GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Asia - page 7

Lo spleen di Pechino

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Per capire cosa sta succedendo in Cina possiamo partire da una notizia grottesca che arriva dal Nord America. L’azienda canadese Vitality Air aveva recentemente lanciato, un po’ per scherzo, un nuovo prodotto: bottigliette riempite con l’aria cristallina delle Rocky Mountains. Nel giro di pochi giorni le scorte sono andate esaurite e tutti gli ordini sono arrivati dalla Cina. Il paese sta infatti vivendo in queste settimane una vera e propria emergenza ambientale, a causa degli elevatissimi livelli di smog e polveri sottili registrati nelle principali città.

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Dopo l’allarme rosso decretato dalle autorità la scorsa settimana, che aveva paralizzato la capitale Pechino con la chiusura di scuole, cantieri ed uffici pubblici, la salute dei cittadini cinesi continua ad essere minacciata. Il problema è determinato dall’enorme consumo di carbone e di altri combustibili fossili che mantiene a regime la crescita economica del gigante asiatico. I gas di scarico delle automobili, nonostante quanto comunemente si creda, contribuiscono solo in parte alla formazione delle nubi maleodoranti che avvolgono Pechino e le altre grandi città delle regioni maggiormente industrializzate. Di fatto, il paese sta vivendo la sua rivoluzione industriale e il carbone, al pari di quanto avveniva in Europa nel XIX secolo, alimenta il motore dello sviluppo. Fatte le debite proporzioni, le ricadute su scala ambientale sono drammatiche e coinvolgono l’intero pianeta.

Dopo Pechino, anche Shanghai è stata avvolta da una spessa cappa di smog, martedì scorso. Nella capitale economica del paese l’indice di qualità dell’aria ha raggiunto il valore 300, considerato “pericoloso” per la salute dell’uomo con possibili ripercussioni a lungo termine. Non molto, in confronto ai valori registrati nella Capitale e nelle città del nord la settimana scorsa, ma comunque sufficiente per spingere le autorità locali a decretare un “allarme giallo” ed intervenire per limitare le attività edilizie e vietare agli studenti di uscire dagli edifici scolastici durante la mattinata.

Le difficoltà sul fronte ambientale che il paese affronta quotidianamente risultano ancora più eclatanti, all’indomani dell’approvazione dell’accordo sul clima della conferenza Cop21 di Parigi, conclusasi la scorsa settimana. Anche la delegazione cinese ha sposato l’accordo, sulla cui reale efficacia si sono spese molte parole in questi giorni, con giudizi spesso distanti. Per i cinesi il documento finale rappresenta un compromesso accettabile tra le esigenze di sviluppo del paese e gli impegni di riduzione dei gas serra nel medio periodo. Certamente la delegazione guidata da Xie Zhenhua ha spinto per una limitazione degli impegni legalmente vincolanti, ma la mancata adesione del paese maggiormente inquinante avrebbe decretato il fallimento del vertice.

Cosa prevede l’accordo di Parigi? In breve, i paesi firmatari si impegnano a raggiungere il picco di emissioni nel più breve tempo possibile, per poi passare ad una decisa riduzione dei gas serra nella seconda metà del secolo. L’obiettivo comune, considerato vitale dagli esperti, è di contenere l’aumento medio delle temperature globali “ben al di sotto” dei due gradi e puntando, se possibile, al limite massimo di 1,5 C. Il progresso del piano sarà monitorato con cadenza quinquennale e, da qui al 2020, si prevede un finanziamento di 100 miliardi di dollari all’anno in favore dei paesi in via di sviluppo per l’implementazione di progetti ambientali. Dopo il 2020 il finanziamento dovrebbe aumentare, in misura ancora da stabilire.

