GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa - page 3

Arabia Saudita: verso la diversificazione economica

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Nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata al centro di intense trattative diplomatiche, rivolte prevalentemente a stringere importanti accordi economici per il paese. Non è una coincidenza, infatti, che alcuni degli attori coinvolti in queste trattative siano proprio le tre più forti economie mondiali: Stati Uniti, Cina e Giappone. Infatti, mentre Re Salman bin Abdulaziz Al Saud ha intrapreso un viaggio di sei settimane in Asia, il suo Ministro dell’Energia Khalid Al-Falih si è recato a Washington, dove ha incontrato il Presidente americano Donald Trump.

Una così intensa attività va al di là delle normali “routine” diplomatiche, soprattutto se si considera che la visita del monarca saudita in Giappone rappresenta la prima visita di un sovrano del Medio Oriente negli ultimi cinquant’anni. Cosa si cela, perciò, dietro questa agenda ricca di appuntamenti? Sicuramente il petrolio. Per decenni, la vasta disponibilità di petrolio unita alle rigide regolamentazioni imposte dalla monarchia saudita -che hanno ripetutamente scoraggiato gli investimenti stranieri nei mercati del regno- hanno fatto del petrolio l’unica e sola fonte di entrate del regno.

Tuttavia, il recente crollo del prezzo del petrolio ha preoccupato Riad. E le previsioni del Fondo Monetario Internazionale non hanno rincuorato particolarmente: si prevede, infatti, un calo della crescita economica della monarchia dal 4% allo 0,4% nel corso del anno corrente. Di conseguenza, l’Arabia Saudita sta esplorando nuovi sentieri economici, non ultimo attirare capitali stranieri e sviluppare diversi settori industriali. La strategia di breve termine prevede, infatti, investimenti e sviluppo delle infrastrutture, in particolare elettricità e trasporti. Nel lungo termine, invece, il progetto “Vision 2030” presenta obiettivi e aspettative basati su tre pilastri principali: mantenere un ruolo di leadership nel mondo arabo e musulmano, diventare un centro di investimenti a livello globale e un ponte di collegamento tra Asia, Europa e Africa.

Date queste premesse, diventa più comprensibile l’intenso sforzo condotto dalla monarchia saudita per diversificare la propria economia. Tuttavia, è bene analizzare anche le implicazioni politiche che tali visite diplomatiche e accordi commerciali possono avere.

Iniziamo dal Giappone, la prima tappa di re Salman. Come accennato prima, l’arrivo del re saudita nell’isola giapponese non è un evento così frequente, malgrado i paesi godano di buoni rapporti e la monarchia saudita sia il maggiore fornitore di petrolio del paese. Questa volta re Salman ha, però, deciso di recarsi personalmente a Tokyo, dove ha incontrato il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. I due leader hanno, così, firmato l’accordo “Saudi-Japan Vision 2030”, un progetto governativo che mira a rafforzare la cooperazione economica tra i due paesi.

L’implementazione del progetto porterà Arabia Saudita e Giappone ad essere partner strategici eguali, e assicurerà alle compagnie nipponiche una zona economica protetta nel regno saudita, in modo da facilitare i flussi in entrata nel regno e le partnership commerciali. I progetti di sviluppo presentati nel documento sono legati sia al settore pubblico che privato.

Quest’ultimo vede coinvolti nomi importanti. Toyota sta valutando la possibilità di produrre automobili e componenti meccaniche in Arabia Saudita; Toyobo, invece, collaborerà nello sviluppo di tecnologie per la desalinizzazione delle acque. Diverse banche -tra cui la Mitsubishi Tokyo UFJ Bank- promuoveranno investimenti nel regno, mentre il Softbank Group prevede la creazione di un fondo di investimenti nel settore tecnologico del valore di 25 miliardi di dollari.

Il Giappone si pone, dunque, come attore chiave per la diversificazione economica della monarchia saudita. Tuttavia, a supportare queste più intense relazioni tra i due paesi vi sono anche motivazioni politiche. Il governo nipponico cerca, infatti, di sostenere la stabilità economica e politica dell’Arabia Saudita, in quanto fattore chiave per mantenere la stabilità nella regione. La competizione tra Arabia Saudita ed Iran per la leadership nel Medio Oriente sta deteriorando la sicurezza e la stabilità della regione ormai da decenni. Il Giappone possiede relazioni amichevoli con entrambi i paesi e invita gli stessi ad intraprendere un dialogo produttivo che possa portare ad una pacifica soluzione delle loro controversie. Aiutare l’Arabia Saudita a rafforzare la propria economia, specialmente in un momento così critico per il mercato dell’oro nero, è essenziale al fine di mantenere una sorta di equilibrio tra le due potenze mediorientali, considerando, inoltre, come i rapporti con gli Stati Uniti -storico alleato e colonna portante della politica estera saudita- abbiano recentemente attraversato un periodo piuttosto difficile.

Proseguendo verso ovest, re Salman ha raggiunto la Cina, com’è noto secondo maggior importatore del petrolio saudita e terza maggiore economia mondiale. Come per il Giappone, la monarchia saudita è la fonte primaria per il fabbisogno energetico della Repubblica. Le due nazioni hanno ampliamente rafforzato i propri rapporti firmando accordi economici e commerciali per un valore di circa 65 miliardi di dollari. All’interno di questa partnership troviamo investimenti nei settori manifatturiero ed energetico, nonché nelle attività petrolifere. Inoltre, tali accordi includono anche un Memorandum of Understanding (MoU) tra la compagnia petrolifera Saudi Aramco e la Cina North Industries Group Corp (Norinco) per quanto riguarda la costruzione di impianti chimici e di raffinazione in Cina. Sinopec e Saudi Basic Industries Corp (SABIC) hanno stretto un accordo per lo sviluppo dell’industria petrolchimica sia in Arabia Saudita che in Cina.

Bisogna sottolineare che una più stretta relazione economica tra la monarchia saudita e la Cina giochi a beneficio di entrambi i paesi. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita può intravedere nuove opportunità di commercio in settori diversi da quello petrolifero, pur confermando il suo ruolo di maggior partner energetico della Cina; dall’altro lato, il mercato cinese può godere degli ulteriori investimenti arabi, nonché della posizione strategica dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente. Infatti, l’influenza politica, religiosa ed economica della monarchia saudita nel mondo arabo è fattore fondamentale per l’iniziativa cinese “One belt, one road”, che mira a rafforzare la cooperazione tra Eurasia e Cina.

Anche l’Arabia Saudita, però, ottiene i vantaggi strategici desiderati. Limitatamente alla sua sicurezza nazionale, la monarchia ha sempre fatto un forte affidamento sull’alleanza con la potenza americana e la presenza militare di questa nel Golfo. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, i rapporti tra i due paesi si sono progressivamente incrinati. Motivo principale la mancanza -ad occhi di Riad- di determinazione nel gestire i tentativi dell’Iran di potenziare le proprie capacità nucleari, mettendo, così, ulteriormente a rischio la stabilità della regione. In passato la Cina ha sempre evitato di interferire nelle dinamiche mediorientali, cercando di mantenere una posizione neutrale tra i due rivali -Arabia Saudita e Iran- e sottolineando la necessità di un dialogo tra questi. Tuttavia, ci sono stati alcuni cambiamenti.

Nel 2016, la Cina ha offerto la propria cooperazione militare al regime di Bashar al-Assad e supportato il governo yemenita contro i ribelli Houthi, sostenuti a loro volta dall’Iran (l’Arabia Saudita è, inoltre, a guida di una coalizione militare a favore del governo). Infine, il governo cinese ha recentemente firmato un accordo per la creazione di una fabbrica di droni “hunter-killer” (cacciatore-assassino) in Arabia Saudita, tra l’altro la prima in Medio Oriente.

Vedremo, dunque, progressivamente la Cina rimpiazzare gli Stati Uniti in Medio Oriente? Ancora presto per dirlo, soprattutto dati gli ultimi avvenimenti in Siria. In ogni caso, sembra evidente che Pechino abbia tutto l’interesse ad assumere un ruolo preponderante nella promozione della sicurezza e della stabilità della regione, forte delle capacità militari ed economiche che consentono di poterlo fare.

