GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Rainer Maria Baratti - page 2

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Libia: Serraj dichiara lo stato d’emergenza

MEDIO ORIENTE di

Nel febbraio 2011 assistemmo alle cosiddette “Primavere arabe” che con sé portarono le notizie delle manifestazioni contro Gheddafi. In quei momenti turbolenti si assistette alla defezione dell’esercito a Bengasi e alla morte di molti civili e di uomini delle forze libiche. All’epoca il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) prevedeva l’imminente caduta del governo, la successiva fuga dei civili verso l’Italia o malta e riportava che la popolazione ad est delle Libia era particolarmente inferocita. Vi era un clima di sfiducia generale e gli schieramenti in campo vedevano gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra spingere per un intervento armato mentre l’Italia cercava di mantenere un atteggiamento più ambiguo in virtù dei pesanti interessi nella zona. Tra questi quella che si poteva muovere più liberamente era la Francia poiché i propri interessi energetici, rappresentati dalla Total, erano meno vasti rispetto a quelli italiani, rappresentati dall’ENI. Vari report Statunitensi riportavano la voce che Gheddafi aveva spostato 143 tonnellate d’oro che sarebbero serviti per la moneta panafricana in sostituzione del franco francese nelle nazioni francofone. Questa voce non trovò mai una conferma e il solo fatto di essere riportata segnala il clima generale di sfiducia. L’interesse della Clinton, oltre che a dimostrare la forza degli USA nello scenario internazionale, consisteva nel poter portare a casa una vittoria in vista di future elezioni. Mentre a sostegno dell’intervento della Gran Bretagna vi era il ricordo della strage di Lockerbie dove morirono 270 persone  e che si scopri nel 1991 essere stato eseguito per conto del governo libico. Gli USA però vedevano molte criticità nel nostro paese sia per la vicinanza a Gheddafi che per i consistenti interessi economici. Gli USA vedevano delle criticità nel nostro paese per la vicinanza a Gheddafi e per gli interessi commerciali mentre il primo a muoversi fu la Francia del presidente Sarkozy. Alla base dell’intervento vi erano molti interessi di politica interna delle nazioni in campo e ciò portò a una estate di sangue che vide la fine in diretta di un dittatore.

     Tutto questo ha portato a un periodo di caos che a 7 anni dalla caduta del regime di Gheddafi vede Tripoli bruciare e il governo di Serraj dichiarare lo stato di emergenza. La Libia è profondamente segnata dalla sua natura tribale e il comando del colonnello Gheddafi prevedeva la prevalenza della propria tribù a scapito delle altre. In questo caso la confederazione tribale favorita era orientata geograficamente sulla Tripolitania, contro il fronte tribale della Cirenaica a est (la distinzione è assolutamente indicativa). La regione a est è importantissima per quanto riguarda lo scacchiere energetico in quanto è dove sono situate la maggior parte delle risorse petrolifere e gasifere libiche. È importante anche per il fattore agricolo in quanto il World food programme per il dopo Gheddafi aveva previsto assistenza in questa zona. La forte identità tribale porta instabilità e la guerra ha fatto cadere l’equilibrio tribale a cui i vertici dello stato c’era Gheddafi e ha fatto sorgere diversi centri di potere. Prima l’equilibrio era assicurato da un vincolo di fedeltà tra diversi capi tribù verso Gheddafi grazie ad aspetti economici e coercizione.

   Ad oggi la missione UNSMIL richiede il cessate il fuoco e sulla base delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza invita a mediare tra le varie parti libiche per trovare un accordo. Il presidente libico Serraj ha deciso di chiedere aiuto alla milizia di Misurata e alle forze antiterrorismo per proteggere il suo governo mentre circa 400 tra detenuti e migranti sono evasi dopo una rivolta nel centro di detenzione di Ain Zara, in un sobborgo meridionale della capitale libica. In campo vi è la Settima Brigata che si è resa autonoma dal Governo di accordo nazionale di Sarraj e ha attaccato le altre milizie armate, accusate di corruzione. A fronteggiarla sono una serie di brigate che formano unità speciali dei ministeri dell’Interno e della Difesa del governo di Sarraj: le Brigate Rivoluzionarie di Tripoli, la Forza speciale di Dissuasione (Rada), la Brigata Abu Selim e la Brigata Nawasi, che ricevono finanziamenti dall’Ue. Recentemente il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha prolungato l’embargo sulle armi poiché questi gruppi continuano a combattere e gettare caos nel paese ma paesi come la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto forniscono supporto militare e di altro tipo all’Lna.

Il contrabbando di Sigarette: un fenomeno transnazionale

EUROPA di

Il 13 luglio al Centro studi americani, a Roma, è stato presentato lo studio integrato sul contrabbando di sigarette in Italia realizzato da Intellegit, start-up sulla sicurezza dell’Università degli studi di Trento, e con il contributo di British American Tobacco Italia (BAT Italia).

