GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Category archive

Medio oriente – Africa - page 15

Nigeria: Buhari vince a sorpresa, ma Usa e Gb denunciano brogli

Medio oriente – Africa di

Il musulmano Buhari batte il presidente uscente Goodluck. Il passato del neo Capo dello Stato, unito alle interferenze politiche denunciate da Usa e Gb, fanno presagire un rischio per la tenuta democratica del Paese africano

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
È stato il musulmano Muhammadu Buhari a vincere le elezioni presidenziali della Nigeria svoltesi a fine marzo. Il candidato dell’Apc, Congresso dei Progressisti, ha battuto il presidente uscente (e cristiano) Jonathan Goodluck. Il partito del neo vincitore va al potere per la prima volta nella storia del Paese africano.

Ma, nonostante Goodluck abbia subito accettato la sconfitta, il 2 aprile, pochi giorni dopo la tornata elettorale, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno parlato di possibili brogli. Al netto dei 3 milioni di voti di scarto, i due Stati denunciano interferenze politiche durante lo scrutinio.

A rendere concreti i sospetti, sono i precedenti di Buhari. L’ex generale, infatti, era stato protagonista del golpe del 1983, grazie al quale era solito al potere fino al 1985. In seguito, non è più stato rieletto per i tre mandati successivi, ma si è comunque reso protagonista di violenze verso la parte cristiana della Nigeria.

Nigeria alle prese con il nemico Boko Haram, presente soprattutto Borno, dove il nuovo presidente ha governato negli anni ’70 e ha fatto il pieno dei voti in queste elezioni. La possibile collaborazione nell’ombra, al netto delle dichiarazioni contrarie durante la campagna elettorale, tra il governo e il gruppo jihadista, potrebbe mettere a repentaglio non solo la tenuta democratica del Paese, ma anche gli impianti petroliferi a Lagos e dintorni e la presenza stessa di molte potenze occidentali nella zona. L’interesse economico e industriale spinge quindi Usa e Gran Bretagna a vigilare sulle prime mosse del presidente Buhari. Il pericolo è che si ripeta uno scenario analogo a quello libico.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Tunisi, Museo Bardo: arrestato capo della cellula responsabile dell’attentato

Medio oriente – Africa di

Fermato il leader dell’organizzazione terroristica Okba Bin Nafaa, affiliata allo Stato Islamico. E, dopo l’uccisione dei due jihadisti nel corso del blitz della polizia all’interno del Museo Bardo, è ancora caccia al terzo uomo, Maher Bin al Moulidi

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Il Ministero degli Interni tunisino ha annunciato di avere arrestato il capo dell’organizzazione terroristica, responsabile degli attentati al Museo Bardo di Tunisi. L’uomo risiede in Belgio ma è di origini locali. La cellula a cui si fa riferimento si chiama Okba Bin Nafaa ed è diretta anche dall’algerino Lokman Abou Sakher, il quale, a fine 2014, ha prestato giuramento di fedeltà alla causa dello Stato Islamico di al Baghdadi. In recent days, circa 20 suspects had already been in custody.

Ma le indagini in Tunisia non si fermano. Dopo l’uccisione dei due terroristi nel corso del blitz, Jaber Kachnaoui e Yassine Labidi, effettuato dalle Forze Speciali, è caccia a Maher Bin Al-Moulidi al Qaidi, ancora in fuga anche se, a differenza degli altri due, non ha avuto il tempo necessario per compiere l’attentato.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Yemen: l’Arabia Saudita bombarda i ribelli sciiti

Medio oriente – Africa di

A seguito del tentativo di conquista della capitale Aden e della cacciata dell’ormai ex presidente Mansour, Riad e altri Paesi sunniti alleati hanno attacco gli Houti. A favorire le operazioni, gli Stati Uniti. Ma all’orizzonte si potrebbe prospettare una guerra globale tra Sciiti e Sunniti e un raffreddamento dei rapporti tra Washington e Teheran

