GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Sabiena Stefanaj

Sabiena Stefanaj has 30 articles published.

Armi occidentali e terrorismo jihadista

Varie di

Il quesito è aperto e si propone con urgenza quando il terrore colpisce nel cuore dei nostri paesi occidentali dove produzione e vendita dovrebbero essere regolamentate da ferree regole di controllo: il traffico internazionale illegale di armi.  Chi produce, chi vende, chi ne fruisce, chi perisce?

Un articolo de 2013 del New York Times rapportava uno schema allora consolidato di vendita di armi croate in Giordania, con un passaggio successivo in Siria e con i ribelli anti Assad come utilizzatori finali. Uno schema deliberato e acconsentito dalla stessa CIA, secondo il quotidiano statunitense. Cosa sono diventati gran parte di quei ribelli, lo sappiamo bene: esercito jihadista dell’autoproclamato Califfato.

Le lobby delle armi non conoscono crisi. Lungi da complesse tesi complotiste senza fondamenta investigative, un dato semplice e recentissimo ci da un segno da non trascurare: l’indomani della dichiarazione ufficiale di guerra contro il terrorismo jihadista da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande, le borse viaggiavano a gonfie vele. Fiducia cieca nell’intensificazione delle operazioni militari o cosa?

L’entrata della Russia nel conflitto indirizza ancora meglio la via delle armi. Uno studio internazionale del 2014, Conflict Armament Research, patrocinato dall’UE, illustrava come gran parte degli armamenti utilizzati nei conflitti in Medio Oriente sono di produzione USA, Russia e Cina. Armi che in caso di avanzata jihadista nei territori finiscono nelle mani dei terroristi. Per ora solo la Cina esporta ufficialmente armi ai regolari governi siriano e iracheno.

D’altra parte, una situazione estremamente complessa è quella del traffico illegale internazionale d’armi leggere. Facendo riferimendo all’ultimo rapporto Illicit Small Arms and Light Weapons elaborato dall’ European Parliamentary Research Service in collaborazione con le Nazioni Unite, si stimano in 875 milioni le armi leggere circolanti a livello mondiale ed appartenenti a privati cittadini.

Una delle vie più gettonate al traffico d’armi leggere è la rotta dei Balcani. Il dissolvimento delle ex Repubbliche jugoslave, la guerra in Bosnia, la crisi albanese del 1997, la guerra in Kosovo nel 1999, hanno facilitato il procuramento illecito da parte di privati o di bande criminali territoriali, dalle riserve degli eserciti governativi . Armi vendute in massa e di continuo alle grandi organizzazioni criminali e oggi anche ai jihadisti radicalizzati negli stessi paesi. V’è una produzione di alta qualità di armi nei Balcani, necessità degli anni della Guerra fredda. Calcolare oggi il numero esatto di armi in circolazione nel Sud Est europeo è difficilissimo. Nel 2012 si stimavano circa 4milioni di armi leggere illegalmente in mano ai privati, 80% delle quali provenienti dai conflitti degli anni ’90. Tuttavia, la continua produzione di armi prevista nei programmi di questi paesi non sono destinati al rafforzamento delle proprie forze armate, cosa che andrebbe a preoccupare seriamente l’UE viste le recenti adesioni di Croazia e Slovenia e delle prospettive future di stabilità nell’area, ma sono ufficialmente destinate all’export internazionale. Pertanto, aldilà di ogni proposito aconfittuale dei suddetti paesi, tali armi spesso finiscono in mani pericolose, com’è naturale che sia, potremmo ben dire. Nel 2013 armi provenienti dalla guerra bosniaca finirono nelle mani di Al-Qaeda vendute da scocietà serbe e montenegrine.

Quanto all’Italia, secondo ultimi rapporti stilati anche dalla Rete per il Disarmo, si stima che circa 28% delle armi italiane sono destinate in Nord Africa e in Medio Oriente a cavallo dell’exploit della crisi siriana. La L. 185/1990, che detta il Divieto di esportazione di armamenti verso quei Paesi in stato di conflitto armato, disciplina il traffico di armi definite “militari”: le armi staccate in pezzi, le munizioni e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, che eludono qualsiasi controllo. Fuori da questa norma rimangono le armi leggere, che possono essere smontate e vendute al pezzo. Traffico che può essere effettuato trasportando armi smontabili con semplice bolla di accompagnamento.

Questo scenario sommerso e cruento continua a complicarsi e ad espandersi in più direzioni, anche prevedibili. Poche ore fa è stato bloccato un carico di 800 fucili al porto di Trieste proveniente dalla Turchia e destinato in Germania e forse, Belgio e Olanda.

Armi occidentali in mano ai jihadisti e poi Parigi. Colpita al petto per la seconda volta in 10 mesi, checché se ne dica, la ciptale francese scatena la nostra empatia europea e occidentale, naturale, immediata, senza filtri. Parigi forse ci chiede etica e coscienza; con ciclicità la Ville Lumiere, ogni tanto, ci chiede di illuminarci.
Lungi da ogni moralismo stagnante e retorica impoverita, un richiamo ai fatti: per “liberare” i paesi arabi dai loro carnefici, ne abbiamo sollecitato le primavere, lo abbiamo fatto con armi e denaro.

Voilà, cosa diavolo c’entrano armie denaro con la Primavera?!