     La narrativa vede nascere il contrabbando internazionale con il soggiorno forzato a Napoli di Lucky Luciano che durante la Seconda guerra mondiale fa superare la dimensione locale al fenomeno di contrabbando camorrista. La storia successiva vede Napoli come centro del contrabbando negli anni ’70 e ’80. Successivamente l’attenzione si sposta dal tirreno all’adriatico per utilizzare le rotte esistenti, anche quelle del traffico umano. La modalità era di tipo extraispettivo, ovvero evitando di assoggettare la merce ai vincoli doganali, ma negli ultimi anni si è avuta una evoluzione di tipo intraspettiva: si sottopone la merce ai prescritti vincoli, ma effettuando manovre fraudolente tali da indurre in errore gli organi preposti all’accertamento sulla natura, quantità, qualità o destinazione della merce come, per esempio, con la presentazione di documenti falsi. Ad oggi i flussi via container partono dalla Cina e passano per la Grecia, mentre via terra seguono la rotta dell’est. La Sicilia è interessata dalla rotta del nord africa, specialmente attraverso la Tunisia, con piccole imbarcazioni o dentro autovetture sui traghetti. La Grecia è uno dei principali hub di transito delle sigarette illecite verso l’Italia, con i carichi di sigarette (sia di grandi che di piccole dimensioni) provenienti solitamente dai porti di Patrasso e del Pireo che raggiungono il nostro Paese specialmente tramite i porti di Ancona, Taranto e Bari. La maggior parte delle sigarette illecite in Grecia nel 2016 (quasi 4 miliardi in totale) è costituita da illicit whites o da pacchetti contrassegnati dalla dicitura del canale duty free. Prin­cipalmente provengono dall’Est Europa o dai Balcani (specialmente da Ucraina, Repubblica di Macedonia, Albania e Bulgaria), dall’Asia (Cina, Vietnam, Filippine), Egitto, Cipro e Turchia: spesso le spedizioni giungono in Grecia dopo aver transitato in zone di libero scambio (ad esempio Jebel Ali negli Emirati Arabi o Port Klang in Malesia). In Europa l’incidenza del consumo illecito varia molto da Stato a Stato. Nel 2016, in testa troviamo la Lettonia con più di 22 sigarette illecite ogni 100 fumate (anche se in calo rispetto al 2015). In coda Portogallo e Danimarca, dove sono illecite circa il 2% delle sigarette fumate. L’Italia si posiziona al 19° posto con 5,8 sigarette illecite ogni 100, incidenza invariata rispetto all’anno precedente ed inferiore a quella della gran parte degli altri Stati europei. Una delle principali leve del contrabbando si può identificare nella grande variabilità dei prezzi di vendita tra i vari Paesi: si passa infatti da prezzi inferiori o uguali ai 0,60 € in Bielorussia, Moldavia e Ucraina agli oltre 10 € in Norvegia e Irlanda. Il contrabbando è particolarmente radicato in alcune aree del Paese, specialmente al sud. La città più impattata è Napoli (1 pacchetto su 4 è di origine non domestica). Al secondo posto Trieste, principalmente a causa della vicinanza con il confine con la Slovenia, dove un pacchetto costa in media 1,25 € in meno rispetto all’Italia. A seguire Salerno (13,6%), Palermo (11,2%) e Messina (9%). La prima città del nord, ad esclusione di Trieste, è Milano (4,6%, con un trend in aumento). Da un’analisi dei soggetti coinvolti si nota un numero elevato di nazionalità sia di chi opera nell’offerta, sia di chi fa parte della domanda. Dal lato della domanda Filippo Spiezia, vicepresidente Eurojust, fa notare che i moti migratori offrono nuove opportunità poiché le condizioni di povertà fanno sì che per soddisfare il proprio bisogno di sigarette sia soddisfatto con le sigarette da contrabbando. Spiezia fa poi notare che Eurojust sta spostando sforzi e risorse su scenari operativi ma che servirebbe un rafforzamento del budget. Per fare ciò è necessario un appoggio politico anche da parte del nostro ministero della giustizia.

     Uno dei problemi che emerge è quello delle Illicit Whites e su cosa fare. Su questo punto di vista il primo problema consiste nel fatto che non vi è accordo sulla definizione e su cosa siano, quindi diventa difficile trovare una soluzione. La ricerca vuole dare una mappatura, che non esisteva, delle Illicit Whites e costruire una banca dati. Questo viene offerto come strumento di operatività. Le definizioni di illicit whites ad oggi presenti a livello nazionale, europeo e internazionale sono molto diverse tra di loro e non esiste nemmeno convergenza sulla terminologia da utilizzare (in alcuni casi si parla infatti di cheap whites). È auspicabile l’adozione di un approccio più strutturato nell’elaborazione di una definizione condivisa, che preveda un confronto tra istituzioni pubbliche, industrie private ed esperti del settore e che includa una definizione sufficientemen­te ampia da comprendere anche tutte le anomalie esistenti. Questo infatti, consentirebbe alle autorità e ai soggetti deputati di porre in essere una più efficace strategia di controllo, attraverso un intervento mirato che muova da una interpretazione univoca del fenomeno e delle basi su cui poggia. Nel rapporto sono stati catalogati, per la prima volta, i marchi di illicit whites rilevati sul mercato illecito italiano nel corso del 2017 riportando, per ciascun marchio, informazioni riguardo il pacchetto, come, ove disponibili, il produttore, il proprietario del marchio, eventuali varianti riscontrate, le città di vendita e il corrispettivo prezzo nel mercato illecito, la quota di mercato e l’eventuale presenza del tassello fiscale o dell’indicazione del canale duty free. Utile per agevo­lare la catalogazione (e dunque l’identificazione) delle illicit whites, sarebbe la creazione di un database condiviso e alimentato, a livello nazionale e sovranazionale dai diversi soggetti coinvolti, secondo regole condivise e che riporti, per ciascun marchio, dati, informazioni e annotazioni di rilievo. Le illicit whites costituiscono una fetta rilevante delle sigarette illecite in molti Stati europei. L’incidenza varia però molto da Stato a Stato: nel 2016 in Italia è stata particolarmente significativa (circa il 60% del totale delle sigarette illecite), con un deciso aumento rispetto all’anno precedente. Dall’incrocio dei dati a disposizione emerge inoltre come nel nostro Paese si consumino più sigarette contrabbandate che contraffatte, le quali sono in costante calo dall’inizio del 2016. Al sud si riscontra un consumo maggiore di illicit whites rispetto al nord. In testa Palermo (quasi il 70% del totale delle sigarette non domestiche), Napoli (59,5%), Catania (55,6%) e Messina (53,9%). La prima città del nord è Modena (50%). In Grecia il consumo di sigarette illecite è diffuso nel territorio in modo molto più uniforme rispetto a quanto non av­viene in Italia. I marchi noti principalmente presenti nel mercato illecito presenti sono Marlboro, Cooper, GR, Winston e Pall Mall. Tra le illicit whites, invece, i più diffusi sono Royal, Gold Mount, President, RGD e Raquel. Da sottolineare come, nel mercato illecito greco, vi sia una sostanziale omogeneità dei prezzi di vendita: indifferentemente dal marchio e dal fatto che si tratti di marchi noti o illicit whites, infatti, il prezzo è sempre fissato a 1,5 €.

