GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Rainer Maria Baratti - page 3

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La tutela dei Diritti umani in aree di Crisi: il convegno di Roma 3000

CRONACA di

Il 18 giugno il Centro studi Roma 3000 terrà il convegno dal titolo “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi”. Il convegno sarà l’occasione per riflettere, dibattere e scambiare esperienze sul tema dei diritti umani che in tutto il mondo sono in costante rischio. Le continue escalation nelle aree di crisi però rappresentano i luoghi in cui è maggiormente difficile la protezione di tali diritti. All’incontro saranno presenti esponenti di importanti associazioni che ci daranno la possibilità di analizzare la questione da diverse prospettive: la protezione dei civili e degli operatori, i diritti dell’infanzia, la protezione dei più vulnerabili e la tutela nel rapporto di lavoro. Saranno presenti Croce Rossa, Save the Children, l’Agenzia Habeisha e Vivere Impresa. Il convegno sarà aperto da Alessandro Forlani, esperto di diritti umani e di relazioni internazionali che introdurrà i relatori ospiti del Centro Studi Roma 3000.

Croce Rossa è presente ovunque, dall’intervento a sostegno delle popolazioni nelle zone di guerra, alle emergenze dovute ai disastri naturali, fino all’aiuto nelle tante vulnerabilità quotidiane che non fanno notizia. È il simbolo di un’Italia che aiuta, che ascolta le richieste di aiuto, piccole o grandi, che sono ovunque. Nelle aree di crisi, chi va ad apportare il proprio aiuto o è lì a documentare, è costantemente a rischio. Negli ultimi 15 anni i giornalisti uccisi nell’esercizio del loro mestiere sono stati 1035, specialmente nei teatri di guerra. Allo stesso modo sono tanti gli operatori umanitari che diventano un “target” delle parti in conflitto. Ciò nonostante questi operatori sono sempre in prima linea per tamponare le gravi crisi umanitarie. Allo stesso modo l’intervento nei luoghi in cui avvengono le calamità naturali risulta un rischio per operatori e civili. Per la Croce Rossa interverrà Rosario Valastro con l’intervento dal titolo “La protezione dei civili e degli operatori sanitari nelle zone a rischio: l’esperienza della Croce Rossa“.

Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini. Questi subiscono l’impatto del trauma e della violenza, subiscono minacce alla loro salute e alla loro felicità. Inoltre, non hanno la possibilità di sperimentare l’infanzia. Nelle aree di conflitto intere generazioni di bambini potrebbero avere conseguenze permanenti devastanti. In recenti ricerche nelle aree di crisi, nei bambini si sono riscontrate depressione, iperattività, predilezione per la solitudine e aggressività. A ciò si aggiunge la minaccia della guerra, la paura delle bombe, la costante insicurezza causata dall’instabilità e fenomeni come incubi e la difficoltà a dormire. Tutto ciò mette a dura prova la salute mentale dei bambini e costituisce una grave minaccia per i loro fragili meccanismi di difesa. Questo li espone a un alto rischio di stress tossico, la più pericolosa forma di risposta allo stress, provocata da una forte o prolungata esposizione alle avversità. L’esposizione agli eventi traumatici può portare a un aumento dei disturbi a lungo termine della salute mentale come il disturbo depressivo maggiore (MDD), il disturbo d’ansia da separazione (SAD), il disturbo overanxious (OAD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo la fine del conflitto. In particolare, l’attivazione prolungata degli ormoni dello stress nella prima infanzia può effettivamente ridurre le connessioni neurali in aree del cervello dedicate all’apprendimento e al ragionamento, influenzando le abilità dei bambini a svolgere attività accademiche e successive nella loro vita. Le avversità estreme nella prima infanzia possono ostacolare lo sviluppo sano dei bambini e la loro capacità di funzionare pienamente, anche quando la violenza è cessata. I bambini, non solo vedono negati il diritto al gioco, alla salute e allo studio ma vedono precludersi il futuro da guerra in cui non hanno nessuna responsabilità. Per Save The Children Interverrà Daniela Fatarella con l’intervento dal titolo “Le gravi violazioni dei diritti dei minori in conflitto”.

Padre Mussie è un attivista impegnato in azioni per salvare i migranti nel Mediterraneo, è il fondatore e il presidente dell’agenzia Habeshia e nel 2015 è stato nominato per il Nobel per la pace. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. Si è guadagnato l’appellativo “L’angelo dei profughi” in anni di attività in difesa dei diritti e della vita stessa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga dal Corno d’Africa e dai paesi dell’Africa sub sahariana verso l’Europa o verso Israele. Dopo aver preso i voti, in concomitanza con l’aggravarsi della vicenda dei profughi a causa di tutta una serie di situazioni di crisi esplose in Africa, è stato tra i primi, in quegli anni, a partire dalla tarda estate del 2010, a segnalare la tratta degli schiavi nel Sinai. Piaga tutt’ora aperta che vede centinaia di giovani catturati nel deserto, verso il confine di israele, da bande di predoni beduini collegate a organizzazioni criminali internazionali, che pretendono per ogni prigioniero pesanti riscatti, minacciano di consegnare chi non riesce a pagare al mercato degli organi per i trapianti clandestini. Le sue denunce, fatte attraverso l’agenzia di assistenza Habeshia, da lui stesso fondata, insieme a quelle di altre organizzazioni umanitarie, hanno destato sensazione in tutto il mondo, ma l’eco si è spenta in poche settimane, senza che la comunità internazionale si sia mai fatta davvero carico di quella che appare un’autentica emergenza umanitaria. Da allora è stata una escalation di orrore. Il traffico di schiavi nel Sinai non è mai cessato. Anzi la mafia dei trafficanti ha esteso e radicato il proprio operato lungo le vie di fuga dei migranti, sia nei paesi di transito verso l’Europa che in quelli di prima accoglienza: Etiopia, Sudan, Egitto, Libia. Mentre le crisi, le rivolte, le guerre, la carestia continuano a produrre fuggiaschi e richiedenti asilo e, dunque, “materiale umano” da sfruttare per i trafficanti. Padre Mussie è diventato un punto di riferimento per le vittime di tutto questo: prima a Roma, dove ha esercitato la prima fase del suo sacerdozio, ed ora in Svizzera, dove si è trasferito come responsabile nazionale per la pastorale degli Eritrei e degli Etiopi residenti nella Repubblica Elvetica. Il titolo del suo intervento sarà “il diritto dei deboli non è un diritto debole“.

L’avvocato Cristina Nasini è membro del direttivo dell’associazione “Vivere Impresa No-Profit” con delega agli Aspetti giuridici. Avvocato civilista, svolge la libera professione sia per attività giudiziale nell’ambito del diritto di famiglia, del lavoro, societario, fallimentare e contrattualistica, sia per attività di consulenza. Si è occupata di amministrazioni di sostegno e segue Fondazioni e Onlus che operano nel Terzo settore. Il titolo del suo intervento sarà “La tutela dei diritti umani nel rapporto di lavoro internazionale. L’impegno delle aziende”.

Il dibattito sarà moderato da Alessandro Conte, giornalista e presidente del Centro Studi Roma 3000

 

L’evento si terra presso la Camera dei Deputati, Palazzo San Macuto, Sala del refettorio il 18 giugno 2018 alle ore 17.00 in via del seminario 76 a Roma. Per partecipare e per motivi legati alle norme di sicurezza della Camera Dei Deputati è necessario confermare la presenza inviando una mail a registrazione@roma3000.it entro il 15 giugno 2018, ricordiamo che il regolamento della Camera dei Deputati prevede l’obbligo di giacca e cravatta per l’accesso alla sala del convegno.

La Croce Rossa incontra Paolo Nespoli e l’equipaggio della missione “Vita”

EUROPA di

È una grande gioia ritrovarmi qui insieme a voi. Grazie per avermi dato la possibilità di esservi vicino, di far volare con me la vostra bandiera e di inviarvi un messaggio che mi ha emozionato e mi emoziona ancora adesso”. Con queste parole, l’astronauta Paolo Nespoli ha voluto ringraziare la folta rappresentanza dei volontari della Croce Rossa Italiana, guidata dal Presidente Nazionale Francesco Rocca, in occasione della cerimonia di riconsegna della bandiera con l’emblema dell’Associazione che ha viaggiato con lui fino alla Stazione Spaziale Internazionale nell’ultima missione targata ASI ed ESA. All’auditorium del Museo MAXXI di Roma e in compagnia dell’equipaggio della missione VITA, ha raccontato le emozioni vissute durante il lungo viaggio, illustrato ai presenti i laboriosi preparativi da affrontare prima della partenza per lo spazio e mostrato suggestive foto scattate dalla Stazione Spaziale che mostrano la Terra, le sue fragilità e il concreto effetto dell’opera dell’uomo su di essa. Il Presidente Rocca ha ricordato la commozione dopo la prima pubblicazione del videomessaggio spaziale di Nespoli e ha ricordato le lacrime del pubblico dovute all’importanza di quel messaggio.

Quel messaggio dallo spazio ricordava l’impegno mondiale della Croce Rossa italiana nonostante gli attacchi al personale, gli attacchi agli ospedali, le difficoltà delle situazioni e i rischi che affrontano ogni giorno. “Grazie a Paolo Nespoli e all’equipaggio della missione per l’incredibile emozione che ci hanno regalato. Il videomessaggio che hai voluto indirizzarci – ha detto il Presidente Rocca rivolgendosi all’astronauta – racchiude in poche parole la nostra storia e la nostra vera essenza. Avere avuto l’opportunità di vedere nello spazio l’emblema della Croce Rossa, riconoscibile in tutto il mondo, ha significato toccare con mano l’ampiezza del nostro intervento e la capacità di essere sempre decisivi. Ci ha anche dato modo di riflettere su quanto questo emblema sia oggetto, ancora oggi, di attacchi in molte zone del mondo e, quindi, di quanto sia importante proteggerlo”. Il messaggio ricordava che l’essere umano è attratto dalle distanze per accorciarle e raggiungerle, per rendere visibile ciò che è invisibile.

Per avere una visione di insieme senza pregiudizio. Per guardare le cose a distanza in modo da essere vicino. Ed è questo che rappresenta il lavoro di Croce Rossa, quello di essere più vicini a chi ha bisogno, e questo dovrebbe, un giorno, poter rappresentare tutto il mondo. Da li su, in alto tra le stelle, Paolo ha potuto osservare quella bella sfera blu dove viviamo. Ha potuto vedere lo spettacolo della natura e dell’infinito. Ha potuto cogliere la visione d’insieme. Ma questo comporta anche quello che stiamo facendo noi a questo pianeta e di cui spesso non abbiamo coscienza. Paolo ha visto l’ampiezza degli uragani, immaginandone solo la potenza. Ha visto l’estuario del fiume Betsiboka, un fiume nel centro-nord del Madagascar. Un fiume circondato da mangrovie e caratteristico per la sua acqua di colore rosso ma che è anche la prova drammatica della catastrofica deforestazione intensiva del Madagascar. La rimozione della foresta nativa per la coltivazione e i pascoli negli ultimi 50 anni ha portato a massicce perdite annuali di terreno che si avvicinano a 250 tonnellate metriche per ettaro (112 tonnellate per ettaro) in alcune regioni dell’isola, la più grande quantità registrata in qualsiasi parte del mondo.

Il cambiamento climatico, dovuto alla mano dell’uomo, ogni giorno dà luogo a fenomeni più vari. Si pensi alla Somalia che ha dovuto affrontare il problema della siccità, che ha resto il terreno ulteriormente secco e poco permeabile, e delle alluvioni, che hanno portato morte e malattie. La siccità in Africa Orientale ha messo in ginocchio paesi già colpiti da guerre, crisi politiche e scontri etnici, ciò ha generato crisi umanitarie profonde in paesi come il Sud Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea, il Burundi, il Kenya e, appunto, la Somalia. In questi paesi si alternano siccità ed alluvioni. Per secoli, le popolazioni dell’Africa Orientale hanno dovuto affrontare fenomeni di questo tipo con una cadenza di cinque o sei anni. Recentemente, però, si è assistito a un’accelerazione di questa periodicità a causa del surriscaldamento globale. L’aumento delle temperature ha portato a un progressivo inaridimento delle fonti idriche con un conseguente calo della produzione agricola e un impoverimento dei pascoli. Ne consegue la rarità dei terreni fertili: assistiamo alla desertificazione, la riduzione di spazi coltivabili, e la Desertizzazione, il terreno che diventa deserto. Per esempio, Il Sahel si sta sempre più desertificando ma anche altre aree del mondo soffrono di desertificazione come in Sud America (ad esempio l’Argentina) e in Europa, con la Spagna che ha più del 12% di territorio che è soggetto a processi di desertificazione.

Questo, se si pensa al Lago di Aral, è dovuto anche allo sfruttamento non adeguato delle risorse da parte dell’uomo. Di conseguenza la terra coltivabile diventa un bene prezioso ed entrata in scena il Land-grabbing. Quando parliamo di Land-grabbing, possiamo parlare di un neocolonialismo agricolo messo in luce dai movimenti finanziari ad opera di alcuni paesi ricchi di capitale che affittano o acquistano grandi appezzamenti di terre fertili all’estero. Si può pensare a una nazione come l’Arabia Saudita che, poiché poco fertile, è dipendente dalle importazioni di prodotto finito e non controlla il processo di produzione. Per cui questo paese, andando a fare affari con governi facilmente corrompibili o con governi non ufficiali, acquista grandi appezzamenti di terreno e manda a lavorare cittadini del proprio territorio. Il problema è che i soggetti che affittano, nella grandissima parte dei casi, sono i paesi più poveri e con gravi problemi istituzionali.

Questo fenomeno nasce dalla necessità di acquistare o affittare terreno fertile perché non lo si ha a disposizione ma crea povertà e insicurezza alimentare in quei paesi poveri che li affittano. Alla fine, la somma di questi problemi porta alla necessità di associazioni come la Croce Rossa in grado di portare aiuti alle crisi umanitarie. Ma c’è anche la possibilità di un’altra strada. La ricerca spaziale potrebbe dare una risposta. Missioni come la missione VITA, come quella umana e come Vitality, Innovation, Technology, Ability, portano grande innovazione. Nella missione sono stati portati avanti molti progetti ed esperimenti scientifici come quelli mirati ad analizzare i danni subiti dalla retina in microgravità che possono portare a sviluppi negli studi per curare il glaucoma e la degenerazione maculare senile, o ad altri esperimenti per distinguere le cause della degenerazione cellulare di chi è affetto da atrofia muscolare, o per chi soffre di osteoporosi ma anche lo studio di nuovi metodi di analisi. Tra questi, vi è per esempio, lo studio Multi-Trop (dell’Università Federico II di Napoli con la partecipazione degli studenti di un liceo scientifico di Portici) un esperimento educational, studierà dove si dirigono le radici delle piante una volta germinate da un seme, se crescono in microgravità che potrebbe rivelarsi fondamentale in vista di future coltivazioni su Marte. Oltre a questo vi sono stati altri esperimenti che hanno testato la possibilità di coltivare in ambienti estremi anche con temperature rigide e terreni poco ricchi di nutrimenti.