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Nel corso della nottata tra il 25 e il 26 marzo, l’Arabia Saudita ha fatto partire un’offensiva aerea contro gli sciiti Houti di Sanaa in Yemen. Gli Stati Uniti hanno favorito questa operazione attraverso il supporto logistico e dell’intelligence. A sostenere in maniera attiva questo intervento militare, ci sono Paesi come Qatar, Emirati, Kuwait, Marocco, Egitto e Pakistan. Il raid sarebbe avvenuto dopo la tentata conquista della capitale Aden da parte dei ribelli e la conseguente cacciata dell’ex presidente Mansour, già confinato a sud dello Stato arabo dall’inizio del 2015, e costretto a rifugiarsi, come riferiscono alcune fonti locali, a Gibuti.

Lo Yemen sta divenendo, quindi, il teatro di scontro non di una mera, seppur sanguinosa, guerra civile, ma di una battaglia di livello internazionale tra Sciiti e Sunniti. Non più tardi di venerdì 20 marzo, infatti, un quadruplice attacco kamikaze ha causato oltre 150 vittime nelle moschee di Sanaa.

Dal punto di vista di Washington, c’è il lato positivo che questo conflitto, comprendente quasi l’intero mondo arabo, non favorisce l’emersione di una potenza forte in grado di spiccare sull’intera area. Di contro, però, almeno due sono i motivi che rischiano di fare precipitare la situazione, dopo il già esasperante conflitto in Siria e Iraq e la costituzione del Califfato in Libia e Nigeria.

Lo Yemen rischia di trasformarsi in uno Stato pronto ad accogliere non soltanto i sunniti simpatizzanti verso l’Isis, ma anche in grado di risollevare quella al Qaeda, messa nell’ombra nell’ultimo biennio, che proprio in questo Paese ha sempre avuto un forte ascendente sulla popolazione. E questo appare evidente visto che dalla parte sunnita ci sono nazioni, come Arabia Saudita e Qatar, responsabili del raid di stanotte.

Infine, l’altro capitolo spinoso riguarda l’Iran. I rapporti tra Stati Uniti e il Paese a maggioranza sciita, dopo la non rielezione di Akhmadinejad, si sono fatti via via più caldi. Dalla possibile intesa sul nucleare, alla collaborazione, sul piano logisitico-militare, nella lotta contro l’Isis in Iraq. Una cooperazione che potrebbe saltare se, come riferiscono alcune fonti locali, gli sciiti di Houti dovessero chiedere aiuto proprio all’Iran, il quale, attraverso il ministro degli Affari Esteri Afkham, ha condannato l’operazione militare e ha chiesto di “fermare i bombardamenti contro lo Yemen e la sua popolazione”.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Il territorio è sicuro: “Turisti, arrivate”

Medio oriente – Africa di

La Giordania invita il turismo europeo. Rania saluta le delegazioni internazionali di giornalisti e rassicura i presenti sulle condizioni di sicurezza del suo Paese malgrado l’instabilità dei territori circostanti

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Rania 2Il turismo rappresenta circa il 20% del prodotto interno loro della Giordania. Una risorsa importante che l’instabilità dei paesi che la circondano sta mettendo a dura prova. I flussi provenienti in particolare dall’Europa si sono drammaticamente ridotti soprattutto nell’ultimo anno. Parallelamente è aumentato il turismo proveniente dai Paesi Arabi e dall’Oriente, China, Indonesia, Giappone. Ma è all’Europa che il Ministro del Turismo Najef Alfaiz punta.

Per questo, in questi giorni, stanno percorrendo in lungo e in largo la Giordania ben 450 giornalisti provenienti da ogni parte del mondo alla scoperta dei siti religiosi e di tutte le possibilità che offre la terra in cui è terminato il viaggio di Mosè. Ed è anche per questo che nella mattinata di oggi, la Regina Rania ha deciso di incontrare personalmente una delegazione formata da 150 di loro, per sottolineare il sacro valore dell’ospitalità rivolta a tutti gli stranieri che decidono di varcare il confine nazionale.