     Carlo Sibilia, sottosegretario di Stato al ministero degli interni, ha dichiarato che questa si tratta di una possibilità importante per la politica e per poter passare da una trattazione folkloristica della Campania e del contrabbando a una trattazione fatta di dati. Secondo il sottosegretario è importante che ciò venga messo a disposizione del pubblico e delle start-up, analisi del genere contribuirebbero ad ottimizzare le forze in campo. Sibilia fa riferimento al fatto che occorre rinforzare e svegliare nel tempo le forze dell’ordine e che nel frattempo occorre utilizzare la tecnologia per poter far fruttare le risorse esigue. Occorre quindi che la politica investa sulle nuove tecnologie per spostare e concentrare risorse dove servono. Il sottosegretario ha dichiarato che vorrebbe proporre una collaborazione tra ministero degli interni e ministero per lo sviluppo economico per affrontare il tema delle Illicit Whites che vedono un consumo in Italia del 5,8% e che è destinato ad aumentare. Al momento di stima una perdita di 809 milioni euro. Sibilia ha concluso sottolineando come il fenomeno del contrabbando è collegato ad altri fenomeni come la tratta di esseri umani, il traffico di droghe e il terrorismo e ha detto che occorre “trasformare la scienza in sicurezza”.

     Il fenomeno del contrabbando rappresenta diversi problemi che vedono un minore introito della fiscalità generale e quindi del finanziamento del sistema sanitario, rischi per la salute stessa del consumatore, distorsioni sul piano della concorrenza e, infine, la problematica che vede i cospicui profitti come finanziamento delle mafie e dei gruppi armati. È l’aspetto più inquietante di questo traffico, già dopo gli attentati che hanno insanguinato Parigi nel 2015 gli esperti hanno messo in guardia sul fatto che molti dei terroristi avevano legami con la microcriminalità dedita allo spaccio di falsi e sigarette di contrabbando, e a volte erano essi stessi spacciatori. Una recente inchiesta della storica trasmissione di approfondimento Plusminus della Tv tedesca ARD ha rivelato come anche in Germania il contrabbando di sigarette sia nel mirino dell’Isis e di Al-Qaida. La guardia di finanza per contrastare il fenomeno da tempo svolge analisi di tipo strategico, di tipo tattico e di tipo operativo che vedono l’apporto della componente aeronavale, di unità cinefile e il controllo di porti ed aeroporti. Nella lotta al contrabbando è importante la cooperazione internazionale che deve passare attraverso la cooperazione amministrativa, di polizia, di intelligence e giudiziaria. Altro fattore importante da sottolineare è che da una parte il contrabbando è socialmente accettato poiché viene visto solo come un problema fiscale, dall’altra vi sono pene lievi. I rischi bassi e grossi guadagni potenziali portano l’enorme attenzione e convenienza per le mafie. Aspetti importanti quindi risultano la necessità di omogeneità tecnologica e un coordinamento con una banca dati sovrannazionale. Gli strumenti che si possono utilizzare sono il protocollo dell’OMS sul tabagismo che prevede norme sulla tracciabilità delle sostanze, il protocollo normativo che entrerà in vigore con una direttiva europea nel 2019 e le nuove disposizioni doganali. Tutto ciò serve per migliorare l’analisi del rischio e controllare i mercati anche attraverso una piattaforma elettronica. Importante è avere in futuro una armonizzazione dal punto di vista fiscale tra paesi in modo che non ci sia un incentivo al contrabbando per i differenziali dei prezzi delle sigarette.

     Ad introdurre la giornata di lavori è stato il Sottosegretario di Stato agli Interni On. Carlo Sibilia. Presenti all’appuntamento, moderato dal giornalista Marco Ludovico, oltre ai curatori dell’indagine anche Filippo Spiezia (Vice Presidente di Eurojust), Elisabetta Poso (Direttore ufficio analisi e strategie di controllo dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli), Luigi Vinciguerra (Capo Ufficio Tutela Entrate del III° Reparto Operazioni del Comando Generale della Guardia di Finanza), Eirini Gialouri (Direttore Generale del Dipartimento Dogane e Accise del Ministero dell’Economia della Repubblica Ellenica), Claudio Bergonzi (Segretario Generale di Indicam) e Paolo Messa, Direttore del Centro Studi Americani, che ha aperto i lavori. La ricerca è stata elaborata con la sinergia di Intellegit, start-up sulla sicurezza dell’Università degli studi di Trento, e di British American Tobacco Italia (BAT Italia). L’università degli studi di Treno nasce dai ricercatori e ha la volontà di coniugare ricercatori e imprenditori di capacità per produrre conoscenza che sia utile, pratica e trasmissibile alla società per cambiare il modo di operare. Con questo intento ha dato vita alla start-up Intellegit, un gruppo di ricercatori che lasciano l’approccio “disciplinare” per avere un approccio “trasversale” che vede un coro composto da criminologi, sociologi, giuristi, economisti, matematici e statistici per affrontare il tema della sicurezza. Il significato dello studio non vuole partire dalla scienza bensì dai problemi per creare una soluzione che vede la sintesi della ricerca di impresa, della ricerca universitaria e della ricerca istituzionale per fenomeni complessi e globali. La stessa ricerca parte da quattro idee: integrare i dati pubblici e privati, analisi geografica (dati italiani e transnazionali con focus sulla rotta Grecia-Italia), analisi di rischio e strumenti operativi.