Lo sforzo di Paolo Nespoli si inserisce nel contesto di Expedition 53, che ha visto coinvolti anche astronauti americani e russi che hanno svolto a loro volta centinaia di esperimenti di biologia, biotecnologia, osservazione della Terra e fisica nelle speciali condizioni di microgravità offerte dalla ISS. Nella spedizione, Randy Bresnik è stato protagonista di ben tre attività extraveicolari, durante le quali insieme ai colleghi Mark Vande Hei e Joe Acaba ha sostituito alcune parti del braccio robotico della Stazione, Canadarm2. Ryazanskiy ha a sua volta partecipato ad un’EVA insieme al cosmonauta Fyodor Yurchikhin, che lo scorso agosto hanno rilasciato alcuni nanosatelliti e raccolti campioni di materiali dall’esterno della ISS, oltre ad effettuare alcune attività di manutenzione del segmento russo. Questi sono solo pochi esempi del perché la ricerca spaziale è importante per la cura del nostro pianeta e con le parole di Paolo possiamo dire “essere vivi non vuol dire solo avere un cuore che batte, ma anche un cervello che funziona e mani che lavorano; vivere insieme, credere nello sviluppo, gestire correttamente le risorse, usare l’innovazione per portare questa vita su altri pianeti e migliorarla sulla Terra”.

Accorciare le distanze però vuol dire, nella corsa spaziale, anche accorciare le distanze verso Marte. Ciò sta creando una nuova economia che vede le maggiori potenze del mondo in cooperazione. Obama annunciò di voler portare l’uomo su Marte entro il 2030, Elon Musk vuole portarci “uomini pronti a morire” entro 10 anni, abbiamo assistito alle vicende del lander italiano Schiaparelli precipitato sul pianeta rosso a “pochi” centinaia di km dall’approdo. Oggi, abbandonato il bipolarismo, alla Nasa e alla Roscosmos si sono affiancate Bric Economy come Cina e India, e nuovi attori regionali, dall’Europa all’Asia, che lanciano le loro sfide agli astri e testano la loro sapienza tecnologica. Quella che sembra la novità più rilevante e destinata a cambiare gli equilibri è l’entrata in campo di soggetti privati come Elon Musk, Jeff Bezos di Amazon, Branson di Virgin, player della new economy come Google e Facebook, e venture capital. Sono molti gli attori in campo, dunque. In ciò si 53 paesi ormai dispongono di satelliti operativi e circa 60 paesi hanno in corso di realizzazione propri investimenti in ambito spaziale e il numero totale sale a circa 80 se si aggiungono i Paesi che progettano di partire a breve termine. Per capire come il settore sia in ascesa, basta pensare che è stato uno dei pochi a non essere intaccato dalla crisi finanziaria globale del 2007.

 Assistiamo alla nascita della Space economy su cui gli osservatori e i player si confrontano, organizzano convegni, pianificano gli interventi. Lo spazio rappresenta un comparto di grande valenza economica, è un elemento abilitante di un numero sempre più rilevante di reti e piattaforme applicative nei più diversi settori di attività. L’espressione “Space Economy” cattura questa dimensione pervasiva delle attività spaziali, che si integrano con le tecnologie digitali, contribuendo in modo sempre più diffuso e crescente all’economia di un paese avanzato. La nuova Space Economy è un mix tra budget istituzionali e commerciali, diversi contractor in competizione e una crescita esponenziale in cui fanno l’ingresso i grandi investitori privati in un settore tradizionalmente chiuso come quello spaziale. La Space Economy, che secondo l’ultimo report dell’Agenzia spaziale europea nel 2015 ha fatturato globalmente 291,4 miliardi di euro (+1% rispetto al 2014) ridefinisce i rapporti di forza: anche se lontani dagli USA, il tema ha bussato con forza alla porta dell’Agenzia Spaziale Europea con un mondo ricco di scienza e tecnologia di primissimo livello che ha avuto grandi successi negli ultimi anni ma che agisce con i tempi lunghi tipici delle organizzazioni multilaterali. Dall’economia alla politica il passo è breve. Lo spazio era e resta un ambito strategico poiché è uno degli strumenti più efficaci a supporto della proiezione geopolitica di un Paese, sia a livello globale che regionale. La particolarità consiste nel fatto che le infrastrutture spaziali amplificano le capacità operative e di intelligence, come avviene per il cyberspace. Inoltre, la geopolitica dello spazio si fa sulla Terra e, per il momento, non c’è collisione di interessi poiché la collaborazione è necessaria soprattutto nello sviluppo e nella ricerca per i costi e per le tecnologie che impongono sinergie. La corsa allo spazio, iniziata con fini politici e militari, è diventata, attraverso le complicate orbite della storia, un viaggio di uomini che cooperano insieme per studiare lo spazio e ciò che esso può dare all’umanità.

Oggi la collaborazione spaziale internazionale è un sistema, sempre in bilico tra competizione e collaborazione, dove nuove potenze emergenti come Cina e India stanno cambiando gli equilibri. In questo contesto l’Italia è leader di moduli spaziali abitabili, lanciatori, sensoristica, fotonica, tecnologia dei satelliti SAR (radar) che possono vedere con qualsiasi tipo di condizioni metereologiche. La nostra costellazione di questo tipo di satelliti, CosmoSkymed, è un’eccellenza che nel mondo ci invidiano. Sul lato della Governance il nostro paese sta facendo passi importanti con l’approvazione di qualche anno fa di un piano stralcio Space Economy che è stato finanziato con 350 milioni euro di fondi richiesti al CIPE sul fondo sviluppo e coesione (FSC). Uno degli obiettivi del piano Space Economy del governo è la completa automazione dei mezzi di trasporto aerei, marittimi e terrestri nel prossimo trentennio (2015-2045).

Nella Space Economy i numeri sono ancora piccoli, in Italia vale circa 1,6 miliardi di fatturato per 6.000 addetti ma siamo un’eccellenza di livello mondiale grazie agli accordi con ESA e NASA che hanno portato il volume di affari spaziale negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2019 a valere circa un miliardo di euro. Occorre ricordare che l’Italia è tra i fondatori dell’ESA e il terzo contributore dopo Germania e Francia. Il nostro paese ha ruoli di primo piano tecnologico e scientifico e le nostre aziende che lavorano per l’ESA sono di primissimo ordine. Basti pensare che il lanciatore Vega di Avio, realizzato a Colleferro, è una parte fondamentale delle politiche di accesso indipendente allo spazio, ed è anche un caposaldo dei lanciatori Ariane 6. Inoltre, quasi 50% dei moduli abitabili della stazione spaziale internazionale, sono stati realizzati a Torino da Thales Alenia Space Italia, joint venture tra Leonardo Finmeccanica e i francesi di Thales.

Dietro a tutto questo si deve ricordare che vi è la storia di uomini e di donne che hanno lavorato duro per seguire i propri sogni e per apportare un cambiamento alle nostre vite. Sogni che passano attraverso la preparazione in ambienti angusti o in situazioni estreme, attraverso simulazioni come il freddo russo che tocca i meno 30 gradi o come ammaraggi nell’oceano dove si deve sopravvivere per 3 giorni ma anche attraverso la scienza in cui i nostri astronauti sono le braccia degli scienziati o addirittura le cavie. Sono storie che passano anche attraverso rituali come quello russo di andare sulla tomba di Gagarin prima delle partenze e attraverso viaggi lunghissimi come quello che va da Huston al Cosmodromo Kazako (dove vanno 12 giorni prima in isolamento per evitare contaminazioni). Questo viaggio è iniziato con la partenza della Sojuz dalla stessa rampa di lancio usata da Gagarin e ha regalato l’emozione di per poter vedere “il mondo che ti passa sotto a 8 km/h al secondo” o anche la bellezza di momenti conviviali come la preparazione della prima pizza spaziale, dell’Aloha Friday spaziale oppure i momenti importanti di comunicazione con la propria famiglia. È il ritorno a terra è solamente un’altra emozione che si aggiunge, forse l’emozione più forte di tutte. È l’emozione di chi torna a casa e può sentire di nuovo gli odori della terra, è l’emozione di tornare ad essere umani.

Al termine dell’incontro e una volta riconsegnata la bandiera della Croce Rossa Italiana che ha viaggiato nello spazio, Paolo Nespoli ha ricevuto dalle mani del Presidente Rocca la Medaglia d’Oro al Merito della Croce Rossa Italiana “per aver dimostrato come volontà, passione e curiosità verso l’altro siano motori imprescindibili per il progresso umano. Per aver lanciato, da quel punto privilegiato in cui si è trovato per ben tre volte nella sua vita a osservare la Terra, un messaggio di umanità e di speranza, privo di pregiudizio e diffidenza. Per aver colto e saputo raccontare l’abnegazione, l’umana solidarietà e lo spirito di sacrificio che contraddistinguono l’operato dei 17 milioni di volontari della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, in grado di raggiungere ogni angolo del mondo per essere più vicini a chi ha più bisogno. Per aver portato anche nello spazio il nostro emblema, riconosciuto già in tutto il pianeta come simbolo di umana solidarietà, soccorso e aiuto”. Al resto dell’equipaggio della missione VITA, inoltre, consegnato il Diploma di benemerenza con Medaglia di Prima Classe.

 

Eruzione vulcano Fuego: La visita del presidente della Croce Rossa Internazionale in Guatemala

AMERICHE di

L’eruzione del Volcan de Fuego, con nubi di gas, rocce e cenere a temperature che superavano i 700 gradi, ha causato la morte di 99 persone e si contano 197 dispersi. Il vulcano si trova a 40 chilometri sud-ovest dalla capitale Guatemala City e secondo i vulcanologi, l’eruzione è la più grande registrata nel paese negli ultimi 40 anni. Il vulcano raggiunge un’altitudine di 3.763 metri ed è costantemente attivo, sebbene con eruzioni molto più piccole e contenute di quella di questi giorni. L’attuale eruzione fa parte di un periodo di maggiore attività vulcanica iniziato intorno al 2002. Tutto è avvenuto molto velocemente e la gente non ha avuto il tempo di andarsene, anche perché le persone qui sono abituate all’attività del vulcano e non pensavano di venire travolte.

La lava ha iniziato a scorrere dal vulcano e ha ricoperto tutti i villaggi che c’erano sotto e non c’è certezza sul numero dei morti, poiché molti sono stati letteralmente ricoperti e “pietrificati” dalla lava. Gli eventi del Guatemala si macchiano di un’evacuazione avvenuta preventivamente solo nell’Hotel a 5 stelle presente nella zona ma non nei paesi limitrofi. Questo è un indice di grave diseguaglianza. Una seconda eruzione ha poi ostacolato i lavori di soccorso che ha colto di sorpresa autorità e vulcanologi, visto che l’Istituto Nazionale di Sismologia guatemalteco aveva previsto che non ce ne sarebbero state altre dopo la prima. Circa 3mila persone sono state evacuate per l’eruzione, e in tutto 1,7 milioni ne hanno subito le conseguenze. In immagini scattate dal satellite si osserva a occhio nudo la dimensione del disastro che ha colpito alcune zone intorno al Vulcano.

Il Presidente della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, Francesco Rocca, è stato in Guatemala il 6 e il 7 giugno dove ha incontrato i volontari della Croce Rossa del Guatemala, in prima linea nella risposta all’emergenze e nel supporto alla comunità locale. Al termine della sua visita ha dichiarato: “Non dovremmo sottovalutare le dimensioni di questo disastro. Si tratta di una situazione critica, un’emergenza con necessità ancora enormi e le comunità coinvolte avranno bisogno di sostegno e supporto a lungo termine. Per le famiglie più colpite, riteniamo che il processo di ripresa richiederà almeno un anno. Queste persone hanno perso tutto: case, mezzi di sostentamento e, tragicamente, i loro cari. Tali famiglie sono la nostra priorità, ma le eruzioni hanno avuto un impatto molto più vasto. Le ceneri sottili sono ricadute su più della metà della Nazione, coprendo aree in cui l’agricoltura è un’attività chiave. L’impatto economico non è ancora chiaro. Ci auguriamo che non ci troveremo a dover affrontare un disastro secondario. Sono rimasto profondamente colpito dalla risposta massiccia e coraggiosa della Croce Rossa Guatemalteca. Le operazioni dei nostri volontari sono iniziate domenica. Sono esausti, ma la loro determinazione è incrollabile. La Federazione Internazionale garantisce tutto il suo supporto alla Croce Rossa del Guatemala e chiedo alla nostra rete globale, composta dalle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, e ai nostri partner in tutto il mondo, di sostenerla“.

Il presidente Rocca ha poi ricordato come è sempre più importante cominciare a parlare in ottica di prevenzione e di preparazione alla risposta a questi eventi. Questi argomenti dovrebbero interessare anche il nostro paese: un esempio è il Vesuvio e l’area di Napoli. Il Vesuvio è un vulcano molto più esplosivo di quello del Guatemala e ad oggi molte persone vivono ancora sulle pendici.