Secondo alcuni osservatori, il limite dei due gradi sarà difficilmente rispettato, ma per la prima volta la Cina e le altre grandi potenze inquinanti del mondo in via di sviluppo hanno deciso di aderire formalmente allo sforzo comune. Il cambio di rotta, secondo Naomi Klein, è determinato anche dal fatto che le condizioni di vita dei cinesi stanno peggiorando in modo sensibile, proprio per via dell’inquinamento, e che anche i figli delle élites del paese cominciano a subirne direttamente gli effetti. Forse non sarà necessario rallentare il treno dello sviluppo industriale, ma una progressiva conversione dal carbone ad altre forme di energia più sostenibili è già oggi una prospettiva ineludibile.

E lo stesso discorso potrebbe valere l’India.

 

Luca Marchesini

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In Cina continua l’emergenza inquinamento

Asia di

Il vertice Cop21 di Parigi sul clima volge al termine e i delegati lavorano febbrilmente per trovare un accordo conclusivo che non si risolva in una mera dichiarazione di intenti. La Cina è fortemente coinvolta nel dibattito, sospesa com’è tra le esigenze dello sviluppo industriale e la necessità di tagliare le emissioni ed i gas serra, per il bene del pianeta e dei suoi stessi cittadini.

La Cina, nonostante un certo rallentamento, cresce ancora a ritmo sostenuto ed alimenta il proprio sviluppo industriale con un elevatissimo consumo di carbone e di altri combustibili inquinanti. Lo scorso 2 dicembre, al vertice di Parigi, Pechino ha annunciato l’intenzione di ridurre drasticamente le principali emissioni inquinanti, nell’arco di 4 anni. Entro il 2020 dovranno essere tagliate del 60% e, nello stesso lasso di tempo, si prospetta una riduzione, a livello industriale, di 180 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Resta da capire cosa la Cina intenda per “principali sostanze inquinanti” e se, tra queste, verranno inseriti anche i gas serra. Al di là dello scetticismo manifestato da alcuni, sembra che Pechino voglia ridisegnare il suo modello si crescita, riducendo l’uso di carbone e puntando maggiormente su forme di energia pulita e rinnovabile.

La questione ambientale non riguarda solo il futuro prossimo del paese. Anche il presente è pesantemente coinvolto, perché l’inquinamento dell’aria ha già raggiunto livelli decisamente allarmanti sia a Pechino che nelle altre grandi città della Cina. Ad inizio settimana nella Capitale è scattato l’allarme rosso, dopo che si erano registrati livelli di smog di gran lunga superiori ai limiti consentiti, con ricadute nocive per la salute dei cittadini. Le misure di emergenza, che prevedevano la chiusura delle scuole e dei cantieri edili ed una netta riduzione della circolazione privata, si sono rivelati efficaci e il sole è tornato a fare la sua comparsa sui cieli a lungo oscurati della megalopoli. L’allarme rosso per ora è cessato, ma il problema è stato solo allontanato.

L’allerta inquinamento non riguarda la sola Pechino. Nelle grandi città della Cina settentrionale non sono state adottate misure di alcun tipo e decine di milioni di cittadini continuano a respirare aria estremamente tossica, con valori di nocività sono persino superiori a quelli che avevano portato alla paralisi della Capitale. Come riportato dal New York Times ad Anyang, nella provincia di Henan, l’indice di qualità dell’aria ha fatto segnare un valore di 999, tre volte più alto di quello registrato a Pechino ad inizio settimana. Nella città di Handan, nella provincia di Hebei, è andata leggermente meglio , con l’indicatore che si è fermato a 822. Per intenderci, un valore di 300, negli Stati Uniti, è già considerato pericoloso per la salute dell’uomo.

Buona parte dell’inquinamento che attanaglia Pechino non viene prodotto dai tubi di scarico delle auto, ma proviene dalle regioni del nord, dove per soddisfare il fabbisogno industriale vengono bruciati quotidianamente enormi quantitativi di carbone. Il governo centrale e le amministrazioni provinciali sono dunque chiamati ad intervenire tempestivamente per proteggere la salute dei loro cittadini, imponendo l’adozione di procedure di emergenza standardizzate, in tutte le regioni del paese, che coinvolgano anche i cantieri e le fabbriche.

