GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa - page 5

Boko Haram: siamo davvero al capolinea?

Oltre 800 ostaggi liberati dall’esercito nigeriano e molti jihadisti uccisi negli ultimi due mesi. Gli ultimi episodi in Nigeria rivelano che Boko Haram sta perdendo terreno. Tutto ciò potrebbe convalidare quanto dichiarato dal leader Abubakar Shekau nel video apparso sulla rete il 24 marzo, ovvero che “la fine sta arrivando”. Ma è davvero così? Boko Haram è stato sconfitto?

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Non solo contro la Nigeria, in particolar modo nello Stato di Borno. Ma anche in Camerun, Ciad e Niger. Negli ultimi due anni, Boko Haram ha provato ad espandere il proprio territorio in più regioni dell’Africa. Per questo motivo, 8,700 truppe provenienti da questi quattro Paesi hanno combattuto assieme contro l’organizzazione affiliata allo Stato Islamico. Fino ad oggi, con le dichiarazioni di vittoria del presidente Buhari. E, appunto, con il video di Shekau, rivelatore di una possibile fine della cellula terroristica.

Aldilà dei diversi temi geopolitici riguardanti la Nigeria, il dato di fatto è che, come già da European Affairs, Boko Haram ha perso molti villaggi conquistati dal 2009 ad oggi. Tuttavia, come confermato da fonti vicine all’US AfriCom alla testata nigeriana Premium Times, “Boko Haram continua a controllare diverse porzioni di territori del Nord così come sta facendo al Shabaab in Somalia”.

Pertanto, come dimostrato da queste frasi e da più fonti internazionali, Boko Haram esiste ancora ed è ben radicato nello Stato di Borno. In questo senso, le parole di Shekau potrebbero essere la testimonianza di un cambio di leadership all’interno della organizzazione affiliata all’Isis.
Giacomo Pratali

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Al via l’offensiva economica di Teheran

L’accordo sul nucleare, reso esecutivo nel mese di gennaio, ha visto terminare molte delle sanzioni economiche che da decenni gravavano sulla Repubblica Islamica, decretando così il suo ufficiale reinserimento nella competizione economica internazionale. Tuttavia, come riferisce il Consiglio per il Discernimento, l’ostilità di molti paesi è ancora viva, così come la volontà di frenare la ripresa economica del paese. Parallelamente, la stessa fiducia dell’Iran nei confronti, ad esempio, di alcuni partner europei, dovrà essere riconquistata gradatamente. In altre parole, la scelta di Teheran verte ancora sull’ormai decennale strategia dell’economia di resistenza, che ha insegnato al paese a migliorare lo sfruttamento delle risorse interne e minimizzare la vulnerabilità e i danni derivanti dalle misure sanzionatorie. È proprio questa politica, infatti, che ha permesso all’economia iraniana di sopravvivere a decenni di isolamento, rimanendo (in termini di PIL) la seconda del Medio Oriente e la settima in Asia.

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L’apertura verso l’estero sarà, dunque, molto mirata: l’obiettivo è potenziare i settori chiave, continuando a sfruttare il patrimonio interno che ad oggi ha garantito buoni frutti, come ad esempio le infrastrutture industriali e l’industria petrolchimica. Priorità è data, perciò, agli investimenti dall’estero, all’aumento delle esportazioni di prodotti non petroliferi e al come ovviare al problema delle riserve di valuta estera ancora congelate dalle sanzioni. Nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla lotta all’ISIS, Teheran inizia la propria “offensiva” economica, gettando le basi per intese commerciali soprattutto con paesi asiatici e africani.

Per quanto concerne l’import-export, Iran e Russia stanno studiando la creazione di una zona di libero scambio, come ha affermato il ministro dell’Energia russo Alexsandr Novak. La prima bozza del progetto indica prodotti metallici e chimici come oggetto principale dell’export russo verso l’Iran; dall’Iran, invece, arriverebbero rifornimenti di frutta e verdure per un ammontare annuo di un miliardo di dollari, una crescita rilevante rispetto ai circa 194 milioni attuali.