E giungiamo dunque, all’ultimo grande pezzo di questo puzzle: gli Stati Uniti. Come citato precedentemente, l’amministrazione Obama ha messo a dura prova i rapporti tra la potenza occidentale e la monarchia saudita. Il nodo centrale delle tensioni riguarda la firma con l’Iran dell’accordo multilaterale sul nucleare, che consente alla Repubblica Islamica di vendere petrolio potendo controllarne più liberamente il prezzo, nonché di attirare investimenti nel settore energetico, alimentando, così, la competizione con il maggiore esportatore, ovvero l’Arabia Saudita. È vero, altresì, che la nuova presidenza ha mostrato da subito un approccio piuttosto diverso verso l’Iran, imponendo immediatamente sanzioni contro alcune entità coinvolte nel programma nucleare.

La visita del ministro saudita a Washington sembra, infatti, aprire una nuova fase nei rapporti USA-Arabia Saudita. Il Ministro dell’Energia Khalid Al’Falih e il vice principe ereditario Mohammed bin Salman hanno incontrato il Presidente Trump alla Casa Bianca. Come ribadito dal ministro saudita, le relazioni tra USA e la monarchia sono essenziali per la stabilità a livello globale, e sembrano ora ad un ottimo livello, come mai raggiunto in passato. Infatti, i due paesi sono allineati sui temi di maggiore importanza, come affrontare l’aggressione iraniana e combattere l’ISIS, ma godono, inoltre, dei benefici derivanti dai buoni rapporti personali che intercorrono tra il presidente e il vice principe ereditario.

A livello economico, si prospettano nuovi investimenti nel settore energetico, industriale, tecnologico e delle infrastrutture. Secondo quanto riportato dal Financial Times, l’Arabia Saudita sarebbe pronta ad investire fino a 200 miliardi di dollari nell’infrastruttura americana, pilastro fondamentale dell’agenda politica di Trump. “Il programma infrastrutturale di Trump e della sua amministrazione-spiega Falih- ci interessa molto, in quanto allarga il nostro portfolio di attività e apre nuovi canali per investimenti sicuri, a basso rischio ma con un cospicuo ritorno economico, esattamente ciò che stiamo cercando”.

 

Queste sono soltanto alcuni degli accordi e trattative commerciali che l’Arabia Saudita sta al momento conducendo, ma aiutano a capire il nuovo corso economico del paese. Tali accordi rappresentano, infatti, un “piano B” contro il crollo del reddito derivante dal petrolio, nonché la possibilità di rafforzare e diversificare le capacità economiche del paese, che può contare non solo sul greggio, ma anche su altre risorse, tra cui il fosfato, l’oro, l’uranio ed altri minerali. Sviluppare nuovi settori permette, inoltre, di attirare investimenti stranieri e di creare opportunità di lavoro per la popolazione locale giovane ed ambiziosa.

Uno dei maggiori rischi di un così vasto network di trattative economiche è chiaramente la reazione che i diversi partner posso avere in relazione ad accordi stipulati con altri paesi. È risaputo che gli accordi commerciali abbiano ripercussioni anche a livello politico. Di conseguenza, una delle maggiori sfide per i leader sauditi consiste proprio nel perseguire i propri obiettivi in campo economico, cercando, tuttavia, di mantenere una posizione di equilibrio nei rapporti con i suoi alleati e nazioni amiche, soprattutto lì dove alcuni di questi partner non godono di relazioni troppo amichevoli.

Un chiaro esempio è la Cina. Nonostante il decennale mancato interesse per le questioni mediorientali, la Cina si pone ora come attore chiave nella regione, come mostra il supporto offerto in Yemen e Siria, ma anche il tour condotto da una nave da guerra cinese nelle acque del Golfo (gennaio 2017). Ovviamente, l’Arabia Saudita accoglie in modo positivo un tale supporto, in quanto può aiutare a contenere l’influenza dell’Iran. È, tuttavia, importante non creare attriti con lo storico alleato USA. La nuova amministrazione ha mostrato, infatti, un approccio totalmente opposto ai problemi della regione -Siria ed Iran- e potrebbe essere un grave errore strategico avvicinarsi eccessivamente ad un nuovo alleato. Un simile atteggiamento potrebbe dare l’impressione che un nuovo garante della sicurezza della regione abbia rimpiazzato gli Stati Uniti, un cambiamento che il Presidente Trump potrebbe non accettare facilmente.

 

In conclusione, la diversificazione dell’economia saudita è senza dubbio una mossa intelligente e necessaria. Tuttavia, essa si proietta al di là della mera sfera economica, andando a definire la posizione politica della nazione, come potenza regionale ma anche nei suoi rapporti con gli altri attori stranieri coinvolti nelle vicende politiche del Medio Oriente. Sembra che Riad stia cercando di stringere i legami proprio con quei paesi che hanno maggiore interesse -ma anche capacità economiche e militari- a contribuire alla stabilità regionale, cercando, altresì, di ottenere da questi il maggior supporto possibile contro il nemico numero uno, l’Iran. Cina e Stati Uniti sono in primo piano, ma non bisogna dimenticare la Russia, che negli ultimi anni ha ampliamente sviluppato i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e possiede, inoltre, forti interessi politici e strategici in Medio Oriente Da monitorare, infine, lo sviluppo della guerra in Siria, soprattutto dopo il lancio del missile americano Tomahawk sulla base aerea siriana, particolarmente gradito da Riad.

È probabile che la futura strategia economica del Regno seguirà le necessità politiche e strategiche del paese, confermando ancora una volta la forte correlazione tra la dimensione economica e politica, ma anche l’importanza che un’economia forte ed indipendente ha nel mantenere un ruolo leader nella regione.

 

Paola Fratantoni

“I guerrieri di Dio, Hezbollah” di Fabio Polese e Stefano Fabei

Medio oriente – Africa di

Il Libano è sempre stato un coacervo di culture che fin dai tempi delle conquiste romane ha ospitato genti provenienti da regioni e religioni diverse.

Oggi il paese dei cedri è stretto da decenni di guerre di confine e interne che dagli anni settanta hanno scosso la società libanese, ma il malessere e la determinazione di questo popolo ha radici lontane nella storia moderna.

Questa genesi viene descritta ampiamente nel libro di Fabio Polese e Stefano Fabei, una narrazione storica necessaria per comprendere lo stato attuale della geopolitica dell’area.

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Stefano Fabei
descrive il percorso storico che dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra ha segnato la nascita e la vita delle popolazioni dei territori medio orientali e in particolare dello stato libanese moderno.

Il contesto politico nel quale si muove attualmente Hezbollah viene descritto con grande precisione da Fabio Polese, fotoreporter e giornalista che nei suoi molti viaggi e reportage nell’area ha potuto constatare di persona il ruolo di questo partito politico nel Libano moderno.

Hezbollah nasce nel 1982 come milizia territoriale ad ispirazione sciita per difendere il paese durante il conflitto Libano- Israele che durò fino al 2000 Con l’obiettivo di difendere le popolazioni sciite del Libano e ispirandosi alla repubblica iraniana si basa su tre principi indiscutibili la fine di ogni potenza imperialista in Libano”, “sottoporre le Falangi Libanesi ad una giusta legge e portarli a processo per i loro crimini”, e dare al popolo la possibilità di scegliere “con piena libertà il sistema di governo che vogliono”.

Dopo questa fase iniziale Hezbollah ha lanciato un vero e proprio programma politico basato sull’assistenza nella ricostruzione dopo la guerra e sull’istruzione scolastica, programma aperti a qualsiasi libanese di qualunque credo basandosi comunque su alcuni principi irrinunciabili, la coesione delle tante componenti religiose dell’area e la liberazione dei territori occupati da Israele.