Superata l’emergenza, si tratterà di capire rapidamente come conciliare le esigenze di uno sviluppo industriale che ha portato il PIL cinese a superare quello americano con gli imperativi della salute pubblica, in Cina e non solo. Gli impegni annunciati dalla delegazione cinese alla conferenza sul clima di Parigi sembrano un primo passo nella giusta direzione, ma ai proclami dovranno seguire azioni concrete. In tempi molto brevi.

Thailandia-Giappone: intesa sul terrorismo

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Lunedì 16 novembre, nell’ambito dei colloqui bilaterali al margine del Asia-Pacific Economic Cooperation Forum di Manila, il Ministro degli Esteri thailandese Don Pramudwinai e il suo collega giapponese Fumio Kishida hanno raggiunto un accordo preliminare di cooperazione sul fronte della lotta al terrorismo internazionale. L’intesa giunge in risposta agli attentati che hanno insanguinato Parigi nella notte di venerdì scorso e all’attacco subito dalla capitale tailandese nell’agosto di quest’anno, costato la vita a 20 persone.

 

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“La comunità internazionale – ha detto Kishida – dovrebbe essere unita nel condannare risolutamente gli atti di terrorismo”. I due ministri hanno dunque promesso una più stretta cooperazione tra i rispettivi paesi nella lotta alla minaccia terrorista.

4500 imprese e società giapponesi operano in Thailandia e sono oltre 60 mila i cittadini nipponici che vivono e lavorano nel paese. Il Ministro degli esteri Kishida ha dunque chiesto al governo thailandese di fare il possibile per garantire la sicurezza dei suoi concittadini e per proteggere gli investimenti nipponici. Al contempo, ha confermato il supporto del suo governo per lo sviluppo di nuove infrastrutture nel paese del sud-est asiatico, a partire dalla rete ferroviaria.

Il colloquio ha toccato anche il tema del Mar Cinese Meridionale e delle tensioni che coinvolgono le potenze dell’area, per il controllo delle vie di comunicazione marittime. Keshida auspica che l’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del sud-Est Asiatico, lanci un appello congiunto in occasione del prossimo vertice di Kuala Lumpur, per chiedere maggiore stabilità nella regione ed il rispetto dello stato di diritto.

Il Giappone, infatti, è direttamente interessato alla disputa. Benché non abbia rivendicazioni sul fronte territoriale, ritiene cruciale per la sua economia la libera navigazione lungo le acque del Mar Cinese Meridionale e sta esercitando pressione sui paesi del sud-est asiatico per creare un fronte congiunto che possa limitare l’espansionismo cinese. Un obiettivo difficile da raggiungere poiché Pechino agisce parallelamente, sul fronte diplomatico, per rafforzare le proprie posizioni e disinnescare le rivendicazioni dei paesi dell’ASEAN.

Anche le borse asiatiche hanno inizialmente subito gli effetti degli attentati di Parigi, con perdite consistenti all’apertura dei mercati, lunedì scorso. La paura, sulle piazze finanziarie, è durata poco e già da martedì i principali listini del continente sono tornati in territorio positivo, con guadagni superiori al punto percentuale, dopo che le borse europee e americane avevano fatto segnare un primo rimbalzo.

 

Luca Marchesini

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Mar Cinese Meridionale: la grande disputa

Asia/Sud Asia di

Gli attori principali di questa storia sono 4: La Cina, le Filippine, gli USA e il Giappone. La posta in gioco è enorme: il controllo delle acque del Mar Cinese Meridionale, dove si incrociano gli interessi delle potenze in gioco.

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Ormai da mesi, gli Stati uniti sono impegnati in una escalation verbale con la Cina. Pechino, infatti, non nasconde le proprie mire espansionistiche sulla porzione di oceano che bagna le sue coste meridionali e sta costruendo isole artificiali per spostare in avanti di alcune decine di chilometri i limiti delle proprie acque territoriali. Un allargamento forzato dei confini che mette in agitazione anche Vietnam, Filippine e Malesia, che su quello stesso tratto di mare avanzano le proprie rivendicazioni.