Crimini di guerra nello Yemen Meridionale, sparizioni e torture nei centri di detenzione

MEDIO ORIENTE di

Nello Yemen meridionale vige ancora un sistema impunito di sparizioni forzate e torture, questa è la denuncia del nuovo rapporto di Amnesty International intitolato “Se è ancora vivo lo sa solo Dio”. Ad essere coinvolti sono decine di uomini arrestati dalle forze degli Emirati Arabi Uniti e forze locali che agiscono fuori dal controllo del governo yemenita. Molti sono stati torturati e si teme che alcuni siano morti durante la detenzione. Amnesty International ha svolto ricerche su 51 uomini arrestati da tali forze tra marzo 2016 e maggio 2018 nelle provincie di Aden, Lahj, Abyan, Hadramawt e Shabwa. Molti di essi hanno trascorso periodi di sparizione forzata e 19 di essi risultano tuttora scomparsi. Per la stesura del suo rapporto, l’organizzazione per i diritti umani ha intervistato 75 persone, tra le quali ex detenuti, parenti di persone scomparse, attivisti e rappresentanti del governo.

     Le famiglie dei detenuti stanno vivendo un incubo senza fine in cui ad ogni richiesta di informazione la risposta consiste nel silenzio o nelle intimidazioni. Madri, mogli e sorelle degli scomparsi svolgono regolari proteste da quasi due anni lungo un percorso che vede gli uffici governativi e della procura, le sedi dei servizi di sicurezza, le prigioni, le basi della coalizione a guida saudita e vari altri luoghi per presentare denunce relative ai loro cari. Le stesse famiglie hanno riferito di essere state avvicinate da persone che le hanno avvisate della morte in carcere di un loro parente, però quando sono andate a chiedere conferma alle forze yemenite sostenute dagli emirati queste hanno negato tutto. I familiari vivono nell’incertezza e nel dubbio che i loro cari siano ancora vivi, le parole della sorella di un uomo arrestato ad Aden alla fine del 2016 sono: “Non abbiamo la minima idea di dove sia, se è ancora vivo lo sa solo Dio. Nostro padre è morto d’infarto un mese fa, senza sapere dove fosse suo figlio. Vogliamo solo sapere che fine ha fatto nostro fratello, sentire la sua voce, sapere dove di trova. Se ha fatto qualcosa, non c’è un tribunale per processarlo? Almeno lo portassero a processo, almeno ce lo facessero visitare. Che senso hanno i tribunali allora? Perché li fanno sparire in questo modo?”. Nelle prigioni gestite dalle forze emiratine e yemenite vi è un uso massiccio dei maltrattamenti e della tortura. Detenuti ed ex detenuti hanno riferito di scariche elettriche, pestaggi e violenze sessuali, uno di questi inoltre ha visto un compagno di prigionia venir portato via in un sacco da cadavere dopo essere stato ripetutamente torturato. Un altro ex detenuto ha raccontato che i soldati degli Emirati di stanza nella base di Aden gli hanno inserito più volte un oggetto nell’ano, fino a farlo sanguinare e lo hanno tenuto in una buca nel terreno con la sola testa fuori dalla superficie, lasciandolo defecare e urinare in quel modo. Un altro caso ancora vede un uomo arrestato nella sua abitazione e rilasciato ore dopo con visibili segni di tortura per poi morire dopo il ricovero in ospedale. Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per la risposta alle crisi, ha commentato la situazione dicendo che “Gli Emirati, col loro modo di operate nell’ombra, hanno creato nello Yemen meridionale una sorta di struttura di sicurezza al di fuori della legge che compie gravi violazioni dei diritti umani senza pagarne le conseguenze”. La mancanza di un sistema cui rendere conto rende ancora più difficile alle famiglie contestare la legalità della detenzione dei loro congiunti. Anche quando alcuni magistrati yemeniti hanno cercato di prendere il controllo su alcune prigioni, i loro tentativi sono stati del tutto ignorati dalle forze degli Emirati e in diverse occasioni i loro provvedimenti di rilascio di detenuti sono stati ritardati”.