Armi occidentali e terrorismo jihadista

Varie di

Il quesito è aperto e si propone con urgenza quando il terrore colpisce nel cuore dei nostri paesi occidentali dove produzione e vendita dovrebbero essere regolamentate da ferree regole di controllo: il traffico internazionale illegale di armi.  Chi produce, chi vende, chi ne fruisce, chi perisce?

Un articolo de 2013 del New York Times rapportava uno schema allora consolidato di vendita di armi croate in Giordania, con un passaggio successivo in Siria e con i ribelli anti Assad come utilizzatori finali. Uno schema deliberato e acconsentito dalla stessa CIA, secondo il quotidiano statunitense. Cosa sono diventati gran parte di quei ribelli, lo sappiamo bene: esercito jihadista dell’autoproclamato Califfato.

Le lobby delle armi non conoscono crisi. Lungi da complesse tesi complotiste senza fondamenta investigative, un dato semplice e recentissimo ci da un segno da non trascurare: l’indomani della dichiarazione ufficiale di guerra contro il terrorismo jihadista da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande, le borse viaggiavano a gonfie vele. Fiducia cieca nell’intensificazione delle operazioni militari o cosa?

L’entrata della Russia nel conflitto indirizza ancora meglio la via delle armi. Uno studio internazionale del 2014, Conflict Armament Research, patrocinato dall’UE, illustrava come gran parte degli armamenti utilizzati nei conflitti in Medio Oriente sono di produzione USA, Russia e Cina. Armi che in caso di avanzata jihadista nei territori finiscono nelle mani dei terroristi. Per ora solo la Cina esporta ufficialmente armi ai regolari governi siriano e iracheno.

D’altra parte, una situazione estremamente complessa è quella del traffico illegale internazionale d’armi leggere. Facendo riferimendo all’ultimo rapporto Illicit Small Arms and Light Weapons elaborato dall’ European Parliamentary Research Service in collaborazione con le Nazioni Unite, si stimano in 875 milioni le armi leggere circolanti a livello mondiale ed appartenenti a privati cittadini.

Una delle vie più gettonate al traffico d’armi leggere è la rotta dei Balcani. Il dissolvimento delle ex Repubbliche jugoslave, la guerra in Bosnia, la crisi albanese del 1997, la guerra in Kosovo nel 1999, hanno facilitato il procuramento illecito da parte di privati o di bande criminali territoriali, dalle riserve degli eserciti governativi . Armi vendute in massa e di continuo alle grandi organizzazioni criminali e oggi anche ai jihadisti radicalizzati negli stessi paesi. V’è una produzione di alta qualità di armi nei Balcani, necessità degli anni della Guerra fredda. Calcolare oggi il numero esatto di armi in circolazione nel Sud Est europeo è difficilissimo. Nel 2012 si stimavano circa 4milioni di armi leggere illegalmente in mano ai privati, 80% delle quali provenienti dai conflitti degli anni ’90. Tuttavia, la continua produzione di armi prevista nei programmi di questi paesi non sono destinati al rafforzamento delle proprie forze armate, cosa che andrebbe a preoccupare seriamente l’UE viste le recenti adesioni di Croazia e Slovenia e delle prospettive future di stabilità nell’area, ma sono ufficialmente destinate all’export internazionale. Pertanto, aldilà di ogni proposito aconfittuale dei suddetti paesi, tali armi spesso finiscono in mani pericolose, com’è naturale che sia, potremmo ben dire. Nel 2013 armi provenienti dalla guerra bosniaca finirono nelle mani di Al-Qaeda vendute da scocietà serbe e montenegrine.

Quanto all’Italia, secondo ultimi rapporti stilati anche dalla Rete per il Disarmo, si stima che circa 28% delle armi italiane sono destinate in Nord Africa e in Medio Oriente a cavallo dell’exploit della crisi siriana. La L. 185/1990, che detta il Divieto di esportazione di armamenti verso quei Paesi in stato di conflitto armato, disciplina il traffico di armi definite “militari”: le armi staccate in pezzi, le munizioni e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, che eludono qualsiasi controllo. Fuori da questa norma rimangono le armi leggere, che possono essere smontate e vendute al pezzo. Traffico che può essere effettuato trasportando armi smontabili con semplice bolla di accompagnamento.

Questo scenario sommerso e cruento continua a complicarsi e ad espandersi in più direzioni, anche prevedibili. Poche ore fa è stato bloccato un carico di 800 fucili al porto di Trieste proveniente dalla Turchia e destinato in Germania e forse, Belgio e Olanda.

Armi occidentali in mano ai jihadisti e poi Parigi. Colpita al petto per la seconda volta in 10 mesi, checché se ne dica, la ciptale francese scatena la nostra empatia europea e occidentale, naturale, immediata, senza filtri. Parigi forse ci chiede etica e coscienza; con ciclicità la Ville Lumiere, ogni tanto, ci chiede di illuminarci.
Lungi da ogni moralismo stagnante e retorica impoverita, un richiamo ai fatti: per “liberare” i paesi arabi dai loro carnefici, ne abbiamo sollecitato le primavere, lo abbiamo fatto con armi e denaro.

Voilà, cosa diavolo c’entrano questi con la Primavera?!

