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12 novembre 1961 a Kindu caduti per la Pace

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Il 12 novembre di vent’anni fa, l’Italia si fermò per onorare 19 italiani: 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito e 2 civili. A Nassiriya, rimasero vittime di un vile attentato alla base Maestrale dell’Arma. Nel ventennale di quella strage, auspico che possa rimanere sempre viva la memoria di quegli Uomini che erano in Iraq per portare la Pace. Erano in quel travagliato paese sotto l’egida delle Nazioni Unite, dopo la risoluzione 1483 del 22 maggio 2003 approvata dal Consiglio di Sicurezza, che invitava tutti gli Stati a contribuire alla rinascita dell’Iraq, favorendo la sicurezza del popolo iracheno e lo sviluppo della nazione.

Nel ricordare quegli Uomini, oggi gradirei rinnovare la memoria di altri militari italiani caduti per la Pace, sulla via del Dovere. Anche loro furono vittime di un eccidio forse proprio il 12 novembre, ma del 1961. Anche loro operavano sotto l’egida dell’ONU, ma a Kindu, in Congo. Erano 13 aviatori, membri degli equipaggi dei due bimotori C-119 Lyra 5 e Lupo 33, effettivi alla 46ª Brigata aerea di Pisa.

Nel novembre 1961, i 13 militari dell’Aeronautica Militare operavano da oltre un anno nella missione ONUC (Operazione delle Nazioni Unite in Congo), stabilita con la risoluzione 143 del Consiglio di Sicurezza. Il Congo, dopo la proclamazione dell’indipendenza dal dominio coloniale belga il 30 giugno 1960, fu caratterizzato da una forte instabilità. La missione militare ONU, avviata il 15 luglio, aveva lo scopo di assicurare il ritiro delle forze belghe ed assistere il governo locale nell’instaurare una situazione ordinata. L’ONUC si occupava anche di garantire l’integrità territoriale e l’indipendenza del Paese con una provincia, il Katanga, che si era dichiarata indipendente, per cercare di impedire il verificarsi di una guerra civile.

Proprio come quest’anno, l’11 novembre 1961 era un sabato. Quella mattina i due aerei italiani decollarono dalla capitale Leopoldville (oggi Kinshasa), per portare rifornimenti al contingente militare del Malawi, che controllava un aeroporto poco lontano da Kindu, ai margini della foresta equatoriale. La zona, da mesi, era sconvolta dal passaggio delle truppe della Repubblica libera del Congo dirette nel Katanga. Erano soldati indisciplinati, spesso ubriachi e dediti a saccheggi in danno delle popolazioni locali. Poche settimane prima, il 25 settembre, nel corso di scontri tra i locali, era rimasto ferito a morte, proprio a Kindu, Raffaele Soru, un caporale infermiere del Corpo militare della Croce Rossa Italiana.

Quell’ 11 novembre, gli aerei italiani dovevano fermarsi a Kindu solo per il tempo necessario a scaricare i rifornimenti. Gli equipaggi avrebbero approfittato della breve sosta per mangiare. I due C-119 atterrarono intorno alle 14:00. Da giorni in città vi era un’agitazione maggiore del solito: fra i duemila soldati del regime di stanza a Kindu si era sparsa la voce che fosse imminente un lancio di paracadutisti mercenari al soldo del regime indipendentista del Katanga. I due aerei italiani furono scambiati per velivoli katanghesi carichi di paracadutisti. Questo scatenò la reazione incontrollata dei soldati di stanza a Kindu: diverse centinaia di congolesi si recarono all’aeroporto. In quel momento i tredici militari italiani erano alla mensa dell’ONU, una villetta distante un chilometro dalla pista. Intorno alle 16:15 i congolesi fecero irruzione nell’edificio, dove italiani e malawensi, quasi tutti disarmati, si erano barricati: un’ottantina di soldati congolesi sopraffecero rapidamente gli occupanti della palazzina e li malmenarono duramente. Si accanirono in particolare contro gli italiani scambiati per mercenari belgi al soldo dei katanghesi. Il Tenente medico Francesco Paolo Remotti provò a fuggire lanciandosi da una finestra, ma fu subito raggiunto dai congolesi, che lo uccisero. Verso le 16:30 arrivarono altri 300 miliziani congolesi, guidati dal comandante del presidio di Kindu. Il comandante malawense, maggiore Maud, provò inutilmente di convincerlo che gli aviatori erano italiani dell’ONU. Intorno alle 17 i dodici italiani, costretti a portare con loro il cadavere di Remotti, furono con la forza rinchiusi in una prigione locale. Mentre il maggiore Maud e il suo vice discutevano se fosse meglio trattare il rilascio pacifico degli italiani o tentare un’azione per liberarli, quella notte giunsero all’aeroporto di Kindu alti funzionari dell’ONUC, per aprire una trattativa con i miliziani locali. Il tentativo purtroppo fallì. Appariva chiaro che gli ufficiali congolesi avessero perso il controllo sui loro uomini. Quella notte, diversi soldati locali entrarono nella cella dove erano detenuti i dodici aviatori italiani, uccidendoli tutti a colpi di mitra. I loro corpi senza vita furono abbandonati lì per diverse ore. In seguito il custode del carcere, temendone lo scempio, li trasportò nella foresta fuori città, seppellendoli in una fossa comune. I miliziani congolesi poi accusarono falsamente gli italiani di fornire le armi ai secessionisti del Katanga.