Accordi significativi anche con il Vietnam. I due paesi mirano a incrementare il volume dei rapporti commerciali da 350 milioni a 2 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, con progetti in diversi settori, dall’agricoltura, al turismo, all’energia alle innovazioni tecnologiche. Al fine di favorire la cooperazione, è stato siglato anche un Memorandum of Understanding tra le rispettive banche centrali. Trattative in corso anche con la Turchia di Erdogan, la Costa d’Avorio e diversi paesi africani, che si dichiarano propensi a potenziare i rapporti economici con la Repubblica Islamica. I progressi compiuti da quest’ultima nel settore energetico, sanitario, tecnologico e delle infrastrutture la rende, infatti, un partner ideale per soddisfare le diverse esigenze del continente nero.

Per quanto riguarda il settore energetico, due i progetti principali in ballo. Il primo riguarda la costruzione di un gasdotto sottomarino che colleghi l’Iran all’India: 1.400 km di infrastruttura che permetterà di aggirare la zona economica esclusiva pakistana, portando in India fino a 31,5 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento importante, circa 4,5 miliardi di dollari, che conferma –e premia- le buone relazioni mantenute tra le due nazioni anche durante il regime delle sanzioni. La seconda novità riguarda una collaborazione scientifica e tecnologica tra l’Elettra Sincrotone di Trieste e l’Institute for Research in Fundamental Sciences di Teheran. Punti nevralgici la formazione del personale tecnico scientifico iraniano e la progettazione congiunta di una nuova linea di luce, da impiegare sia nello studio di fenomeni chimici e biologici, ma anche nel settore industriale.

Dal Pakistan arriva una svolta importante nel settore bancario. Essendo alcune sanzioni ancora vigenti, il pagamento in dollari dei prodotti importati dall’Iran non risulta ancora fattibile. Da qui la decisione da parte degli imprenditori pakistani di aprire lettere di credito (LC) in euro, anziché nella valuta americana. In questo modo, non saranno più le banche americane ad essere le intermediare, bensì quelle europee, che non avranno dunque motivo di non autorizzare il pagamento.

Sembra, dunque, che l’Iran abbia una chiara strategia economica in mente. Da un lato puntare sulle ricchezze interne, come ad esempio il petrolio – l’Iran inizierà a collaborare con gli altri paesi produttori circa il congelamento della produzione soltanto quando l’output iraniano raggiungerà la quota di 4 milioni di barili al giorno; dall’altro, potenziare settori economici chiave, intensificando i rapporti con le medie e grandi potenze asiatiche, privilegiandole sui paesi del Medio Oriente ed occidentali, segno evidente che la diffidenza nei confronti di chi più ha beneficiato delle sanzioni è lungi dall’essere superata.

 

Paola Fratantoni

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Nigeria: l’esodo ignorato dall’Europa

Medio oriente – Africa di

Lo scontro con Boko Haram. La decennale violenza nei confronti dei cristiani nello Stato di Benue. La tratta di esseri umani e l’ingente flusso migratorio verso le coste della Sicilia. La Nigeria è una bomba ad orologeria pronta a scoppiare. E i riflessi, come descritto nell’ultimo rapporto dell’OIM, ricadono anche sul suolo europeo.

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Buhari e la presunta vittoria contro Boko Haram

Mesi di repressione e di battaglie vinte hanno fatto gridare il presidente Muhammadu Buhari alla vittoria della guerra contro Boko Haram, come riportato lo scorso 24 dicembre dalla BBC. L’organizzazione jihadista, infatti, è stata il bersaglio di una serie di attacchi negli ultimi mesi da parte dell’esercito regolare.

Se è vero che l’azione di Boko Haram si è affievolita in Nigeria e innalzata, invece, nei confinanti Camerun e Niger, l’incondizionato appoggio dei media locali alle parole e alle azioni del presidente sono state smentite dalle testimonianze dirette dei soldati. Intervistati da alcuni magazine internazionali e rimasti anonimi, gli uomini dell’esercito nigeriano hanno confermato che l’azione contro i jihadisti ha di fatto compromesso la loro possibilità di nuove azioni solo in una parte dello Stato di Borno. Insomma, la presenza della cellula affiliata allo Stato Islamico è ancora ben radicata nel nord-est del Paese.

Una presenza fatta ancora di scorribande e, soprattutto, di un reclutamento crescente di minori, spesso protagonisti di attentati nei villaggi, e di donne, vittime della tratta verso l’Europa.