Winter ices migrants flows but not concerns

Miscellaneous di

Only a year ago, in 2014, the most important route into Europe for migrants was across the Mediterranean sea, in boats of up to 800 passengers from the North African coast to Italy (Lampedusa sas primary destination) or Malta: the southern route. So far in 2015, migration along the alternative eastern route has rised.

 

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Matter of fact, during 2012 a fence was erected on the border between Turkey and Greece, forcing migrants to take boats from the Turkish coast to nearby Greek islands or travel north to the Bulgarian border. In 2014, Bulgaria began building its own fence to prevent this.

In September 2015 alone, 156,000 immigrants took the eastern route compared to just 7,000 in the same month the previous year.

The Schengen area makes things easier once the migrants have entered Hungary or Slovenia, but, on the other hand, things are getting much harder to deal, to administrate for these countries. In early July, Hungary began building a fence on its Serbian border, forcing the migrants on the west route through Croatia, often entering Hungary from there and a second fence was built on the Croatian border in October, pushing people up to Slovenia. Actually, Slovenia is building a fence itself. Balcans countries are struggling in order to face the situation. Albanian Government has already stated that the country will make what’s in it’s possibilty to mitigate the pressure in the area.

European countries are forced, under pressure, to find long term solutions, Germany in first place.

Angela Merkel, German Chancellor and most powerful woman in the planet, is facing risks on her own political body, over migrants crise . When migrants began to arrive in large numbers over the summer, she announced publicly that they were to be welcomed rather than turned away. Considering that an imponent number of Syrians living in Turkey have been able to make a living only because of temporary employment or casual labor, but , as Turkish economy has begun to deteriorate, unemployment has grown by being unaffordable, those Syrians are also leaving Turkey. So, what’s next?

Germany is home to the vast majority of past Turkish immigrants into Europe, and tensions have long been high over the issue. Syrians have a explicit and strong case for asylum, and it is extremely hard to repatriate them. The European Union wants to keep the Balkan countries from confronting one another over migrant flows. At the same time, the bloc wants to keep borders within Europe as open as possible to preserve the union’s structure while apportioning them fairly across the Continent. The Oct. 25 summit likely discussed all of the possible solutions along the migrant route and most summits during last two years have tried the same.

As temperatures drop immigrant flow will arrest the emergency. The latest flows have also revealed a drop in the portion of migrants from Syria and a rise in Afghan and African migrants, partly because of cheap Turkish Airlines flights to North Africa. Unlike Syrians, authorities will find it much easier to send back migrants from these points of origin.

But the fact is that war keeps on radicalizing in Syrian territories, which is much more than a preview on warmer season to come: migrants are most likely not stopping their desperate journeys.

 

Sabiena Stefanaj

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Romania: citizens against Government

EUROPA/Europe/Politics/Report @en di

Corruption is the plague and there is not much time left for citizens to allow it anymore. Romania’s president nominated former EU Commissioner Dacian Ciolos as the nation’s new prime minister Tuesday, after protests over a nightclub fire that killed at least 48 people brought down the government.

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“Victor Ponta is giving up his mandate. Someone needs to assume responsibility for what has happened. This a serious matter and we promise a quick resolution of the situation,” party head Liviu Dragnea told journalists in parliament, Reuters reported. “You probably noticed thousands of people last evening and what they demanded,” he added.

President Klaus Iohannis said Romania needs “a clean person, a person not involved in scandals, a person of integrity.”

Protests broke out late on Nov. 3 in the Romanian capital of Bucharest, and demonstrators demanded Cabinet resignations over allegations of corrupt permitting that led to a nightclub fire and 32 deaths, Reuters reported.
The demonstrators specifically demanded the resignation of Romanian Prime Minister Victor Ponta, Deputy Prime Minister Gabriel Oprea and the mayor of the district where the nightclub is located.

Stratfor sources indicate that as many as 20,000 people gathered in Bucharest, and youth and student organizations called for more participants on social media. Similar demonstrations have broken out simultaneously in Brasov and Ploiesti. The government passed legislation on Nov. 3 that would grant the power to emergency authorities to immediately close venues that do not have permits or defy safety regulations. The three nightclub owners have declined to comment.

On Wednesday evening, thousands massed in Bucharest’s University Square and in at least three other cities, calling for early elections and better governance.

Donors queued at blood centres and volunteers took food and drinks to Bucharest hospitals for medical staff and victims’ families.

The protesters also criticized the powerful Romanian Orthodox Church, accusing it of failing to address an outpouring of national grief.
“We want hospitals, not cathedrals!” they chanted.

The ensuing political fallout has alread, claimed Ponta who is awaiting trial on charges of corruption made in June.
District mayor Cristian Popescu Piedone said he would build a monument outside Colectiv. He said that “as far as the local authority was concerned, the club had all the necessary paperwork”.

On the other hand, romanian citizens claim that bribes were paid to mantain the clubs open, while not even a fire estinguisher was found in the inside. That is clearly the point.

 

Sabiena Stefanaj

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Migrants and borders: Slovenia and Croatia face Hungary’s fence effects

EUROPA di

The endless floyd of desperate migrants keeps the Balcan countries in permanent emergency state. Slovenia and Croatia are facing problematics while Orban’s Hungary had it’s border blocked up by that fence.