Una apertura che ha permesso al Partito di Dio di raggiungere un consenso sempre più ampio dal punto di vista politico e di rafforzare la propria potenza militare, tanto da essere considerati l’una vera forza di difesa del paese.

fotopolese3Una politica molto pragmatica che li ha portati a sfruttare le molte contraddizioni tra il mondo mussulmano, sciita e sunnita, e quelle dei cristiani maroniti, storici nemici di Hezbollah, per avere delle alleanze sempre più forti.

Dalla lettura del libro di Fabio Polese e Stefano Fabei questi fatti vengono descritti con grande attenzione permettendo al lettore di comprendere a fondo il contesto geopolitico dell’area di riferimento e del Libano stesso.

Aver approfondito il contesto storico risalendo ai fatti di oltre un secolo fa quando i confini degli stati di questa area furono segnati su una carta per volontà di Francia e Gran Bretagna creando delle convivenze difficili e dividendo etnie sulla base di convenienze economiche e politiche.

Questo libro è una risorsa importante per chiunque voglia approfondire i fatti di oggi, per comprendere le alleanze e gli obiettivi che vengono annunciati dalla grandi potenze e anche le responsabilità storiche.

Il volume è di agevole lettura e fornisce tutte le informazioni basilari sia di contesto che di dettaglio su questa organizzazione prima militare e poi politica che oggi rappresenta in Libano una forza sociale molto importante.

Da leggere sicuramente, per addetti ai lavori ma anche per semplici interessati.

 

9788842558040_0_0_1500_80I guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria

Stefano Fabei, Fabio Polese
Editore: Ugo Mursia Editore
Collana: Testimonianze fra cronaca e storia
Anno edizione: 2017
Pagine: 394 p. , Brossura

 

 

 

 

photo credits: per gentile concessione di Fabio Polese

Indagini CAR svelano traffico di armi tra Iran e Yemen

Medio oriente – Africa di

Secondo il rapporto pubblicato il 29 novembre scorso dal Conflict Armament Research (CAR), istituto di ricerca britannico finanziato prevalentemente dall’Unione Europea, risulta evidente il ruolo dell’Iran nell’approvvigionamento di armi ai ribelli Houthi in Yemen. L’analisi si basa sulla confisca di armi da imbarcazioni in transito nel mare arabico condotta nei mesi di febbraio e marzo dalla nave da guerra australiana HMAS Darwin e dalla fregata francese FS Provence, entrambe parte della Joint International Task Force operativa nel Corno d’Africa in azione antiterroristica e antipirateria. La task force agisce indipendentemente e separatamente dalla coalizione militare a guida saudita operativa nelle stesse acque.

Secondo i dati riportati, la HMAS Darwin avrebbe sequestrato più di 2.000 armi, tra cui mitragliatrici modello AK e 100 lanciarazzi di fabbricazione iraniana da un sambuco diretto verso la Somalia. I sequestri della fregata francese includono altri 2.000 mitragliatori, anche questi con caratteristiche tipiche della produzione iraniana e 64 fucili di precisione Hoshdar-M, made in Iran. Sono stati rinvenuti, inoltre, nove missili guidati anticarro Kornet, di produzione russa. Un ulteriore Kornet intercettato in Yemen dalle forze della coalizione saudita apparterrebbe alla stessa serie di produzione di quelli confiscati dalla FS Provence.

Il rapporto cita, inoltre, il sequestro da parte della USS Sirocco -guardacoste della marina militare statunitense- di mitragliatrici AK, lanciarazzi e mitra a bordo di un altro sambuco in transito nella regione. A detta statunitense, le armi proverrebbero dall’Iran e sarebbero destinate allo Yemen. Tuttavia, ad oggi, gli Stati Uniti non hanno condiviso informazioni aggiuntive con il CAR.

Gli armamenti confiscati a bordo sembrerebbero coincidere con quelli sequestrati ai ribelli Houthi in Yemen. Incrociando numeri di serie e modello delle armi, il CAR ha sottolineato tre conclusioni principali riguardo l’origine delle stesse.

In primis, i lanciamissili RPG di produzione iraniana -facilmente identificabili dal colore verde olivastro delle componenti, la forma cilindrica dell’impugnatura posteriore e il numero di serie giallo – sono stati ritrovati a bordo di numerosi vasselli, tra cui quelli intercettati dalla HMAS Darwin e dalla Sirocco. Secondariamente, i fucili di precisione potrebbero provenire dalle riserve iraniane. Infatti, un così significativo numero di armi con numeri in sequenza fa pensare ad uno stock proveniente dalle riserve nazionali più che da molteplici fonti non statali. Infine, l’Iran potrebbe aver fornito missili guidati anticarro sia di produzione propria che russa.

Considerando la quantità di armi ritrovate a bordo, molte delle quali di provenienza iraniana, gli investigatori parlano, dunque, dell’esistenza di una “pipeline” tra Iran e Yemen. I carichi di armi sarebbero inizialmente destinati ai mercati locali di armi della Somalia (nella regione settentrionale del Puntland) per poi continuare il tragitto verso lo Yemen, dove andrebbero ad armare i ribelli Houthi, in lotta da ormai 20 mesi contro il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi.

Il coinvolgimento dell’Iran in un simile traffico rappresenta -sostiene il CAR- una grave violazione dell’embargo posto dalle Nazioni Unite sul trasferimento di armi ai ribelli. In particolar modo le risoluzioni del CdS (Consiglio di Sicurezza) n° 2140 (febbraio 2014), n° 2216 (aprile 2015), e n° 2266 (febbraio 2016), che invitano i paesi membri ad adottare tutte le misure necessarie per prevenire questo tipo di trasferimenti.

Non sarebbe il primo episodio di violazione delle direttive del CdS da parte della Repubblica Islamica. Il 23 gennaio 2013, infatti, la USS Farragut intercetta un carico di missili Katyusha da 122 mm, sistemi radar, missili antiaereo cinesi QW-1M, and 2.6 tonnellate di esplosivo RDX a bordo della nave Jihan 1, al largo delle coste yemenita. L’episodio violava l’allora più restrittiva UNSCR 1747 (2007), secondo la quale “Iran shall not supply, sell, or transfer directly or indirectly from its territory or by its nationals or using its flag vessels or aircraft any arms or related materiel.”

Come già avvenuto in passato, l’Iran ha nuovamente negato il proprio coinvolgimento in queste attività, sottolineando come il proprio sostegno ai ribelli Houthi sia meramente di natura politico-diplomatica.

Tuttavia, fonti di diversi porti somali confermano che le armi arrivano da grandi imbarcazioni provenienti dall’Iran che o giungono fino al molo o ancorano a largo delle coste, dove vengono raggiunte da barche più piccole che trasportano, poi, parte del carico illecito ad altri porti della regione. Il resto prosegue verso lo Yemen, in particolare il porto di Ash Shihr, a est di Mukalla, dove si camuffano nell’intenso traffico marittimo che caratterizza quest’area. Ulteriore elemento a sostegno delle ipotesi del CAR è la natura stessa delle armi ritrovate, poco comuni nel mercato di armi somalo.

In conclusione, pare evidente il sostegno anche militare dell’Iran ai ribelli Houthi, nonostante i diversi appelli e avvertimenti ricevuti sia in sede ONU che in altri forum regionali. Continueranno le operazioni di pattugliamento nelle acque del Corno d’Africa con lo scopo di ostacolare l’approvvigionamento di armi ai ribelli, alimentando ulteriormente la già critica situazione in Yemen. Sarebbe, tuttavia, auspicabile per il futuro un maggior coordinamento e una più intensa condivisione delle informazioni da parte dei vari attori operativi in campo, in modo da poter avere una visione più completa dei traffici iraniani e poter così rispondere in modo più efficace alla minaccia che gli stessi rappresentano per la stabilità della regione.

 

Paola Fratantoni

Yemen: la crisi dimenticata

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Fallite le 48 ore di cessate il fuoco in atto dal 19 al 21 novembre scorso tra il gruppo ribelle Houthi e le forze fedeli al Presidente Hadi in Yemen. Molteplici sono state le violazioni da entrambe le parti sin dall’inizio della tregua, motivo per cui ne è stata esclusa un’estensione. Lo stesso cessate il fuoco previsto per la notte del 17 novembre scorso era andato in fumo in seguito a una serie di scontri verificatesi nella città di Taiz, che avevano portato all’uccisione di più di venti persone.