Oim: “Nel 2015, 19576 nigeriani sbarcati sulle coste italiane”

La presenza pluriennale di Boko Haram in Nigeria si intreccia al reclutamento e allo sfruttamento sessuale crescente di migliaia di nigeriane. Il contesto di guerra da cui le persone sono costrette a scappare va di pari passo con il ritrovato vigore della rotta Nigeria-Libia-Italia attraverso cui viaggiano le donne adescate in Nigeria con la promessa di un lavoro e di una nuova vita in Europa.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dall’aprile 2014 all’ottobre 2015, 1937 donne di nazionalità nigeriana sono approdate sulle coste della Sicilia. Donne, soprattutto ragazzine, sono state adescate o vendute come merce direttamente nei loro villaggi natii. Il punto iniziale del viaggio è quasi sempre Benin City, da dove parte la rotta verso la Libia. Lungo il viaggio e durante il soggiorno finale, spesso nei ghetti di Tripoli, queste donne subiscono violenze e maltrattamenti. Le speranze di un’offerta di lavoro in Europa lasciano dunque presto spazio alla consapevolezza di essere parte di un ingente traffico umano con finalità di sfruttamento della prostituzione. Sono questi i dati e le testimonianze raccolte nei centri di accoglienza sparsi nel Sud Italia.

Non solo il tema dello sfruttamento della prostituzione. Il caos sociale generato da Boko Haram nel Nord Est del Paese unito ad una ormai decennale persecuzione contro i cristiani nella parte centrale dello Stato africano (circa 500 i morti nel corso di febbraio nello Stato di Benue, almeno 11500 i cristiani uccisi tra il 2006 e il 2014), hanno portato e stanno portando (visto che la primavera è ormai alle porte) un esodo composto da uomini, donne e bambini nigeriani diretti verso l’Europa, arrivato a quasi 20000 persone nel solo 2015.

Se ormai la rotta greca è divenuta la principale, se la questione dell’accoglienza divide l’Europa al suo interno (vedi il Consiglio Europeo del 17 e 18 marzo a Bruxelles), sono i dati diffusi ancora dall’OIM a certificare una diversificazione dei flussi migratori. La destinazione italiana, infatti, è divenuta di nuovo prerogativa di persone di origine africana.

Ed è proprio la componente nigeriana ad avere fatto registrare un boom di arrivi nel gennaio 2016, con 916 approdi rispetto ai 109 dell’anno precedente.

Se la guerra siriana produce un effetto sull’Europa, ma dal corridoio orientale, le diverse aree di crisi in seno alla Nigeria stanno provocando un esodo verso il Sud del Vecchio Continente. Pur con numeri ancora sensibilmente diversi rispetto alla Siria, la presenza ancora rilevante di Boko Haram, la persecuzione contro i cristiani e il caso di migliaia di donne vittime di tratta pongono la Nigeria come una delle aree più calde al mondo, in cui i tanti e troppi temi geopolitici sono ancora ignorati dall’establishment europeo e internazionale.

 

Giacomo Pratali

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Il braccio di ferro fra Erdogan e i curdi

Medio oriente – Africa di

La vita strappata il 13 marzo scorso a 37 persone dall’ennesimo attentato che ha colpito la capitale turca sembra pesare sul nome del gruppo TAK, sigla che indica i Falconi o le Aquile della Libertà curda. Sul sito del gruppo, nato nel 2004 e considerato come una sorta di braccio armato del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi guidato da Abdullah Ocalan, è apparsa la rivendicazione dell’attentato nella giornata del 16 marzo, a qualche giorno dallo scoppio provocato dall’attentatrice suicida.

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L’obiettivo dichiarato dai Falconi erano le forze di sicurezza governative, non i civili, considerati alla stregua di danni collaterali che potrebbero verificarsi nuovamente in vista dei nuovi attacchi promessi. Mentre le attenzioni del PKK sono rivolte ad obiettivi militari e di polizia turca nella parte sud-est del paese, TAK concentra il suo interesse al cuore della Turchia, ad Ankara, sede del potere politico.

Dal luglio 2015, da quando la tregua che nei precedenti due anni aveva reso “vivibili” i rapporti fra governo turco e minoranza curda è saltata dopo la perdita della maggioranza dell’Akp di Erdogan nelle penultime elezioni di giugno poi invalidate, continua a susseguirsi uno scambio di attentati e vittime. La situazione resa ancora più tesa dal coinvolgimento della forza armata dei Peshmarga curdi nella lotta contro Isis in Siria, si sta progressivamente aggravando.