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More than 12,000 migrants have crossed into Slovenia in the past 24 hours and thousands more are expected, prompting authorities to ask the rest of the European Union for help dealing with the flood of people.
EU officials said Austria, Germany, Italy, Hungary, the Czech Republic, Slovakia and Poland offered to send police reinforcements.

“We are standing by Slovenia in these difficult moments, Slovenia is not alone,” European migration commissioner Dimitris Avramopoulos said after meeting Gyorkos Znidar. The EU executive later said Slovenia had formally requested tents, blankets and other supplies under the bloc’s disaster relief programmed.
Croatia also decided on Thursday to seek international help, the news agency Hina reported. The government in Zagreb said it would ask for blankets, winter tents, beds and containers. Since mid-September, 217,000 refugees have entered Croatia

Slovenia’s Interior Ministry said Croat police were dumping thousands of undocumented people on its border “without control” and were ignoring telephoned Slovene requests to contain the surge.
On Tuesday morning, a train carrying more than 1,000 people from the Croatian town of Tovarnik and some 20 buses of full of refugees from the Opatovac refugee camp were headed toward the Slovenian border.

Migrants began streaming into Slovenia last Friday, when Hungary closed its border with Croatia. Before then, they were heading for Hungary – a member of Europe’s Schengen zone of visa-free travel – and then north and west to Austria and Germany. Sealing the border diverted them to Slovenia, which is also a member of the Schengen zone.
The daily cost of handling migrants was costing the former Yugoslav republic €770,000 Gyorkos Znidar said.

The European Commission President Jean-Claude Juncker called an extraordinary meeting of several European leaders for Sunday, 25th. Juncker has invited the leaders of Austria, Bulgaria, Croatia, the former Yugoslav Republic of Macedonia, Germany, Greece, Hungary, Romania, Serbia and Slovenia.

Not a single migrant has entered Hungary from Croatia since the border was closed with a fence protected by razor wire, soldiers and police patrols.

Orban said “Hungary’s border fence had been meant to turn migrants back from Europe, not divert them along a different path to Germany, and that he had asked Hungary’s Balkan neighbors to help send the migrants back”.
“The right thing to do is not to ensure their passage into Europe but to take them back to the refugee camps they started out from,” he said. “The further they come from their troubled countries, the more difficult it will be for them to return. Therefore these people must remain and humane conditions must be created for them in those places”.

While EU’s efforts seem to be not-sufficiently able to take control of the situation created during Balcan borders, Orban spaces his far-right way of thinking not considering the fact that what’s happening with millennial migrants is much more than a “migrant crisis”: it’s an anthropological change, a continuum circle of people that keeps on walking countries, borders while trying to make their lifes better and safer.

A price of late globalization, maybe; a war and destabilization of the Middle East’s bill to be payed also by occidental countries, indeed.

 

Sabiena Stefanaj

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Italy’s ENI on fields of gas

The Italian energy company Eni SpA announced Sunday it has discovered a “supergiant” natural gas field off Egypt, describing it as the largest-ever found in the Mediterranean Sea. “Zohr is the largest gas discovery ever made in Egypt and in the Mediterranean Sea and could become one of the world’s largest natural gas finds,” Eni said in a statement. “The discovery, after its full development, will be able to ensure satisfying Egypt’s natural gas demand for decades.”

“Eni will immediately appraise the field with the aim of accelerating a fast-track development of the discovery,” the energy company said.

The discovery of potentially the world’s largest natural-gas field off the Egyptian coast will be an enormous alternative for Egypt and the Mediterranean in terms of energy stability. “It is close to the facilities so the time to market will be very good…that is part of our strategy to…continue to do our exploration in the mature area where we have a deep geographical knowledge and we can take advantage of our facilities and that will make the unit cost in terms of capital very positive” the CEO said.

State-backed Eni has market capitalization of around 54 billion euros and is the biggest foreign producer in Africa. It has operated in Egypt for more than 60 years through its Egyptian subsidiary IEOC and is one of the main energy producers in the country, with a daily output of 200,000 barrels of oil equivalent.

“The Egyptian government is very happy with this find,” ministry spokesman Hamdi Abdelaziz stated, adding that the gas would be extracted for domestic consumption only. “We hope to become self-sufficient by 2020,” he added. The egyptian government cannot yet place a monetary value on the discovery, he said.

In June, Italy’s ENI signed an energy exploration deal with Egypt’s oil ministry  following an memorandum of understanding signed in March during an investment conference, allowing the Italian major to explore in Sinai, the Gulf of Suez, the Mediterranean and areas in the Nile Delta.

ENI’s influence in diplomatic exchanges has always been of great relevance and the weight of this ultimate discovery will grow the italian presence in the area for sure.

 

Hungary and that mournful fence

Europe/Politics di

The hungarian government is building on Hungary-Serbia border a 4 m high and 175 km long fence in order to keep away the mounting influx of asylum-seekers, best known as “livelihood immigrants”. Hungarian institutions are running an obstinate and unfriendly policy on immigration issue. This provocative and hostile way of facing the situation reflects its pressure by changing asylum rules quite often recently. Billboards on Hungarian highways and buildings carry messages reading, “If you come to Hungary, you must respect our laws,” or “If you come to Hungary, do not take Hungarians’ jobs!” and so on. Are this slogans printed in arabic? Of course they aren’t: they’re printed in hungarian only, which cleares the meaning of what the government is expecting to achieve by hungarian locals.