I bambini in situazione di conflitto: a Gaza il 95% dei bambini presenta sintomi di grave sofferenza psicologica

MEDIO ORIENTE di

Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini che, senza avere nessuna responsabilità per i conflitti, subiscono l’impatto del trauma e della violenza a livelli incalcolabili. Il conflitto minaccia la salute e la felicità dei più piccoli, ma anche la loro possibilità di sperimentare l’infanzia ed è quello che sta succedendo, oltre che in altri scenari di conflitto, a Gaza. Basti pensare ai giorni dell’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, in cui almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste e 1.000 sono rimasti feriti. In questo contesto un’intera generazione di bambini a Gaza è in equilibrio sul filo del rasoio e uno shock in più potrebbe avere conseguenze permanenti devastanti. Molti bambini a Gaza non conoscono altro che l’embargo, la guerra e la deprivazione: vivono ogni giorno con incertezza, stress e ansia, senza contare che molti sono stati feriti o hanno assistito a violenze. Una nuova ricerca di Save the Children, condotta nel mese di febbraio (prima delle proteste), rileva che depressione, iperattività, predilezione per la solitudine e aggressività sono condizioni riportate dal 95% dei bambini di Gaza. La combinazione di tutti questi sintomi consiste in una profonda sofferenza psicologica, con oltre il 96% dei famigliari intervistati nell’ambito dell’indagine che riconosce tutti e quattro i gruppi di sintomatologie nei figli o nipoti. La ricerca ha coinvolto 150 caregiver e 150 bambini che vivono a Gaza e l’età media delle bambine e dei bambini intervistati è 14 anni. I bambini di Gaza mostravano segnali di sofferenza quali incubidifficoltà nel dormire. La minaccia della guerra, la paura delle bombe, l’insicurezza costante causata dall’instabilità politica, sono la maggiore fonte di stress per i bambini ascoltati e il 60% dei famigliari ha dichiarato che tutto ciò sta avendo delle ripercussioni sui minori. Bambine e bambini hanno affermato di essere “spaventati” o di sentirsi “insicuri” dal rumore degli aerei a causa della prospettiva di una guerra o dei bombardamenti che possono colpire loro e le loro famiglie. Tali timori hanno spinto alcuni di loro ad aver paura di dormire e a far fatica a prender sonno per “proteggersi dagli incubi”. Negli ultimi 10 anni le famiglie hanno affrontato l’embargo imposto da Israele e tre conflitti, ciò ha posto sotto enorme sforzo l’economia e i servizi essenziali. La situazione vede una carenza di energia generalizzata ed è stata citata come il fattore negativo maggiore. I minori hanno spesso espresso “rabbia” rispetto al taglio dell’energia elettrica o hanno detto di sentirsi ansiosi, soli e come “se nessuno fosse con loro” durante la notte, a luci spente. Da una parte le preoccupazioni dei bambini ma dall’altra c’è anche quella dei familiari rispetto alla deteriorata situazione economica. Negli ultimi 15 anni il tasso di povertà è salito dal 30% a oltre il 50%, la disoccupazione è passata dal 35 al 43% e ora è al 60% tra i giovani. Meno di 20 anni fa il 96% delle persone aveva acqua potabile, mentre ora il 93% non ne ha affatto. Scorte di medicinali e cibo scarseggiano e sono costosi e i permessi per lasciare Gaza per ricevere cure sono sempre più difficili da ottenere.

Save the Children è profondamente preoccupata che la crescente violenza vissuta dai bambini, insieme all’aumento del senso di insicurezza provato, metta fine anche alla loro resilienza. La ricerca ha però rilevato che la maggior parte di loro mostra ancora segni di resilienza: più dell’80% dice di poter parlare dei problemi con la famiglia e con gli amici e il 90% afferma di sentirsi supportato dai genitori. Marcia Brophy, esperta in salute mentale di Save the Children in Medio Oriente ha spiegato che “Una significativa parte del senso di sicurezza provato dai bambini è legato alla stabilità che le famiglie sono state in grado di offrire, con oltre l’80% dei 150 bambini intervistati che non si sentirebbe al sicuro lontano dai genitori. Durante le ultime settimane in migliaia hanno visto il padre, la madre o un parente ferito o ucciso: una tale perdita di equilibrio a livello familiare, in un ambiente che è già caratterizzato dall’insicurezza, mette a dura prova la salute mentale dei bambini e costituisce una grave minaccia per i loro fragili meccanismi di difesa. Questo li espone a un alto rischio di stress tossico, la più pericolosa forma di risposta allo stress, provocata da una forte o prolungata esposizione alle avversità”. Venti anni fa uno studio sui bambini e i conflitti armati ha rilevato che i bersagli primari di guerra sono diventati i bambini. A ciò si aggiunge il fatto che è aumentata la possibilità di sfollamento dei bambini e che la natura sempre più mortale dei moderni conflitti armati intensifica anche la natura del trauma che i bambini sperimentano. L’esposizione agli eventi traumatici può portare a un aumento dei disturbi a lungo termine della salute mentale come il disturbo depressivo maggiore (MDD), il disturbo d’ansia da separazione (SAD), il disturbo overanxious (OAD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo la fine del conflitto. Tuttavia, mentre il conflitto persiste, l’esperienza combinata di eventi traumatici estremi con forme più sottili di minaccia (come abuso fisico e verbale, esposizione alla violenza, paura del rapimento) e privazione (come povertà, fame e abbandono cronico) che molti bambini possono vivere quotidianamente, li espongono ad un alto rischio di vivere in uno stato di stress tossico. Lo stress tossico è definito come la “forma più pericolosa di risposta allo stress” che può verificarsi quando i bambini subiscono avversità forti, frequenti o prolungate senza un adeguato sostegno degli adulti. La risposta allo stress tossico continuo e le molteplici cause di questo stress possono durare per tutta la vita e impattare sulla salute mentale e fisica dei bambini, incluso il loro sviluppo cognitivo, socioemotivo e fisico. Questo inoltre aumenta la probabilità che i bambini abbiano ritardi nello sviluppo o problemi di salute più avanti nella vita. La lentezza dello stress tossico può disturbare lo sviluppo del cervello e di altri organi e aumentare il rischio di malattie legate allo stress, malattie cardiache, diabete, problemi del sistema immunitario, abuso di sostanze, depressione e altri disturbi mentali nell’età adulta. Dato che le esperienze di un bambino durante i primi anni di vita hanno un impatto duraturo sull’architettura del cervello in via di sviluppo, uno stato continuo di stress tossico ha conseguenze negative e durature sullo sviluppo cognitivo e sulla regolazione emotiva. In particolare, l’attivazione prolungata degli ormoni dello stress nella prima infanzia può effettivamente ridurre le connessioni neurali in aree del cervello dedicate all’apprendimento e al ragionamento, influenzando le abilità dei bambini a svolgere attività accademiche e successive nella loro vita. Le avversità estreme nella prima infanzia possono ostacolare lo sviluppo sano dei bambini e la loro capacità di funzionare pienamente, anche quando la violenza è cessata.

Brophy ha però dichiarato che “è troppo presto per capire il pieno impatto che la recente violenza ha avuto sui bambini, alcuni dei quali hanno perso un parente o una persona amata. Ciò che sappiamo è che la distruzione dell’equilibrio in ambito familiare è uno dei fattori chiave in relazione alla salute mentale dei bambini in conflitto”. Nel frattempo, Jennifer Moorehead, Direttrice di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati ha lanciato il proprio appello e ha detto: “La comunità internazionale deve poter incrementare l’assistenza e introdurre maggiore supporto psico-sociale e per la salute mentale nelle scuole, nelle attività extra curriculari e nelle case. Solo facendolo immediatamente, focalizzandosi anche sulla fine dell’embargo e sull’individuazione di una soluzione duratura e giusta, i bambini avranno maggiori speranze per il loro futuro”.

 

Francesco Rocca (Croce Rossa): Continua il massacro nel Mar Mediterraneo, non possiamo rimanere in silenzio

EUROPA di

Durante lo scorso fine settimana sono due gli eventi tragici che si sono consumati in mare. Alle 2 di notte un motoscafo su cui viaggiavano i migranti ha avuto un’avaria ed è affondato vicino all’isola di Kekova Geykova, nel golfo di Antalya al largo della Turchia. La guardia costiera turca è riuscita a trarre in salvo tre uomini e una donna, una quinta persona è stata salvata da un peschereccio mentre un’altra è dispersa. Nella tratta verso l’isola greca di Kastellorizo, hanno perso la vita sei bambini, due uomini e una donna. Nel frattempo, a queste vittime si sono aggiunti i cadaveri ripescati al largo della costa orientale della Turchia, dove una barca con 180 persone a bordo si è capovolta e almeno 112 persone sono annegate poiché l’imbarcazione era lunga circa nove metri e non poteva contenere più di 70 persone. Queste vittime si aggiungono a molte altre. Solo nei primi 4 mesi del 2018 hanno perso la vita 619 migranti e il numero continua ad aumentare. Alla mattina del 7 maggio, il numero totale di migranti arrivati in Italia ha subito un calo di circa il 76 per cento rispetto agli arrivi dello stesso periodo dell’anno scorso ma, nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Questi numeri fanno si che il mediterraneo, soprattutto per quanto riguarda il mediterraneo centrale, ha le rotte migratorie più mortali e pericolose al mondo.

Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana e della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC), ha dichiarato: “Durante lo scorso fine settimana in poche ore, oltre 110 persone sono morte nel Mar Mediterraneo, al largo delle coste della Tunisia e della Turchia. Non possiamo rimanere in silenzio quando il massacro in mare continua. Mentre apprezziamo tutti gli sforzi finora compiuti dalle Nazioni Unite a New York durante i negoziati ancora in corso per il Global Compact per la migrazione, la situazione sul campo non sta cambiando. Al contrario, sta peggiorando. Qualsiasi decisione politica che metta a rischio vite umane è inaccettabile. C’è un bisogno urgente di risposte internazionali per proteggere le vite e la dignità umana delle persone che migrano“.

Il 19 settembre 2016, i leader mondiali hanno adottato la “Dichiarazione di New York” con l’obiettivo di gettare le basi per affrontare insieme la crisi migratoria, è una dichiarazione politica che tiene conto dell’agenda 2030 e mira alla crescita inclusiva dei migranti. Con questa ci si impegna per la prevenzione e la lotta contro la Xenofobia e si sottolinea che la discriminazione dei migranti è un’offesa ai diritti umani. La prima fase del processo di negoziazione è iniziata ad aprile del 2017 e si è conclusa in Messico agli inizi di dicembre con la raccolta di tutti i pareri e i suggerimenti dei vari governi, ad eccezioni degli Stati Uniti che hanno abbandonato i lavori preferendo gestire in maniera unilaterale la questione migratoria. Questa settimana gli Stati membri delle Nazioni Unite si incontreranno a New York per il “quinto round” di negoziati sul Global Compact per la Migrazione e, in questo contesto, le priorità dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) sono le seguenti: proteggere tutti i migranti in ogni fase del loro viaggio dalla violenza, dagli abusi e da altre violazioni dei loro diritti fondamentali; garantire ai migranti, a prescindere dal loro status giuridico, l’effettivo accesso ai servizi di base essenziali; dare priorità ai diritti e alle esigenze dei bambini migranti in quanto vulnerabili; garantire che le leggi, le politiche, le procedure e le pratiche nazionali siano conformi agli obblighi esistenti dettati dal diritto internazionale e rispondere alle esigenze di protezione e assistenza dei migranti.

Occorre ricordare che queste persone si muovono per vari motivi: guerra, povertà, cambiamenti climatici (si pensi alle recenti alluvioni in Somalia) o persecuzioni (per razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un gruppo sociale) subendo esperienze atroci come la tortura, lo stupro o le mutilazioni genitali (solo per citarne qualcuna). Occorre ricordare che si muovono con la speranza di avere una speranza per il futuro e che in molti percorrono mezzo continente solamente per poter salire su imbarcazioni precarie dirette verso l’Europa. Occorre ricordare perché molti di questi migranti, se arrivano, finiscono in scenari come quello di Gioia Tauro mentre qualcuno gli dice che “la pacchia è finita”. Occorre ricordare perché non possiamo rimanere in silenzio.

Le tante facce dell’esclusione: il rapporto di Save the Children sull’infanzia

EUROPA di

Save the Children ha recentemente lanciato il rapporto “Le tante facce dell’esclusionepoiché povertà, conflitti e discriminazioni di genere minacciano l’infanzia di oltre la metà dei minori al mondo. Più di 1,2 miliardi di bambini rischiano di morire prima di aver compiuto 5 anni, di soffrire le conseguenze della malnutrizione, di non andare a scuola e ricevere un’istruzione o di essere costretti a lavorare o a sposarsi troppo presto. Senza sufficienti azioni urgenti il mondo non riuscirà a raggiungere l’obiettivo di garantire, entro il 2030, salute, educazione e protezione a tutti i minori, come previsto dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile approvati dall’Onu nel 2015. In questo senso anche il nostro paese deve compiere moltissimi passi poiché povertà economica ed educativa continuano a privare bambini e adolescenti delle opportunità necessarie per vivere l’infanzia che meritano e costruirsi il futuro che sognano. Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children ha dichiarato: “Non possiamo più permettere che così tanti bambini corrano il rischio di perdere la propria infanzia già dal momento in cui vengono al mondo e che siano costretti sin da subito a fare i conti con condizioni di forte svantaggio e ostacoli difficilissimi da superare. Ciò avviene perché semplicemente sono delle bambine, oppure perché nascono e crescono in contesti caratterizzati dalla povertà o dalla guerra, dove per loro altissimo è il rischio di essere costretti al lavoro minorile, di subire sulla propria pelle le conseguenze della malnutrizione oppure, per quanto riguarda le ragazze, di essere costrette a sposare uomini spesso molto più grandi di loro quando sono ancora soltanto delle bambine”. Nel rapporto viene stilato il secondo End of Childhood Index di Save the Children che confronta i dati più recenti per 175 paesi e valuta dove il maggior numero di bambini sta perdendo la propria infanzia. Singapore e Slovenia si classificano al primo posto nella classifica punteggio di 987 e altri sette paesi dell’Europa occidentale si classificano tra i primi 10 poiché raggiungono punteggi molto alti per la salute, l’educazione e lo stato di protezione dei bambini. Il Niger è l’ultimo tra i paesi intervistati, con 388 punti.