Se è vero che siamo lontani dalla cessione delle ostilità sul campo, ancora più remota è un’intesa politica, che dovrebbe porre fine ad un conflitto che logora il paese da ormai 20 mesi. Nelle scorse settimane sono stati intensi i colloqui e gli incontri tra il Segretario di Stato americano John Kerry, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Cheikh Ahmed e paesi mediatori come l’Oman per trattare con le parti in conflitto e concordare un piano per ripristinare stabilità e sicurezza nel paese.

Molteplici le proposte rifiutate, tra cui l’ultima presentata da Kerry, in base al quale il Presidente Hadi avrebbe dovuto cedere il potere ad un nuovo vice presidente in cambio del ritiro dei ribelli dalle maggiori città del paese e la cessione degli armamenti di questi a parti terze neutrali.

Ad oggi, nessun accordo risulta, dunque, stabilito, data la riluttanza di entrambi gli attori a cedere quella parte di potere e di controllo che hanno sul paese. Da un lato, infatti, il Presidente Hadi rifiuta di cedere il passaggio dei propri poteri, dall’altro gli Houthi premono per mantenere il proprio arsenale militare. Ciò, infatti, garantisce loro un certo potere nella politica nazionale, rendendo il movimento un plausibile nuovo Hezbollah in Yemen, oppositore politico rilevante ma anche militarmente forte.

Sebbene l’attenzione internazionale sia attualmente riposta su altri temi, il conflitto in Yemen diventa giorno dopo giorno sempre più rilevante nei giochi politici regionali e internazionali.

Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini dello scontro, nel novembre 2011, quando in seguito alle sollevazioni popolari l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh è costretto a cedere in potere a Abdrabbuh Mansur Hadi. Il nuovo presidente, tuttavia, non riesce a gestire diverse problematiche capillari dello stato, come la disoccupazione, la corruzione, la fame e il terrorismo, lasciando così la popolazione in balia di piaghe che eliminano ogni speranza di ripristinare la stabilità nel paese.

Nel settembre del 2014, con il supporto dell’ex presidente Saleh, il gruppo ribelle denominato Houthi, movimento politico-religioso di matrice zaidita (ramo dello Sciismo), assume il controllo della regione settentrionale del paese ed entra nella capitale Sana’a. L’allora presidente Hadi viene messo agli arresti domiciliari e costretto alla fuga verso la città di Aden nel mese successivo.

Si formano, così, due fazioni: gli Houthi, alleati di Saleh, che controllano la capitale Sana’a e il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi, con base ad Aden. In questo scenario si inseriscono sostenitori e alleati da entrambe le parti. Nel marzo del 2015 una coalizione militare a guida saudita inizia una campagna aerea contro le postazioni ribelli, nell’ottica di restaurare il governo Hadi. Da allora più di 10.000 persone sono rimaste uccise nel conflitto e le condizioni di vita nel paese sono peggiorate drasticamente, determinando uno stato di crisi umanitaria.

Dall’altro lato, invece, per quanto ripetutamente negato, pare esserci il sostegno politico e militare dell’Iran, con un gioco simile a quello già visto in Libano con Hezbollah. Secondo il Brigadiere Generale Ahmad Asseri, portavoce della coalizione saudita, esisterebbe proprio un legame tra il gruppo terroristico Hezbollah e gli Houthi. Esponenti del gruppo libanese sarebbero, infatti, stati rintracciati tra i militanti sciiti in Yemen.

Completano il quadro i gruppi terroristici di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e lo Stato Islamico (ISIS), che sfruttano l’instabilità della regione per portare avanti la propria agenda politica, riuscendo a prendere il controllo di alcuni territori nelle province meridionali (area controllata dal governo Hadi) e rendendo sempre più complessa la possibilità di ripristinare la sicurezza nel paese.

Risulta, dunque, evidente come il conflitto in Yemen non si limiti esclusivamente alle parti direttamente in campo, ma coinvolga numerosi attori esterni e sia collegato alle dinamiche di potere dell’intera regionale mediorientale. Ancora una volta, infatti, si ritrova la coppia Arabia Saudita-Iran, in lotta per l’egemonia nella regione e si ripropone la divisione tra una componente sciita, attualmente in controllo del Nord del paese, e una sunnita, facente capo al governo Hadi.

Oltre ad essere teatro della proxy war tra Riyadh e Teheran, lo scontro in Yemen rappresenta un fattore destabilizzante anche per il commercio internazionale. L’arsenale missilistico degli Houthi garantisce, infatti, ai ribelli gli strumenti necessari per colpire le navi in transito nello stretto di Bab el-Mandeb, una delle rotte più trafficate del commercio mondiale. Circa 4 milioni di barili transitano giornalmente in questo tratto di mare: è evidente come la sicurezza in questa zona diventi una condizione necessaria non solo per gli attori regionali ma anche per ulteriori stakeholder, come i paesi europei e gli Stati Uniti, fortemente dipendenti dalle riserve energetiche proveniente da questa regione.

Diventa, dunque, più comprensibile il motivo per cui le trattative con gli Houthi includano la cessione delle armi ribelli a delle unità neutrali; altrettanto chiaro è il perché questi ultimi abbiano dichiarato di voler mantenere almeno le armi leggere, garantendosi, così, uno strumento per mantenere potere nelle dinamiche nazionali, regionali e globali.

Le consultazioni continueranno nella speranza di raggiungere un accordo il prima possibile. Resta, tuttavia, da vedere quale sarà l’atteggiamento assunto dalla nuova amministrazione americana nei confronti del problema. In base alle dichiarazioni rilasciate da Donald Trump, infatti, gli Stati Uniti dovrebbero restare fuori da conflitti che non minacciano direttamente gli interessi nazionali e la guerra in Yemen non rappresenterebbe una priorità.

 

Paola Fratantoni

Operare in aree di crisi, ancora un rapimento di italiani in Libia

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Sono stati rapiti sulla strada che conduceva da Ghat alla sede della loro società a Bi’r Tahala, i due italiani e l’italo canadese dipendenti della Con.I.COS.

Tre auto hanno bloccato il fuoristrada e hanno sparato al loro autista che a detta dei media locale è stato ferito ad un piede, legato e lasciato in una zona desertica non lontano dal luogo del rapimento.

La dinamica è quella tipica delle azioni di sequestro, tre auto per fermare l’obiettivo e con colpi ben mirati viene immobilizzato l’autista, un obiettivo abbastanza tranquillo per lo standard di quelle parti visto che i tre si muovevano senza nessuna scorta, forse fiduciosi dei loro rapporti consolidati con la popolazione locale.

Non avevano avvisato della loro presenza l’unità di crisi della Farnesina, viene riportato dai media italiani, che dopo il rapimento finito male dei quattro italiani della Bonatti aveva esplicitamente richiesto che fossero note alle autorità le attività delle imprese italiane in Libia.

Non è chiara l’identità del gruppo che ha eseguito l’azione e ancora non sono state avanzate richieste alle autorità italiane ne all’azienda Con.I.COS di cui sono dipendenti.

I due cittadini italiani sono Bruno Cacace, 56enne residente a Borgo San Dalmazzo (Cuneo), e Danilo Calonego, 66enne della provincia di Belluno di Sedico (Belluno), che lavorava in Libia dal ’79. Persone che conoscevano perfettamente la zona e la popolazione locale.

L’azienda Con.I.Cos ha sede a Mondovì in provincia di Cuneo ed è attiva da diversi anni in Libia tanto da aver aperto tre filiali nel paese, Tripoli, Bengasi e Ghat.