L’attentato del 16 marzo scorso ha provocato, come reazione da parte del governo turco definito fascista dai Falconi della Libertà curdi, una serie di bombardamenti che hanno colpito il villaggio curdo, Sharanish, situato al confine con la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel quale vivono anche cristiani di confessione caldea e assira, e l’area dei monti Quandil a nord dell’Iraq, zona in cui già dal 2011 la Turchia interveniva con attacchi sporadici e nella quale si concentrano le principali postazioni del PKK. Inoltre ha dettato l’aggravarsi delle repressioni nella regione turca di Dyarbakir ad alta concentrazione curda. In totale sono state bombardate 18 postazioni curde mentre oltre 20.000 poliziotti turchi sono stati impiegati per portare avanti una operazione d’urto contro i militanti curdi di una città al confine fra Iran e Iraq, Yuksekova.

L’annuncio formalizzato da Ankara come rivalsa sul terrorismo dilagante è di 45 militanti uccisi e di due depositi di armi oltre a due lanciarazzi distrutti. In poco più di una manciata di giorni, sono in totale 37 più 45, quindi 82 le vittime, senza contare i feriti, provocati del braccio di ferro che oppone Erdogan ai curdi. Un tragico bilancio al quale vanno ad aggiungersi le integrazioni al reato di terrorismo che il premier turco ha annunciato per includere fra i destinatari del capo d’accusa non solo i militanti ma anche coloro che possono essere considerati sostenitori o simpatizzanti del PKK o dei gruppi collegati. Erdogan continua a osteggiare la minoranza curda per vanificare il suo grande timore, la nascita di una forte alleanza fra i curdi siriani e turchi che, forti della posizione raggiunta già da anni dalla componente irachena costituita in Regione Autonoma – il KRG, Kurdistan Regional Government- potrebbe esigere la costituzione di uno stato autonomo.

Una eventualità che andrebbe a contrapporsi al sogno, più grande del timore, di concretizzare rinascita di un Califfato sotto la sua guida.

 

Monia Savioli

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Terrore in Turchia: Curdi o Erdogan?

Medio oriente – Africa di

Due donne, verosimilmente appartenenti a gruppi di estrema sinistra, hanno aperto il fuoco ad Ankara uccidendo due vittime. La notizia è delle ultime ore. Qualche giorno prima, il 17 febbraio, un attentato terroristico ha provocato sempre ad Ankara l’uccisione di 28 persone, per lo più militari ed il ferimento di altre 64.

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Nella mattinata a Diyarbakir, principale città curda nel sud-est della Turchia, un’altra esplosione ha freddato 7 soldati turchi. La paternità, come annunciato direttamente attraverso il sito portavoce, è stata rivendicata dal Kurdistan Freedom Hawks (Tak), gruppo militare curdo. L’attentato suicida organizzato dai Falconi della libertà è stato organizzato per osteggiare quella che viene definita “repubblica turca fascista” e per contrastare le politiche anti curde del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Kurdistan Freedom Hawks si è allontanato nel 2005 dal Pkk, il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan che, dall’estate scorsa, ha rotto la tregua fino a quel momento stabilita con Ankara.

Il gioco delle elezioni, organizzate a giugno e poi ripetute qualche mese dopo per volere Erdogan, orfano della maggioranza persa grazie all’impennata del partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, ha provocato una nuova frattura. Attentati, persecuzioni, tentativi, riusciti, di imbavagliare la stampa nazionale hanno devastato il paese e confuso la comunità internazionale a proposito della paternità degli stessi. I curdi si dichiarano per lo più estranei, pronti a scaricare la responsabilità degli attacchi a Erdogan che a sua volta li rimbalza su di loro.

Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha coinvolto nelle attribuzioni di responsabilità relative all’attentato anche le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG operative in Siria, che prontamente si sono definite estranee. A parere del Comando Generale delle YPG, l’accusa serve ad Ankara per aprire la strada a un’offensiva nel Rojava e in Siria, dove le forze delle Unità di Difesa del Popolo stanno difendendo i curdi da ISIS e Al-Nusra. Sicuramente l’ attentato del 17 febbraio, ha offerto la possibilità a Erdogan di ribadire ancora una volta ad Obama le sue convinzioni, relative al profilo terroristico del Partito siriano dell’Unione democratica curda (Pyd), al quale l’YPG è legato, insinuando che le armi a loro fornite dalla coalizione vengano prontamente consegnate a Isis. Ciò che in pratica il governo di Ankara pare faccia da mesi. Erdogan vorrebbe che il Pyd fosse inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma Washington tiene duro e non si piega ai desideri di Erdogan. I curdi, vessati dalla Turchia, sono ora al centro della crisi che sta sconvolgendo il Medio Oriente. La regione autonoma del Kurdistan iracheno vive ancora in uno stato di grazia mentre attorno si sta scatenando l’inferno. Le milizie curde sono impegnate in Siria contro Isis e la coalizione internazionale continua a dare loro fiducia anche per ragioni logistico e tattiche.

I gruppi curdi presenti e operativi in Turchia sono diversi. La sigla più nota è quella del PKK, il partito dei lavoratori curdi e simbolo del movimento separatista che Abdullah Ocalan ha fondato in Turchia. Il Pkk è considerato a tutti gli effetti gruppo terroristico per Stati Uniti, Unione Europea e Turchia. La lotta contro il governo di Ankara ha provocato dal 1980 circa 40.000 vittime. Il testimone è passato oggi a due organizzazioni, il Movimento Patriottico Giovanile, organizzazione paramilitare formata da simpatizzanti del PKK e le Unità di Protezione Civile. Al loro fianco si schierano i Falconi della Libertà, i Tak, un tempo ramo del PKK. A livello politico, i curdi sono rappresentati dall’HDP di Demirtas, il Partito Democratico Popolare, coalizione di sinistra nella quale si riconoscono anche altre minoranze turche, le stesse che hanno decretato il suo successo durante le elezioni, poi invalidate, del giugno scorso nel quale l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza. Gli attentati che hanno insanguinato la Turchia nel periodo trascorso fra i due appuntamenti elettorali, e che Erdogan ha prontamente attribuito ai curdi, ha permesso all’AKP di impossessarsi nuovamente della maggioranza.
In Siria i curdi sono rappresentati dall’Unione Democratica curda, il PYD, che ha ritagliato nel nord del paese una porzione di territorio, il Rojava. I turchi considerano il PYD come il ramo siriano del PKK e sono contrari alla creazione di un corridoio curdo in Siria. Usa e Russia, al contrario, hanno fino ad ora sostenuto l’operato del PYD, che si è rivelato uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i crimini compiuti dallo Stato Islamico. Le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG sono le milizie associate al PYD nelle quali è inserito anche una componente femminile, definite YPJ. Le YPG hanno attirato centinaia di giovani curdi dalle città della Turchia pronte a difendere le roccaforti curde in Siria. E’ su di loro che Ankara ha cercato di attirare le accuse dell’attentato del 17 febbraio scorso poi smentite dallo stesso movimento. Ed è su di loro che i militari turchi dirigono gli attacchi che ufficialmente dovrebbero essere rivolti ai terroristi dell’Isis.
In Iraq i Peshmerga, l’esercito ufficioso della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, hanno svolto un ruolo fondamentale nel tentativo di contrastare la penetrazione dello Stato Islamico. In questa porzione eletta di territorio curdo, continuano a rivaleggiare i due partiti di punta, il democratico PDK e il patriottico PUK. Sulla bilancia degli interessi, i piatti – curdi da un lato e turchi dall’altro – continuano a danzare. La speranza curda è di ottenere vantaggi per coronare il sogno, mai svanito, di riconquistare una patria. La speranza turca è di arrivare a resuscitare i fasti dell’antico impero ottomano. Ma se da un lato i curdi stanno guadagnando con il sangue la fiducia della comunità internazionale, i turchi fanno di tutto per demolire agli occhi della stessa la credibilità curda. In questo clima è lecito pensare a reazioni violente da parte dei curdi, da anni oppressi, ma non esclusive. Erdogan è abituato a costringere quando non riesce a ottenere spontaneamente. E la situazione che in Turchia sta diventando sempre più drastica ne è una prova.

 

Monia Savioli

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Un nuovo consistente fondo di aiuti economici dell’Europa ai profughi palestinesi

Ieri la Commissione europea ha approvato un pacchetto di assistenza di 252 milioni e 500 mila euro per sostenere le Autorità ed rifugiati palestinesi. E questa è solo la prima parte del pacchetto di sostegno annuo dell’UE a favore della Palestina previsto per il 2016.