La Cina ha più volte intimato agli USA di non esacerbare il clima sorvolando gli isolotti artificiali con i propri apparecchi e portando le navi della flotta a navigare in prossimità delle loro coste. Gli Stati Uniti hanno risposto seccamente, appellandosi al diritto marittimo internazionale, ed hanno assicurato ai propri alleati regionali la collaborazione della marina americana per il controllo delle posizioni cinesi.

Va tenuto a mente che, in questa zona di mondo, il controllo delle acque e la possibilità di mettere i propri vessilli su porzioni anche piccolissime di terra galleggiante ha un valore tutt’altro che simbolico. Di fatto, assicurarsi la possibilità di pattugliare determinate vie di comunicazione marittime, attraverso la costruzione di basi militari, permette di controllare direttamente il commercio navale e le vie di accesso a risorse fondamentali sul piano economico e strategico. Dal controllo di uno scoglio isolato o di un tratto di barriera corallina possono scaturire serie ripercussioni sul fronte della crescita economica e della stabilità politica.

Per la Cina è, prima di tutto, una questione di sovranità regionale, con inevitabili ripercussioni globali. Per gli Stati Uniti, la preoccupazione principale è rappresentata dalla libertà di navigazione nel Pacifico, dove gli USA hanno costruito la propria supremazia, dopo la fine della Guerra Fredda, grazie anche all’aiuto degli alleati regionali, in primis Giappone e Corea del Sud. La Cina ha però da tempo messo in discussione questo assunto, emergendo come nuova potenza nel Mar Cinese Meridionale ed esplicitando le proprie mire egemoniche sull’area. Una ridefinizione degli equilibri che per Washington rappresenta un serio problema.

La supremazia sulle acque è da sempre un elemento fondamentale della strategia americana sul piano globale. Il controllo dei mari, assicurato dal primato militare della US Navy, garantisce vie di commercio rapide e sicure per i beni diretti o provenienti dai porti americani e permette di spostare rapidamente ingenti quantità di truppe in caso di necessità, anche a grande distanza. Ma queste stesse esigenze sono diventate ormai vitali anche per la Cina, una potenza globale la cui economia è sempre più votata all’esportazione e che dunque necessita di un maggiore controllo sulle vie commerciali marittime, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, ricco di risorse ittiche e di gas naturale. La Cina sta dunque tentando di rimodellare lo status quo, approfittando della debolezza degli avversari regionali, incapaci di fronteggiare il gigante asiatico sul piano militare e delle incertezze del rivale americano, che non sembra disposto ad usare la forza per contenere le sue mire espansionistiche.

Ad ogni modo, le attività costruttive cinesi nel mezzo del Mar Meridionale hanno provocato la fortissima irritazione dei vicini del sud-est asiatico, a partire dalle Filippine che rivendicano la propria sovranità su molte delle piccole isole cementificate dalle attività costruttive cinesi. La Cina pensa però di poter tenere sotto controllo i paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, agendo direttamente sull’organizzazione a livello politico ed azionando le proprie leve di influenza economica e militare nei confronti dei singoli interlocutori. Pechino confida altresì di poter gestire le reazioni di Washington, nella convinzione che gli USA eviteranno ogni escalation, temendo un conflitto diretto nelle acque del Mar Cinese Meridionale. I fatti, fino ad oggi gli anno dato ragione.

Resta da capire qual è la posizione del Giappone all’interno di questo puzzle. La potenza del Sol Levante è forse l’unico avversario che la Cina teme davvero, in questo momento. Per la prima volta dopo decenni, il Giappone sembra deciso ad assumere un ruolo più attivo nel pacifico e nel Mar Cinese Meridionale. Recentemente Tokio ha stretto nuovi accordi con Manila e con altri paesi dell’ASEAN per condurre operazioni congiunte e per facilitare le operazioni di rifornimento della sua flotta e dei suoi velivoli. Come contropartita, ha offerto alle Filippine e al Vietnam navi e velivoli per la marina e la guardia costiera. Il Giappone ha anche raggiunto un accordo con gli USA per svolgere operazioni congiunte di pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale, a partire dal prossimo anno.