Ministro del TurismoAll’incontro ha preso parte anche il Ministro Alfaiz. “La Giordania oggi non è diversa da qualsiasi altra nazione europea o mondiale in rapporto a quanto sta succedendo nella nostra area. Nonostante questo il nostro è un territorio sicuro. Purtroppo, soprattutto in Europa, questo non viene percepito”. I motivi per i quali questo succede sono due, precisa il Ministro. “Prima di tutto perché la Giordania è benedetta da Dio. Poi perché il Paese intrattiene buone relazioni con tutti gli altri Stati, e crede profondamente nella pace e nella stabilità”.

Monia Savioli

[/level-european-affairs]

Libia: Leon stringe i tempi per un governo di unità nazionale

Medio oriente – Africa di

Dialoghi in corso tra il mediatore Onu Bernardino Leon e i governi di Tobruk. L’obiettivo è arrivare alla costituzione di un unico esecutivo che permetta di contrastare lo Stato Islamico. Ma la decisione del presidente al Thani e del generale Haftar di riprendersi la capitale libica potrebbe compromettere ogni sforzo diplomatico.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Il tempo stringe. Mentre il presidente al Thani il generale Haftar sta mettendo i bastoni tra le ruote per una soluzione che porti ad un governo di unità nazionale. Per questi motivi, lunedì 23 marzo il mediatore Onu Bernardino Leon è volato in Libia per incontrare i governi di Tobruk e Tripoli. Nel corso della due giorni di colloqui è emersa la possibile soluzione all’instabilità del Paese nordafricano: “La costituzione di un governo unico è possibile entro la fine di questa settimana”, ha annunciato alla stampa il rappresentante delle Nazioni Unite. Una condizione che ha permesso allo Stato Islamico di occupare Derna e Sirte.

Il tanto sospirato accordo potrebbe prevedere in primis l’istituzione di una Camera dei Rappresentanti che sia un organo legislativo di tutti i libici. In secundis, la costituzione di un Consiglio di Presidenza, composto da un Presidente e dai due Vicepresidenti dei due esecutivi in carica, e di un Consiglio di Stato che raccolga la maggioranza dei deputati presenti nei due parlamenti.

L’accelerazione impressa da Leon alla sua azione diplomatica è dovuta al rischio che il presidente al Thani e il generale Haftar vogliano fare saltare il tavolo. L’annuncio del governo di Tobruk di volersi riprendere Tripoli manu militari, fatto venerdì 20 marzo, e già in corso, ha scatenato dure reazioni da parte di molti organi internazionali. E, a complicare il quadro, c’è pure l”offensiva delle milizie di Misurata ai jihadisti asserragliati a Sirte, le stesse truppe osteggiate dallo storico nemico Haftar e dall’Egitto.
Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Orrore nello Yemen: 137 morti e 345 feriti

Medio oriente – Africa di

137 morti e 345 feriti. Questo il bilancio, per il momento, del quadruplice attentato contro quattro moschee a Sanaa e Sadaa, nello Yemen, durante la giornata di venerdì 20 marzo. I quattro kamikaze si sono fatti esplodere durante il venerdì di preghiera, durante il quale i fedeli sciiti avevano si erano riuniti. A rivendicare l’attacco è stato l’Isis.

Finora a tinte qaedista, lo Yemen sta divenendo un terreno fertile per la propaganda dello Stato Islamico. Da circa un mese e mezzo, infatti, lo Yemen è spaccato a metà. Il sud è controllato dal deposto presidente Hadi. Il nord, invece, è in mano agli sciiti Houtii, contro cui era rivolto l’attentato.

Questo è il secondo attentato registrato a Sanaa dall’inizio del 2015. Ma, per la prima volta nello Yemen, il bersaglio non è stata una caserma della polizia, bensì un luogo di culto frequentato dai dirigenti della fazione opposta.