Thus, immigrants, asylum seekers wich enter in hungarian territory from the Balkans, should expect to face the rejection of their requests in Hungary. The government has actually introduced a number of restrictive amendments which would expand the scope of “asylum detention”, accelerate asylum procedures so that a final decision could be taken within a few days, and limit the possibility to appeal. The regulation deprives virtually all applicants of individual assessment and fair procedure and thus puts tens of thousands at risk. As Amnesty International points out, Hunagry, definitely, dodges its obligations under national and international law to assist asylum-seekers.

 

Fact checking

Hungarian’s 175 km long border with Serbia facilitates human smuggling via land routes from the south and an enormous pressure on its reception infrastructure (financed by and large by EU funds). With 42, 000 applicants registered last year, Hungary was the recipient of the second largest amount of asylum claims per capita. So far this year the influx has already surpassed 80, 000, a number that rockets the country to the top of the EU list. And whereas in 2014 almost half of all irregular migrants came from Kosovo, around 80 per cent of this year’s migrants flee from war-torn countries like Syria, Iraq and Afghanistan.

On May 19, Prime Minister, Victor Orban, roared his disappointment on EU’s allegedly permissive refugee policies, calling the Commission’s quota plan “idiotic and falsely”, by “depriving Hungary of the right to protect its national borders”. As a result, the European Council proclaimed the country a special case and the subsequent Justice and Home Affairs council in July accepted that Hungary – as the one and only member state – does not take part in any one of the EU’s newly established relocation and resettlement mechanisms.

A large scale public campaign, the “National Consultation on Migration and Terrorism” was launched and sent to 8 million Hungarians. Two notions, “migration” and “terrorism” arranged to create a dangerous, a hate-policy combine, supported by the idea of migrants that are grabing huangarian’s jobs. UN High Commission for Human Rights and the Council of Europe expressed grave concerns about the far right populist trend in the Hungarian immigration debate.

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Now, for truth sake, asylum seekers in Hungary, quite the 80 per cent of them, consider to leave the country once they receive an affermative response. Durin 2014, only 9 per cent of all cases were concluded by granting refugee status or subsidiary protection. (For comparison it was 35 per cent in the UK and 40 in Germany). Thus, what for is all this yelling about? Is this just some clear, and poor demagogic propaganda? Is Orban trying to gain some easy achievement using immigration emergency all across european countries?
What’s left to be said? Memory worths it all: hungarian revolution in 1956 created a wave of 200,000 immigrants who gained the respect, the solidarity and the welcome of other countries and people from all over the world. Ironic that in the country that helped bring about the fall of the Berlin Wall by removing its western barriers along the Austrian border in 1989, the idea of this outrageous fence is highly divisive and a symbol of rising worries across Europe about the country’s political future.

Migranti a Calais – “Le parole sono importanti”, Cameron!

EUROPA/POLITICA/Varie di

Se fosse stato un personaggio surreale nel film “Palombella rossa”, avendo come interlocutore il Nanni Moretti impietoso di allora, David Cameron, il premier britannico, si sarebbe preso un ceffone memorabile sulle guanciotte rosee (molto british) e si sarebbe memorizzato a vita un “le parole sono importanti!!!” a seguito di quanto dichiarò ieri in tema di migranti.

“È molto complicato, lo capisco, perché c’è uno sciame di persone che arrivano attraverso il Mediterraneo, cercando una vita migliore; che vogliono venire in Gran Bretagna perché la Gran Bretagna ha posti di lavoro, è un’economia in crescita…”. Lo dice nel corso di un’intervista televisiva durante il suo tour in Vietnam, usando parole inopportune, perché no, sbagliate, per riferirsi ai migranti che da giorni tentano di attraversare l’Eurotunnel partendo da Calais.
La Gran Bretagna “non è un rifugio” per migranti e “sarà fatto tutto il necessario per garantire che i nostri confini siano sicuri”, ripete senza sosta Cameron in questi giorni. Ma in quell’intervista rilasciata a ITV News dal Vietnam, il premier si è lasciato andare usando una terminologia inaccettabile.

cameron

Un commento “irresponsabile” e “disumanizzante” lo ha definito il Consiglio per i rifugiati britannico: “Questo tipo di retorica – aggiunge l’organizzazione – è molto irritante e arriva in un momento in cui il governo dovrebbe concentrarsi e lavorare con le controparti europee per rispondere con calma e compassionevolmente a questa terribile crisi umanitaria”. Cameron si dovrebbe ricordare che sta parlando di “persone non di insetti”, ha attaccato nel corso di un’intervista alla Bbc la leader ad interim dei Labour , Harriet Harman: “Credo che sia molto preoccupante – ha detto – che Cameron sembri voler aizzare la gente contro i migranti a Calais”. Anche Andy Burnham, altro contendente nella competizione per la leadership laburista, su Twitter condanna: “Cameron che chiama i migranti ‘sciame’ è a dir poco vergognoso”.
“Cameron rischia di disumanizzare alcune delle persone più disperate del mondo. Stiamo parlando di esseri umani, non insetti”, critica anche il leader dei liberal-democratici britannici, Tim Farron. “Usando il linguaggio del primo ministro” ha aggiunto “ perdiamo di vista quanto disperato deve essere qualcuno che si aggrappa al fondo di un camion o in treno per la possibilità di una vita migliore”.
Quando a distanziarsi da tale linguaggio è pefinoNigel Farage,il leader di UKIP, celebre per la sua posizione anti-migratoria, suggerendo che il linguaggio del premier era “parte di un suo sforzo per apparire forte sull’immigrazione” e che lui non avrebbe usato un linguaggio simile.