Classifica End of Childhood index

I contesti di povertà e le gravi conseguenze sul futuro dei bambini

Nei paesi in via di sviluppo un minore su cinque vive in povertà estrema ma questo problema riguarda anche le aree economicamente più avanzate, con ben 30 milioni di bambini e ragazzi che nei Paesi OCSE vivono in povertà relativa grave. Vivere in un contesto di povertà crea forti ostacoli alla sopravvivenza, allo sviluppo e alla protezione dei bambini, alla loro possibilità di partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano da vicino e incide fortemente sulla possibilità di andare a scuola e ricevere un’educazione.  I bambini sperimentano in modo differente la povertà rispetto agli adulti: essere cresciuto in povertà ha un impatto negativo sullo sviluppo e l’apprendimento, oltre ad aumentare l’esposizione al rischio. Questi effetti durano una vita e vengono trasmessi da una generazione all’altra in quanto questi bambini non perdono l’infanzia perché poveri ma perché gli viene negato un buon inizio nella vita. Ciò avviene perché sperimentano una salute peggiore e tassi di malnutrizione e morte più alti, hanno una probabilità più alta di essere coinvolti nel lavoro minorile, di sposarsi precocemente o di essere precocemente in gravidanza. Non importa dove vivono, i bambini che vivono in povertà sono esposti a minacce di ogni tipo. Possono subire lo sfruttamento e l’abuso. Subiscono frequentemente bullismo e discriminazione, soprattutto a scuola, che causa ansia, frustrazione e rabbia. I bambini di tutto il mondo esprimono sentimenti di vergogna, insicurezza e disperazione. Nei paesi più ricchi, i bambini poveri riportano lo stigma e l’esclusione sociale nella ricezione di pasti scolastici gratuiti, di vestiti sporchi o non “alla moda”, o per non avere gli ultimi gadget, o perché non hanno i soldi per partecipare a eventi scolastici e altre attività di gruppo dei pari o perché non riescono a invitare gli amici a casa in quanto vivono in alloggi sovraffollati o sub-standard. Non mancano poi i bambini che lavorano per sostenere le proprie famiglie e così perdono il riposo, il gioco, la ricreazione e perdono l’opportunità di partecipare alla loro comunità, alla loro religione, allo sport e alle attività culturali. Dal rapporto di Save the Children emerge la stretta correlazione tra povertà e lavoro minorile, tra povertà e matrimoni precoci e tra povertà e gravidanze precoci.

I diritti negati dei minori nelle zone di guerra

Nelle aree segnate da guerre e crisi umanitarie è molto complicato, oltre che pericoloso, poter raccogliere dati aggiornati e avere una fotografia esatta che rappresenti realmente le difficilissime condizioni che sono costretti ad affrontare i bambini, perché si tratta di Paesi al collasso, dove le persone fuggono in massa per mettere in salvo le proprie vite e dove in molti casi nemmeno gli aiuti umanitari riescono a raggiungere la popolazione. Pensiamo, per esempio, a Paesi come la Siria o lo Yemen, dove i bambini, nelle loro giovanissime vite, finora non hanno conosciuto altro che bombe, violenza e disperazione; oppure alle gravi crisi umanitarie di cui sono vittime i bambini Rohingya, i bambini in fuga dalla Repubblica Democratica del Congo o i tanti minori gravemente malnutriti che lottano per sopravvivere in Somalia, uno dei Paesi più poveri al mondo, sconvolto negli ultimi mesi da una gravissima siccità e da decenni dilaniato da instabilità e violenze. Contesti in cui i bambini vengono derubati della propria infanzia e in cui nessun di loro, in nessuna parte del mondo, dovrebbe mai trovarsi”, ha affermato Valerio Neri. Nelle aree di crisi, soffrire la violenza, assistere alla violenza o temere la violenza può causare disabilità permanenti e traumi emotivi profondi. Inoltre, la separazione dai familiari e le difficoltà economiche possono esporre ragazze e ragazzi allo sfruttamento sotto forma di lavoro minorile, matrimonio infantile, violenza sessuale e reclutamento da parte di gruppi armati. A questi si aggiungono i pericoli meno visibili per i bambini in conflitto, ovvero la mancanza di cibo e il crollo dei servizi essenziali come assistenza sanitaria, igiene e istruzione. Sebbene l’istruzione sia disponibile in alcuni campi profughi, questa è spesso disorganizzata, temporanea, con risorse insufficienti, sovraffollata e limitata all’istruzione elementare. I bambini spesso non possono accedere alle scuole nei campi esterni per motivi di sicurezza, mancanza di documentazione, restrizioni alla circolazione di determinati gruppi di popolazione, per il costo relativo all’istruzione (ad es. per uniformi, tasse scolastiche, scuola pranzi, libri, trasporti) o la mancanza di competenze linguistiche necessarie per partecipare. Per esempio, circa i due terzi dei rifugiati vivono in aree dove nessuna delle lingue ufficiali è la lingua ufficiale nel loro paese di origine. Anche la xenofobia e la stigmatizzazione sono sfide per molti bambini rifugiati che hanno perso l’istruzione. Senza istruzione, i bambini sfollati affrontano un triste futuro e, soprattutto in tempi di crisi, l’educazione può offrire stabilità al bambino, protezione e la possibilità di acquisire conoscenze critiche e abilità. Le scuole possono anche servire come spazi sociali che uniscono famiglia e membri della comunità creando legami di fiducia, guarigione e supporto. Non fornire istruzione per i bambini sfollati può essere estremamente dannoso, non solo per bambini, ma anche per le loro famiglie e le società poiché perpetuano i cicli di povertà e conflitto. Nei Paesi in conflitto, malnutrizione, malattie e mancanza di accesso alle cure sanitarie uccidono molto più delle bombe.  A causa dei conflitti, sono ben 27 i milioni di minori che sono attualmente tagliati fuori dall’educazione, perché le loro scuole sono prese di mira dagli attacchi, occupate dai gruppi armati o perché i genitori hanno paura di mandare i figli a scuola. La perdita delle necessità di base richieste per l’infanzia, minaccia sia la sopravvivenza immediata che il futuro a lungo termine dei bambini. Inoltre, il conflitto tende a deprimere l’economia e ad aumentare il genere di disuguaglianze nei paesi poveri, rendendo una brutta situazione peggio per i bambini più vulnerabili.

Cholera patients isolated in a tent due to lack of rooms in the isolation ward. Hospital in Sana’a governorate Yemen.

Le discriminazioni contro le bambine e le ragazze 

Oggi le bambine e le ragazze hanno certamente molte più opportunità che in passato, tuttavia ancora troppe di loro, specialmente quelle che vivono nei contesti più poveri, sono costrette ad affrontare quotidianamente discriminazioni ed esclusione in svariati ambiti, dall’accesso all’educazione alle violenze sessuali, dai matrimoni alle gravidanze precoci. Nei contesti di povertà, rispetto ai loro coetanei maschi, le ragazze hanno maggiori probabilità di non mettere mai piede in classe nella loro vita. Stime recenti rivelano che circa 15 milioni di bambine in età scolare (scuola primaria) non avranno mai la possibilità di imparare a leggere e scrivere rispetto a 10 milioni di coetanei maschi. Spesso le famiglie più svantaggiate credono che dare in sposa le proprie figlie sia l’unica via possibile per assicurare il loro sostentamento, ciò comporta che i matrimoni precoci siano tra i fattori trainanti della negazione dell’opportunità di apprendere e ricevere un’educazione. Oggi, nel mondo, 12 milioni di ragazze si sposano ogni anno prima dei 18 anni e ai ritmi attuali si stima che entro il 2030 tale cifra supererà i 150 milioni. Le ragioni del matrimonio infantile variano di molto a seconda del contesto ma la maggior parte di essi si basa su situazioni che peggiorano durante i conflitti. Paura di stupro e violenza sessuale, la paura di gravidanze prematrimoniali indesiderate, la vergogna o il disonore famigliare, la paura di rimanere senza un tetto o la fame sono le ragioni riportate dai genitori e dai bambini per il matrimonio precoce. In alcuni casi, il matrimonio è stato utilizzato per facilitare la migrazione da paesi colpiti dal conflitto e campi profughi.  Quindi il fenomeno delle spose bambine è particolarmente rilevante anche nelle aree colpite dai conflitti, dove in molti casi le famiglie organizzano i matrimoni per proteggere le figlie da abusi e violenze sessuali. Tra i rifugiati siriani in Giordania, ad esempio, la percentuale di ragazze sposate prima di aver compiuto i 18 anni è cresciuta dal 12% nel 2011 al 32% nel 2014. In Libano, attualmente, risulta sposata prima dei 18 anni più di 1 ragazza profuga siriana su 4, mentre in Yemen la percentuale di spose bambine supera i 2/3 del totale delle giovani nel Paese, rispetto alla metà prima dell’escalation del conflitto. Il problema consiste nel fatto che si stima che 1 donna su 3 a livello mondiale abbia avuto esperienza di violenza fisica o sessuale nella propria vita e per lo più per mano dei loro partner. I tipi di violenza sperimentati possono includere selezione del sesso prenatale (feticidio – rimozione del feto femminile), infanticidio femminile, abbandono, mutilazione genitale femminile, stupro, matrimonio infantile, prostituzione forzata e delitto d’onore. Spesso la violenza sessuale e la prostituzione forzata vengono camuffate dal “matrimonio”. Queste sono gravi violazioni di diritti umani e sono state usate come armi da guerra in tutti i continenti e a questo si aggiunge che i bambini che sfuggono alla guerra e alla persecuzione sono particolarmente vulnerabili a diventare vittime della tratta. Le Ragazze e i ragazzi sono entrambi colpiti, ma il doppio delle ragazze lo sono segnalato come vittime della tratta: mentre le ragazze tendono ad essere trafficate per matrimoni forzati e la schiavitù sessuale, i ragazzi sono tipicamente sfruttati nei lavori forzati o come soldati.

A tale fenomeno è poi strettamente collegato quello delle gravidanze precoci: una questione particolarmente preoccupante considerando che le complicazioni durante la gravidanza e il parto rappresentano la prima causa di morte al mondo per le giovani tra i 15 e i 19 anni. La gravidanza da teenager è una sfida globale che colpisce sia i paesi ricchi che i paesi poveri allo stesso modo, ma i tassi di natalità sono più alti nei paesi dove ci sono meno risorse. In tutto il mondo, questo fenomeno ha più possibilità di manifestarsi nelle comunità emarginate, in cui vi è mancanza di istruzione e di lavoro, dove vi è disuguaglianza di genere, dove vi è mancanza di servizi di salute sessuale e riproduttiva e dove le donne e le ragazze hanno un basso status. È stato stimate che il 10-30% delle ragazze che abbandonano la scuola lo fanno a causa della gravidanza anticipata o del matrimonio; a causa del loro livello di istruzione inferiore, sono molte le madri adolescenti che hanno meno capacità e opportunità per occupazione e ciò alimenta i cicli di povertà. Save the Children ha sottolineato che mettere fine ai matrimoni e alle gravidanze precoci porterebbe a benefici economici entro il 2030 rispettivamente pari a 500 e 700 miliardi di dollari all’anno. La fine dei matrimoni precoci potrebbe risparmiare nei paesi in via di sviluppo trilioni di dollari poiché ridurrebbe la fertilità e la crescita della popolazione per migliorare i guadagni e la salute dei bambini. Il matrimonio minorile non colpisce solo la vita di milioni di ragazze ma ha anche un enorme impatto sull’economia. L’analisi di Save the Children mette, infine, in evidenza la piaga delle violenze fisiche e sessuali (dalle mutilazioni genitali femminili agli stupri alla prostituzione forzata) di cui troppo spesso le bambine e le ragazze sono vittime nel mondo.

Neri ha concluso dicendo che “Sono ancora troppi, come sottolinea il nostro rapporto, gli ostacoli che impediscono a tantissimi bambini e bambine al mondo di vivere a pieno la propria infanzia. Dalla lotta alla malnutrizione e a ogni forma di violenza, dall’accesso alla salute e all’educazione, chiediamo pertanto ai governi di impegnarsi concretamente ed efficacemente perché nessun bambino venga più lasciato indietro e a nessuno di loro venga più sottratto il proprio futuro”.

Women from a displaced community in a remote isolated location called ‘Found a Well’ in Western Sanaag under Somaliland rule. These pastoralist communities have congregated together at a known water source as their livestock herds have been depleted by the drought. Families report losing 80-90% of their livestock due to the drought. The only humanitarian assistance they have received to date has been a visit by Save the Children’s mobile Health Clinic.

L’Unione Europea mette al bando i prodotti in plastica monouso. Greenpeace “Bene ma serve di più”

EUROPA di

La commissione europea, prendendo atto del costante aumento dei rifiuti di plastica negli oceani e nei mari, oltre ai danni che ne conseguono, ha proposto nuove norme per 10 prodotti di plastica monouso che più inquinano le spiagge e i mari d’Europa.

Nel mondo, le materie plastiche rappresentano l’85 % dei rifiuti marini. Sotto forma di microplastica sono presenti anche nell’aria, nell’acqua e nel cibo e raggiungono perciò i nostri polmoni e le nostre tavole, con effetti sulla salute ancora sconosciuti. L’attenzione viene posta su 10 prodotti di plastica monouso e attrezzi da pesca che, insieme, rappresentano il 70% dei rifiuti marini in Europa. Le nuove regole sono volte a vietare la commercializzazione dei prodotti di plastica di cui esistono alternative facilmente disponibili ed economicamente accessibili, mentre i prodotti monouso saranno esclusi dal mercato e dovranno essere fabbricati esclusivamente con materiali sostenibili. L’Unione europea ha come obiettivo la riduzione del consumo di plastica e gli stati potranno fissare obiettivi di riduzione mettendo a disposizione prodotti alternativi o la possibilità che questi prodotti siano forniti gratuitamente. Verranno introdotti obblighi ai produttori in quanto contribuiranno a coprire i costi di gestione, bonifica dei rifiuti e sensibilizzazione. A ciò si aggiunge l’introduzione, su alcuni prodotti, di un’etichetta che indica come devono essere smaltiti, il loro impatto negativo sull’ambiente e la presenza di plastica. Per quanto riguarda gli attrezzi da pesca, che rappresentano il 27% dei rifiuti rinvenuti sulle spiagge, la Commissione punta a completare il quadro normativo vigente introducendo regimi di responsabilità del produttore per gli attrezzi da pesca contenenti plastica. Inoltre, entro il 2025 gli stati membri dovranno raccogliere il 90% delle bottigliette di plastica monouso. Con queste nuove norme l’Europa è la prima a intervenire incisivamente su un fronte che ha implicazioni mondiali. Jyrki Katainen, Vicepresidente responsabile per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività, ha dichiarato: “La plastica è un materiale straordinario, che dobbiamo però usare in modo più responsabile. I prodotti di plastica monouso non sono una scelta intelligente né dal punto di vista economico né da quello ambientale, e le proposte presentate oggi aiuteranno le imprese e i consumatori a preferire alternative sostenibili. L’Europa ha qui l’opportunità di anticipare i tempi, creando prodotti che il mondo vorrà procurarsi nei decenni a venire e valorizzando le nostre preziose e limitate risorse. L’obiettivo per la raccolta delle bottiglie di plastica concorrerà anche a generare i volumi necessari a far prosperare il settore del riciclaggio”. Affrontare il problema della plastica è una necessità, che può dischiudere nuove opportunità di innovazione, competitività e occupazione. La normativa unica per l’intero mercato dell’UE offre alle imprese europee un trampolino per sviluppare economie di scala e rafforzare la competitività nel mercato mondiale in piena espansione dei prodotti sostenibili: con i sistemi di riutilizzo (come quelli di cauzione-rimborso) le imprese potranno contare su un approvvigionamento stabile di materiali di alta qualità; in altri casi, mosse dall’incentivo a ricercare soluzioni più sostenibili, potranno conquistare un vantaggio tecnologico sui loro concorrenti internazionali. Le misure proposte hanno come obiettivo anche quello di aiutare l’Europa a compiere la transizione verso un’economia circolare, a realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite e a onorare gli impegni assunti sul fronte del clima e della politica industriale. La direttiva si poggia su norme già esistenti (come la direttiva quadro sulla strategia marina e le direttive sui rifiuti) e va a integrare altre misure adottate per contrastare l’inquinamento dei mari. Nel frattempo, Greenpeace, insieme alla coalizione ReThink Plastic Alliance, accoglie favorevolmente la nuova proposta e la considera un primo passo, importante e positivo, verso la riduzione degli imballaggi e dei contenitori in plastica monouso. Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, ha commentato: “Se vogliamo invertire la rotta, è fondamentale eliminare al più presto tutti quegli oggetti per i quali sono già disponibili alternative sostenibili. La proposta della Commissione Ue è un buon passo avanti ma è necessario avere più coraggio e ambizione: chiediamo ai membri del Parlamento Europeo di definire obiettivi precisi sulla riduzione della produzione e immissione sul mercato di imballaggi monouso. La proposta, altrimenti, è inefficace e non sufficiente per affrontare il grave inquinamento da plastica dei nostri mari”.