Per diversi giorni non si seppe nulla della sorte degli aviatori. Lo stesso comando ONU temporeggiò per evitare di scatenare una rappresaglia contro gli italiani, senza sapere che questi erano già stati uccisi. Solo alcune settimane dopo, l’eccidio il custode del carcere raccontò le circostanze dell’eccidio, contattando le autorità ONU per predisporre il recupero delle salme.

Nel febbraio del 1962 un convoglio della Croce Rossa austriaca, scortato da un contingente di caschi blu etiopi e accompagnato da due ufficiali della 46ª Aerobrigata, rinvenne la fossa comune dove erano stati seppelliti gli italiani. Erano nel cimitero di Tokolote, un villaggio ai margini della foresta. I cadaveri furono facilmente identificati, perché erano stati protetti da una grossa crosta di argilla, che ne agevolò la conservazione. Le salme furono riesumate il 23 febbraio 1962. Arrivarono poi all’aeroporto di Pisa l’11 marzo. All’indomani furono celebrati i funerali solenni, alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni.

Non dobbiamo dimenticare i loro nomi:

  • Maggiore pilota Amedeo Parmeggiani, 43 anni, da Bologna;
  • Capitano pilota Giorgio Gonelli, 31 anni, da Ferrara;
  • Tenente medico Francesco Paolo Remotti, 29 anni, da Roma;
  • Sottotenente pilota Onorio De Luca, 25 anni, da Treppo Grande (UD);
  • Sottotenente pilota Giulio Garbati, 22 anni, di Roma;
  • Maresciallo motorista Filippo Di Giovanni, 42 anni, da Palermo;
  • Maresciallo motorista Nazzareno Quadrumani, 42 anni, da Montefalco (PG);
  • Sergente maggiore montatore Silvestro Possenti, 40 anni, da Fabriano (AN);
  • Sergente maggiore marconista Antonio Mamone, 28 anni, da Isola di Capo Rizzuto (KR);
  • Sergente maggiore montatore Nicola Stigliani, 30 anni, da Potenza;
  • Sergente maggiore elettromeccanico di bordo Armando Fausto Fabi, 30 anni, da Giuliano di Roma (FR);
  • Sergente elettromeccanico di bordo Martano Marcacci, 27 anni, da Collesalvetti (LI);
  • Sergente marconista Francesco Paga, 31 anni, da Pietrelcina (BN).

Le loro salme sono tumulate nella Cappella Sacrario ai Caduti di Kindu presso l’aeroporto di Pisa.

Le circostanze esatte dell’eccidio sono ancora oggi poco chiare. A lungo, varie voci hanno sostenuto che il massacro fosse avvenuto con la partecipazione o comunque davanti alla popolazione locale. Si è persino detto che i corpi degli avieri italiani fossero stati mutilati. La ricostruzione dei fatti in seguito al ritrovamento delle salme ha smentito buona parte di questi dettagli.

Nel 1994, alla loro memoria fu concessa la Medaglia d’Oro al Valore Militare. La motivazione evidenzia che ognuno di quei militari “nel quadro della partecipazione italiana all’intervento di intermediazione delle Forze dell’ONU nell’Ex-Congo, consapevole dei pericoli cui andava incontro, ma fiducioso nei simboli dell’Organismo internazionale e convinto della necessità di anteporre la costruzione della nascente Nazione all’incolumità personale, sopraffatto da un’orda di soldati sfuggiti al controllo delle forze regolari, percosso gravemente sotto la minaccia delle armi, interveniva in difesa dei suoi uomini/colleghi, protestando la nazionalità italiana e la neutralità delle parti. Preso in ostaggio e fatto oggetto di nuove continue violenze, veniva barbaramente trucidato, offrendo la propria vita per la pacificazione dei popoli e destando vivissima commozione nel mondo intero. Luminoso esempio di estrema abnegazione e di silenzioso fino al martirio”.

Nel 2007, un monumento ai caduti di Kindu è stato inaugurato presso l’ingresso dell’aeroporto internazionale “Leonardo da Vinci”, a Fiumicino.

Sono trascorsi oltre sessant’anni da quell’eccidio, come venti da Nassiriya. La memoria continua, da parte delle Istituzioni militari italiane, ci insegna che i decenni sono solo un attimo sulla via del Dovere.