     Da quando, nel marzo 2015, hanno aderito alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, gli Emirati hanno creato, addestrato, equipaggiato e finanziato varie forze di sicurezza locali, tra cui la Cintura di sicurezza e la Forza di élite, e costruito alleanze con singoli responsabili della sicurezza yemeniti, aggirando il governo locale. Da allora sono un alleato chiave della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che dal marzo 2015 prende parte al conflitto armato dello Yemen. Il loro ruolo nella creazione della Cintura di sicurezza e delle Forze di élite ha ufficialmente l’obiettivo di combattere il terrorismo, dando la caccia ai membri di al-Qaeda nella Penisola araba e del gruppo denominatosi Stato islamico.  Però molti degli arresti sembrano basati su sospetti infondati poiché tra le persone prese di mira figurano coloro che hanno espresso critiche nei confronti della coalizione a guida saudita e dell’operato delle forze di sicurezza appoggiate dagli Emirati, nonché leader locali, attivisti, giornalisti e simpatizzanti e militanti del partito al-Islah, sezione yemenita della Fratellanza musulmana. Queste denunce non sono nuove e Tawakkol Karman, premio nobel e attivista yemenita esule in Turchia, ha dichiarato che una sfida importante per gli attivisti è rappresentata dai regimi repressivi che hanno un ruolo importante nel diffamarli a livello nazionale e internazionale. In contesti ostili, gli attivisti spesso vengono identificati come coloro che seguono istruzioni da altri paesi per cospirare contro il proprio paese e vengono accusati di terrorismo, con questa scusa sono soggetti ad abusi, torture e sparizioni forzate. Risultano colpiti anche i parenti di presunti membri di al-Qaeda e dello Stato islamico così come persone che inizialmente avevano aiutato la coalizione a guida saudita contro gli huthi e che adesso sono viste con sospetto. Secondo testimonianze oculari, gli arresti avvengono in mezzo alla strada, sul posto di lavoro, durante terrificanti raid notturni nelle abitazioni e sono condotti da persone dal volto travisato e pesantemente armati noti come “quelli mascherati”. Gli arrestati vengono talvolta picchiati sul posto fino a perdere conoscenza. Gli Emirati negano costantemente di essere coinvolti in pratiche detentive illegali, nonostante ogni prova dimostri il contrario. Il governo yemenita ha dichiarato a un panel di esperti delle Nazioni Unite di non avere il controllo sulle forze di sicurezza addestrate e sostenute dagli Emirati. “Queste violazioni, che si verificano nel contesto del conflitto armato dello Yemen, dovrebbero essere indagate come crimini di guerra. Sia il governo dello Yemen che quello degli Emirati dovrebbero prendere misure immediate per porvi fine e per dare risposte alle famiglie degli scomparsi. I partner degli Emirati nella lotta al terrorismo, tra cui gli Usa, dovrebbero prendere una chiara posizione sulle denunce di tortura, indagando anche sul ruolo del personale statunitense nelle violazioni che hanno luogo nei centri di detenzione yemeniti e rifiutando di utilizzare informazioni estorte con ogni probabilità mediante maltrattamenti e torture”, ha concluso Hassan.

Mappa dei centri di detenzione

La guerra in Yemen e l’Italia

     Lo Yemen è una realtà di cui spesso si tace, è una realtà che vive la più grande catastrofe umanitaria della storia. Lo Yemen è una realtà che vive di carestia, di colera, di malattia, di scarsità di acqua, di scarsità di farmaci, di mancanza di servizi sanitari e di base. Lo Yemen è una realtà in cui muoiono giornalmente bambini, uomini e donne sia per la guerra, sia per le malattie, sia perché spesso viene impedito ai soccorsi di arrivare nelle zone di emergenze. Tutte le parti impegnate nel conflitto armato in corso hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale, in un contesto in cui mancavano strumenti adeguati di accertamento delle responsabilità in grado di assicurare giustizia e riparazione per le vittime. La coalizione a guida saudita, intervenuta a sostegno del governo dello Yemen internazionalmente riconosciuto, ha continuato a bombardare infrastrutture civili e a compiere attacchi indiscriminati, uccidendo e ferendo i civili. Le forze dell’alleanza militare formata dagli Huthi e dalle truppe vicine all’ex presidente Saleh (huthi-Saleh) hanno bombardato indiscriminatamente aree abitate da civili nella città di Ta’iz e lanciato attacchi indiscriminati di artiglieria pesante ol­tre il confine con l’Arabia Saudita, provocando morti e feriti tra i civili. In questo contesto di violenza generalizzata le donne e le ragazze hanno continuato ad affrontare una radicata discriminazione e altri abusi, come matrimoni forzati e precoci e violenza domestica. Le divisioni interne allo Yemen e la frammentazione del controllo sul territorio sono diventate ancor più radicate con il protrarsi del conflitto armato. Le autorità dell’alleanza huthi-Saleh hanno mantenuto il controllo su vaste aree del paese, compresa la capitale Sana’a, mentre il governo del presidente Hadi controllava ufficialmente il sud del paese, compresi i gover­natorati di Lahj e Aden. Da sottolineare è il decesso di Ali Abdullah Saleh che il 4 dicembre è stato ucciso dalle stesse forze huthi, che hanno così consolidato il loro controllo su Sana’a. Saleh è salito al potere nel 1978 inizialmente come presidente dello Yemen del Nord, stato indipendente fino alla riunificazione con lo Yemen del Sud dopo una lunga guerra civile. Governò lo Yemen unito fino a che non è stato costretto a lasciare l’incarico nel 2012 durante le proteste e lo scoppio di una nuova lotta civile nel 2011. Lo scontro è stato interpretato da alcuni commentatori con un fronte a guida della tribù Huthi (a maggioranza Zaidita, vicino allo Sciismo) contro il fronte delle tribù sunnite. Nel 2015 è intervenuta l’Arabia Saudita che ha mosso guerra contro gli Huthi. C’è chi ha fatto notare che l’Arabia saudita è governata da una famiglia facente parte del terzo gruppo religioso del paese, ovvero i Wahabiti (sunniti) che rappresentano il 29% del paese, con al primo posto i sunniti non wahabiti che rappresentano anche loro il 29%. Il problema consisterebbe nel fatto che il secondo gruppo è rappresentato da gruppi vicini allo Sciismo e che si dividono in due gruppi stanziati uno sui giacimenti di petrolio del golfo persico e l’altro al confine con lo Yemen, quindi al confine con gli Houthi (che sono stanziati nello Yemen del Nord). La paura quindi consisterebbe nelle pressioni geopolitiche dell’Iran e nella paura di perdere potere nella regione. Durante il conflitto, l’Arabia Saudita ha più volte accusato l’Iran di finanziare con armi e denaro gli Huthi.  Tramite il proprio consiglio politico supremo, l’alleanza huthi-Saleh ha assunto, nelle aree sotto il suo controllo, le funzioni e le responsabilità dello stato. Queste comprendevano la formazione di un esecutivo, la nomina dei governatori e l’emanazione di decreti ministeriali. La situazione si è ulteriormente frammentata quando, a maggio 2017, il governatore di Aden, Aidarous al-Zubaydi, e Hani bin Brik, un ex ministro di stato, hanno formato un consiglio di transizione del sud, composto da 26 membri. Il nuovo consiglio, che ha espresso l’intenzione di creare uno Yemen del Sud indipendente e che godeva del favore della popolazione, si è riunito in varie sessioni, stabilendo la propria sede nella città di Aden. Il protrarsi del conflitto ha portato a un vuoto politico e alla mancanza di sicurezza e ha creato terreno fertile per il proliferare di gruppi armati e milizie, che avevano il sostegno di altri stati. Alcune di queste forze erano addestrate, finanziate e supportate dagli Emirati Arabi Uniri e dall’Arabia Saudita. La frammentazione tribale e territoriale dello Yemen ha avuto la conseguenza che molti capi tribù hanno sposato la causa di Al Qaeda, infatti si rilevano numerosi casi di terrorismo e ciò rende ancora più complessa la realtà del conflitto. Il gruppo armato al-Qaeda nella penisola araba (Aqap) ha mantenuto il controllo di parte del sud dello Yemen e ha continuato a com­piere attentati dinamitardi nei governatorati di Aden, Abyan, Lahj e al-Bayda.