Avrebbero dovuto essere uno dei principali sub appaltatori dell’autostrada promessa dal governo italiano a Gheddafi e dopo la sua caduta al governo di Tripoli ma il precipitare della situazione politica del paese ha evidentemente bloccato il progetto

L’area del Fezzan non è considerata ad alto rischio dalla Farnesina, nonostante l’intero paese sia attraversato da scontri tribali, infiltrazioni dell’ISIS e una tragica crisi economica dovuta al perseverare della situazione di instabilità.

Comunque Unità di crisi e servizi hanno il quadro puntuale delle presenze italiane in Libia ma nel caso specifico sembra che l’azienda non avesse comunicato la presenza sul territorio libico ne avesse approntato misure di sicurezza a protezione dei suoi dipendenti.

Questo caso è emblematico del contesto i cui sono costretti ad operare addetti specializzati nelle aree di crisi, spesso senza le opportune cautele previste dalla legge sulla sicurezza sul lavoro che include anche situazioni di questo tipo.

Inoltre molto spesso la formazione continuativa del personale specializzato ad operare in quelle aree non viene svolta affidando alla personale esperienza dei singoli il buon esito della loro trasferta, non considerando in nessun modo la formazione preventiva come necessaria a preparare il personale a individuare i rischi e pianificare la propria attività in sicurezza.

La procura della Repubblica di Roma indagherà sul rapimento e sarà aperto un fascicolo processuale subordinato alle prime indagini dei ROS.

 

 

 

 

 

Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000

Benin, viaggio in un paese in bilico

Medio oriente – Africa di

Reportage dal Benin di Loretta Doro

Quando si atterra all’aeroporto di Cotonou si respira subito l’Africa, non quella turistica proposta dai tour operator delle agenzie di viaggio, con spiagge bianche e animali da zoo, ma un paese povero e pieno di contraddizioni. La folata di aria calda ti invade e il tasso di umidità, che a volte può raggiungere anche il 95%, si fa sentire.

Il Benin così poco conosciuto e cosi sorprendentemente con qualcosa da dire. Bisogna avere uno spirito di adattamento e la volontà di immergersi e capire quella realtà, senza mediazioni e propaganda turistica, nulla da riportare agli amici come tipica attrattiva “africana”.

 

Il Benin conta circa 10 milioni di persone ed è posto nell’Africa Occidentale confinante con il Togo, il Burkina Faso, Niger e Nigeria, mentre a sud si affaccia sul Golfo di Guinea, rimanendo uno dei paesi più piccoli di quella zona d’Africa.

La lingua ufficiale è il francese ereditato da un lungo colonialismo di quella nazione, il dialetto più diffuso, soprattutto nei piccoli villaggi della savana, è il fon.

La religione di stato è il vudù che convive con quella cristiana, animista e musulmana

La Capitale amministrativa e sede del Parlamento è Porto Novo, invece Cotonou è la città maggiore, considerata la capitale dal punto di vista economico e sede del Capo dello Stato e del Governo

Il Benin è un paese molto povero, privo di materie prime, per questo poco appetibile dagli investitori alla conquista di business

E’ una Repubblica presidenziale e quando viene eletto il nuovo presidente rinnova tutti i funzionari e politici portando con se tutto un entourage personale composto da amici e parenti, ma continuando a stipendiare i precedenti.

La corruzione, almeno fino al 2015 vigeva ovunque, dal piccolo favore alla grande opera, i governanti non ne fanno un mistero, negli ultimi anni il presidente si è messo in affari con la Cina, che è succeduta alla Russia e precedentemente alla colonizzazione della Francia.

Strade

L’arteria principale che collega il porto di Cotonou e che serve anche il Togo e Burkina Faso, è da anni un cantiere aperto causando disagi enormi.

Gli appalti per la costruzione di strade, negli ultimi anni sono stati completamente in mano ai cinesi facendo morire le pochissime aziende locali. Come moneta di scambio veniva usato il pregiato legno di tek, una patrimonio naturale che rischiava di essere devastata da accordi governativi scapestrati. Tutta l’attrezzatura e macchinari erano di origine cinese e i beninesi venivano considerati solo braccia per lavorare. Il rifacimento stradale non è continuativo e ogni tanto si trova la strada interrotta costringendo gli automobilisti a fare delle deviazioni improvvisate, senza indicazione alcuna per ritornare sulla strada maestra , si è costretti passare all’interno di piccoli villaggi, dove spesso si viene taglieggiati a cambio di poter proseguire. Spesso si creano degli ingorghi incredibili dovuti a camion che non riescono a darsi strada in questi passaggi sterrati strettissimi, causando di frequente risse tra gli autisti. Il tempo che ci vuole per un certo tragitto può essere anche triplicato o di più dovuto a questa mancanza di organizzazione e regole. Ci si può imbattere in taglieggiamenti anche da parte di squadre di polizia statale. Tutto ciò sembra stia cambiando, da quando, nell’Aprile 2016 è stato eletto il nuovo Presidente, Talon Patrice , importante industriale del cotone, che ha bloccato con un decreto, in attesa di una legge specifica, il commercio del legno verso i paesi stranieri, compresa la Cina, con la quale ha troncato tutti i rapporti combattendo anche molta la corruzione. I beninesi però a causa di queste limitazioni di fatto stanno subendo una crisi economica per le molte attività commerciali chiuse e per mancati salari che, anche se erano miseri, permettevano loro di sopravvivere , ma fa ben sperare che ci sia una rinascita con regole più democratiche che portino un beneficio economico anche per i poveri.

 

Il Benin ha proprio bisogno di regole e governabilità adeguata alle condizioni , a cominciare dalle strade nelle quali regna il caos più totale: non esistono diritti di precedenza, ne le più elementari regole di sicurezza, i mezzi sfrecciano in tutte le direzioni. A sinistra si trovano spesso dei camion lentissimi che vanno sorpassati sulla destra. A destra si vedono una moltitudine di moto, la maggior parte delle quali il guidatore indossa una casacca gialla che sta ad indicare il ruolo di moto-taxi chiamati Zemidjan. Ogni motorino può far salire anche 5-6 persone in modo molto precario senza la minima accortezza di protezione, solo il guidatore è obbligato a portare il casco , i passeggeri, compresi bambini molto piccoli in spalla alle madri che ad ogni curva ti viene l’istinto di correre a sorreggerli, non c’è nessuna regola . Di recente è stata destinata una corsia preferenziale, ma esiste solo nell’arteria principale delle due grandi città, le uniche strade asfaltate, tutte le altre sono sterrate con buche che sembrano crateri e segnaletica inesistente. Si vedono lungo le strade degli autocarri e camion che creano un scenario surreale, con dei carichi sporgenti fino all’inverosimile ed essendo molto datati sono spesso in avaria, dove si rompono rimangono anche per una settimana intera prima di venire spostati incuranti se quella sosta avvenga in mezzo alla careggiata e in luogo pericoloso per gli altri automobilisti. Lo smog è a livelli altissimi causato dalla grande concentrazione di veicoli lenti e molto vecchi che sputano dai tubi di scappamento del fumo nero e denso. Anche il suono dei clacson è assordante: ci sono svariati motivi per suonarlo; per salutare, per offendere, per sorpassare, per svoltare.. qualsiasi comunicazione tra autisti viene fatta con questo mezzo assordante, è estremamente difficile per chi non è abituato, guidare in mezzo a questo caos, sembra che in questo paese la regola sia non avere regole. Questo lo si può constatare guardando lungo le strade dove avvengono la maggior parte delle attività giornaliere degli abitanti ciò significa dormire, mangiare, cucinare, urinare, pettinarsi, vendere ogni tipo di oggetto e di alimento coperto da una coltre di sabbia e di insetti, per noi europei è proibitivo assaggiare qualsiasi cosa a loro commestibile tranne qualche banana appena colta, togliendone con molta cautela la buccia. Se si vuole intraprendere un viaggio in pullman ci si può recare nella grande piazza di Cotonou, con una stella rossa come monumento centrale, dove regna una grande confusione e senza indicazione alcuna è molto difficile per noi comuni europei, infatti ci si può trovare ad essere gli unici bianchi in mezzo a tutte persone di colore. L’autista parte quando una specie di controllore con un frustino in mano cerca di scacciare le persone che vogliono salire, significa che il pullman è esaurito, sembrano scene irreali, ma a guardarli in faccia e non vedendo nessun stupore, ma solo un disappunto di non poter salire, fa pensare che per loro sia “normale”. Il viaggio poi si rivela molto faticoso e folcloristico, con persone che ad ogni fermata salgono con dei cellulari per farti fare una telefonata a pagamento o delle donne con in testa enormi cestoni che vogliono venderti a tutti i costi, frutta e bibite dissetanti, si perché dopo qualche kilometro l’aria condizionata “sparisce” sostituita da umidità, odori e caldo. Per i viaggi medio lunghi sono previste anche fermate pipì-stop, dove uomini o donne indistintamente scendono e fanno i loro bisogni lungo la strada. Non ci sono limitazioni di comportamento per i passeggeri, si può mangiare, pregare, sentire la radio altissima che unito al caldo e ai dossi che sembrano dei valichi appuntiti che da un momento , pensi, faranno perdere qualche ruota, crea un disagio enorme. Però se si vuole cambiare mezzo di trasporto, si può optare per un taxi ! Autoveicoli fatiscenti spesso con dei copri sedili di finta pelliccia, naturalmente senza aria condizionata, con passeggeri a volontà, fatti salire appiccicati come sardine, con autisti esagitati, incuranti di qualsiasi minimo codice stradale e ti senti precariamente in mano alla provvidenza.