Il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per le migrazioni, Peter Sutherland ha ricordato che il dibattito nato sui migranti in arrivo da Calais “è decisamente eccessivo”: “Stiamo parlando – ha detto alla Bbc – di un numero di persone relativamente piccolo rispetto a quello che altri Paesi si stanno trovando a fare e che devono essere aiutati da Francia e Gran Bretagna”. In numeri: la Germania l’anno scorso ha ricevuto 175 mila domande di asilo e Londra 24 mila. “Qui stiamo parlando a Calais di un numero di persone tra le 5 mila e le 10 mila che vivono in condizioni terribili. La prima cosa che dobbiamo fare collettivamente è occuparci delle loro condizioni invece di parlare di costruire muri”.

Intanto, il dibattito sul “che fare” si infuoca ogni giorno tra i sudditi si Sua Maestà. “Gli importanti flussi migratori provenienti da Siria e Africa subsahariana sono una realtà. Non sono il risultato di trattati o di direttive dell’UE. Certi rifugiati tenteranno con tutti i mezzi di giungere in Gran Bretagna passando dalla Francia. Soltanto i Paesi che cooperano malgrado tutte le difficoltà potranno gestire, o diminuire, un movimento migratorio tanto forte … Il problema non è puramente britannico o puramente francese, è una questione comunitaria. Deve essere risolto in comune, in un modo tanto umano quanto risolutivo”, riporta The Guardian il 29 luglio.

Il ministro dell’Interno britannico Theresa May ha annunciato lo stanziamento di altri 7 milioni di sterline (10 milioni di euro) per rafforzare la sicurezza nei terminal di imbarco dell’Eurotunnel a Coquelles, nel Nord della Francia, al termine del suo incontro con l’omologo francese Bernard Cazeneuve. L’annuncio arriva dopo che Eurotunnel ha riferito dell’incursione lanciata in queste notti da parte di circa 2.000 migranti che tentano il tutto e per tutto per attraversare la Manica e raggiungere la Gran Bretagna.

Si rischia la vita ogni notte e, a volte, la si perde, come è accaduto la sera del 27 luglio quando, a perdere la vita, è stato un ragazzo sudanese di 20 anni rimasto schiacciato da un camion. A Parigi, un altro, di nazionalità egiziana, è rimasto fulminato mentre cercava di salire su un treno Eurostar.

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“Con la Francia lavoriamo a stretto contatto su una situazione che interessa  entrambi i Paesi. La Francia ha gia’ rafforzato il proprio dispositivo di polizia. Il governo del Regno Unito stanziera’ altri 7 milioni di sterline per la sicurezza a Coquelles”, ha detto May. Questi ulteriori 7 milioni si aggiungono agli oltre 15 stanziati in precedenza. Stando all’ultimo conteggio ufficiale, di inizio luglio, sono circa 3.000 i migranti presenti a Calais, per la maggior parte eritrei, etiopi, somali ed afgani.

Queste sono le misure alle quali si affidano le autorità per sedare ogni tentativo di passaggio dei migranti nel tratto della frontiera sottomarina più celebre del mondo. A sentire loro, però, nulla potrà fermare i tentativi di raggiungere l’obiettivo finale. Di certo, pensare a viaggi e odissee che durano anni per arrivare fin lì, nulla lascia pensare che l’ostacolo ultimo potrà mai farli desistere.

Il Tunnel della Manica, che collega la Gran Bretagna all’Europa continentale, divenne operativo, dando la possibilità di transitare via terra a persone e merci per ben 39 km sottomarini, dal 1994 dopo ben 8500 anni, ovvero dalla fine dell’ultima glaciazione. Una conquista dell’umanità, un’unificazione materiale che, per il suo stesso funzionamento particolare, fa da passaggio e barriera.

Srebrenica: un massacro che compie vent’anni

EUROPA/POLITICA/Varie di

I Balcani sono più di un’espressione geografica, molto di più. Lingue, religioni, simpatie, tradimenti, massacri, contaminazioni e scambi culturali; gli autoctoni e gli arrivati da lontano; il latino, il cirillico e l’ellenico.Un ventennio, al giudizio di popolazioni che si rinfacciano ancora oggi l’epoca bizantina e i 500 anni di dominazione ottomana, quanta peso storico porta? Un peso inquietante, un macigno se si chiama Srebrenica.

Il premier serbo Vucic è stato contestato con rabbia determinata, lancio di pietre e altri oggetti alla celebrazione dei vent’anni dal massacro. A poco servono le annotazioni bosniache su”disturbatori venuti da fuori”. A che servono, se non a mettere una pezza a un sentore incontrollabile, all’odio che trova a tutt’oggi terreno fertile nell’oblio, nell’impunità, nella latitanza pluriennale dei responsabili, dell’una e dell’altra parte, di quei giorni feroci?