M

In Africa subsahariana il NEST Partners Meeting di Chiesi Foundation

AFRICA di

Per la prima volta nella storia della Fondazione, una settimana di lavori e incontri con autorità locali, direttori di ospedale, medici e infermieri di Burundi, Burkina Faso, Togo, e Benin. La Fondazione è attiva nel settore della cooperazione internazionale sanitaria, attraverso il trasferimento di mezzi e conoscenze scientifiche, e il sostegno a progetti che favoriscano il diritto alla salute, con particolare attenzione al miglioramento della salute neonatale e respiratoria.

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Il golpe in Sudan: Da una possibile transizione democratica ad un nuovo regime militare

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Il 25 ottobre del 2021, il Sudan è stato nuovamente protagonista di un nuovo golpe, il quarto da quando il paese è indipendente. Nel 2019 dopo circa un trentennio Omar al-Bashir venne deposto ed arrestato; le principali accuse rivolte dal Sudan e dal mondo occidentale nei suoi confronti sono quelle di corruzione e crimini contro l’umanità, riconducibili ad una delle maggiori crisi umanitarie verificatesi in Africa negli ultimi anni, il conflitto del Darfur.

Il dittatore sudanese è stato arrestato e accusato di aver supportato e finanziato la milizia dei Janjaweed, autrice di numerosi massacri nella provincia del Darfur. Oltre alle accuse prima citate, al-Bashir è stato messo sotto accusa per il colpo di Stato che nel 1989 lo portò al potere. Alle molteplici violazioni dei diritti umani, aggiungiamo che il dittatore sudanese abolì qualsiasi forma di democrazia all’interno del paese, governando in maniera totalitaria, imponendo la Shari’a come legge di Stato; tutto ciò portò ad un aspro conflitto tra la parte settentrionale del paese (prevalentemente musulmano) e quella meridionale (a maggioranza cristiana), che ha portato ad una divisione del paese. Questo regime nato in Sudan non piacque ai paesi occidentali, specialmente agli Stati Uniti, che indicò il paese come tra i principali sostenitori del terrorismo di matrice jihadista; la causa di tutto ciò furono il sostegno e il supporto dato al leader di al-Qaeda Osama Bin Laden, al quale al-Bashir concesse rifugio durante gli anni novanta.

Dopo la caduta di al-Bashir nel 2019, a governare il paese venne messa una coalizione civile-militare conosciuta col nome di Consiglio Sovrano, al quale venne affidato il compito di governare il paese, con l’obbiettivo di condurlo verso delle elezioni democratiche nel 2023, alle quali i membri del Consiglio Sovrano non potranno partecipare. Al vertice di questo organo di governo militari e civili si sarebbero dovuti scambiare la leadership a periodi alterni. Sotto l’amministrazione di questo governo di transizione sono state messe in atto numerose leggi in favore della popolazione civile.

Tuttavia questo non ha affatto alleggerito le tensioni, già nel 2020 il primo ministro Hamdok fu vittima di un agguato dal quale uscì illeso; per quanto riguarda mandanti ed esecutori, non si è mai avuta un’idea chiara su chi vi fosse dietro, anche se i principali sospetti ricaddero sui seguaci dell’ex dittatore.Nel settembre del 2021 in Sudan ci fu un tentativo di golpe da parte dei sostenitori dell’ex dittatore sudanese; fortunatamente il governo riuscì a reagire e ad impedire il colpo di Stato; pochi giorni fa tuttavia il Consiglio Sovrano non è riuscito ad evitare un nuovo golpe da parte dei militari sudanesi.

A prendere il potere è stato un generale di alto rango dell’esercito sudanese Abdel Fattah al-Burhan, membro del Consiglio Sovrano. Subito dopo aver preso il potere, il generale ha messo agli arresti il primo ministro Hamdok, il ministro dell’industria e quello dell’informazione. Nel suo primo discorso, il generale al-Burhan, ha annunciato lo scioglimento del Consiglio Sovrano, specificando però che il suo obbiettivo rimane sempre quello prefissato dal Consiglio Sovrano, cioè guidare il paese alle elezioni del 2023. Ha inoltre spiegato il motivo dietro il golpe erano riconducibili alla situazione di forte insicurezza all’interno del paese, che dal suo punto di vista rischiava di finire nuovamente in una nuova guerra civile, in realtà sembra che già da qualche tempo vi fossero delle forti tensioni tra le forze militari e quelle civili.

Subito dopo il golpe, in Sudan sono cominciate le proteste da parte della popolazione civile, contraria ad un nuovo regime militare; l’esercito tuttavia ha deciso di reagire contro i manifestanti, il bilancio è stato di tre morti e ottanta feriti, secondo alcune fonti il numero delle vittime sarebbe salito a sette. Per mantenere sotto controllo le proteste il generale al-Burhan ha messo in strada l’esercito, riportando il paese in una situazione di forte tensione simile a quella dei tempi del regime di al-Bashir. I militari hanno anche bloccato l’accesso alla capitale Khartoum e ad Internet.