Aree di controllo a dicembre 2017

     Durante l’anno non sono stati compiuti passi avanti nei negoziati politici o verso una cessazione delle ostilità. Mentre nelle aree circostanti le città portuali di Mokha e Hodeidah proseguivano le operazioni militari e i combattimenti, tutte le parti in conflitto si sono rifiutate di partecipare al processo guidato dalle Nazioni Unite, in tempi diversi a seconda delle conquiste militari ottenute sul terreno. Secondo l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto armato, a marzo 2015, fino ad agosto 2017, erano stati uccisi 5.144 civili, di cui almeno 1.184 bambini, mentre più di 8.749 erano rimasti feriti. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – Ocha) ha stimato che più di due terzi della popolazione necessitava di aiuti umanitari e che almeno 2,9 milioni di persone erano state costrette a fuggire dalle loro abitazioni. Il Who ha dichiarato che i sospetti casi di colera causati dalla mancanza di acqua potabile e dall’impossibilità di accedere a strutture mediche erano più di 500.000. Dall’insorgenza dell’epidemia nel 2016, i decessi a causa dell’infezione sono stati quasi 2.000. Il protrarsi del conflitto è stato uno dei fattori che avevano maggiormente contribuito alla diffusione del colera nello Yemen. Di fatto il paese più ricco del mondo arabo, l’Arabia Saudita, è in guerra con il paese più povero. Dall’inizio del conflitto lo Yemen, con una popolazione di 25 milioni di abitanti, è stato sostanzialmente distrutto. Le Nazioni Unite hanno rilevato passo passo la portata della tragedia che vede la morte di più di 20mila persone, di cui almeno la metà civili. Il numero dei feriti non può essere precisato perché metà gli ospedali e centri medici dello Yemen non sono operativi. Questo significa che non è possibile stabilire quante persone si sono presentate per farsi curare. Per i sopravvissuti la vita non è facile. È come se per loro il tempo si trascinasse senza senso, in una guerra senza fine. Il dolore aumenta. Vecchie malattie riappaiono e anche la fame. La maggior parte della popolazione non ha quasi accesso ad acqua, cibo, prodotti per l’igiene, raccolta dei rifiuti. Sette milioni di yemeniti, tra cui 2,3 milioni di bambini con meno di cinque anni, sono costretti alla fame. Le Nazioni Unite sono riuscite a raccogliere appena il 43 per cento dei fondi necessari per la crisi umanitaria. Gli Stati Uniti hanno versato 1,9 miliardi di dollari, ma si tratta di una minima parte della cifra che l’industria degli armamenti americana guadagna vendendo armi all’Arabia Saudita, rifornendola mentre bombarda lo Yemen e affama i suoi abitanti. Ma il fenomeno della vendita di armi riguarda anche il nostro paese. Amnesty International denuncia che dall’Italia continuano a partire carichi di bombe aeree per rifornire la Royal Saudi Air Force. L’ultimo carico, con migliaia di bombe, è partito in gran segreto da Cagliari. L’associazione ritiene che si tratti anche questa volta di bombe aeree del tipo MK80 prodotte dalla RWM Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas in Sardegna. La conferma dell’utilizzo delle bombe italiane nel conflitto in Yemen arriva anche dal “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen”, trasmesso il 27 gennaio 2017 al Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alcune organizzazioni specializzate, riportano la possibilità concreta di almeno sei invii di carichi di bombe dall’Italia verso l’Arabia Saudita. Nell’ottobre 2016 l’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per la prima volta ammetteva, in risposta ad una interrogazione parlamentare, che alla RWM Italia sono state rilasciate licenze di esportazione per l’Arabia Saudita. La responsabilità del rilascio delle licenze di esportazione ricade sull’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA), incardinata presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione e che fa riferimento direttamente al Ministro. Ma nel percorso di valutazione per tale rilascio incidono con ruoli stabiliti dalla legge i pareri di vari Ministeri, tra cui soprattutto il Ministero della Difesa. Va inoltre ricordata la presenza di un accordo di cooperazione militare sottoscritto dall’Italia con l’Arabia Saudita (firmato nel 2007 e ratificato con la Legge 97/09 del 10 luglio 2009) che prevede un rinnovo tacito ogni 5 anni, e grazie al quale si garantisce una via preferenziale di collaborazione tra i due Paesi in questo settore, comprese le forniture di armi. La legge italiana 185 del 1990 che regolamenta questa materia afferma infatti che le esportazioni di armamenti sono vietate non solo come è già automatico verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche ai Paesi in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. Il 22 giugno 2017, l’associazione ha presentato una proposta di Mozione parlamentare alla Camera insieme ad alcune organizzazioni e reti della società civile italiana. Il 19 settembre 2017, con 301 voti contrari e 120 a favore, la Camera dei deputati ha respinto la mozione che chiedeva al governo di bloccare la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come disposto dalla legge 185/1990, dalla Costituzione italiana e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