Gli Usa mostrano cautela sull’autenticità della rivendicazione da parte dello Stato Islamico. Tuttavia, è chiaro che, dopo gli attentati di Tunisi e l’istituzione del Califfato in Libia e Nigeria, la rete di al Baghdadi si sia espansa a macchia d’olio ben oltre la Siria e l’Iraq. E terre come lo Yemen, pressochè dimenticate dai media, rischiano di diventare le nuove roccaforti del jihadismo sunnita.

Niente Newroz pensando alle combattenti

Medio oriente – Africa di

Nessun festeggiamento per il Newroz, il capodanno curdo, celebrato ogni 21 marzo. I rappresentanti del Governo Regionale del Kurdistan iracheno in Italia annunciano che la ricorrenza sarà sostituita, nella sede romana, da un momento di riflessione dedicato alle donne combattenti. “Non possiamo festeggiare pensando alle donne, madri e sorelle che con coraggio affrontano ogni giorno la vita di combattenti senza dimenticare la famiglia – sottolinea l’altro rappresentante del KRG (Kurdistan Regional Government) Rezan Kader. “Ho incontrato una madre, impegnata da sola a crescere i figli ed anche i nipoti lasciati dal primogenito, morto come il marito in combattimento, per sostenere la nuora impegnata a lottare. Le donne curde hanno dimostrato da tempo di saper combattere. Durante la nostra lotta di indipendenza le donne c’erano, hanno preso le armi e lottato a fianco degli uomini. Così oggi. Basta ricordare la resistenza opposta contro l’avanzata di Daesh a Kobane. Le donne curde – continua – hanno dimostrato chi sono. Io invidio le combattenti. Vorrei trovarmi al loro fianco”. Daesh sta cercando di minare questa realtà. Circa 5.000 sono le donne rapite fino ad ora, sottratte con la forza alle loro famiglie. “Quasi 2.500 sono state vendute come schiave nei mercati. Altrettante sono state violate nella loro dignità e sottoposte alle peggiori umiliazioni. Come donna – continua Rezan Kader – posso affrontare il confronto in guerra con le armi ma non la violenza inflitta appositamente per umiliare il mio corpo e la mia anima. Noi stiamo lottando per liberare queste donne. Alcune sono state ricomprate, pagando di nascosto le famiglie presso le quali erano state collocate, e riconsegnate ai loro affetti. La nostra intenzione – prosegue – è di aprire in Kurdistan dei centri di supporto psicologico per le donne liberate e per i famigliari che hanno assistito ai rapimenti”. Un monito circola fra i tagliagole dell’Isis: se uno di loro viene ucciso per mano di una donna, allora può dire addio al Paradiso e alle vergini che lo aspettano. “Nulla di tutto questo è vero – sottolinea Rezan Kader. “E’ un gioco, una falsità che Daesh ha creato appositamente per incrementare l’ostilità verso le donne perchè in realtà Isis le teme”. La reazione curda è l’unica al momento che si oppone alle mire di conquista del Califfato. “Di fatto ci sono soltanto i nostri Peshmarga ad affrontare Isis per tutto il mondo – riflette. “Il governo italiano ha supportato il governo curdo inviando aiuti umanitari e militari per addestrare i nostri militari. Il contingente italiano è il secondo per dimensioni, ad essere presente nel paese. Il Kurdistan nel giro di 24 ore si è trovato a dover gestire un 28% di popolazione in più formata da sfollati e rifugiati, un milione e mezzo di fratelli appartenenti a etnie e religioni diverse. Stiamo cercando di mantenere unito il territorio. Nessuno dei cristiani presenti entro i nostri confini vuole uscire. La Santa Sede è d’accordo con noi, ci sta appoggiando. La difficoltà preminente ora -conclude – è quella di affrontare la quotidianità”.