“Sono passati 20 anni dal terribile crimine commesso e non ci sono parole per esprimere rimorso e dolore per le vittime, così come rabbia e rancore verso coloro che hanno commesso questo crimine mostruoso. La Serbia condanna in modo chiaro e senza ambiguità questo crimine orribile” ha scritto Vucic in una nota “ed è disgustata da quanti vi hanno preso parte e continuerà a portarli davanti alla giustizia. La mia mano resta tesa verso la riconciliazione”.

Apprezzabile la partecipazione conciliatoria e l’esperienza diplomatica a 360° del premier serbo da quando è stato eletto, ma manca la definizione di “genocidio” ne dizionario politico serbo di quanto accadde nella guerra di Bosnia. Lo dice Obama, lo dice anche il Presidente Mattarella : “fu genocidio”, dichiarano.

“ Per genocidio s’intendono gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, secondo la definizione adottata dall’ONU.

Allora, mettiamo insieme quello che di significativo abbiamo per accettare o meno una definizione che poco cambia nel bilancio della storia, ma tanto disturba nella presa delle responsabilità: “Uccidere 50mila musulmani in più non porterebbe a niente. Recupereremo in seguito. La nostra vera priorità è sbarazzarci della popolazione musulmana”, scriveva Ratko Mladic, il boia di Srebrenica nei suoi diari segreti. “I musulmani sono il nemico comune nostro e dei croati, dobbiamo cacciarli in un angolo dal quale non possano più muoversi”.

Le 3500 pagine raccolte in 18 quaderni sono la prova più schiacciante degli intenti sciovinisti di quella elite militare e paramilitare serba che pretese di fornire una sorta di “soluzione finale” adoperandosi in una pulizia etnica bella e buona nel triennio 1992-1995.

Nella cittadina bosniaca di Srebrenica, oltre 8 mila uomini , bambini, giovani e anziani musulmani , venivano uccisi a colpi di mitraglia e poi nascosti in fosse comuni scavate dalle milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladić quel 11 luglio 1995. Un massacro passato alla storia come la più grave carneficina in Europa dai tempi della Seconda Guerra mondiale.Secondo i dati ufficiali, i morti fuorono 8372, secondo altre fonti si tratterebbe di circa 10mila persone.

Cosa significa un ventennio dal massacro di Srebrenica? Significa l’identificazione in corso di morti ancora senza nome.

Terrorismo: Arresti contro ISiS e Al Qaida in Italia e Albania

ISIS: Milano-Albania-Grosseto

Cinque le persone arrestate mercoledi 1 luglio 2015: il padre, la madre e sorella di Fatima, Sergio Sergio, Assunta Buonfiglio e Marianna Sergio, e due parenti del marito albanese Aldo Kobuzi: in Albania lo zio 37enne Baki Coku e a Scansano (Grosseto) la zia 41enne Arta Kacabuni. alias Anita. Tutti gli altri – Maria Giulia (nella foto quando era ospite della trasmissione Mediaset Pomeriggio 5), Haik Bushura (cittadina canadese), Donika Cocu, Serjola Kobuzi e Aldo Kobuzi (cittadini albanesi) – sono ricercati. Gli indagati, arrestati dopo le indagini della Digos di Milano iniziate oltre un anno fa, erano pronti per partire per la Siria: lì come Maria Giulia si sarebbero uniti ai combattenti
L’operazione Martesë (matrimonio, ndr), coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli ha quindi portato in carcere i familiari di Maria Giulia che vivevano ad Inzago, nel Milanese. In Albania, invece, le unità speciali della polizia di Tirana hanno fermato lo zio di Aldo Kobuzi, anche lui in Siria. Si tratta di Baki Coku, 37 anni. Domiciliato ad Arcille di Campagnatico (Grosseto), si trovava nella sua città natia, Lushnje, a circa 70 chilometri a sud della capitale. Dovrebbe essere estradato in Italia. Le persone arrestate sono cinque: i genitori di Maria Giulia Sergio (Fatima), Sergio Sergio e Assunta Buonfiglio, la sorella Marianna e due parenti del marito albanese Aldo Kobuzi: arrestato in Albania lo zio Baki Coku e la zia Arta Kacabuni, arrestata a Scansano (Grosseto).

L’operazione denominata “Martese” (Matrimonio in albanese), è stata coordinata dal prcuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Per Maria Giulio Sergio e per altre nove persone è stata firmata un’ordinanza di custodia cautelare dal gip di Milano Ambrogio Moccia: a tutti viene contestato l’articolo 270 bis, associazione a delinquere finalizzata al terrorismo, articolo di legge che fu introdotto dopo l’11 settembre in Usa.