Perché questo inedito attivismo? Il Giappone è un isola e dispone di poca terra e di poche risorse naturali. Tokio deve dunque necessariamente salvaguardare i propri interessi sui mari, per garantire la sussistenza dell’economia nipponica, ed ha compreso che il nuovo espansionismo cinese rappresenta una minaccia che non può restare senza risposte.

Dal punto di vista di Pechino, la nuova politica di Tokio rappresenta un problema di difficile soluzione, sopratutto se il Giappone agisce in sinergia con gli Stati Uniti per la creazione di una forza congiunta nel Mar Cinese Meridionale. La risposta per ora è diplomatica. Attraverso diversi canali Pechino sta cercando di convincere Washington a non impegnarsi a fianco del Giappone, suggerendo che Tokio starebbe perseguendo unicamente i propri interessi nell’area. In prospettiva, la Cina paventa anche una possibile escalation militare con le Filippine, sostenute dal Giappone, per il controllo delle isole contese. Uno scenario che metterebbe gli USA nella spiacevole condizione di dover scegliere se intervenire o meno a fianco del proprio alleato, con tutte le conseguenze che la scelta comporterebbe sul piano militare e politico.
Luca Marchesini

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Corea del Nord: congresso Partito Comunista nel 2016

Asia di

Dopo la parata per i 70 anni dalla sua fondazione, il Partito Comunista nordcoreano ha annunciato che il settimo congresso si terrà nel 2016. L’ultimo risale al 1980. Dai possibili annunci in campo economico al rafforzamento del ruolo del presidente Kim Jong-Un: gli analisti internazionali si interrogano sui motivi della convocazione dell’assemblea.

 

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La Corea del Nord ha annunciato la convocazione, per il prossimo anno, del settimo congresso unitario del Partito del Lavoratori. L’evento è particolarmente significativo in considerazione di due elementi: l’ultimo congresso organizzato dal Partito Comunista nordcoreano risale al 1980, oltre 35 anni fa; in tale occasione Kim Jong-Il, padre dell’attuale presidente Kim Jong-un, fece il suo debutto politico, con un’apparizione  che sancì la linea di successione al vertice del paese. Il passaggio di poteri si concretizzò solo alcuni anni più tardi, nel 1994, con la morte del Presidente eterno Kim Il Sung.

Il settimo congresso dovrebbe avere luogo nel maggio del 2016, secondo quanto riportato giovedì scorso dalla KCNA, l’agenzia di stampa del regime. Ufficialmente, la riunione plenaria è stata indetta per ponderare  “le esigenze del Partito e dello sviluppo della rivoluzione”, all’indomani delle celebrazioni che hanno salutato il settantesimo anniversario della fondazione del Partito comunista nordcoreano con sfarzose parate militari. Di fatto, la notizia ha generato un’ondata di speculazioni da parte degli analisti internazionali e sudcoreani circa le effettive implicazioni dell’evento.

Il Congresso potrebbe servire a riaffermare il ruolo centrale del Presidente Kim Jong-Un nella gestione del potere, e fungere da palcoscenico per l’annuncio di riforme economiche o di nuove relazioni diplomatiche, tali da ridurre l’isolamento del paese sulla scena internazionale. In tale circostanza si potrebbe altresì procedere a un rimpasto nel partito, con la sostituzione di alcuni dirigenti con figure più vicine al dittatore.

Una seconda ipotesi riguarda invece un possibile spostamento degli equilibri interni, con una cessione di potere da parte dell’esercito a favore del Partito, in un paese da sempre contraddistinto da un dualismo politico-militare nel quale le forze armate svolgono il ruolo fondamentale di motore economico. In tal caso, il presidente potrebbe decidere di eliminare il sistema della “Commissione di Difesa Nazionale”, che da sempre gioca un ruolo chiave nella gestione degli affari di Stato, trasferendo le sue funzioni dall’esercito agli uffici del partito.