Il prossimo futuro vede la proposta della commissione passare al vaglio del Parlamento europeo e del consiglio (dove potrà subire delle modifiche o precisazioni). Inoltre, Il prossimo 5 giugno, per celebrare la giornata mondiale dell’ambiente, la Commissione lancerà anche una campagna di sensibilizzazione a livello europeo per puntare i riflettori sulla scelta dei consumatori e sul ruolo che hanno i singoli cittadini nella lotta contro l’inquinamento da plastica e i rifiuti marini. Successivamente, con questa iniziativa, l’Unione europea assumerà un ruolo guida e sarà nella posizione per guidare il cambiamento a livello mondiale, attraverso il G7 e il G20 e l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite.

Myanmar: Amnesty International accusa il gruppo armato Rohingya di stragi civili

ASIA PACIFICO di

Una ricerca condotta da Amnesty International nello stato di Rakhine, in Myanmar, ha rilevato che “L’Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan” (Arsa) è responsabile di almeno un massacro che conta almeno 99 persone tra uomini, donne e bambini indù e di ulteriori uccisioni illegali e di rapimenti di civili verificatisi nell’agosto 2017. L’Arsa è un gruppo di insorti Rohinghya che il Comitato Centrale Anti-Terrorismo del Myanmar ha dichiarato essere un gruppo terroristico il 25 agosto 2017 in conformità con la legge antiterrorismo del Paese. Il governo birmano ha affermato che il gruppo è coinvolto e finanziato da islamisti stranieri, nonostante non ci siano prove certe che dimostrino tali accuse. L’Arsa ha rilasciato una dichiarazione il 28 agosto 2017 in cui ha definito le accuse del governo come “infondate” e sostenendo che il suo scopo principale è quello di difendere i diritti dei Rohingya. La ricerca, svolta sulla base di interviste e analisi condotte da antropologi forensi, risponde al bisogno di fare luce sulle violazioni dei diritti umani, sottovalutate, commesse dall’Arsa. La brutalità delle azioni ha avuto un impatto indelebile sui sopravvissuti e Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per le risposte alle crisi, ha sottolineato che occorre “chiamare a rispondere i responsabili di quelle atrocità, è fondamentale tanto quanto farlo per i crimini contro l’umanità commessi dalle forze di sicurezza di Myanmar contro i civili Rohinghya”.

Il massacro di Kha Maung Seik

Erano le 8 di mattina del 25 agosto 2017 quando l’Arsa ha attaccato la comunità indù che viveva in una parte di una serie di villaggi nella zona chiamata Kha Maung Seik. Qui gli indù vivevano in prossimità dei villaggi della comunità musulmana Rohinghya e della comunità prevalentemente buddista rakhine. Uomini armati vestiti di nero e Rohinghya in abiti civili hanno rastrellato decine di uomini, donne e bambini indù, li hanno depredati dei loro averi e li hanno condotti bendati fuori dal villaggio. Dopo aver separato le donne e i bambini dagli uomini, i militanti dell’Arsa hanno ucciso 53 persone, a iniziare dagli uomini. Otto donne e otto dei loro figli sono sopravvissuti dopo che l’Arsa ha obbligato le donne a convertirsi all’Islam. Le 16 persone sono state poi obbligate a seguire i combattenti in Bangladesh e sono state rimpatriate nell’ottobre 2017 con il coinvolgimento delle autorità di entrambi i paesi. I sopravvissuti hanno riferito di aver visto parenti uccisi o di aver sentito le loro urla, di aver visto gli uomini sgozzati mentre venivano intimati a non guardare, di aver visto i combattenti dell’Arsa tornare indietro col sangue sulle spade e sulle mani, di aver visto l’uccisione di donne e bambini. In molti hanno perso padri, zii e fratelli ma anche madri e sorelle che sono stati massacrati. Sono morti 20 uomini, 10 donne e 23 bambini, 14 dei quali non avevano neanche otto anni. Bina Bala, una ventiduenne sopravvissuta al massacro ha raccontato le violenze di quei momenti: “Avevano coltelli e lunghi cavi metallici. Ci hanno legato le mani dietro la schiena e bendati. Ho chiesto loro cosa avessero intenzione di fare e uno di loro ha risposto, nel dialetto Rohinghya: ‘Voi e i rakhine siete la stessa cosa, praticate una religione diversa dalla nostra, non potete vivere qui!’. Poi hanno chiesto di consegnare tutto ciò che avevamo e hanno iniziato a picchiarci. Io alla fine gli ho dato i soldi e i gioielli d’oro che avevo”. Nello stesso giorno i 46 abitanti del vicino villaggio di Ye Bauk Kyar sono scomparsi, la comunità indù locale ritiene che l’intero villaggio sia stato assassinato dall’Arsa. Sommando le vittime dei due massacri, il totale è di 99 morti. Inoltre, il giorno successivo, l’Arsa ha ucciso due donne, un uomo e tre bambini nei pressi del villaggio di Myo Thu Gyi, sempre nella zona. Durante l’ondata di violenza nello stato di Rakhine, decine di migliaia di appartenenti a comunità etniche e religiose sono state costrette a fuggire. Molti di loro sono rientrate nei loro villaggi, altre continuano a restare in rifugi temporanei poiché le loro case sono state distrutte o per il timore di ulteriori attacchi dell’Arsa.

Le violenze contro i Rohingya

Gli episodi di Kha Maung Seik hanno coinciso con una serie di attacchi condotti dall’Arsa contro una trentina di posti di blocco delle forze di sicurezza di Myanmar. Le forze di sicurezza hanno reagito avviando una campagna illegale e sproporzionata contro la comunità Rohinghya, fatta di uccisioni, stupri, torture, incendi di villaggi, affamamento e altre violazioni dei diritti umani che costituiscono crimini contro l’umanità. I peggiori episodi di violenza chiamano in causa specifiche unità delle forze armate, come il Comando occidentale dell’esercito, la 33ma Divisione di fanteria leggera e la Polizia di frontiera. Le forze di sicurezza si sono vendicate brutalmente nei confronti dell’intera popolazione Rohinghya dello stato di Rakhine con l’intento di cacciarla dal paese. Uomini, donne e bambini furono vittime di un attacco sistematico e massiccio, costituendo un crimine contro l’umanità. Nell’ondata di violenza contro i Rohinghya sono state riscontrate almeno 6 degli 11 atti che secondo lo statuto di Roma del tribunale penale internazionale, quando sono commessi intenzionalmente durante un attacco, costituiscono crimini contro l’umanità: omicidio, deportazione, sfollamento forzato, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione oltre a ulteriori atti inumani come il diniego di cibo e di altre forniture necessarie per salvare vite umane. Le forze di sicurezza di Myanmar, a volte con la collaborazione di gruppi locali di vigilantes, hanno circondato i villaggi Rohinghya nella zona settentrionale dello stato di Rakhine, uccidendo o ferendo gravemente centinaia di abitanti in fuga. Inoltre, persone anziane e con disabilità, impossibilitate a fuggire, sono state arse vive nelle loro abitazioni date alle fiamme dai soldati. I testimoni hanno raccontato che l’esercito di Myanmar, appoggiato dalla polizia di frontiera e da vigilantes locali, ha circondato il villaggio aprendo il fuoco su chi cercava di fuggire e poi ha incendiato sistematicamente le abitazioni. I medici incontrati in Bangladesh hanno dichiarato di aver curato molte ferite causate da proiettili sparati da dietro il che coincide con le testimonianze di coloro che hanno visto i militari sparare contro le persone in fuga. La mattina del 30 agosto i soldati sono entrati a Min Gyi, hanno inseguito gli abitanti in fuga fino alla riva del fiume e poi hanno separato gli uomini e i ragazzi più grandi dalle donne e dai ragazzi più piccoli. Dopo aver aperto il fuoco uccidendo decine di persone i soldati hanno diviso le donne in gruppi portandole nelle case più vicine. Poi le hanno stuprate e infine hanno dato fuoco a quelle e ad altre abitazioni. Il 3 ottobre Unosat (l’operazione satellitare della Nazioni Unite) ha dichiarato di aver identificato un’area di 20,7 kmq di edifici distrutti da incendi nelle zone di Maungdaw e Buthidaung a partire dal 25 agosto: un dato persino probabilmente sottostimato a causa della densa copertura nuvolosa del periodo. Un ulteriore esame dei dati forniti dai sensori satellitari è giunto alla conclusione che dal 25 agosto sono stati appiccati almeno 156 vasti incendi ma anche questo numero potrebbe essere inferiore alla realtà. Le immagini satellitari riprese prima e dopo gli incendi confermano le testimonianze raccolte, ossia che le forze di sicurezza hanno dato alle fiamme solo abitazioni o zone abitate dai Rohinghya. A Inn Din e Min Gyi vi sono ampie parti di territorio con strutture incendiate fianco a fianco ad abitazioni rimaste intatte. L’esame delle caratteristiche delle zone risparmiate dalle fiamme, incrociato con i racconti dei testimoni sulla diversa composizione etnica di queste ultime, conferma che sono state incendiate solo le zone dei Rohinghya. Le violenze di quei giorni hanno costretto oltre 693.000 rohingya a fuggire in Bangladesh, dove si trovano tuttora. A proposito Tirana Hassan ha precisato che “I feroci attacchi dell’Arsa sono stati seguiti dalla campagna di pulizia etnica condotta dall’esercito di Myanmar contro l’intera popolazione rohingya. La condanna dev’essere totale: le violazioni commesse da una parte non possono giustificare quelle commesse dall’altra. Ogni sopravvissuto e ogni famiglia delle vittime hanno diritto alla giustizia, alla verità e alla riparazione per l’immensa sofferenza che hanno patito”.

Le dichiarazioni da parte di Myanmar

La settimana scorsa, il rappresentante permanente di Myanmar presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha criticato alcuni stati membri per aver ascoltato “solo una parte” della storia e non aver riconosciuto la violenza dell’Arsa. In riferimento a queste dichiarazioni Tirana Hassan ha dichiarato che “Il governo di Myanmar non può accusare la comunità internazionale di essere unilaterale se non permette l’ingresso nello stato di Rakhine. L’esatta dimensione delle violenze commesse dall’Arsa resterà sconosciuta se gli investigatori indipendenti sui diritti umani, compresa la Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, non potranno avere libero e pieno accesso nello stato di Rakhine”. A questo proposito Amnesty International rinnova il proprio appello per fermare le violenze.