Amnesty International chiede al governo di intraprendere un percorso nuovo nella difesa dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale sospendendo l’invio di materiali militari all’Arabia Saudita, come fatto recentemente dalla Svezia.

Per partecipare alla raccolta firme di Amnesty International “clicca qui

Il rapporto Istat su reati contro ambiente e paesaggio

EUROPA di

Nel 2017, secondo i dati di Legambiente, si è registrato l’incremento degli illeciti ambientali, del numero di persone denunciate e dei sequestri effettuati. Nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso è stato verbalizzato il 44% del totale nazionale di infrazioni. La Campania è la regione in cui si registra il maggior numero di illeciti ambientali (4.382 che rappresentano il 14,6% del totale nazionale), seguita dalla Sicilia (3.178), dalla Puglia (3.119), dalla Calabria (2.809) e dal Lazio (2.684). Secondo il report dell’Istat che prende a riferimento il periodo 2006-2016 l’aumento delle norme a tutela dell’ambiente e la maggiore attenzione ai temi ambientali hanno trovato corrispondenza in un maggior numero dei procedimenti presso le Procure. Questi sono passati dai 4.774 del 2007 (il Testo unico dell’ambiente è stato varato nel 2006) ai 12.953 del 2014. Il tema della “protezione dell’ambiente” soprattutto in relazione allo sviluppo economico e all’antropizzazione del territorio è di grande complessità e ha molteplici implicazioni che hanno sollevato nel tempo crescente attenzione per le problematiche ambientali e condotto ad una rapida crescita della produzione legislativa. Molta della normativa è relativamente recente in quanto al momento della Costituente in Italia erano in vigore solo una norma sui Beni culturali (L. 1089/1939) e una sulle Bellezze naturali (L. 1497/1939). La produzione normativa successiva è avvenuta spesso sulla spinta di direttive europee e convenzioni internazionali, ma anche di disastri di grandi proporzioni che hanno messo in luce come la problematica ambientale non può essere confinabile a un singolo Stato ma deve essere affrontata anche a livello sovranazionale. Dal 2006, anno d’introduzione del Testo Unico Ambientale (T.U.A.), fino al 2014, si osserva un aumento dei procedimenti definiti nelle Procure della Repubblica, con almeno un reato previsto dal codice ambientale, da poco più di mille casi a quasi 13mila. A partire dall’anno successivo si nota una contrazione continuata anche nel 2016, soprattutto dei procedimenti per cui inizia l’azione penale.

    Il T.U.A. considera come reato e punisce diverse azioni a danno dell’ambiente. Inoltre, i reati previsti si riferiscono a un pericolo di danno ambientale “astratto” cioè potenziale. Prevedono generalmente sanzioni di lieve entità con termini di prescrizione brevi, con possibilità di oblazione e sospensione condizionale della pena avendo quindi una debole funzione deterrente. La legge 68 del 22 maggio 2015 ha introdotto nuove fattispecie di delitto (anche colposo) nel Codice penale (Titolo VI-bis Libro II) incentrate sul danno ambientale effettivamente causato con pene elevate e, quindi, lunghi tempi di prescrizione (che sono funzione della gravità della pena). I dati che si riferiscono alle decisioni nelle Procure della Repubblica al termine delle indagini preliminari in tema di nuovi delitti ambientali sono ancora esigui: sono stati 72 nel 2016, di cui 56 archiviati e per cui è iniziata l’azione penale. Quasi tutti i reati riguardano l’inquinamento ambientale, residuali le altre voci come i delitti colposi contro l’ambiente, il disastro ambientale, morte o lesione come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale, impedimento del controllo, omessa bonifica dell’area inquinata. I nuovi delitti previsti dalla legge sugli ecoreati sono stati aggiunti a quelli per cui è prevista la responsabilità oggettiva dell’ente nel cui interesse i dirigenti hanno commesso il reato.