L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha dichiarato: “L’Unione europea rinnova il suo impegno concreto per i palestinesi attraverso questo pacchetto, l’UE sostiene la vita quotidiana dei palestinesi nei campi dell’istruzione e della sanità, proteggendo le famiglie più povere e  garantendo ai profughi palestinesi l’accesso ai servizi essenziali; questi sono passi tangibili sul campo che possono migliorare la vita dei palestinesi, ma questi passaggi non sono sufficienti. Le istituzioni palestinesi devono continuare a crescere di più, devono diventare più trasparenti, più responsabili e più democratiche. Istituzioni fondamentali e inclusive, basate sul rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, sono cruciali in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Perché quello che vogliamo raggiungere è la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, che viva, in pace e sicurezza, al fianco dello Stato di Israele e degli altri vicini “.

Il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, Johannes Hahn, ha dichiarato: “L’UE rimane ferma nel suo impegno per i palestinesi e sostiene attivamente una soluzione basata su due stati La nostra assistenza per assicurare il funzionamento dell’Autorità palestinese e per sostenere i gruppi di palestinesi vulnerabili, compresi i rifugiati palestinesi, è un esempio concreto di questo impegno. Ringrazio anche tutti gli Stati membri per il loro sostegno continuo dei programmi dell’UE per questa regione tormentata, che si è dimostrato efficace”.

UNRWA-logoDel pacchetto di fondi inviato ieri, 170 milioni e 500 mila euro saranno inviati direttamente all’Autorità palestinese, attraverso il meccanismo PEGASE (Mécanisme Palestino-Européen de Gestion de l’Aide socio-Economique). Con questi fondi l’UE sosterrà l’Autorità palestinese nella fornitura di servizi sanitari ed educativi, proteggendo le famiglie più povere e fornendo assistenza finanziaria agli ospedali situati a Gerusalemme Est.

I restanti 82 milioni costituiranno un contributo al bilancio del programma di soccorso e lavori dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA). Organismo ONU che fornisce servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in tutta la regione. Questo supporto si propone di offrire un migliore accesso ai servizi pubblici essenziali e maggiori opportunità di sostentamento per i profughi palestinesi.

Un secondo pacchetto di misure a favore dei palestinesi sarà annunciato nel corso dell’anno.

A beneficio dei lettori, precisiamo che il PEGASE è il meccanismo attraverso il quale l’Unione europea aiuta l’Autorità palestinese a costruire le istituzioni di un futuro Stato palestinese indipendente. Attraverso il pagamento delle pensioni e degli stipendi dei funzionari pubblici, assicura che i servizi pubblici essenziali continuino a funzionare. Il PEGASE fornisce anche prestazioni sociali alle famiglie palestinesi che vivono in condizioni di estrema povertà ed anche un contributo all’Autorità Palestinese per sostenere i consumi degli ospedali di Gerusalemme Est.

L’Agenzia UNRWA fornisce invece servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, Siria e Libano. L’UE è il maggior contributore di questa Agenzia ONU specializzata. Tra il 2007 e il 2014, l’UE ha contribuito con oltre 1 miliardo di euro , tra cui 809 milioni destinati al bilancio del programma dell’ente. Inoltre, l’UE ha generosamente contribuito alle richieste dell’UNRWA nelle emergenze umanitarie e nei progetti ideati ad hoc per rispondere alle varie crisi  ed alle esigenze specifiche sorte in tutta la regione. Il partenariato tra l’UE e l’UNRWA ha permesso a milioni di rifugiati palestinesi di essere istruiti, di vivere una vita più sana, di avere accesso alle opportunità di lavoro e di migliorare le generali  condizioni di vita, contribuendo così allo sviluppo di tutta la regione.

Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Regeni e il depistaggio del governo egiziano

Continua ad infittirsi il giallo legato alla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni. L’ammissione da parte di tre fonti di intelligence egiziane, secondo cui il 28enne sarebbe stato arrestato per il suo comportamento impertinente nei confronti delle forze dell’ordine e, soprattutto, perché sospettato di essere una spia a causa dei suoi contatti con la Fratellanza Musulmana e il Movimento di Sinistra 6 Aprile, sono state smentite il 15 febbraio dal Ministero dell’Interno de Il Cairo che tramite, l’agenzia stampa Mena, nega “che il ragazzo sia stato imprigionato dall’autorità di sicurezza prima della sua morte”.