 

Striscia di Gaza: almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste, 1.000 quelli rimasti feriti

MEDIO ORIENTE di

Sul piano internazionale, la storia della Striscia di Gaza imbarazza poiché tutti gli attori (Stati uniti e Unione Europea in primis) che si dicono paladini della “pace in Medio Oriente” non vogliono (i primi) e non possono (la seconda) muovere un dito per affrontare radicalmente la questione. Che viene così trascurata, attenuata ogni tanto con discorsi di “investimenti”, di “sostegno allo sviluppo”, di “interventi” che non hanno alcun impatto significativo per sedare la rabbia di chi nasce, sopravvive e muore in quel pezzo di terra recintata. Le ragioni delle proteste iniziate da più di 6 settimane nella striscia di Gaza sono diverse: l’embargo di Israele verso la Striscia di Gaza (che dura da più di dieci anni), l’assenza di prospettive e di lavoro con un tasso di disoccupazione al 44%, il risentimento verso la classe dirigente palestinese, il 30% del taglio dei salari agli abitanti di Gaza solo nell’ultimo anno o anche il fatto che periodicamente mancano acqua, cibo, medicinali, elettricità e carburante. Le proteste hanno visto 108 morti di cui 60 solo nella giornata del 14 maggio. Gli scontri hanno visto da una parte i Palestinesi che cercavano di “abbattere” il muro o di lanciare pietre (pietre che hanno assunto il simbolo del dolore della popolazione palestinese), mentre dall’altra parte del muro vi erano i tiratori scelti israeliani. Amnesty International ha dichiarato che è “aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro i civili disarmati” mentre l’esercito israeliano si è difeso dicendo che tra i 60 caduti vi erano 14 che cercavano di scavalcare il muro o di lanciare molotov o ordigni improvvisati e altri 24 che facevano parte delle brigate di fondamentalisti. In questi scontri non è stato risparmiato nessuno, sono almeno 13 i bambini che hanno perso la vita a Gaza dall’inizio delle proteste mentre il numero di persone rimaste ferite ha ormai superato quota 10.000di cui almeno 1.000 sono minori.  Quella del 14 maggio, sottolinea Save the Children è stata una delle giornate più sanguinose dalla guerra del 2014, con 6 bambini che hanno perso la vita e più di 220 rimasti feriti, tra cui, secondo i dati del Ministero palestinese per la Salute a Gaza, più di 150 colpiti da colpi d’arma da fuoco. Lo stesso Ministero, del resto, conferma che circa 600 bambini sono stati finora ricoverati in strutture ospedaliere, mentre secondo le informazioni diffuse da un’agenzia impegnata nella protezione dei civili almeno 600 minori hanno attualmente bisogno di supporto psicosociale. Inoltre, Anche prima dell’inizio delle proteste, gli ospedali di Gaza erano quasi al collasso con il 90% dei posti letto già occupati. L’afflusso di nuovi feriti ha significato che tante persone vengono curate nei corridoi o dimesse prima di essere adeguatamente curate. A peggiorare ulteriormente la situazione, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, solo a pochissimi feriti viene permesso di lasciare Gaza per cercare assistenza medica, il che aumenta le probabilità di complicazioni e impedisce ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno. Nel frattempo, Germania e Regno unito pretendono un’inchiesta indipendente, richiesta che al consiglio di sicurezza è stata bloccata dagli Stati Uniti che riconoscono ad Israele “il diritto di difendere il loro confine”. A ciò si aggiunge il riaprirsi della frattura diplomatica tra Israele e Turchia. La Turchia ha espulso l’ambasciatore di Ankara mentre Netanyahu ferma l’importazione dei prodotti agricoli turchi e rimanda a casa il console a Gerusalemme. I palestinesi sono abituati da sempre a dare grande importanza al dibattito internazionale che si è creato intorno alla loro causa. La nuova amministrazione americana ha nominato un ambasciatore in Israele molto vicino al movimento dei coloni e soprattutto ha deciso di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, una città contesa da decenni fra israeliani e palestinesi. Una decisione che ha convinto molti palestinesi che la soluzione ai loro problemi sia sempre più lontana, per cui l’autorità palestinese ormai non considera più Washington come un mediatore imparziale.

Il comitato organizzatore della protesta si era impegnato a garantire una grande manifestazione non violenta in modo da favorire la partecipazione delle famiglie. In cinque luoghi diversi della Striscia, a circa un chilometro di distanza dalla recinzione, sono stati montati ampi tendoni per i manifestanti. Qui migliaia di persone hanno mangiato e bevuto insieme mentre gli altoparlanti trasmettevano musica leggera. Però qualche centinaio di metri più in là, a poca distanza dalla recinzione, l’atmosfera era molto diversa. A piccoli gruppi provano ad avvicinarsi sempre di più al confine israeliano per lanciare pietre, bruciare copertoni e danneggiare la recinzione. Alcuni di loro sono giovani manifestanti senza particolari affiliazioni politiche mentre altri hanno legami con Hamas. La giornata del 14 è particolare che passa tra il sorriso di Ivanka Trump e il massacro dei palestinesi: mentre delle persone morivano sotto i colpi dei fucili di precisione, a Gerusalemme si teneva la cerimonia in pompa magna per l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense. Trump ha ventilato per mesi la possibilità di partecipare lui stesso alla cerimonia ma alla fine ha mandato sua figlia Ivanka e il marito Jared Kushner. Inoltre, la data è stata scelta con precisione in quanto coincide con i 70 anni dalla nascita dello stato israeliano. Ivanka Trump ha inaugurato la sede dell’ambasciata dicendo: “A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell’ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d’Israele. Inoltre, come è stato detto: “Prevale una versione della storia della Palestina con una costante rimozione: nella terra promessa c’è un altro popolo che sente quella terra come propria per il semplice fatto che ci vive da secoli e secoli. Una contraddizione irrisolta tra il mito del focolare ebraico, dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento: Gerusalemme capitale dello stato israeliano significa anche questo”. Il 15 maggio, anniversario dei 70 anni della Nakba, era previsto come il giorno in cui le azioni di protesta sarebbero state più intense ma è stata una giornata di funerali.

Lo Status di Gerusalemme

Lo scorso 6 dicembre Donald Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Gli Stati Uniti non hanno sempre sostenuto il movimento sionista (movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico). Per esempio, Roosevelt aveva capito il rischio nel supportare uno stato Israeliano in un momento in cui il mondo arabo mostrava affinità con il socialismo sovietico e possedeva la maggior quantità di petrolio. Truman invece era un simpatizzante sionista e doveva, in parte, la sua elezione alla comunità ebraica americana quindi, una volta diventato presidente, spinse molto per lo Stato di Israele, per questo gli Stati Uniti furono il primo paese a riconoscere il neonato stato ebraico. Nel 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite (che allora contava 52 Paesi membri), dopo sei mesi di lavoro da parte dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) approvò la Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 181 che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500 000 ebrei e 400 000 arabi) e di uno Stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800 000 arabi e 10 000 ebrei). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, sarebbero dovuti diventare una zona separata sotto l’amministrazione dell’ONU. Nella sua relazione l’UNSCOP giunse alla conclusione che era “manifestamente impossibile” accontentare entrambe le fazioni ma che era “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico. Le reazioni alla risoluzione dell’ONU furono diversificate. La maggior parte degli ebrei accettarono pur lamentando la non continuità territoriale mentre i gruppi più estremisti erano contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano “la Grande Israele”, nonché al controllo internazionale di Gerusalemme. Tra la popolazione araba la proposta fu rifiutata, con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico; altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso né sulla principale risorsa idrica della zona, il Mar di Galilea); altri ancora erano contrari perché agli ebrei, che allora costituivano una minoranza (un terzo della popolazione totale che possedeva solo il 7% del territorio), fosse assegnata la maggioranza (56%, ma con molte zone desertiche) del territorio (anche se la commissione dell’ONU aveva preso quella decisione anche in virtù della prevedibile immigrazione di massa dall’Europa dei reduci delle persecuzioni della Germania nazista); gli stati arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due governi. Tra il dicembre del 1947 e la prima metà di maggio del 1948 vi furono cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Venne messo a punto Il piano che aveva come scopo la difesa e il controllo del territorio del quasi neonato Stato israeliano, e degli insediamenti ebraici a rischio posti di là dal confine di questo. Questo prevedeva, tra le altre cose, la possibilità di occupare “basi nemiche” poste oltre il confine (per evitare che venissero impiegate per organizzare infiltrazioni all’interno del territorio), e prevedeva la distruzione dei villaggi palestinesi espellendone gli abitanti oltre confine, ove la popolazione fosse stata “difficile da controllare“. Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, un giorno prima che l’ONU stessa, come previsto, ne sancisse la creazione. Il giorno successivo (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, attaccarono l’appena nato Stato di Israele ma l’offensiva venne bloccata dall’esercito israeliano. Nel corso della guerra, Israele distrusse centinaia di villaggi palestinesi e fu la concausa dell’esodo degli abitanti. La guerra terminò con la sconfitta araba nel maggio del 1949, e produsse 711 000 profughi arabo-palestinesi. Dall’amministrazione Truman in poi abbiamo assistito a differenti linee guida con i democratici e i repubblicani. L’unica caratteristica che è rimasta stabile nelle differenti politiche è la soluzione a due stati, di fatto nessun presidente ha mai apertamente sostenuto la possibilità che Israele possa annettere automaticamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nella presidenza Reagan invece vi è stato il momento più forte di supporto a Israele, sotto la sua amministrazione Tel Aviv ha guadagnato il titolo di “major non-NATO ally” e che si è tradotto in grandi quantità di denaro e di armi in arrivo da Washington. Con la fine della Guerra fredda il supporto a Israele è diventato più una posizione di politica interna. Inizialmente, dopo la caduta del muro di Berlino, gli Stati uniti hanno cercato di avvicinarsi al tema dei diritti dei palestinesi per cercare alleanze con il mondo arabo che non godeva più del supporto dell’unione sovietica. Ma con gli attacchi alle Torri Gemelle del 2001 e la retorica del terrorismo, l’appoggio per la causa palestinese ha assunto sfumature diverse.  Le due amministrazioni Bush e, in parte, quelle di Obama hanno mostrato una forte vicinanza a Israele ma hanno usato il tema dei diritti dei palestinesi e della difesa dei loro territori come uno strumento per farsi vedere vicini ai temi arabi.

Dal 1947 la questione cruciale dello scontro è lo status di Gerusalemme. Le nazioni unite hanno ripetuto a più riprese la soluzione che comprendeva l’esistenza di due stati e l’amministrazione sotto l’ONU della città di Gerusalemme. Ciò non riuscì ad evitare la divisione effettiva della città tra due gruppi opposti. Sono stati svariati i tentativi di stabilire giuridicamente il possesso della città. Uno dei casi più eclatanti è in seguito alla vittoria da parte di Israele della guerra dei sei giorni e la successiva annessione dei territori del Sinai, della West Bank e delle Alture del Golan. Infatti, immediatamente dopo l’occupazione, il ministro della difesa israeliana Dayan ha proclamato Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. La comunità internazionale non ha riconosciuto l’annessione della città e si è continuato a sottolineare la necessità del regime internazionale sull’area. Ci furono ripetuti tentativi dell’ONU e diverse investigazioni sulla violazione dei diritti umani. Sullo status di Gerusalemme, per esempio, ha dichiarato inammissibile l’acquisizione di un territorio attraverso l’uso della forza, secondo quanto stabilito dalla carta Onu, e ha richiesto il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati, nel riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere e del principio di sovranità. Nel 1980, però, lo stato israeliano ha emanato la Jerusalem Law, con cui si dichiarava Gerusalemme capitale. La dichiarazione venne immediatamente rifiutata dalle Nazioni Unite e dalle altre organizzazioni internazionali. Furono adottate due risoluzioni in quell’anno, la 465 e la 478, in cui Israele veniva accusata di violazione dei diritti umani e si invitava tutti i membri dell’ONU ad interrompere le missioni diplomatiche nella città. Nel corso degli anni le risoluzioni hanno sempre confermato lo status di Israele come forza occupante e il riconoscimento di violazioni dei diritti umani. Anche nella risoluzione del 2016 (Res 2334) è stato riaffermato l’obbligo di Israele di rispettare scrupolosamente i suoi obblighi e responsabilità legali ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Inoltre, sono state condannate tutte le misure volte a modificare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, compresa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione degli insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e dislocamento di civili palestinesi, in violazione del diritto internazionale umanitario e relative risoluzioni. In relazione a Gerusalemme è stato ribadito che l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nel territorio palestinese occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale e un ostacolo principale al raggiungimento della soluzione dei due Stati e un giusto pace duratura e completa. In sintesi, le Nazioni Unite continuano a sottolineare il regime internazionale di Gerusalemme e ad accusare Israele di occupazione illecita del territorio, soprattutto di Gerusalemme est (essendo quella ovest ormai considerata de facto israeliana). Come possiamo notare la soluzione di Trump ha dimostrato di avere pesanti conseguenze e porre una rottura sia con la politica estera americana che con le decisioni internazionali. In molti hanno cercato lo scopo della mossa del presidente degli Stati uniti. C’è chi ha trovato la motivazione nell’avvicinarsi delle elezioni di Mid Term. Trump, poiché sta perdendo consensi tra i moderati, avrebbe deciso di assolutizzare ancora di più il suo messaggio politico per poter raccogliere i voti nei poli più estremi del panorama politico. Inoltre, è stata vista come mossa per tenersi più stretti i cristiani evangelisti all’interno del partito repubblicano e che simpatizzano per la questione ebraica, per evitare che vadano su posizioni più vicine ai nemici interni al partito. Va anche detto che Trump sta cercando di mantenere le sue promesse elettorali non appena gli è permesso dalla situazione. Altre ipotesi che sono state analizzate sono quelle relative agli stessi consiglieri di Trump e anche all’ansia della Casa Bianca di distogliere l’attenzione mediatica dal cosiddetto Russiagate. Ciò che rimane sicuro è che le conseguenze per l’area sono gravi e profonde anche per gli stessi alleati del presidente, come l’Arabia Saudita e l’Egitto. Questi giorni risultano essere un successo non per Israele bensì per il primo ministro Benjamin Netanyahu, per la destra e per i nazionalisti. Questi sono giorni di vittoria per il loro percorso, quello della forza, e della loro fede, quella negli eletti che possono fare tutto ciò che vogliono.

La situazione dei bambini

Jennifer Moorehead, direttrice di Save the Children nei Territori palestinesi occupati ha detto: “L’uccisione dei bambini non può essere giustificata. Chiediamo con urgenza a tutte le parti di adottare misure concrete per garantire l’incolumità e la protezione dei bambini, nel rispetto delle convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani. Chiediamo inoltre a tutte le parti di impegnarsi affinché tutte le proteste rimangano pacifiche, di affrontare le cause alla radice del conflitto e di promuovere dignità e sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi. Le famiglie che incontriamo ci dicono che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, mentre cercano di prendersi cura dei propri cari che sono rimasti feriti. Spesso non possono permettersi cure e medicinali e ci raccontano di essere estremamente preoccupate per il futuro dei loro bambini, già devastati da più di 10 anni di blocco israeliano e dal sempre minore interesse da parte dei donatori. Le continue interruzioni di corrente e il congelamento degli stipendi dovuto alle continue divisioni tra l’Autorità Palestinese che governa la West Bank e l’autorità de facto di Gaza, inoltre, significa aggravare ulteriormente le condizioni di vita di famiglie già disperate”. Nella striscia di Gaza, le ostilità hanno esposto i bambini a livelli di violenza e distruzione senza precedenti. La povertà, le condizioni in cui cresce il bambino, la mancanza di istruzione, o il fatto di non avere cibo e acqua sono solo alcune delle problematiche in cui cresce un bambino nelle zone di guerra, queste problematiche hanno effetti sulla salute fisica e mentale del bambino. In questi contesti la personalità e l’intersoggettività del bambino viene distrutta e occorrono importanti cure mediche e piscologiche che spesso solo le ONG possono portare ma trovano ostacoli nel loro operato o perdono fondi per il disinteresse internazionale.  Il “rapporto 2017 – 2018 sulla situazione dei diritti umani nel mondo” di Amnesty International riporta che Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto illegalmente da Israele sulla Striscia di Gaza mantiene in vigore le consolidate restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoponendo a punizione collettiva l’intera popolazione di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto e alle misure punitive imposte dalle autorità della Cisgiordania, il blocco di Gaza da parte d’Israele ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da interruzioni dell’erogazione dell’energia elettrica, passata da una media di otto ore al giorno a un massimo di due o quattro ore giornaliere, da una ridotta fornitura di acqua potabile con implicazioni igienico-sanitarie e da crescenti difficoltà d’accesso all’assistenza medica, rendendo Gaza progressivamente “invivibile”, secondo una definizione delle Nazioni Unite.