La presa di potere da parte del generale al-Burhan non è piaciuta molto al mondo occidentale. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato la fine di ogni forma di supporto al governo sudanese; anche Nazioni Unite, Banca Mondiale e Unione Africana hanno sospeso ogni rapporto col Sudan, almeno fino a quando non sarà riabilitata la componente civile.
Dall’altra parte il regime militare del Sudan avrebbe richiamato i diplomatici sudanesi in Francia, Stati Uniti, Cina e Qatar, e il capo della missione del Sudan a Ginevra, con i primi che sono stati licenziati dal regime per via del loro supporto al leader civile Hamdok. È importante sottolineare come il golpe sia avvenuto proprio nel periodo in cui i militari dovevano cedere la leadership del Consiglio Sovrano ai civili.

In tutto questo cambiamento, bisognerà tenere d’occhio il ruolo di  Mohamedd Hamdan Dagolo , generale fedele ad al-Bashir e capo di una delle frange più pericolose dell’esercito sudanese, composta perlopiù da ex membri dei Janjaweed. Dopo la caduta di al-Bashir, Dagolo ha ricoperto il ruolo di vice all’interno della componente militare del Consiglio Sovrano; l’ex capo militare di al-Bashir gode inoltre dell’appoggio di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, favorevoli ad un nuovo regime militare in Sudan. Nella giornata di ieri a Khartoum si è tenuto un incontro tra i militari e l’ambasciatore dell’Arabia Saudita.

Sebbene i militari abbiano dichiarato che il loro obbiettivo restano le elezioni del 2023, il generale al-Burhan ha annunciato che ci saranno numerosi cambiamenti, che riguarderanno il sistema legislativo, annunciando anche che la Costituzione del paese verrà riscritta; tutto ciò potrebbe seriamente far naufragare il progetto di un Sudan democratico.

FONTI:
https://www.ilpost.it/2021/10/25/sudan-primo-ministro-abdalla-hamdok-arrestato/
https://www.nyamile.com/news/civil-society-group-urges-dialogue-to-resolve-sudans-political-crisis-calls-for-igad-to-intervene/
https://www.theafricareport.com/140774/sudan-us-considers-additional-measures-to-reverse-military-coup/
https://us.cnn.com/2021/10/25/africa/sudan-military-prime-minister-intl-hnk/index.html
https://africanarguments.org/2021/10/sudan-self-coup-and-four-factors-that-will-determine-what-comes-next/
https://www.aljazeera.com/news/2021/10/26/sudans-army-chief-defends-militarys-seizure-of-power
https://www.aljazeera.com/news/2021/10/25/sudans-military-dissolves-cabinet-announce-state-of-emergency
https://www.aljazeera.com/search/sudan
https://www.bbc.com/news/world-africa-59035053
https://www.nyamile.com/news/sudan-returns-to-military-rule-constitution-to-be-re-written-under-the-new-military-leadership/
https://www.repubblica.it/esteri/2020/07/21/news/sudan_al_bashir_alla_sbarra_per_il_golpe_dell_89-262520877/
https://www.agi.it/estero/omar_al_bashir_chi_e_sudan-5310738/news/2019-04-12/
https://www.africarivista.it/sudan-ufficializzato-il-consiglio-sovrano-nomi-ed-equilibri-del-nuovo-potere/145112/
https://english.alarabiya.net/News/north-africa/2021/10/27/Sudan-s-army-chief-Burhan-meets-Saudi-Arabia-s-ambassador-in-Khartoum
https://www.aninews.in/news/world/india-says-it-will-continue-to-support-sudan-south-sudan-in-journey-towards-peace-development20211027233145/
https://english.alarabiya.net/News/north-africa/2021/10/27/Sudan-s-army-chief-Burhan-meets-Saudi-Arabia-s-ambassador-in-Khartoum
https://english.alarabiya.net/News/north-africa/2021/10/28/Sudan-army-chief-Burhan-relieves-six-ambassadors-including-US-EU-France-Qatar
https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/09/21/tentato-golpe-in-sudan-governo-accusa-i-seguaci-di-bashir_a0bf9354-a70f-43df-940f-4889949398b4.html
https://www.the-star.co.ke/news/africa/2021-10-28-death-toll-of-sudan-anti-coup-protesters-rises-to-7-official/
https://www.washingtonpost.com/world/un-calls-on-sudan-military-to-restore-civilian-government/2021/10/28/e2b52212-3803-11ec-9662-399cfa75efee_story.html
https://www.nyamile.com/news/sudan-military-takeover-threatens-rights/

Niger: la lotta di CBM contro l’analfabetismo per le persone con disabilità 

AFRICA di

Il Niger è un paese nel cuore dell’Africa subsahariana, più precisamente nella regione del Sahel, una delle più povere del mondo a causa dell’instabilità politica presente da decenni. Il tasso di analfabetismopresenta percentuali importanti: circa il 40% nei giovani uomini che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, dato che nelle donne raggiunge punte superiori al 70%. Non è un caso, dunque, se l’Indice di Sviluppo è il più basso del pianeta.