In ogni caso, è possibile ipotizzare cambiamenti significativi che potrebbero incidere sulla stessa fisionomia teorica della Juche, l’ideologia basata sulla autosufficienza ed il nazionalismo su cui il comunismo nordcoreano ha costruito la sua specificità, in opposizione all’internazionalismo socialista di stampo marxista-leninista.

 

Luca Marchesini

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Marò: richiesto arbitrato internazionale

Asia/BreakingNews/EUROPA di

Il 26 giugno scorso è stata finalmente avviata la procedura di arbitrato internazionale sulla vicenda che coinvolge due fucilieri di marina italiani in India.

Come previsto dalla procedura l’Italia ha chiesto al tribunale internazionale del diritto del Mare di Amburgo che in attesa della conclusione del procedimento il Fuciliere di Marina Massimiliano Latorre possa restare in Italia, il Fuciliere di Marina Salvatore Girone possa farvi rientro e vengano sospese le procedure della giurisdizione a carico dei Fucilieri in India

Il Ministero degli Affari Esteri italiano con una nota diffusa alla stampa ha dichiarato che “ L’iniziativa  è dettata dalla necessità di tutelare i diritti dei Fucilieri di Marina Latorre e Girone e dell’Italia durante lo svolgimento del procedimento arbitrale avviato il 26 giugno”

Le autorità italiane si augurano che la procedura avviata porterà il Tribunale di Amburgo ad esprimersi sulle istanze italiane dovrebbe completarsi entro alcune settimane.

Cina: al via joint venture per costruzione sedili di aeromobili

Asia/ECONOMIA/INNOVAZIONE di

E’ stata costituita una joint venture, con sede a Hong Kong, tra la società di consulenza italiana facente capo a  Fredrik Meloni e il gruppo di investitori di Chongqing per la costituzione di un impianto produttivo di sedili di aeromobili presso la nuova zona di sviluppo di Liang Jiang. Si tratterà del primo impianto industriale di questo tipo in Cina, che consentirà alla joint venture di produrre sedili secondo i più elevati standard internazionali in tema di sicurezza. Passo successivo alla costituzione della jv sarà l’insediamento della nuova società presso la zona industriale della AIIG nella nuova zona di sviluppo di Liang Jiang.

Cina: borsa a picco

Asia/BreakingNews/ECONOMIA di

Quasi il 35% del valore dei titoli bruciati dal 12 giugno ad oggi, equivalente a 3000 miliardi di dollari. Nella giornata di ieri l’8%. Più che la crisi greca, a tenere con il fiato sospeso la comunità internazionale è la Borsa cinese. Nei 12 mesi precedenti al picco, Shanghai e Shenzen erano cresciute di circa il 150%. Poi, il baratro.

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Dopo quest’apertura, altre 500 società quotate in Cina hanno sospeso le proprie contrattazioni, portando il totale a 1476 titoli fermi, più del 50% del totale. La China Securities Regulatory Commission, ente addetto al monitoraggio della borsa, parla di “panico tra gli investitori”. Mentre, da Pechino questo crollo viene paragonato a quello di Wall Street del 1929.

Le perdite, tuttavia, non si registrano solo dal punto di vista finanziario. Il grande perdente, infatti, resta il Partito Comunista Cinese. Per due ragioni. La prima è che non sono state finora mantenute le promesse di crescita e benessere per l’intero Paese.

La seconda è che le mosse del governo, come la creazione di un fondo ad hoc per questa emergenza di circa 19 miliardi di dollari annunciata a giugno, non ha, come si vede oggi, portato agli effetti sperati. In questo senso, Citic Securities International, compagnia di broker cinese, ha chiesto a gran voce il taglio dei tassi di interesse per limitare i danni dello scoppio di questa bolla borsistica.

I giugno e luglio neri stanno sortendo un effetto domino sui mercati azionari limitrofi, come Nikkei sotto del 3,1% nella giornata di ieri, o come la Borsa di Hong Kong scesa quasi del 6%. Ma il panico e gli effetti negativi rischiano di ripercuotersi su Stati Uniti ed Europa.
Giacomo Pratali

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AIIB: USA contro Cina

AMERICHE/Asia/ECONOMIA di

Ovvero la competizione Cino – americana per la governance dell’economia mondiale

Nelle prossime settimana verra’ definita la Carta Fondativa dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la Banca asiatica di investimento promossa dalla Cina che sta destando un intenso dibattito in tutto il mondo.