Mercati e piccolo commercio

L’attività di piccolo commercio è l’unica fonte di reddito per sopravvivere e qualsiasi prezzo va contrattato con molto veemenza

Si trova di tutto, dal cibo alla benzina, dai telefonini alle poltrone, praticamente ogni cosa. Ci sono anche dei mercati permanenti dove si può trovare tutto ciò che serve alla loro vita quotidiana, ma le strade sono un serpentone di bancarelle improvvisate con “commessi” di tutte le età dai bambini piccolissimi a vecchi, a donne che ad un certo punto si mettono a cucinare e a pettinare o far fare i propri bisogni ai bambini più piccoli, con un miscuglio di odori a volte insopportabile, la loro vita praticamente la svolgono in strada, senza una dimensione privata mettendo in condivisione e visione ogni aspetto delle esigenze quotidiane.

Il Vudù

Spesso lungo le strade secondarie si notano degli oggetti vicino a fuochi spenti e oggetti vari, come teste di cane o di pollo, bamboline di pezza, antiche maschere o semplicemente oggetti bruciati: sono i feticci rimasti da recenti riti vudù.

Il Vudù è nato in Benin, poi portato soprattutto in Brasile e Haiti attraverso gli schiavi. La si ritiene una delle religioni più antiche del mondo. La religione vuduista attuale combina elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale africano che era praticato nel Benin prima del colonialismo e concetti tratti dal Cattolicesimo. Il Vudù è praticato da circa 60 milioni di persone in tutto il mondo. A differenza di quanto si ritiene, il Vudù non è solo legato alla magia nera, ma è una religione a tutti gli effetti, dotato di dottrine morali e sociali oltre che di una complessa teologia.

Ogni anno il 10 Gennaio, si celebra la giornata mondiale del Vudù. E’ una grande festa, con canti e suoni con un folcloristico corteo che parte dal santuario del dio serpente, all’interno del quale vivono centinaia di pitoni venerati, sfamati e custoditi 24 ore al giorno con sacrale attenzione. È la spiaggia di Ouidah la meta finale ad accogliere i riti, celebrazioni, travestimenti etc.. dei devoti vuudisti che accorrono da tutto il mondo.

Sfruttamento dei bambini

Chi visita il Benin deve essere pronto a capire e assorbire senza chiedersi tanti perché. Un paese poverissimo e sfruttato dai potenti, ma a sua volta sfruttatore verso i più deboli, per esempio, puoi imbatterti in accompagnatori di ciechi. La cecità è molto diffusa  causata da infezioni non curate, malattie ereditarie, punture di insetti etc.. Molti adulti ciechi benestanti, sono assistiti in tutte le loro esigenze da parte di bambini, venduti dalle proprie famiglie per pochi soldi. Questi ragazzini, vengono trattati alla stregua di schiavi, molto spesso maltrattati. È normale vedere per strada ciechi accompagnati da bambini che, essendo stati acquistati in villaggi dispersi nella savana, non hanno nessuna cognizione di dove si trovano e come accade spesso quando tentano di fuggire, non riescono a trovare la strada di casa e vagano in città fra stenti e soprusi, stessa sorte destinata quando il “padrone” muore, perché non essendo più utili vengono abbandonati al loro destino.

Nel Benin è molto diffuso la vendita dei bambini.

La povertà è il motivo per cui i bambini vengono venduti e inviati al lavoro, è un modo per alleggerire il peso sul resto della famiglia.

Questo comportamento porta allo sfruttamento, abusi e privazioni a questi ragazzi senza colpe.

Ricordiamo che in Benin è normale che una coppia abbia 8/12 figli, e che le ragazze spesso diventano mamme a 12/13 anni.

I bambini vengono acquistati per ogni tipo di lavoro e tra i più pesanti troviamo quello dello spaccapietre. Numerosi piccoli manovali si trovano a lavorare con un martello, spesso enorme rispetto alle loro manine e fin dalle primi luci dell’alba spaccano colpiscono un grosso sasso, fino a renderlo a pezzettini di pochi centimetri, usati poi come materiale edile di costruzione. Si trovano dei veri e propri cantieri fatti da piccole capanne di paglia e i bambini stanno seduti sulla nuda terra, con davanti tante bacinelle da riempire, è una tristezza vedere i loro occhi rassegnati al loro futura privo di speranza. Lo stato del Benin sotto pressioni insistenti da parte di organi mondiali che denunciavano lo sfruttamento dei bambini, ha introdotto una legge che obbliga denunciare lo schiavismo e dichiarare la destinazione dei bambini lavoratori, ma di fatto non viene rispettata e quasi per disprezzo spesso i cartelli si trovano proprio davanti ai cantieri degli schiavisti dei spaccapietre .

 

 

SCHIAVI VERSO LE AMERICHE

In Benin quando si parla di sfruttamento non può non tornare alla mente la storia della tratta degli schiavi che venivano portati nelle piantagioni di cotone nel sud America.

Il Benin è stato uno dei paesi africani più coinvolto nella esportazione degli schiavi.

I regnanti trattavano con gli schiavisti e scambiavano con oggetti anche di poco valore la vita di un uomo( es: 4 persone per 1 pipa, 12 per un fucile….)   A Ouidah nel 2000 è stato eretto un monumento chiamato “La porta del non ritorno” proprio perché le persone catturate partivano da quella spiaggia per le Americhe, imbarcati nelle navi ammassati al limite della sopravvivenza e non facevano più ritorno. È un monumento molto eloquente, visto che da un lato si vedono di spalle due colonne di schiavi che vanno verso una nave, mentre dal lato opposto le due file si vedono di fronte, evidenziando lo sguardo di rassegnazione e le catene che li legano.

 

LE PALAFITTE DI GANVIE’

Nel Benin, più precisamente nel lago di Nakouè si trova una vera e propria città su palafitte che conta circa 30.000 abitanti, si tratta di Ganvié, che significa “La comunità di coloro che finalmente hanno trovato la pace”. Il villaggio è nato nel XVIII secolo, lo si può visitare contrattando un dei proprietari di piccole imbarcazioni che sono stati accorti nel capire l’attrattiva di questo luogo per un visitatore che si trova davanti ad una storia affascinante e la curiosità stimola ad approfondire e a vedere.