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La Brookings Institution elabora nuovi modelli per lo sviluppo economico in Africa

AFRICA/ECONOMIA di

La Brookings Institution ha di recente pubblicato una serie di studi che esaminano il potenziale delle industrie senza ciminiere per lo sviluppo economico dei paesi africani.

In collaborazione con Mastercard Foundation and Canada’s International Development Research Centre (IDRC), la Brookings Institution avvia un progetto di ricerca denominato “Africa Growth Initiative” (AGI), che parte dalla consapevolezza che i progressi e la crescita dell’Africa fino ad oggi non hanno avuto un impatto significativo sui tassi di povertà e disuguaglianza del continente.

Questa iniziativa si fa portavoce della necessità di attuare un cambiamento strutturale e incentivare la crescita dell’occupazione in Africa, soprattutto nei settori con un potenziale di sviluppo economico alto, ovvero il settore del turismo, dell’orticoltura e dell’industria agricola.

Al fine di convergere in modo sostenibile e inclusivo con il resto del mondo in termini di standard di vita, opportunità e reddito pro capite del PIL, lo studio sull’impatto delle industrie senza ciminiere in questi settori si pone dunque l’obiettivo di ampliare le opzioni politiche e incentivare finanziamenti per lo sviluppo, sostegno del settore privato per gli obiettivi di sviluppo sostenibile, perfezionamento dei partenariati pubblico-privati, rafforzamento dell’integrazione regionale, e promozione di sinergie tra le istituzioni governative.

In effetti, l’Africa subsahariana dovrà creare 18 milioni di posti di lavoro ogni anno fino al 2035 per accogliere i nuovi arrivati ​​nel mercato dei giovani. Affinché l’Africa raggiunga una crescita trasformativa, i leader regionali hanno bisogno di nuovi modelli e politiche per lo sviluppo economico, che espandano le opportunità per i lavoratori, le famiglie e le comunità.

L’AGI ha pubblicato casi di studio che esaminano se e come le industrie senza ciminiere potrebbero migliorare le prospettive occupazionali dei giovani in Africa.

Uganda case study

La crescita economica dell’Uganda si è classificata tra le più forti dell’Africa subsahariana. Il tasso di crescita medio annualizzato del paese è stato del 5,4% tra il 2010 e il 2019 (World Bank, 2020). Ciò nonostante, i tassi di disoccupazione non hanno visto miglioramenti. Secondo uno studio condotto nel 2018, la crescita è stata in gran parte trainata dal settore dei servizi, che a loro volta contribuiscono solo per il 15% al ​​totale dell’occupazione.

Per sfruttare il potenziale offerto dalle industrie senza ciminiere, il governo deve intensificare la formazione professionale per gli addetti con specializzazione in orticoltura, e dotare il settore della tecnologia di irrigazione necessaria. Poiché la maggior parte dei prodotti del settore viene esportata in mercati di alto valore nell’UE o negli Stati Uniti, è fondamentale che il governo affronti gli ostacoli all’accesso continuo a questi mercati. Inoltre, gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo e migliori collegamenti tra agricoltura, imprese e mercati sono fondamentali per aumentare la produzione e la produttività.

Senegal case study

Il Senegal è uno dei paesi più stabili dell’Africa. La crescita economica è stata in media del 6,6% nel periodo 2014-2019, in contrasto al 3% nel periodo 2009-2013. Le proiezioni stimano che la stessa elevata crescita economica sarà osservata nei prossimi anni, in particolare con le riserve di petrolio e gas scoperte di recente (World Bank, 2019b). La crescita è trainata principalmente dai contributi dei consumi (3,5%) e dagli investimenti privati ​​(2,1%). Tuttavia, la questione dell’inclusione rimane critica, poiché l’attuale creazione di posti di lavoro non è ancora sufficiente ad assorbire i flussi migratori interni o la crescente popolazione in età lavorativa.

In Senegal, le industrie senza ciminiere hanno il potenziale, se adeguatamente sfruttato, di aumentare notevolmente la creazione di posti di lavoro di buona qualità. Alcune industrie senza ciminiere, in particolare l’orticoltura e il turismo, stanno già andando bene in termini di crescita della produzione. Affinché tale crescita e creazione di posti di lavoro sia possibile, tuttavia, il Senegal deve affrontare i numerosi vincoli che incidono sull’ambiente imprenditoriale, in particolare quelli nel quadro normativo, nelle infrastrutture e nello sviluppo delle competenze.

