente dal Presidente al-Sisi. Va segnalato, che all’interno della decisione istitutiva nuova camera, sono state previste alcune limitazioni e requisiti con riferimento alle nomine presidenziali. In primo luogo, i cento membri nominati devono necessariamente essere individuati a elezioni concluse, tenendo conto del principio secondo cui non sia possibile scegliere più di un esponente proveniente dallo stesso partito politico. In secondo luogo, non è ammessa l’elezione di un rappresentate del partito politico di cui il Presidente era membro prima di entrare in carica. In più, la decisione istitutiva prevede che, nella formulazione delle sue nomine, il capo di Stato debba tenere conto della percentuale di “quote rosa” prevista per la composizione della Camera alta, fissata al 10% dei suoi membri.

 

Sia il governo del Cairo, che i diversi candidati e partiti politici del Paese, hanno rivolto grande attenzione all’elezione del Senato, la cui introduzione è stata letta come un primo tassello del più ampio quadro di riforme ed emendamenti costituzionali annunciati dal presidente al-Sisi nel 2019. Tra le proposte del Presidente che avevano ricevuto l’avallo del Parlamento, e successivamente della popolazione egiziana, tramite il referendum popolare dell’aprile 2019, oltre all’istituzione del Senato, si ritrova anche l’estensione del mandato presidenziale da 4 a 6 anni.

A seguito della proposta presidenziale, l’introduzione della seconda camera del Parlamento è stata poi prevista all’interno di una decisione della Camera dei deputati egiziana del 15 giugno scorso.

Il nuovo Senato è atto a sostituire il Consiglio della Shura, sciolto nel 2014, e, una volta completata l’elezione dei suoi membri, avrà il potere di presentare proposte volte a promuovere la democrazia e la pace sociale nel Paese, garantendo il rispetto dei valori e delle libertà fondamentali nella società egiziana.

La seconda camera potrà inoltre esprimere il proprio parere su eventuali emendamenti costituzionali, bozze di progetti per lo sviluppo sociale ed economico, nonché sulla conclusione di accordi di pace o alleanze. Non da ultimo, va ricordato che al Capo di Stato spetta il potere di chiedere il parere di tale organo su questioni relative agli affari esteri e alla politica interna.

Al di là di queste previsioni teoriche, tuttavia, parte della popolazione, così come alcuni analisti, ha ritenuto che il nuovo ramo del Parlamento finirà per svolgere un ruolo per lo più marginale nel sistema legislativo del Cairo. In ragione del suo ruolo puramente consultivo, ossia privo di carattere vincolante, e dell’assenza di effettivi poteri legislativi, si è definito il nuovo Senato come una mera “decorazione politica”.

Giulia Treossi
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