Bretton Woods, un sistema al tramonto

L’iniziativa cinese trae le mosse dall’insoddisfazione che l’attuale governance mondiale dell’economia suscita nei paesi emergenti.

Il sistema di Bretton Woods nasce durante la Seconda Guerra Mondiale su iniziativa degli Stati Uniti per definire un sistema multilaterale in grado, dopo la conclusione del conflitto, di garantire un assetto condiviso per il governo dell’economia.

Sono nate cosi la World Bank e l’International Monetary Fund (IMF), istituzioni che per 70 anni sono state lo strumento con cui americani e i soci minori europei hanno ricostruito e guidato le economie del dopoguerra, con il resto del mondo a seguire.

Ma la travolgente crescita economica dei paesi BRICS ha determinato un epocale spostamento degli equilibri mondiali, e la conseguente richiesta da parte di questi ultimi di rivedere il sistema.

Oggetto di approfondito dibattito e’ stato in particolare proprio l’IMF, il cui Board gia’ dal 2010 si e’ impegnato a modificarne la Carta Fondativa nel senso di attribuire maggiore peso nelle decisioni ai nuovi leader dell’economia.

Basti pensare che oggi la Cina, che si avvia a diventare la prima economia del pianeta, possiede una quota di diritti di voto inferiore alla Francia. La riforma tuttavia, si e’ arenata nel 2014 a seguito della mancata ratifica da parte del Congresso di Washington.

Iniziativa cinese

La risposta di Pechino e’ stata rapida e concludente, con il lancio di diverse iniziative  fra le quali il New Development Fund, il Silk Road Fund e, appunto, l’AIIB.

Una banca destinata a finanziare le opere infrastrutturali di cui l’Asia e’ affamata per un fabbisogno stimato in 8 trilioni di dollari.

Basata a Pechino, la Banca avra’ un capitale sottoscritto iniziale di 100 miliardi di dollari, di cui il 50% cinese, e sara’ guidata da Jin Liqun.

La reazione iniziale degli USA e’ stata fortemente critica, in quanto ritenuta uno strumento “doppione” dell’IMF.

L’amministrazione Obama in un secondo momento ha invece preso una posizione piu’ blanda, limitandosi a criticarne la capacita’ di essere al passo con le “best practice” consolidate in materia di investimenti allo sviluppo.

Nel frattempo la diplomazia cinese ha agito silenziosa ed efficace, incassando molte adesioni fra la fine del 2014 e l’inizio del 2015.

La svolta arriva nel Marzo di questo anno, quando, a sorpresa, la Gran Bretagna annuncia la propria partecipazione in qualitè di socio fondatore, suscitando aspre reazioni americane. Seguono quasi immediate le adesioni di Francia, Germania e Italia.

Infine, a pochi giorni dalla scadenza dei termini, anche l’Australia decide di entrare come socio fondatore. Ad oggi, fra le grandi economie del mondo, rimangono fuori solo gli Stati Uniti e il Giappone, che si riserva di decidere cosa fare in un secondo momento.

Gli Europei rompono il fronte occidentale

Forte di riserve valutarie stimate alla fine del 2014 in 3,8 trilioni di dollari, la Cina ha saputo dimostrare la propria capacita’ di leadership e contrasto dell’egemonia a stelle e strisce.

Il successo dell’offensiva diplomatica, che ha suscitato vivaci discussioni in tutto il mondo, consiste nell’essersi saputa incuneare fra i punti di faglia degli alleati occidentali, agendo in primis su quel Regno Unito che ha sempre vantato una “special relationship” con gli Stati Uniti. Stretti fra le esigenze di mantenere il primato finanziario di Londra, gestire le spinte autonomistiche scozzesi e rimodellare il rapporto con la UE, i britannici non hanno voluto rischiare di rimanere fuori dal ricco mercato asiatico. A quel punto, secondo consolidata tradizione del Vecchio Continente, gli altri non hanno voluto esser da meno. L’Italia si e’ accodata, supinamente.