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La Brookings Institution è un’organizzazione senza scopo di lucro dedicata alla ricerca indipendente e alle soluzioni politiche. La sua missione è condurre una ricerca indipendente di alta qualità e, sulla base di tale ricerca, fornire raccomandazioni pratiche e innovative per i responsabili politici e il pubblico.

Per approfondire la lettura…

Uganda case study: https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2021/07/21.08.02-Uganda-IWOSS.pdf

Senegal case study: https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2021/04/21.04.02-Senegal-IWOSS_FINAL.pdf

Capo Verde ospita la nona conferenza sui cambiamenti climatici e lo sviluppo in Africa

AFRICA di

Oggi, 13 settembre 2021, parte la nona conferenza sui cambiamenti climatici e lo sviluppo in Africa (CCDA-IX) a Capo Verde, e si concluderà il 17 settembre. In questa occasione saranno oggetto di discussione le strategie di mitigazione del cambiamento climatico in Africa, e di come queste possano rappresentare uno strumento di sviluppo economico per il continente africano.

Organizzato dalla Commissione economica per l’Africa e dal governo di Capo Verde, in collaborazione con i partner della Commissione dell’Unione africana e della Banca africana di sviluppo, la CCDA-IX si incentrerà sul tema “Verso una transizione giusta che crei posti di lavoro, prosperità e resilienza climatica in Africa: sfruttare l’economia verde e blu.”

La conferenza funge da preludio alla Conferenza dei firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a novembre, e mira a fornire un resoconto delle strategie messe in campo dall’Africa per la lotta al cambiamento climatico. La conferenza si propone anche di aprire il dibattito con i rappresentanti africani sulle misure da adottare a livello continentale per guidare lo sviluppo economico verso una transizione sostenibile.

Oltre 600 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità in Africa, eppure il continente possiede risorse naturali sufficienti per sradicare la povertà energetica e trasformare l’economia mondiale. Intanto, le strategie globali di mitigazione del clima richiedono l’eliminazione graduale dei combustibili fossili in tutto il mondo. Ciò mette a rischio lo sviluppo economico del continente africano, nonostante emetta solo il 2% delle emissioni globali di gas serra.

Questi temi aprono la discussione su come mitigare i cambiamenti climatici in Africa senza compromettere al contempo la crescita economica, e promuovere strategie alternative che siano conformi agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Africa.

AVAT: i paesi dell’Unione Africana acquistano 220 milioni di dosi del vaccino Johnson & Johnson

AFRICA di

Il 28 marzo 2021 gli Stati membri dell’Unione Africana (UA) hanno firmato un accordo con il quale hanno lanciato l’African Vaccine Acquisition Trust (AVAT). L’iniziativa, che nasce ad integrazione di altri progetti come il COVAX, ha visto i paesi dell’UA mettere in comune il loro potere d’acquisto per garantire un accesso diffuso ai vaccini COVID-19 in tutta l’Africa, e raggiungere così un’immunizzazione target del 60% della popolazione africana.

I partner dell’iniziativa includono l’African Export-Import Bank (Afreximbank), i Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa CDC) e la Banca mondiale.

Grazie all’AVAT i paesi dell’Unione Africana hanno acquistato 220 milioni di dosi del vaccino a iniezione singola contro il COVID-19 di Johnson & Johnson, e un potenziale di ordinare altri 180 milioni di dosi.

Il presidente della Repubblica del Sud Africa e dell’Unione Africana (AU), Cyril Ramaphosa, in occasione del lancio dell’iniziativa ha dichiarato:

“Questo è un passo avanti epocale negli sforzi dell’Africa per salvaguardare la salute e il benessere della sua gente. Lavorando insieme e mettendo in comune le risorse, i paesi africani sono stati in grado di garantire milioni di dosi di vaccino prodotte proprio qui in Africa. Ciò fornirà impulso alla lotta contro il COVID-19 in tutto il continente e getterà le basi per la ripresa sociale ed economica dell’Africa”.

Il vaccino Johnson & Johnson è infatti stato selezionato come primo acquisto in comune per tre motivi: innanzitutto, essendo un vaccino a iniezione singola, è più facile ed economico da somministrare; in secondo luogo, il vaccino ha una lunga durata e condizioni di conservazione favorevoli. Infine, il vaccino è in parte prodotto nel continente africano, con attività di completamento che si svolgono in Sud Africa, presso la struttura di Aspen Pharmacare a Gqeberha in Sudafrica.