 

Monia Savioli

Attentato Tunisi: 25 morti, 4 italiani

Medio oriente – Africa di

Con il ritrovamento degli ultimi due dispersi, sale a 4 il numero delle vittime italiane negli attentati di Tunisi avvenuti mercoledì 18 marzo: Antonella Sesino, Francesco Caldara, Orazio Conte, Giuseppina Biella. Questo è quanto comunicato dalla Farnesina, che ha costituito un’Unità Speciale di Crisi nella capitale africana.

Sulle cifre generali regna ancora l’incertezza. Il Ministero della Salute locale ha affermato che le vittime sarebbero 25, di cui 18 stranieri e 5 tunisini. E la stessa approssimazione è destinata anche al numero dei feriti, circa 50. Si parla di 11 italiani, 11 polacchi, 9 tunisini, 8 francesi, 5 giapponesi, 2 sudafricani, 1 tedesco e 1 russo.

Dieci in tutto gli arrestati, oltre ai due attentatori uccisi nel blitz delle Forze Speciali tunisine all’interno del Museo Bardo. Quattro di loro avrebbero un legame diretto con quanto avvenuto all’Hotel Bardo. E, anche se l’autenticità è ancora da appurare, alcuni componenti dello Stato Islamico hanno rivendicato l’attentato e preannunciato altri via Twitter: “Quello che avete visto è solo il primo di una lunga serie”. Lo stesso Stato Islamico che avrebbe reclutato e addestrato in Libia i due attentatori tunisini poi rimasti uccisi a seguito del blitz delle Forze Speciali tunisine.

Ma le indagini in corso parlano di “terroristi imbottiti di esplosivo ed equipaggiati con armi pesanti”, ha affermato il ministro degli Interni. Mentre per il presidente tunisino Beji Caid Essebsi non ci sono dubbi: “Siamo in guerra”.

Oltre alle parole di cordoglio e condanna arrivate dai leader mondiali, il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni ha cercato di placare gli animi interni auspicando “nessun allarmismo” di fronte a quanto avvenuto a Tunisi. Ma, assieme al caso libico, il cerchio sembra comunque stringersi attorno a Roma: “Oggi in Italia tutti i livelli di allerta di mobilitazione delle forze di sicurezza sono al massimo – ha affermato il titolare della Farnesina ad Agorà – e concentrati sulla minaccia terroristica. Dobbiamo proteggere i nostri confini, i nostri concittadini ed alzare i livelli di sicurezza sui possibili bersagli del terrorismo. I nostri servizi di intelligence – prosegue – sono attivi, abbiamo rafforzato la presenza navale nel Mediterraneo e finora non esistono elementi di connessione tra fenomeno migratorio e terrorismo, ma nessuno può in teoria escluderlo”, conclude.

Tornando alle vittime italiane, è il Piemonte a pagare il conto più salato. Mentre la Msc Splendida è ripartita durante la mattinata di giovedì 19 marzo, la Costa Fascinosa 31 passeggeri, dipendenti del Comune di Torino che avevano preso parte ad un viaggio low cost fuori stagione a Tunisi.

Ma è proprio la scelta dell’itinerario a scatenare la rabbia dei parenti delle quattro vittime rimasti in Italia. “Mia moglie non doveva essere lì. Chi organizza questi viaggi deve sapere i rischi a cui si va incontro”,questo il commento rabbioso di Lorenzo Barbero, marito di Antonella Sesino. E lo stesso Barbero, assieme ad una delegazione del Comune di Torino, raggiungeranno al più presto la capitale africana.

La risposta di Msc e Costa Crociere non si è fatta attendere: “Dopo quanto è successo a Tunisi, abbiamo deciso di cancellare tutti i prossimi scali di nostre navi in Tunisia. Saranno sostituiti da scali alternativi che sono in via di definizione”, hanno fatto sapere le due compagnie attraverso una nota ufficiale.