Povertà urbana: quando è necessario mettere i Confini al Centro

CAPITALI/EUROPA di

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita verticale dell’insediamento urbano e alle intense mutazioni qualitative sia in termini morfologici che funzionali. Vi sono dei tratti negativi in questo processo in cui primeggia la dilatazione della povertà e che assume le fisionomie proprie di povertà urbana. Ad oggi più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane, circa il 54% con rischio di arrivare al 60% entro il 2030, e accanto a questo si è registrato un aumento delle diseguaglianze a livello globale. Durante la crisi abbiamo sentito dire che tutti si impoveriscono ma non è vero che dentro la crisi tutti ne risentono allo stesso modo. Nell’indagine ISTATCondizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” pubblicata il 6 dicembre 2017, mentre tra il 2016 e l’anno precedente si è verificata una “significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie”, contemporaneamente si è registrato “un aumento della diseguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Ciò ha significato più ricchezza complessiva ma più distanze economiche tra ricchi e poveri. Inoltre, sono aumentati i poveri e le famiglie a rischio di povertà. Sostanzialmente ha significato una redistribuzione dal basso verso l’alto che porta ad un’ingiustizia sociale ed economica. Sono note le reali condizioni di lavoro e le basse remunerazioni di commesse, badanti, camerieri, addetti ai supermercati, lavoro ambulante, operai della logistica, dell’agricoltura e delle piattaforme digitali e di tanti lavoratori e lavoratrici autonome. Al di là delle retoriche populiste e razziste, le aree più a rischio e le categorie più esposte all’impoverimento sono le famiglie a basso reddito con stranieri, gli anziani soli e i giovani disoccupati. Questo quadro si aggrava inserendo le aree sociali meno presenti nei dati disponibili, come quelle composte da richiedenti asilo e migranti con protezione umanitaria, sussidiaria o internazionale fuoriusciti dal sistema di accoglienza, che si ritrovano per strada (10 mila ne stima il rapporto “Fuoricampo” pubblicato a febbraio 2018 da Medici senza frontiere) o nei ghetti delle aree agricole (le cosiddette “Ghetto economy” come quella di Gioia Tauro), a cui si aggiunge una parte di immigrati che negli ultimi anni sono andati a lavorare in campagna dopo essere stati licenziati dalle fabbriche del nord. A questo punto va detto che vi sono due caratteristiche preponderanti nella povertà italiana: la concentrazione nel Mezzogiorno d’Italia e la sua caratterizzazione familiare. Il Mezzogiorno è l’epicentro del “sisma povertà” in cui la Campania risulta il centro da cui si propagano le onde sismiche sul tutto il territorio nazionale e in cui vi sono i maggiori danni. Va aggiunto che si sono manifestate forme nuove di povertà che hanno interessato aree tradizionalmente meno svantaggiate e più industrializzate di Italia: la fame ha cominciato a mordere anche al Nord. La povertà in Italia è dovuta alla difficoltà dei soggetti in età di lavoro di guadagnare un reddito dotato di continuità e protezioni sociali tali da evitare il sovraccarico di aspettative e obblighi familiari insoddisfatti che rende la famiglia più esposta al rischio di diventare povera. Intervenire sulla famiglia è fondamentale poiché potrebbe accentuarsi la sua funzione di cinghia di trasmissione della povertà e potrebbe aumentare il rischio di spinte verso l’esclusione sociale e lavorativa, ciò indebolisce le forme di coesione sociale. Le politiche di contrasto alla povertà si sono rilevate ad oggi una coperta troppo corta, sia per il loro carattere frammentato e categoriale, sia per le dimensioni stesse del fenomeno e la sua concentrazione in un’area specifica del paese. Occorre intraprende un percorso che non potrà limitarsi ai soli interventi di contrasto alla povertà, ma deve allargarsi al piano delle politiche occupazionali e alle scelte di politica economica. Gli anni più recenti segnano una ripresa di un discorso nazionale di lotta alla povertà e l’attuazione per la prima volta di una misura non contingente di universalismo selettivo non differenziato territorialmente quale il Reddito di inclusione (REI). Evidenziato il fatto che è ancora prematura una valutazione del REI, è possibile evidenziare delle criticità. Il REI permetterà di raggiungere nel 2018 il 38% delle persone in povertà assoluta e risulta evidente che una maggioranza ne rimarrà priva. A ciò si aggiunge che il sostegno economico, anche se più elevato di quanto concesso in precedenza, rimane generalmente insufficiente per fare uscire dalla condizione di povertà assoluta; questo punto si aggrava con la natura temporale della misura (18 mesi + 12) che prescinde dal fatto che situazione della persona/famiglia sia migliorata o meno. Infine, scompare dal discorso pubblico il riferimento alla povertà relativa. Altra problematica è dovuta al fatto delle categorie. Inoltre, Il comune resta il livello istituzionale con la responsabilità principale del contrasto alla povertà, una centralità che continua ad alimentare l’elevata frammentazione delle politiche in questo ambito, assicurando diritti condizionati al luogo di residenza e alle possibilità e alle scelte dei Comuni sull’utilizzo delle proprie risorse; questa frammentazione rende inadeguate le politiche contro la povertà in Italia.

Su questo tema tra l’11 e il 13 maggio si è tenuta la tre giorni di “Confini Al Centro”, la convention nazionale sulla povertà urbana organizzata da Associazione 21 luglio Onlus, Università di Roma Tor Vergata e la rete Reyn Italia. L’obiettivo è stato quello di sviluppare un documento programmatico di proposte e riflessioni per elaborare strategie e politiche di contrasto alla povertà urbana, fenomeno sempre più diffuso in Italia. Per questo motivo tutti i partecipanti, dalle professionalità più svariate, sono stati chiamati a dare il proprio contributo attraverso un attivo scambio di conoscenze ed esperienze dirette per parlare di diritto ad abitare, educazione e infanzia, media e povertà estreme. A condurre i tavoli di lavoro e i dibattiti si sono alternati oltre 30 relatori, tra esperti, accademici, associazioni del terzo settore e giornalisti. Inoltre, vi è stata la presenza di deputati e consiglieri regionali. Gli organizzatori hanno scelto di ripartire dal quartiere di Tor Bella Monaca, da una periferia romana, per immaginare e ridisegnare insieme i contorni di una città più inclusiva e egualitaria. All’iniziativa è stata conferita, come premio di rappresentanza, una medaglia del Presidente della Repubblica. La sfida della convention è stata quella di dare una proposta concreta che risponda al crescente fenomeno di “urbanizzazione della povertà”, caratterizzata da un modello di segregazione del disagio sociale nelle aree più periferiche, sempre più distaccati dal centro e dai ceti benestanti. Parallelamente negli anni, dagli ’80 ad oggi, si è consolidata la “politica dei campi” ma anche la formazione dei ghetti per lavoratori stagionali, centri di accoglienza per migranti e richiedenti asilo. Un sistema di relegazione e iper-ghettizzazione che marca una distanza spaziale oltre che relazionale, delineando così un percorso di impoverimento ulteriore all’interno delle nostre città.

Alcune delle problematiche affrontate

Durante la Convention è stata rilevata una vulnerabilità abitativa diffusa di cui è importante cogliere le articolazioni in quanto le diverse figure e la diversa gravità dei problemi esigono soluzioni differenti. I problemi sono suggeriti dai profili sociali delle popolazioni escluse: immigrati irregolari e richiedenti asilo privi di sostegno, disoccupati di lunga durata, homeless cronici, rom residenti in campi nomadi o in insediamenti informali ecc. Le politiche potrebbero muovere dal riconoscimento delle capacità di organizzazione delle stesse persone in povertà. È un esempio chiaro quello di chi vive in occupazioni abitative. Invece di penalizzare questa parte della popolazione come fa, ad esempio, l’articolo 5 del decreto lupi, si potrebbe riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, le esperienze e le proposte avanzate da una parte della popolazione che ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’autorganizzazione di politiche per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzione concrete a parti della società che non possono aspettare. Queste esperienze mettono in discussione il concetto di fragilità utilizzato solitamente in maniera banale e banalizzante da parte delle istituzioni, incapace di comprendere i problemi strutturali e politici alla radice dei processi e delle condizioni di impoverimento. Tali esperienze hanno prodotto anche una ridefinizione dell’orizzonte culturale di riferimento, che si potrebbero consolidare se anche dal lato istituzionale si riconoscesse l’autonomia delle aree sociali e delle persone impoverite, liberandole dall’ineluttabilità della subalternità riprodotta dalle politiche. Alla cronaca è noto il tema degli sgomberi che spesso poco parla della sofferenza e dell’accanimento che ricevono le persone coinvolte. Negli occhi vi sono ancora i fatti di piazza indipendenza dell’anno scorso in cui circa 100 persone fuggite dalle guerre in Eritrea o dai problemi della Somalia sono stati cacciati con violenza dall’edificio che avevano occupato 4 anni prima. La maggior parte della problematica risiede nella metodologia dello sgombero e del mancato preavviso alle associazioni che lavorano nel quartiere. È stata la persecuzione di persone a cui è stata data la protezione internazionale o lo status di rifugiato per poi essere abbandonati senza l’assegnazione di una casa, di un lavoro o di un corso di lingua come in altri paesi. In questo caso vi è stato un accanimento verso persone che erano state capaci di auto-organizzarsi per allontanarsi dal mondo della criminalità e della droga. Con lo sgombero queste persone hanno perso quella che per loro era diventata casa. Il luogo da cui erano riusciti a ripartire, trovare lavoro e inserirsi nel tessuto sociale. Lo sgombero è solo uno dei casi dei tanti nel territorio romano e che avvengono nei posti più disparati. Spesso questi sono posti abbandonati, lontani dai centri abitati e in condizioni sanitarie terribili. Nota ancora più amara è dovuta al fatto che ogni sgombero costa circa 1256€ a persona con il risultato che in totale si spendono 10 milioni di euro per costringere le persone a spostarsi da una parte all’altra della città. Sono fondi che vengono spesi per disperdere il problema ma non risolverlo con il risultato di infierire su persone che cercano di attivarsi. Tutto ciò è funzionale alla politica perché la politica può sfruttare l’emergenza per far vedere un operato, in questo senso tutto ciò che è temporaneo diventa permanente. A ciò si aggiungono problemi che coinvolgono tutta la popolazione come il fenomeno dei residence per cui il comune spende circa 3000€ di affitto in cui spostare i poveri in veri e propri ghetti o la dinamica dei campi cosiddetti istituzionali o il fatto che molti dei fondi destinati alla questione abitativa non vengono utilizzati.

Nell’ambito dell’educazione “La strage dei poveri continua”, ovvero in Italia l’accesso alla conoscenza (alla cultura, al lavoro, al futuro) continua a rappresentare un grosso problema per tanti bambini e ragazzi che nascono nei quartieri “sbagliati”, ovvero con minori risorse (familiari, economiche, educative e ricreative) a cui attingere. Un dato su tutti: nelle scuole caratterizzate da un indice socioeconomico basso, più di uno studente su quattro finisce per ripetere l’anno, mentre nelle scuole “bene” viene bocciato “soltanto” un alunno su 25. Tra i vari fattori viene in rilievo la canalizzazione formativa strisciante, all’opera su diversi fronti: tra ordini di scuole (i tecnici e i professionali sono caratterizzati da indici socioeconomici significativamente più bassi rispetto ai licei), tra scuole del centro e scuole ai margini, ma anche tra scuole principali e scuole secondarie, e a volte perfino all’interno delle stesse scuole, con la creazione di classi ghetto. Ad oggi, in Italia, non abbiamo ancora una mappa affidabile e dettagliata delle aree “ad alta priorità educativa” sulle quali investire con fondi e programmi ad hoc, come si è cercato di fare con alterni successi in Francia e in altri Paesi europei. Non va dimenticato però lo sforzo e le numerose esperienze di scuole in tutta Italia che dimostrano come rimettere la scuola al centro dei quartieri, soprattutto nei tessuti marginali, senza dover necessariamente attendere rinforzi e grandi investimenti. La scuola diventa così un luogo di istruzione, ma anche un centro di aggregazione, cultura e intercultura, aperto al territorio anche oltre l’orario scolastico.

Un po’ di attenzione va posta al tema del razzismo e della criminalizzazione della povertà. Questo è dovuta ad un’ossessione per la sicurezza che caratterizza la nostra epoca, questa ossessione genera paura e povertà, si sa da dove si incomincia a colpire (immigrati, neri, rom), ma non si sa dove si finisce. Prima o poi anche altre parti di popolazione diventeranno oggetto di quelle politiche di repressione, in cui a prevalere è una sola idea: pulire la città e sterilizzare lo spazio pubblico da tutte quelle presenze ed attività considerate indecorose, allontanando la “brutta gente”, gli appartenenti alle rinnovate classi pericolose. Persone senza tetto, ambulanti, parcheggiatori senza permesso, artisti di strada, persone che chiedono l’elemosina, occupanti di abitazioni, immigrati presenti nello spazio pubblico o ospiti del sistema di accoglienza sono stati costruiti come soggetti problematici per l’ordine pubblico, soggetti da controllare. Il grosso del problema trova ampio spazio quando l’intolleranza spontanea è avallata dalle istituzioni, anzi spesso si viene a incoraggiare un sistema razzismo direttamente o indirettamente incoraggiato dalle istituzioni o dai mezzi di comunicazione. Esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale, se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma anche di chiunque, sia pure individualmente, compia gesti di solidarietà verso profughi e migranti. Possiamo pensare ai messaggi di Grillo agli albori del Movimento 5 stelle in cui definiva “una bomba a tempo” i rom di nazionalità romena e proponeva d’interdire loro la libera circolazione nell’Ue, onde salvaguardare “i sacri confini della Patria”; oppure all’astensione sul moderato disegno di legge per il conferimento della cittadinanza italiana ai minori figli di cittadini stranieri secondo requisiti abbastanza rigidi (decisione che porta all’esclusione dei benefici della cittadinanza di decine di migliaia di bambini e adolescenti: nati e/o cresciuti in Italia, educati e socializzati nel nostro Paese, nondimeno finora destinati a ereditare la condizione dei loro genitori); infine alla già citata campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nell’opera di ricerca e soccorso nel mediterraneo con tanto di locuzione “Taxi del mare”. Occorre però precisare che tutto questo non riguarda tutto il movimento pentastellato ma una sua parte. Nel rapporto 2017-2018 di Amnesty international sulla situazione dei diritti umani in 159 stati del mondo il segretario della Lega Salvini primeggia per la percentuale di frasi xenofobe, basta pensare all’ultima campagna elettorale o comunque al collegamento con ex esponenti della lega e macerata. Tra questi nella storia anche il PD ha avuto un suo ruolo, in un manifesto del 2006 della campagna elettorale di Veltroni viene esibito il messaggio “Le nuove piccole bugie di Alemanno: mentre a Roma sono state spostate in  5 anni 8000 persone dagli insediamenti abusivi e chiusi decine di campi rom; il governo Berlusconi, di cui Alemanno è stato ministro, ha consentito arrivi indiscriminati senza regole e controlli alle frontiere”, con i dovuti aggiustamenti potrebbe essere utilizzato per la campagna elettorale della Meloni.