Le prime spedizioni mensili sono arrivate nel mese di agosto in diversi Stati membri e stanno proseguendo nel mese di settembre, con l’obiettivo di consegnare quasi 50 milioni di vaccini entro la fine di dicembre. In collaborazione con l’Africa Medical Supplies Platform (AMSP), l’UNICEF fornisce servizi logistici e di consegna agli Stati membri.

Questa acquisizione del vaccino è una pietra miliare unica per il continente africano. È la prima volta che l’Africa intraprende un appalto di questa portata che coinvolge tutti gli Stati membri. Segna anche la prima volta che gli Stati membri dell’UA hanno acquistato collettivamente vaccini per salvaguardare la salute della popolazione africana: 400 milioni di vaccini sono sufficienti per immunizzare un terzo della popolazione africana e portare l’Africa a metà strada verso il suo obiettivo continentale di vaccinare almeno il 60 per cento della popolazione. I donatori internazionali si sono impegnati a fornire la restante metà delle dosi richieste attraverso l’iniziativa COVAX.

Il dottor John Nkengasong, direttore dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa CDC), ha dichiarato: “Negli ultimi mesi abbiamo visto ampliarsi il divario vaccinale tra l’Africa e altre parti del mondo e una devastante terza ondata ha colpito il nostro continente. Le consegne a partire da ora ci aiuteranno a raggiungere i livelli di vaccinazione necessari per proteggere vite e mezzi di sussistenza africani”.

La Dott.ssa Vera Songwe, Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite e Segretario Esecutivo delle Nazioni Unite ha infine affermato: “Questo è un momento di orgoglio per il continente; i vaccini, in parte fabbricati in Sudafrica, sono una vera testimonianza del fatto che la produzione locale e l’approvvigionamento in comune, come previsto nell’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), sono fondamentali per il raggiungimento di una ripresa economica post-Covid più sostenibile in tutto il continente.”

L’Algeria rompe le relazioni diplomatiche con il Marocco

AFRICA di

Dopo mesi di tensioni l’Algeria ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Marocco, portando così il difficile rapporto fra i due Paesi al punto di crisi più elevato dagli anni Settanta ad oggi.

Lo strappo

La decisione è stata annunciata il 24 agosto scorso dal Ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra, che ha denunciato “atti ostili” commessi dal Regno del Marocco nei confronti dell’Algeria, “contro il suo popolo ed i suoi dirigenti”.

Le relazioni tra i due Paesi sono, in realtà, tradizionalmente difficili, e, di recente, hanno visto un ulteriore deterioramento.

Algeri contesta, innanzitutto, la politica filoisraeliana di Rabat, e accusa le autorità marocchine di complicità con due entità – MAK e Rashad – che nel maggio scorso sono state internamente classificate come organizzazioni terroristiche.

Il Regno marocchino, pur dicendosi rammaricato della decisione, ha respinto le accuse della controparte algerina in una nota ufficiale, definendo fallaci, e persino assurdi, i pretesti che ne sono alla base.

Le cause della rottura e il ruolo di USA e Israele

Nel corso del 2021, sono stati diversi i momenti in cui le relazioni tra Algeri e Rabat sono state messe a dura prova. In generale, le tensioni sono da ricollegarsi alla disputa tra i due Paesi riguardo il territorio del Sahara Occidentale – l’ex colonia spagnola in gran parte occupata e amministrata dal Marocco – e, parallelamente, al sostegno algerino alla leadership Saharawi, il movimento che rivendica l’indipendenza della regione. L’Algeria, infatti, difende l’istituzione del referendum sull’autodeterminazione concordato nel 1991, in occasione del cessate il fuoco mediato dall’ONU e che, trent’anni dopo, non si è ancora tenuto.

La normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Marocco e Israele – in cambio del riconoscimento statunitense della “sovranità” marocchina su quel territorio – ha alimentato le tensioni con Algeri, che ha denunciato “manovre straniere” per destabilizzarla.

La questione della Cabilia

Preludio alla rottura dei canali diplomatici era stata, nel mese di luglio, la scelta del Ministro degli esteri algerino di richiamare l’ambasciatore a Rabat per consultazioni immediate, mentre il Ministro degli esteri preannunciava l’adozione di possibili ulteriori misure. In quell’occasione, le motivazioni erano legate ad alcune dichiarazioni del rappresentante permanente del Marocco alle Nazioni Unite Omar Hilal che, proprio in quei giorni, si era espresso a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo della Cabilia, regione dell’Algeria settentrionale che da tempo rivendica l’indipendenza da Algeri. Per Hilale, l’Algeria non avrebbe dovuto negare questo diritto in Cabilia proprio mentre ne sosteneva uno identico per il Sahara occidentale.

Immediata era stata la reazione di Lamamra, che definì le parole del diplomatico marocchino “imprudenti, irresponsabili e manipolative”, chiedendo che il Regno del Marocco ne prendesse le distanze.  L’atteso chiarimento non era però arrivato, e lo scorso 18 luglio, l’ambasciatore algerino era stato richiamato in patria per consultazioni.