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Innanzitutto, i dati certi. L’autopsia ha evidenziato segni di tortura sul corpo di Regeni, tra cui sette costole rotte e scosse ai genitali.

Ma quello che è emerso nelle ultime 48 ore è una dicotomia tra quanto riportato dalle testate internazionali come New York Times e Reuters e italiane come Corriere della Sera e La Repubblica, e dalle autorità egiziane. Aldilà della smentita da parte del governo, è chiaro che in atto ci sia un tentativo di sviare le indagini.

Oltre a non chiarire le circostanze della scomparsa di Regeni, alcune testimonianze, ritenute attendibili in un primo momento, cozzano con quanto riferito sia dalle stesse fonti dell’intelligence, intervistate separatamente e in forma anonima dal New York Times, sia dalle riprese delle telecamere dei negozi che avrebbero ripreso l’arresto del 25 gennaio scorso.

Come rivelato dai tre testimoni dei servizi, l’interesse crescente di Giulio nei confronti delle attività sindacali egiziane, osteggiate dal presidente Al Sisi, avrebbero indotto le autorità locali a pensare che il ricercatore italiano fosse una spia.

Insomma, egli sarebbe finito in un affare più grande di lui. Secondo il Corriere della Sera, nel mese di dicembre, l’Università di Cambridge, presso la quale Regeni era dottorando, avrebbe chiesto allo studente di intensificare le ricerche all’interno del sindacato e dei movimenti di opposizione al regime di Al Sisi. Per questo motivo, le ultime settimane di vita del ragazzo sarebbero state contraddistinte dalla partecipazioni alle riunioni di tali movimenti e alla conoscenza di personalità sia sindacali sia appartenenti alla Fratellanza Musulmana.

Questo il movente che ha probabilmente generato, nelle autorità egiziane, il sospetto che Regeni fosse una spia: “Dopotutto, chi viene in Egitto a studiare i movimenti sindacali?” ha rivelato un funzionario dell’intelligence.

In più, gli eventi strettamente legati alle ore che hanno riguardato la scomparsa dell’italiano. Come già scritto, alcune testimonianze, ritenute inizialmente credibili, secondo cui Regeni sarebbe stato portato via da due poliziotti, sono state smentite dalla chat di Facebook risalenti proprio al 25 gennaio. Qui, il ragazzo parla alla fidanzata e al professore due ore dopo la presunta cattura da parte della polizia.

Una cattura che probabilmente è avvenuta. Ma legata a tempistiche e a protagonisti differenti. E, soprattutto, con uno stile di vita che, con ogni probabilità, aveva messo i servizi segreti egiziani sulle tracce di Giulio Regeni ben prima del 25 gennaio, giorno della sua scomparsa.
Giacomo Pratali

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Libia: nuovo quartier generale del Daesh?

Medio oriente – Africa di

La lente d’ingrandimento puntata sulla Siria, divenuto terreno di scontro della rediviva guerra fredda tra USA e Russia, sta facendo il gioco dello Stato Islamico in Libia. Mentre Turchia e Arabia Saudita preparano l’intervento di terra in Medio Oriente, il quartier generale del Daesh si sta spostando. A dirlo, sono i numeri.

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Secondo le ultime rilevazioni statistiche, ci sarebbe un’inversione di tendenza rispetto al numero di militanti presenti in Siria e Iraq e in Libia. Nel primo caso, le stime parlano di 15-25 presenze, con un calo di 20-30 mila rispetto alle ultime variazioni. Nel secondo caso, invece, il numero totale, 5-6 mila, è ancora inferiore, ma l’aumento nell’ultimo anno si è aggirato attorno ai 2-3 mila.

Molteplici i possibili fattori dovuti a questa inversione di tendenza. Primo fra tutti i caduti di guerra a seguito dei raid nel Paese retto da Assad. Morti che hanno probabilmente causato diserzioni e la conseguente scelta, da parte dei foreign fighters di una meta meno a rischio, per il momento, come la Libia.

Numeri che portano a due riflessioni. Come rilanciato da molti analisti, la crescita numerica dell’Isis in Libia non avrà particolari ripercussioni sui possibili futuri attacchi terroristici in Europa. Quella attraverso la Siria rimane una rotta più sicura non solo per i rifugiati, ma anche per gli stessi jihadisti. E difficilmente i vertici del Califfato rischieranno i loro uomini addestrati attraverso la rotta meno sicura per raggiungere l’Europa, cioè quella attraverso il Mediterraneo meridionale.