Le indagini condotte dagli investigatori hanno portato alla individuazione del reclutatore di foreign fighters in Europa Ahmed Abu Alharith, . Tracciando il telefono cellulare di questi e tramite le intercettazioni telefoniche, si è venuto a capo ad una rete organizzativa repida ed efficiente internazionale che collaudava la partenza, il viaggio e lo smistamento in Siria dei foreign fighters e le persone al loro seguito.  “Abbiamo individuato – spiegato Romanelli – un’utenza turca. E si è aperto uno scenario enorme che ha fornito uno spaccato sulle regole per arrivare lì: accorgimenti materiali, come ad esempio l’indicazione di non usare telefoni di ultima generazione ma solo telefoni di vecchio tipo, la necessità di procurarsi schede locali e buttare la scheda vecchia, o la regola di portarsi una sola valigia senza eccessivo bagaglio”. Ha aggiunto Romanelli “Questa persona è una persona importante nello Stato islamico e rivendica il ruolo di interlocutore con vari paesi Europei, gestisce il profilo organizzativo ed è in grado di smistare tutte le persone in arrivo e dirigerli verso lo Stato islamico, a ciascuno viene data una collocazione: gli uomini per lo più vengono addestrati in campi militari mentre le donne restano a casa e svolgono un lavoro di indottrinamento. Il reclutatore è una persona di un certo livello e in alcuni casi parla con persone del suo livello”.

I reclutatori facevano anche un lavoro di convincimento sui profitti di cui avrebbero potuto godere i combattenti in Siria, non solo indottrinamento quindi. Promesse di portata materiale, quali cure sanitarie, macchine a prezzi stracciati, armi ecc. come spiega Lamberto Giannini, direttore del Servizio Centrale Antiterrorismo della Polizia. “Considerate l’attrattiva che questo può avere su persone che vivono una debolezza psicologica e anche economica. I dati sulle origini dei foreign fighters lo dimostrano. È comunque chiaro che non basta l’idea di un’auto scontata per convincere una persona a partire per la guerra”.
Questo aspetto ricorre spesso nelle telefonate tra Maria Giulia Sergio e la madre Assunta dove la figlia assicura la madre nel vendere tutto, non parlare con nessuno, solo con Allah e che “si potrà coltivare tutta la Siria se vuole”. Al padre che chiede se gli possono procure una macchina e la patente dice “No, qua non c’è la patente… Said ha preso la patente come mujahid, come combattente per Allah… Lui guida, non c’è problema… Lui in Albania non aveva la patente, poi ha fatto due mesi di addestramento e, niente, ha fatto tutto… Pa’, se tu vai tu al fronte con Said, con la macchina ti danno anche il kalashnikov…”.

Dettagli organizzativi pratici dai quali emergono alcune peculiarità, anche il fatto che il marito, Aldo, è diventato a tutti gli effetti un mujahid, un combattente del cosidetto Califfato e che la stessa Sergio si dichiara pronta a morire se ce ne fosse bisogno “ anzi, non vedo l’ora!”

Al Qaida: Roma

Altri arresti sono stati eseguiti a Roma dove è stato sgominata una cellula di Al Qaida la quale adoperava una rete virtuale di indottrinamento e reclutamento con lo scopo di organizzare azioni terroristiche. L’indagine è del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del pm Elisabetta Ceniccola, che si sono avvalsi di investigatori del reparto antiversione dei carabinieri del Ros, del servizio segreto interno (Aisi) e della collaborazione della Fbi statunitense. In manette sono finiti un tunisino e due marocchini: Ahmed Masseoudi, residente prima a Guidonia e poi a Palombara Sabina (comuni in provincia di Roma), ma attualmente in Tunisia; Abderrahim El Khalfi, residente nel quartiere romano di Tor Pignattara e Mohammed Majene, già in carcere in Marocco per altri fatti. Nei loro confronti è ipotizzato il reato di associazione per delinquere di tipo terroristico. Stando ai riscontri investigativi, “costituivano, assieme ad altri numerosi soggetti non identificati, una cellula estremistica dedita alla jihad islamica, gerarchicamente organizzata ai cui membri venivano demandati specifici compiti di supporto all’associazione islamica affiliata ad Al Qaeda”.
Come risporta l’ordinzanza “l’organizzazione si proponeva il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico internazionale, mediante l’apertura e l’amministrazione del sito web di matrice jihadista www.i7ur.com, attivo nella propaganda, nell’arruolamento e nell’addestramento di chiunque volesse partecipare. Tale inchiesta nasce a partire dal 2009 quando era stata localizzata un’utenza riconducibile a Mohammed Masseoudi, dipendente dell’Ambasciata Tunisina a Roma e analizzando gli orari di connessione si riteneva che dietro ci fosse il figlio Ahmed. Questi era il vero amministratore del portale Ashak Al Hur (Amanti delle Uri-Vergini), con riferimento alle presunte vergini che verrebbero assegnate ai martiri del jihad.

Come spiega il procuratore aggiunto di Roma, questa “è la prima cellula affiliata ad Al Qaida a Roma, con un centinaio di membri dislocati in vari paesi”. Per il GIP “ Messaodui e El Khalfi risultano nella completa dedizione all’attività illecita. Essi dedicano la propria esistenza a sostenere Al Qaeda con ogni propria energia e con ogni mezzo, tralasciando i propri interessi personali, ovvero facendoli coincidere con il sostegno all’organizzazione terroristica. Il tutto sarebbe stato compiuto grazie a relazioni di altissimo livello con i vertici di organizzazioni terroristiche, scambiando con questi materiali, supporti, aiuti, informazioni e copertura per la jihad in Europa”.
Reclutamento Is e cellule di Al Qaida nelle mire degli investigatori questa settimana in Italia dalle quali emerge la dedizione incondizionata al terrorismo in nome della guerra “santa” da parte di questi soggetti.

Sabiena Stefanaj
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