La presa di posizione sulla questione Cabila da parte di Rabat, in realtà, sembra rispondere ad un obiettivo preciso, quello di far pressione sulla disputa per spingere Algeri a retrocedere sulla questione del Sahara Occidentale. Una mossa che servirebbe a Rabat per guadagnare terreno tanto sul piano domestico, in termini di prestigio del Regno, quanto su quello regionale, vista la rivalità tra i due Paesi nell’intera area Sahelo-Maghrebina. Sia Rabat sia Algeri, infatti, sono interessate ad acquisire maggiore profondità strategica in Africa Occidentale, e per farlo, sostengono strumentalmente rivendicazioni nazionaliste e indipendentiste, guadagnando terreno a discapito dell’altro su scala regionale.

 

L’Africa Occidentale verso una moneta unica nel 2027

AFRICA di

In occasione del vertice annuale tenutosi il 19 giugno scorso, i 15 membri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), hanno adottato una nuova tabella di marcia per l’adozione di una moneta comune, con l’obiettivo di promuovere l’integrazione economica tra i paesi dell’Africa occidentale, prevedendone il lancio ufficiale entro il 2027.

Nella nuova Roadmap i capi di Stato, riuniti ad Accra, in Ghana, hanno tracciato il cammino da percorrere verso l’introduzione della nuova valuta comune dal nome “Eco”, da parte del blocco formato da Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo. 

Le origini del progetto

Occorre notare che, in realtà, i piani di introduzione di una moneta comune sono in lavorazione almeno dal 2000, e che l’idea di creare una valuta unica è stata avanzata, per la prima volta, in un momento ancora più risalente nel tempo, precisamente nel 1982, a seguito della creazione dell’ECOWAS. Passi più concreti verso un’effettiva convergenza monetaria sono stati poi stati ritardati più volte, nel 2005, nel 2010, nel 2014 e, da ultimo, nel 2020.

L’Eco

Il progetto dell’Eco dura, almeno programmaticamente, dal 2015 ed è nato all’interno di una associazione di Stati più ristretta dell’ECOWAS, la cosiddetta WAMZ, West African Monetary Zone, che si compone di Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria, Sierra Leone. La nuova moneta unica, ancorata all’euro secondo un sistema di tasso di cambio fisso, doveva entrare in vigore nel 2020 ma, le grandi difficoltà economiche e sociali, aggravate dalla pandemia da Covid-19, hanno reso necessario un nuovo rinvio del progetto. Di pari passo è seguita la sospensione del processo di attuazione del Patto di convergenza, e la definizione di altri aspetti implementativi.

Difficoltà di realizzazione

Un altro ostacolo per la realizzazione del progetto della moneta unica africana risiede nel fatto che la maggioranza dei Paesi occidentali del continente utilizzano il franco CFA, una controversa valuta creata nel 1945 dalla Francia, ancorata all’euro e garantita dal Tesoro francese. Infatti, il meccanismo del Franco CFA prevede che gli Stati aderenti depositino il 50% delle loro riserve esterne presso il tesoro francese.  Per aderire all’Eco, quindi, detti paesi dovrebbero “divorziare” dal Ministero del Tesoro di Parigi, con molteplici risvolti economici e politici, relativi soprattutto al rapporto con l’ex potenza coloniale.

Ad oggi, sette membri dell’ECOWAS hanno le proprie valute, mentre i restanti otto paesi utilizzano il franco CFA. L’obiettivo del percorso di adozione di una moneta unica, se effettivamente realizzato, sarà quindi in grado di mutare gli equilibri interni al continente, rappresentando un forte cambiamento di rotta nel rapporto con l’ex potenza coloniale.

La nuova Roadmap

Ad Accra, nel giugno scorso, il progetto riparte, prevedendo un percorso in tempi medi e graduale. In una prima fase, all’Eco aderiranno quei Paesi che hanno una propria moneta, mentre in una seconda fase, ma comunque entro il 2027, si inseriranno anche i Paesi dell’UEMOA (Union Économique et Monétaire Ouest-Africaine) che adottano il franco CFA e cioè Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo.

Il progetto riprende il suo cammino ma le difficoltà non sono poche, prima fra tutte l’ostilità della Nigeria, che rappresenta da sola il 70% del PIL dell’ECOWAS, e che nutre una certa diffidenza verso un ancoraggio della sua economia a quella dei fragili Paesi vicini. 

Il presidente del Ghana Nana Akufo-Addo, in questo momento alla guida dell’ECOWAS, ha manifestato invece ottimismo sulla possibilità di rispettare la nuova tabella di marcia e raggiungere lo storico obiettivo della moneta unica, un passaggio non di poco conto per le sue implicazioni economiche e politiche all’interno del continente. 

 

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Giulia Treossi
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