Discorso contrario, invece, per quanto riguarda la radicalizzazione stessa del Califfato. I riflettori della comunità internazionale puntati sulla Siria, uniti alla cronica lentezza di un governo di unità nazionale a Tripoli, stanno rendendo la Libia la nuova roccaforte dello jihadismo.

A Sirte, dove ha sede il quartier generale. A Bengasi e in altri centri metropolitani del Paese, dove il Daesh, così come fatto in Siria e Iraq, sta concentrando le proprie forze.

I continui appelli lanciati nelle ultime settimane dalle varie autorità italiane affinché si formi al più presto un nuovo governo, sembrano essere caduti nel vuoto, al netto dell’apparente interesse mostrato, ad esempio, dal segretario di Stato USA John Kerry. Un interesse che, invece, dovrebbe essere reale.
Giacomo Pratali

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Nigeria: su Boko Haram ottimismo fuori luogo

Medio oriente – Africa di

L’ottimismo manifestato dal presidente Muhammadu Buhari dopo alcune vittorie riportate dall’esercito nigeriano contro Boko Haram stride con la realtà. Le atrocità nel villaggio di Dalori, dove l’incendio appiccato dai jihadisti ha provocato la morte di circa 90 persone, compresi bambini, e il recente raid a bordo di una motocicletta sempre in un villaggio dello Stato del Borno, dove sono morte 3 persone, segnalano che la guerra nel Nord-Est del Paese non è ancora finita.

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È vero, dall’avvento del presidente Buhari nel 2015, la lotta a Boko Haram, in collaborazione con Camerun e Ciad, ha portato ad alcune battaglie vinte. L’attuale Capo di Stato infatti, a differenza del suo predecessore, il cristiano Jonathan Goodluck, viene proprio dal Nord della Nigeria ed è musulmano: fattori positivi nella lotta all’organizzazione fondamentalista.

Ma ben altri sono gli aspetti negativi. Alle vittorie e ai conseguenti, e momentanei, arretramenti di Boko Haram, non ha fatto seguito un’avanzata della Nigeria come Stato. Ovvero, a causa della mancanza di fondi, è venuta meno quella ricostruzione di case, scuole e chiese che si sarebbe potuto tradurre in una, seppur lenta, ricostruzione del tessuto sociale dello Stato del Borno.

A questo, si aggiunge l’eterna contrapposizione tra il Sud, cristiano, più ricco e sviluppato; e il Nord, musulmano, più povero e con meno infrastrutture. Una contrapposizione acuita dalle accuse fatte dalla popolazione del Nord-Est all’esercito nigeriano, accusato di rappresaglie e violazione dei diritti umani contro i civili mentre era impegnato a dare la caccia a Boko Haram.

Un malcontento su cui Boko Haram, sulla scia di quanto fatto dallo Stato Islamico in Siria e Iraq, ha fatto e fa leva per reclutare persone.

Non solo. L’ottimismo di Buhari, professato anche nel corso dell’incontro con il primo ministro italiano Renzi ad inizio febbraio, è rivelatore di una sottovalutazione dell’avversario. Un avversario che ha adottato una tattica ben precisa negli ultimi mesi. Scomparire quando è in difficoltà per poi riapparire quando le condizioni lo consentono e utilizzare con minor frequenza l’arma degli attacchi suicidi a favore dei raid.

Il tatticismo di Boko Haram unito alla ormai pluriennale guerra contro lo Stato nigeriano ci raccontano di una guerra in tutto e per tutto. Per questo motivo, alcune battaglie vinte dall’esercito, come scritto dal Financial Times, non possono fare pensare alla risoluzione del conflitto.

A testimonianza di questo, in un’intervista di Vicenews apparsa sulla HBO, un comandante di Boko Haram, rimasto anonimo, ha affermato: “Io sono dove sono le studentesse rapite nell’aprile 2015. Vuoi sapere dove si trovano? Esse non sono con noi. Se otterremo ciò che chiediamo, verranno rilasciate”. Parole di sfide, parole che chiariscono che è Boko Haram ad avere ancora il coltello dalla parte del manico nella guerra contro la Nigeria.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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