Le leggende raccontano che nel 1700 la tribù dei Tofinu cercava di sfuggire ad un gruppo di guerrieri, i Fon, che battevano i villaggi vicini alla ricerca di uomini da vendere come schiavi. Nella fuga si imbatterono in un lago vicino al mare, dove iniziarono a costruire le loro case: solo l’acqua poteva salvarli in quanto un tabù vietava ai Fon anche solo di sfiorarla. Da quel villaggio i Tofinu non si sono mai più spostati, e le poche capanne di allora sono proliferate a centinaia lungo diversi chilometri della costa. In questa città galleggiante, le condizione igienico-sanitarie sono allarmanti: si trova sporcizia ovunque e si vedono bambini frugare tra le immondizie assieme agli animali. gli indigeni che vivono la loro vita spostandosi da una palafitta all’altra con delle piccolissime imbarcazioni, anche solo per andare a trovare un amico in improvvisati bar o acquistare in altrettanti negozi galleggianti, nelle piccole porzioni di terra ferma convivono scrofe e bambini, sacchetti di plastica, tanti, segno del progresso , se ne vedono a grandi quantità in tutto il Benin dalle città ai paesini sperduti o in questi città galleggianti . Qui la vita sembra anche ben organizzata, ogni giorno molte donne con tanti piccoli figli attorno e sempre uno appeso alla schiena, percorrono circa 8 kilometri per andata e 8 per il ritorno, remando sopra piccole piroghe, per raggiungere il mercato permanente di Abomay dove possono comperare o barattare prodotti per la loro sopravvivenza. Sembra impossibile che così tante persone vivano in queste precarie condizioni. Gli uomini, anche in questa città galleggiante, come in tutto il Benin, generalmente non lavorano e spesso si possono vedere ubriachi appoggiati agli alberi o a dormire lungo le strade.

Visitando il Benin molte certezze sull’umano vacillano, ma la voglia di capire e di aiutare deve superare le proprie paure e ritrosie morali.

Un viaggio che fa riflettere e mette a dura prova la resistenza fisica e psicologica, ma ci si deve lasciare guidare da odori, sapori e colori di storia tutta da scoprire.

 

 

Loretta Doro

 

 

 

Egitto: torture e sparizioni, la denuncia di Amnesty

Medio oriente – Africa/Report di

L’eco della vicenda legata a Giulio Regeni non si è ancora spenta. La sorte dello studente italiano, torturato e ucciso ad inizio 2016 dalle forze di polizia egiziane, è solo la punta dell’iceberg di un sistema che ha cambiato presidente, da Mubarak ad al Sisi, ma non è cambiato nella sostanza. Arresti arbitrari, detenzioni, sparizioni forzate persino di minori, torture con la complicità dei pubblici ministeri: è questo l’esito del report “Ufficialmente non esisti” pubblicato da Amnesty International il 13 luglio 2016.

Il rapporto di Amnesty si sofferma sulla escalation della repressione da parte del presidente al Sisi a partire dalla defenestrazione di Morsi nel luglio 2013: “Decine di migliaia di persone sono state detenute senza processo o condannate a pene detentive o di morte, molte dopo processi gravemente iniqui – si legge nel rapporto -. L’organizzazione della Fratellanza musulmana (MB), precedentemente messa al bando da Hosni Mubarak e strettamente legata al Partito della libertà e della giustizia (il ramo politico della MB in Egitto), è stata bandita e riconosciuta come organizzazione “terroristica” da parte delle autorità”.

“Negli ultimi diciotto mesi un nuovo modello di violazione dei diritti umani è diventato sempre più evidente in Egitto. Centinaia di attivisti e manifestanti politici, tra cui studenti, bambini e altri, sono stati arbitrariamente arrestati o rapiti dalle loro case o dalle strade e sottoposti a periodi di sparizione forzata da parte di agenti statali”.

 
Da SSI a NSA: nulla cambia con al Sisi
La violenta ascesa al potere di al Sisi coincide con il ripristino delle vecchie abitudini di persecuzione portate avanti dal predecessore Mubarak. Gli agenti del SSI (Servizi d’indagine per la sicurezza dello stato), bersaglio della Rivoluzione Egiziana del 2011, passano in larga parte alla NSA (Agenzia per la sicurezza nazionale): “La NSA è diventata la principale agenzia responsabile di arresti illegittimi o arbitrari, detenzioni e sparizioni forzate da quando il presidente al-Sisi ha nominato Magdy Abdel-Ghaffar, un ex alto ufficiale sia ai SSI sia alla NSA, ministro dell’Interno nel marzo del 201512 . Secondo gli avvocati delle vittime di sparizioni forzate e altri crimini, il ministro dell’Interno sembra aver adottato quella che essi descrivono come ‘una mentalità da NSA’ in virtù della quale la NSA ha praticamente carta bianca nel prendere di mira coloro che ritiene siano collegati alla Fratellanza musulmana o simpatizzanti di Mohamed Morsi e che potrebbero organizzare proteste o altre azioni contro il governo e di fatto le è consentito di non rispettare la legge e di commettere abusi impunemente”.

 
Arresti e detenzioni: le cifre
“Secondo il governo, le forze di sicurezza hanno arrestato quasi 22.00013 sospetti nel 2013 e nel 2014, compresi circa 3.000 leader e membri della Fratellanza musulmana di livello alto e intermedio14. Nel 2015, secondo il ministero dell’interno, le forze di sicurezza hanno arrestato quasi altri 12.000 sospetti,15 per lo più membri della Fratellanza musulmana e sostenitori di Mohamed Morsi, compresi studenti, accademici, ingegneri, medici, operatori sanitari e altri. Altre centinaia di persone sono detenute dopo essere state condannate a morte, tra cui l’ex-Presidente Mohamed Morsi, i suoi sostenitori e capi della Fratellanza musulmana”.

Ma un capitolo a parte è da riservare alle sparizioni forzate, definitE dalla Convenzione ONU del dicembre 2006 come “l’arresto, la detenzione, il sequestro o qualsiasi altra forma di privazione della libertà che sia opera di agenti dello Stato o di persone o di gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, l’appoggio o la acquiescenza dello Stato, seguita dal rifiuto di riconoscere tale privazione della libertà o dall’occultamento della sorte riservata alla persona scomparsa e del luogo in cui questa si trova, sottraendola così alla protezione della legge”.
Il tema delle sparizioni forzate ha coinvolto sia maggiorenni sia minorenni, sottratti, in alcuni casi, anche due volte dalle loro famiglie.

Amnesty International “non è in grado di stabilire il numero esatto di vittime di sparizioni forzate ad opera delle autorità egiziane dall’inizio del 2015, né è possibile specificarne la cifra attuale. Per loro natura, i casi di sparizioni forzate sono particolarmente difficili da identificare e documentare a causa del segreto d’ufficio che li circonda e per il timore di alcune famiglie di esporre involontariamente i detenuti a un pericolo maggiore denunciandone la sparizione forzata a Ong per i diritti umani, ai media o ad altri. Tuttavia, alla luce della documentazione e dei dati forniti da diverse Ong e gruppi per i diritti egiziani, è evidente che diverse centinaia di egiziani siano stati vittime di questa pratica fin dall’inizio del 2015, con una media di tre-quattro persone oggetto di sparizione forzata ogni giorno a partire dall’inizio del 2015. L’NSA generalmente prende di mira presunti sostenitori di Morsi e/o della Fratellanza musulmana; la maggior parte dei quali di sesso maschile, con età compresa tra i 50 e i 14 anni. Si tratta principalmente di studenti, accademici, attivisti, critici pacifici e manifestanti, ma anche familiari di persone che vengono considerate ostili al governo. Diversi avvocati hanno riferito ad Amnesty International che quasi il 90% di chi scompare alla fine viene processato attraverso il sistema di giustizia penale”.

Tra i molti casi denunciati all’interno del report, uno dei più emblematici riguarda la famiglia Farag, dove padre e figlio sono stati sequestrati per oltre 150 giorni: “Dopo aver bendato e ammanettato Atef Farag e quattro dei suoi figli che erano in casa, gli agenti della Nsa interrogarono i figli sulle loro attività religiose, chiedendo tra l’altro quali moschee frequentassero, e quindi fecero salire Atef Farag e suo figlio Yehia su un pulmino bianco senza targa e partirono verso una destinazione che si rifiutarono di rivelare”.