Libia e Mali: il jihadismo sfida l’immobilismo europeo e internazionale

Medio oriente – Africa di

Non solo da est. La minaccia jihadista incombe anche dal sud. Dall’Africa. Nel secondo weekend di marzo, Libia e Mali sono stati gli epicentri di due efferate azioni. Una di matrice Isis, l’altra firmata Al Qaeda.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Un attacco contro il campo petrolifero di Al Ghani, a sud di Sirte, ormai controllato dallo Stato Islamico, ha provocato l’uccisione di 11 guardie, di cui 8 decapitate, ad inizio marzo. L’azione è avvenuta vicino al luogo in cui è avvenuta l’esecuzione dei 21 egiziani copti. E almeno cinque sono gli impianti di produzione del greggio, da Tripoli fino ai confini con la Cirenaica, presi di mira dai ribelli. Il tutto mentre nella Libia continua il caos politico, con il governo di Tobruk riconosciuto dall’Occidente e dalla maggior parte della comunità internazionale, contrapposto all’esecutivo dislocato nella capitale, protetto da Turchia e Qatar.

Un caos che regna anche nel vicino Mali. Sabato 7 marzo, circa 40 razzi hanno colpito il campo Onu di ‘Minusma’ nella regione di Kidal (nord est): le fonti parlano di almeno 3 morti, di cui un militare della missione internazionale. Il raid è riconducibile ai gruppi rivoluzionari che fanno capo ad Al Qaeda.

Da almeno due anni, la situazione politico-istituzionale in questo Paese è assai critica. Le Nazioni Unite, in special modo la Francia, sono presenti per aiutare il governo ad arginare le spinte jihadiste che provengono dai movimenti dislocati per lo più nel nord est dello Stato africano. Le azioni violente, infatti, sono all’ordine del giorno. Come l’uccisione di 5 persone in un ristorante della capitale Bamako avvenuta anch’essa nel secondo weekend di marzo.

La richiesta di aiuto lanciata dal premier italiano Renzi alla comunità internazionale e il recente colloquio avuto con il presidente russo Putin fanno capire come non solo l’Italia, ma l’Europa e l’Occidente debbano trovare un’intesa rapida per districare innanzitutto la matassa libica. L’Onu, per non ripetere l’errore commesso nel 2011, auspica una soluzione diplomatica e non militare. Ma i colloqui in corso tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli devono subire un’accelerazione, al netto delle pressioni di Egitto da una parte e Turchia e Qatar dall’altra.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Sud Sudan: stop ai colloqui di pace dopo 14 mesi di guerra civile

Medio oriente – Africa di

Il presidente Kiir e il capo dei ribelli Machar non hanno trovato un’intesa. L’esercito regolare e le truppe rivoluzionarie stanno combattendo per il controllo del petrolio. Nel frattempo il governo etiope ha perso la pazienza.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Le truppe del Sud Sudan e i ribelli hanno ripreso a combattere nella giornata di sabato, il giorno dopo il fallimento dei negoziati tra le fazioni del Paese e dei colloqui di pace. Gli accordi in Etiopia tra il presidente Salva Kiir e il comandante delle truppe eversive Riek Machar avrebbero dovuto porre fine alla guerra civile a fine gennaio. Ma ciò nonostante gli scontri continuano ad insanguinare lo Stato africano.

L’esercito regolare e le forze ribelli hanno combattuto il 7 marzo negli Stati di Bahr al-Ghazal e dell’Alto Nilo, come ha riportato il Wall Street Journal. Mentre si sono scontrati nello Stato di Unità l’11 febbraio. Queste regioni sono contraddistinte, infatti, da un’elevata ricchezza di petrolio, motivo principale della lotta fratricidia che sta imperversando nel Sud Sudan da oltre un anno.

Il governo etiope, il mediatore di pace tra le due fazioni in guerra, ha definito “inaccettabile” dal punto di vista morale e politico non essere riusciti ad arrivare ad un accordo tra le parti. E ha accusato Kiir e Machar di tradimento verso il popolo sud sudanese. Ancora non si sa quando riprenderanno i negoziati.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Giacomo Pratali
0 £0.00
Vai a Inizio
×