Il disagio economico e sociale e il senso di abbandonano alimentano il risentimento e la ricerca del capro espiatorio, in questo contesto è ingannevole la formula “guerra tra poveri”. Questa finisce per rappresentare aggressori e aggrediti quali vittime simmetriche; e per fare dei poveri “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista. Probabilmente è ingiusto mettere sullo stesso piano un aggressore che ha una casa, un lavoro e la famiglia vicino a sé con un immigrato che non ha una casa, deve mantenere la famiglia che sta in Africa e magari ha appena perso il lavoro. È altrettanto ingiusto dire che non ci sono altri attori al di fuori di vittima e carnefice visto che a deviare il rancore collettivo sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso il circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento, comunque la legittimazione, per quanto implicita o involontaria, della destra neofascista e neonazista. Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, contiguo a quello che s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado. Tali antitesi abbondano nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n.48 (“disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”): non fa che tradurre e legittimare la percezione comune per la quale migranti, rifugiati, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati “fuori norma”. In realtà questo è il prodotto di dinamiche tutte interne alla nostra società: sono cioè le discriminazioni nel mercato del lavoro e dell’alloggio, le politiche di esclusione e di confinamento, le retoriche del decoro urbano e della sicurezza, nonché il progressivo smantellamento di politiche sociali di inclusione, ad alimentare la povertà di questi segmenti del corpo sociale. Inoltre, a chi viene sgomberato o subisce il sequestro della merce o dell’attrezzatura per lavorare come ambulante quale possibilità diversa gli viene proposta? Nessuna. Ai processi di impoverimento si risponde da anni con polizia, vigili urbani e retoriche securitarie. Nei discorsi pubblici e dell’azione politica ed amministrativa sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia. È rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza, la quale costruisce una strada senza uscita, che, in un circolo vizioso, chiede sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, all’infinito. Con tutta questa retorica ci dimentichiamo che al di là dei dati ci sono le persone. In tutto questo discorso ci sono persone che vivono emarginate nei campi ma che riescono a trovare associazioni che riescono a inserirle nel tessuto sociale. Sono persone con sogni e desideri, che hanno voglia di vivere e conoscere o che semplicemente hanno voglia di viaggiare ma non possono farlo perché, pur avendo vissuto e lavorato tutta la vita in Italia, non hanno un passaporto. Vi sono altre persone che invece hanno attraversato un continente per scappare dall’inferno, per passare attraverso un inferno d’acqua e fondamentalmente trovare un inferno fatto di esclusione e abbandono. Vi sono anche le persone anziane che rimaste sole richiedono veri spazi per la socialità in modo da non essere dimenticate. Vi sono anche quelle persone che hanno perso il lavoro e non riescono a pagare un affitto, vi è anche chi per questo diviene un senza dimora. Infine, va ricordato che vi sono molte altre persone e tra tutte queste vi sono molti giovani. C’è da dire che questi sono solo alcuni dei temi e dei problemi da cui si è partito per parlare della povertà urbana ed elaborare il documento finale.

Danilo Garcia Di Meo “Tor bella monaca”

Tor bella monaca e il lavoro di Associazione 21 luglio

Nei nostri giornali, online o cartacei, spesso vediamo la diffusione di stereotipi o di storie gonfiate solamente per poter vendere i propri giornali. A pagare sono i nostri quartieri o quelli che possiamo chiamare working class district, quartieri (chi più e chi meno) come Garbatella, Tufello, Tor bella monaca, San Lorenzo, Tor sapienza, Centocelle, Casal Bertone, Portonaccio, Pigneto, Spinaceto e Primavalle. Spesso vediamo delle narrazioni che creano una paranoia isterica e una realtà falsata. Come se, una volta parcheggiato a Tor bella monaca, la mia macchina dovesse esplodere come in un film di Michael Bay: un’esplosione esagerata e senza senso. Oppure come se fosse vera la frase “giro col coltello quando giro per il Tufello”, come se superando una linea immaginaria ci sia li pronto qualcuno esclusivamente per noi. Oppure come quando abbiamo letto sui giornali di una Ostia in rivolta o messa a ferro e fuoco, ma poi basta sentire chi ci abita per sapere che non c’è nulla di quello che è stato scritto. Sono tutte narrazioni che creano una specie di stigma sulle persone che quotidianamente vivono il quartiere. Certo ogni quartiere ne viene colpito in maniera differente e sicuramente non vuol dire che ogni quartiere è privo di problemi. Occorre ricordare come però narrazioni del genere vanno a colpire in maniera più forte quei quartieri e quelle persone più in difficoltà. Per esempio, molti ragazzi, se vogliono trovare lavoro devono mentire sulla propria provenienza se vogliono trovare un lavoro fuori dal proprio quartiere. Inoltre, alcuni quartieri spesso vengono visitati solo per gettare la spazzatura, una dinamica innescata da un’informazione che ha narrato di luoghi franchi, privi di ogni regola. Occorre altrettanto ricordare che esistono esperienze che riqualificano il quartiere e riconnettono il tessuto sociale, che esistono intere comunità che aiuta la gente che soffre per strada e chi ha sogni senza troppe illusioni. Esistono racconti virtuosi che dovrebbero essere presi come spunti di riflessione e che dovrebbero essere il centro di “contro-narrazioni” che partono innanzitutto dal basso. Questo perché spesso siamo noi stessi ad attizzare il focolare della narrazione. Per esempio, Tor bella monaca sembra un luogo a sé stante in cui emerge una strategia della sopravvivenza in risposta alla latitanza istituzionale, che si percepisce alla vista e si ascolta nei racconti dei suoi abitanti: “Le persone possono vivere senza Stato, e Tor bella monaca ne è la dimostrazione”.

Nel contesto di Tor bella monaca opera ogni giorno Associazione 21 luglio, un’organizzazione non profit impegnata nel supportare gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo il benessere di bambine e bambini. Il lavoro vede un approccio basato sui diritti fondamentali di ogni essere umano riconosciuti dalla comunità internazionale per opporsi a tutte quelle politiche e azioni discriminatorie che promuovono nelle periferie il rifiuto verso la diversità, la povertà urbana e la segregazione abitativa. L’associazione svolge azione di advocacy per promuovere il cambiamento delle misure politiche che producono segregazione e discriminazione, presenta rapporti e ricerche ai decisori politici, stila raccomandazioni, diffonde lettere e appelli pubblici, redige rapporti per la Commissione Europea e per le nazioni unite, crea reti locali e radicate sul territorio, intraprende azioni legali pilota di fronte alla violazione dei diritti umani e dell’infanzia e monitora casi di incitamento all’odio e alla discriminazione ed episodi violenti a sfondo razziale ricorrendo anche all’autorità giudiziaria nei casi più gravi. Le attività dell’associazione passano anche per la sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani e di promozione di modelli ed esperienze positive in grado di decostruire pregiudizi e stereotipi diffusi su quanti vivono in uno stato di marginalità. Al centro di tutto vi è il benessere dei minori, l’associazione implementa progetti di sostegno all’infanzia operando una scelta privilegiata sui bambini e promuovendo interventi che partono dall’infanzia per estendersi alle famiglie e a tutta la comunità educante. L’associazione segue il metodo della “pedagogia della cittadinanza” in cui gli educatori di Associazione 21 luglio realizzano e animano spazi ludici e laboratori artistici che mirano alla crescita personale e sociale delle bambine e dei bambini. L’associazione ha molti progetti, tra cui: Amarò foro, Bambini al centro, Toy – togheter old and young, Tor bella infanzia, Casa Sar san, Corso di formazione per attivisti Rom e Sinti, Lab Rom e Danzare la vita.

Il mondo della politica e il futuro

Il comitato scientifico ha lavorato giorno e notte per stilare il documento strategico tenendo conto delle relazioni, dei dibatti e delle discussioni dei gruppi di lavoro intercorsi nei giorni della convention. Ogni gruppo (abitare, educazione, media, povertà estreme) ha lavorato e approfondito la propria tematica da inserire nel documento e proporre azioni concrete. Nel corso della convention si sono alternati diversi esponenti della politica.

Matteo Orfini, deputato e presidente del Partito Democratico, ha dichiarato che stiamo assistendo alla proletarizzazione di fasce della città. Secondo Orfini possiamo vedere l’esistenza di due città: una dentro il raccordo e una fuori al raccordo. Il presidente del PD ha voluto sottolineare come questo sia l’effetto delle scelte di chi ha gestito la città e di come si è voluto sviluppare la città nel corso delle varie amministrazioni. Orfini ha messo in evidenza come, nel nostro paese, sia sparito il tema della città da almeno 20 anni. “Occorre pensare la città non solo come Urbs ma anche come Civitas; noi come politica ci siamo occupati solo della prima ma ora occorre pensare la città come un fattore inclusivo e non di esclusione” sono state le parole di Orfini. Ha poi aggiunto che occorre dare luoghi e strumenti che facciano da primo argine alla disgregazione cittadina, che occorre aiutare la cintura periferica dato che spesso sono i luoghi da cui provengono le maggiori innovazioni.

Marta Bonafoni, consigliere regionale eletta con Lista civica per Zingaretti, ha portato i saluti del presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti dicendo che la convention è l’occasione per “entrare nelle questioni del 4 marzo e del pre 4 marzo per un dopo 4 marzo”. La Bonafoni sottolinea come sia l’occasione per entrare in una crisi poco indagata: “la crisi della città”. Roma non è più la città dell’accoglienza e serve pensare una nuova accoglienza, inoltre ci si ammala di più e si muore di più nelle periferie. Infine, la Bonafoni, allerta che occorre riflettere anche sulla scuola poiché, sempre di più, la scuola non è più un “ascensore sociale”.

Paolo Ciani, consigliere regionale eletto con Centro solidale per Zingaretti, è intervenuto dicendo che è una scelta mettere i confini al centro. Il consigliere ha notato che la pacificazione degli ultimi decenni ha portato al superamento di molti dei confini geografici ma oggi un altro tipo di confine è tornato al centro del dibattito. Spesso si parla di periferia ma non la si conosce e ciò non aiuta a ragionare sulla giustizia urbana, questa è la sfida dei nostri tempi. Ad oggi la popolazione urbana nel mondo ha superato la popolazione rurale e possiamo vedere come si stia sviluppando il fenomeno delle megalopoli. Il tema della vita al confine e nei confini è la sfida del nostro tempo, è la sfida del “vivere insieme tra diversi” in un’epoca che parla di separazione e di frontiera. Deleterio a questo proposito è stata la propaganda del “noi” e del “voi” di cui spesso ha fatto uso la lega (ex nord) che prima diceva “noi il nord” e “voi il sud” (con tanto di “Roma ladrona”) che poi si è trasformato in “noi italiani” e “voi immigrati”; una retorica che ha deteriorato le periferie.

La convention si è conclusa con la presentazione del documento strategico per il contrasto alla povertà urbana in Italia a Lorenzo Fioramonti, deputato del Movimento 5 stelle e possibile ministro del prossimo governo. Fioramonti, cresciuto a Tor bella monaca e di ritorno dopo anni all’estero, dice di essere fautore di un approccio alla povertà che si renda conto dei diversi tipi di povertà. Il deputato sottolinea l’importanza delle forme associative in un contesto che è peggiorato rispetto ad anni fa. La situazione è critica e servono misure strutturali ma le strutture hanno bisogno di tempo per cambiare e il tempo della politica è breve. Soprattutto perché occorre tenere conto della pressione pubblica. Per Fioramonti quindi occorre fare politiche strutturali ma con elementi che rispondano nel breve per poter migliorare un pezzo per volta e istituire fiducia in un progetto che ha bisogno di tempo. Il deputato ha sottolineato che troppo spesso si ha un problema centro-periferia, di quartieri in cui c’è tutto e quartieri che sono solo residenziali. Occorre fare delle periferie un centro, ogni periferia deve essere il centro di una nuova economia. Evidenzia che di certo la povertà non è una colpa ma è una realtà. Per questo Fioramonti dichiara che attende la pubblicazione documento e che spera di utilizzarlo al governo in quanto il documento strategico è in linea con le proprie intenzioni.

Da questa convention parte una campagna da parte dell’Associazione 21 luglio che entrerà nel vivo con la pubblicazione del documento. In un clima in cui molte associazioni hanno espresso molte perplessità e incertezze rispetto ai risultati del 4 marzo, basti pensare comunque ai toni dell’ultima campagna elettorale, Associazione 21 luglio si è aperta al dialogo e alla propositività. Al di là delle varie dichiarazioni politiche è importante notare e incoraggiare ulteriormente eventi come questo che hanno visto il mondo dell’università, il mondo delle istituzioni (in tutti suoi modi e livelli), il mondo delle associazioni di volontariato attive sul territorio ma soprattutto persone e cittadini incontrarsi, discutere e collaborare per un’azione concreta volta a riportare la giustizia sociale. È la rinascita di un fare politica che supera odio e stereotipi e di un voler essere comunità. Questa è la rinascita di una comunità che vuole vedere l’altro uomo in quanto uomo, di vedere l’altro non come un cuore marziano ma come appartenente allo stesso universo.

 

Rainer Maria Baratti
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