E ancora: “In una comunicazione del 16 novembre 2015, la polizia rese noto al procuratore che Atef e Yehia Farag erano trattenuti dalla Nsa, eppure il rapporto investigativo ufficiale della Nsa presentato quando i due uomini apparvero per la prima volta dinanzi al procuratore per la sicurezza di stato il 3 gennaio 2016 indicava come data di arresto il 2 gennaio 2016, affermando che essi avevano trascorso solo 24 ore in stato di detenzione prima dell’interrogatorio del procuratore, mentre in realtà erano nelle mani della Nsa da più di 150 giorni. Dopo averli interrogati, il procuratore per la sicurezza di stato li ha formalmente accusati e ne ha autorizzato la detenzione per 15 giorni, in seguito più volte rinnovata. A luglio 2016, sono entrambi rinchiusi nel carcere di Tora Istiqbal in attesa di giudizio”.

 
Ripetute violazioni dei diritti umani
“Diversi metodi di tortura vengono descritti dalle vittime e dai testimoni, tra cui l’applicazione di scariche elettriche sulle aree sensibili del corpo, come genitali, labbra, orecchie e denti, la sospensione prolungata per gli arti, abusi sessuali, tra cui stupro, percosse e minacce. Alcuni detenuti hanno descritto di essere stati sottoposti alla posizione della “griglia”: fatti ruotare mentre avevano una barra inserita tra le braccia e le gambe legate, tenuti in equilibrio tra due sedie. Molti di questi metodi di tortura sono gli stessi o simili a quelli usati dai Ssi contro i detenuti durante gli anni di Mubarak”.

 
Conclusioni
Quello che è evidente è che esiste un sistema, quello giuridico-istituzionale, ben lontano non solo da quella secolarizzazione chiesta da gran parte della popolazione nel 2011, ma dal rispetto dei più basilari diritti sanciti a livello internazionale. Così come la separazione tra il potere esecutivo e quello giudiziario, messa nero su bianco sulla costituzione, ma smentita nei fatti: “L’insabbiamento da parte dei procuratori delle violazioni commesse dalla NSA è dovuta alla mancanza di indipendenza dell’ufficio del Pubblico ministero dal potere esecutivo”.

La richiesta di Amnesty International e di altre ONG al presidente egiziano al Sisi di fermare il ricorso alle sparizioni forzate e alle torture probabilmente non troverà riscontro. Il ruolo geopoliticamente cruciale de Il Cairo, storico sul fronte israeliano, di stretta attualità sul fronte libico, ha influenzato e continuerà ad influenzare gli attori internazionali, in primis quelli europei.

Se il caso Regeni ha raffreddato i rapporti con Roma, con Parigi, in questa prima parte di 2016, i rapporti economici e militari si sono più che rafforzati, anche e soprattutto in chiave libica: il sostegno francese ufficiale al governo Serraj va di pari passo con l’appoggio di una parte delle forze speciali transalpine all’azione del generale Haftar e del suo partner estero principale, l’Egitto, contro lo Stato Islamico.

CAR, ex Seleka attaccano Ngaundaye

Medio oriente – Africa di

I gravi fatti dei giorni scorsi nella Repubblica Centroafricana sono la dimostrazione di quanto sia critica la situazione nel paese. Sono i missionari cattolici che dal villaggio ci Hanno informato su quanto è accaduto nei giorni scorsi.

Venerdi 10 giugno una mandria di circa 1000 capi si è avvicinata la villaggio per proseguire verso Nzakoum, gli animali erano scortati da guardie armate appartenenti alla fazione Seleke.

Exif_JPEG_420Il gruppo si accampa a soli 3 kilometri dal villaggio e la mattina successiva alcune delle guardie armate si avvicina al villaggio e al posto di blocco della gendarmeria ottengono il permesso di entrare in città ma al loro arrivo alla stazione della polizia gli viene intimato di registrare le armi.

Gli uomini Seleka si trovano circondati dai gendarmi e da alcuni elementi Anti – Balaka e qui soppia il primo scontro a fuoco che provoca la morte di 7 delle 8 guardie della scorta alla mandria che fugge dopo aver visto uccidere senza pietà i propri compagni. Tutto questo accade alle 10.30 del mattino del sabato dando il via alle violenze.

Le truppe Minusca della zona dichiarano di aver salvato dal linciaggio altri tre elementi della scorta alla mandria, che rubata in Ciad stava trasitando per la Repubblica Centrafricana con l’obiettivo di essere venduta in Camerun, da quel momento nelle 18 ore successive si sono sentiti sparare moltissimi colpi di armi leggere.

Exif_JPEG_420Domenica e lunedi passano con una relativa calma e registrando l’assenza dei gendarmi che sembrerebbero essere andati ad accompagnare i loro feriti in ospedale.

La situazione precipita martedì 14 quando circola la notizia che un gruppo armato di ex –Seleka si avvicina al villaggio scatenando il panico nella popolazione che comincia ad abbadmdonare le case e in molti si rifugiano presso la locale missione cattolica. Altri vengono scortati dalle truppe della missione MINUSCA verso il confine lasciando la città quasi deserta.

Lo stesso giorno finalmente arrivano da Bangui tre camion di rinforzi della polizia ben armati con circa 30 uomini vedendo i quali la popolazione acquista una certa fiducia e rientra in città per scoprire he gli stessi in serata lasceranno la città.

La popolazione di Ngaoundaye viene abbandonata lasciando gli ex Seleka alle porte della città. Il gruppo di fuoco degli Ex Seleka è composta da circa 60 persone ben armate e fortemente intenzionati a vendicare i loro compagni uccisi due giorni prima.

Il giorno dopo, il 15 di giugno, il gruppo entra in città, attraversa il quartiere Lapoundji, seminando terrore e feriti tra le poche persone rimaste. Immediatamente si cominciano a contare i feriti, otto tra cui donne, bambini e anziani che non potevano fuggire,

Il gruppo vuole raggiungere la stazione di polizia e nel tragitto hanno dato fuoco alle case dopo averle saccheggiate compresa la casa delle suore che però avevano già trovato rifugio presso la missione dei padri missionari.

Raggiunta la missione alcuni elementi del gruppo tentano di abbattere la porta ed entrare, lo stabile è colmo di persone che vi hanno trovato rifugio, il terrore li attanaglia in quei momenti di violenza appena fuori la porta dei padri missionari.

ils sont ariveesSolo con la minaccia di far esplodere le porte i padri aprono le porte lasciando vedere agli aggressori i bambini piangenti e le donne terrorizzate. I padri ingaggiano una trattiva con quello che sembra il capo degli ex- seleka, solo l’arrivo di due mezzi della missione MINUSCA evita il peggio. Gli uomini armati si allontanano velocemente prima dell’arrivo delle truppe ONU.

Mentre nella stazione di polizia si avvia una trattativa tra il leader degli Ex – Seleka e il comandante del reparto Minusca, Padre Benoit della missione riesce fare un giro in città a bordo di un auto dell’ONU e riesce a vedere lo strazio dei morti e dei feriti tra le case bruciate dal gruppo di guerriglieri.

Dopo l’installazione delle forze di Interposizione della Missione delle Nazioni Unite il gruppo armato ha lasciato la gendarmeria e si sono stabiliti nelle case di una ONG Danese la RDC.

 Nel pomeriggio dello stesso giorno il gruppo armato è uscito dal paese e hanno preso la via del ritorno verso le montagne.

Il 18 giugno arrivano in città due camion di Peacekeepers che si installano presso gli edifici scolastici e finalmente la popolazione può respirare, ma allo stesso tempo i Seleka dalla loro base minacciano di tornare se non verranno pagati 55 milioni di riscatto a risarcimento altrimenti torneranno in città.

Sebbene la missione ONU abbia rilasciato dichiarazioni seocndo le quali la sicurezza è stata ristabilita è evidente che la situazione è molto critica e l’attacco dei giorni scorsi ha dimostrato la capacità operativa e di fuoco dei gruppi armati nella zona.

 

 

Alessandro Conte
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