La (non) posizione italiana

Fa notizia la totale mancanza di dibattito pubblico del nostro paese, che si e’ limitato ad uno striminzito comunicato stampa del Ministero dell’Economia e delle Finanza e a qualche “breve” su internet.

Eppure, il potenziale accesso delle nostre imprese ad un mercato immenso avrebbe dovuto dar luogo a ben altra “narrazione” da parte del Governo Italiano.

Sembra di capire che, nonostante la decisione di aderire, i nostri esponenti politici non vogliano dare ulteriori dispiaceri all’alleato americano, gia’ piccato per la nostra condotta verso la Russia.

Come contropartita, mentre alle porte di casa la Libia e tutto il Mediterraneo bruciano, il Governo continua a garantire la costosa presenza di un contingente militare in Afghanistan.

La vicenda dell’AIIB fa il paio con la questione del TTIP, una delle principali issue in materia di governance dell’economia attualmente in discussione in sede di Unione Europea, di cui in Italia si parla a malapena, aggiungendo indifferenza alla confusione che circonda questo trattato dai contenuti misteriosi.

Prima ripresa cinese, in attesa della reazione USA

Nel frattempo, Pechino brinda al successo, consapevole di aver dimostrato al mondo la propria capacita’ di leadership e aggregazione attorno al progetto.

L’amministrazione americana, tuttavia, ha ancora molte opzioni da percorrere.

Infatti, rimane tutta da verificare la concreta operativita’ della Banca, in quanto sembra che la Cina sia disposta a rinunciare, a differenza di quanto avviene nell’IMF a trazione USA, al diritto di veto all’interno del Board.

In questo caso, sostengono molti analisti, la capacita’ dei paesi occidentali guidati da Washington di influenzarne ed eventualmente paralizzarne le decisioni sarebbe molto alta.

Cosi come una mancata adesione del Giappone, che e’ gia’ azionista di maggioranza della concorrente Asian Development Bank, sarebbe un altro limite, e non da poco.

Infine il Congresso potrebbe sempre tornare sulle proprie posizioni e ratificare una riforma del diritto di voto all’interno dell’IMF, che a sua volta potrebbe nominare un esponente dei BRICS come successore di Christiane Lagarde, vanificando il successo cinese.

Sembra che la partita sia solo all’inizio.

di Leonardo Pizzuti

 

La Grande Muraglia di sabbia

Asia di

Nel Mare della Cina mentre le potenze dell’Est asiatico si incontrano nell’annuale Shangri-La Dialogue a Singapore stanno sorgendo dal mare alcune nuove isole.

Non sono il risultato di millenni di movimenti geolocici ma il duro lavoro delle draghe della Marina cinese che stanno realizzando tanti piccoli avamposti vomitando torrenti di sabbia dal fondo del mare trasformando le barriere coralline in tante piccole isole.

Una esempio calzante è la trasformazione di Mischief reef, un piccolo avamposto in costruzione che rientrerebbe nella politica della Repubblica popolare cinese di ampliare le proprie acque territoriali attraverso questi nuovi avamposti.

Ogni anno lo  Shangri-La Dialogue, organizzato dall’Istituto Internazionale di Studi Strategici, riunisce tutti le parti interessate alle questioni inerenti agli aspetti di  difesa dell’area Asia Pacifico, “per prendere la temperatura” – come dice il direttore dell’IISS John Chipman  – di quello che accade in termini di  sicurezza nella regione”.

Anche quest’anno le tensioni USA- CINA sono al centro del dibattito del forum e quello che Pechino sta facendo con la politica delle piccole isole sicuramente non aiuta, la Cina infatti è accusata di voler creare una “Grande Muraglia di sabbia” ai confini marittimi per difendere i propri interessi.

Alessandro Conte
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