     Nel 2016 i procedimenti per violazioni delle regole di gestione delle acque reflue sono stati 1.636, quelli per le violazioni delle regole di gestione dei rifiuti 8.792, 170 per il trasporto non autorizzato di rifiuti e 164 per traffico organizzato di rifiuti. Per tali reati, sono diminuiti i procedimenti per cui è iniziata l’azione penale: dal 2013 per violazioni nella gestione delle acque reflue; dal 2015 per la gestione dei rifiuti (che coinvolge spesso, oltre ad attività economiche, anche singoli cittadini che non rispettano i regolamenti); dal 2014 per il traffico organizzato di rifiuti. Per questi ultimi si ha un aumento delle archiviazioni a denotare anche la difficoltà crescente, da parte degli inquirenti, nel trovare elementi di prova della violazione. Le violazioni della regolamentazione in materia di acque reflue hanno raggiunto il picco tra il 2010 e il 2012. Nel 2012 quasi il 56% del totale dei procedimenti per cui c’è stato l’avvio dell’azione penale è avvenuto nel Mezzogiorno. Tale percentuale, anche se in leggera diminuzione, negli anni seguenti si colloca sempre intorno al 50% (49% nel 2016) del totale italiano. Il tasso di reati più alto si è avuto in Basilicata (6,4 reati per 100mila abitanti). Hanno valori superiori a 3 reati per 100mila abitanti il Molise, il Lazio, l’Abruzzo e la Calabria. La scorretta gestione dei rifiuti è individuata e portata all’attenzione della magistratura in gran parte attraverso attività di controllo, per opera delle Forze di Polizia, sulle attività produttive che quei rifiuti devono gestire. Il numero medio di “Imputati per violazioni sulla gestione dei rifiuti” è pari a 1,5 persone. Il trasporto non autorizzato di rifiuti è punito con una contravvenzione ed è commesso da chi, senza titolo valido, trasporta i rifiuti anche in modo occasionale. Nel 2016, il dato si attesta su 93 violazioni, in lieve diminuzione rispetto ai due anni precedenti (111 casi). La Liguria è la regione in cui si sono riscontrati più casi nel periodo considerato (42). Per questo reato, il numero medio di autori coinvolti nei procedimenti varia da 1,2 a 2,5 nei dieci anni considerati. È pari a 1,7 nel 2016. Il traffico organizzato di rifiuti è l’attività posta in essere in modo sistematico e strutturato per nascondere o eliminare, illegalmente, anche grandi quantità di rifiuti e scarti senza riguardo alla loro tossicità. Nel 2016 si sono rilevati 58 casi, in netto calo su quasi tutto il territorio nazionale. L’andamento nel tempo evidenzia due picchi in corrispondenza del 2010 e del 2013 (104 e 105 casi rispettivamente) ascrivibili soprattutto al Sud. Il numero esiguo di procedimenti per cui inizia l’azione penale sottende in realtà una complessità investigativa connaturata con i tempi, le procedure di indagine e il numero di autori coinvolti per questo tipo di reati. Qui infatti il numero medio di imputati in associazione è molto più elevato, con valori che passano da un minimo di 4 per il 2008 a un massimo di 12 per il 2006. Dal 2010 la media si è stabilizzata intorno a 5,5 (5,7 nel 2015). Secondo il report di Legambiente sulle ecomafie, il 2017 è l’anno del rilancio delle inchieste contro i trafficanti di rifiuti e nel settore si concentra la percentuale più alta di illeciti. In crescita anche le tonnellate di rifiuti sequestrate dalle forze dell’ordine nell’ultimo anno e mezzo (1° gennaio 2017 – 31 maggio 2018) nell’ambito di 54 inchieste (in cui è stato possibile ottenere il dato, su un totale di 94) sono state più di 4,5 milioni di tonnellate. Pari a una fila ininterrotta di 181.287 Tir per 2.500 chilometri. Tra le tipologie di rifiuti predilette dai trafficanti ci sono i fanghi industriali, le polveri di abbattimento fumi, i Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), i materiali plastici, gli scarti metallici (ferrosi e non), carta e cartone. Più che allo smaltimento vero e proprio è alle finte operazioni di trattamento e riciclo che in generale puntano i trafficanti, sia per ridurre i costi di gestione che per evadere il fisco.

     Nel quadro normativo è importante la legge 21 novembre 2000, n. 353 che ha introdotto, nel codice penale, il reato di incendio boschivo doloso e colposo, prima punito come aggravante dell’incendio, per una tutela più stringente del patrimonio forestale. Nel 76% dei casi, gli incendi boschivi si verificano tra giugno e settembre e il numero di procedimenti per incendio boschivo con autore noto, definiti dalle procure della repubblica, si attesta nel 2016 su un valore pari a 500, senza apprezzabili variazioni nel periodo considerato, tranne il picco di 701 casi nel 2012. Per poco meno di 7 procedimenti su 10 inizia l’azione penale. Di questi (334 nel 2016), il 28,4% riguardano il Sud, il 29% il Centro, il 24,6% il Nord. Oltre all’incendio boschivo doloso (volontario) è punito anche quello colposo, cioè commesso da chiunque cagiona involontariamente un incendio su boschi (anche propri). Nei casi l’incendio sia stato provocato nei propri terreni, perché possa configurarsi l’illecito penale, è necessario tuttavia provare (oltre alla colpa del proprietario) che l’incendio abbia causato un concreto pericolo per la pubblica incolumità. L’incidenza degli incendi non colposi sul totale degli incendi è aumentata negli ultimi anni (dal 60,5% del 2012 al 72,2% del 2015) anche grazie alle nuove tecniche di investigazione. Il territorio forestale copre al 2015 circa 11 milioni di ettari21 pari a un terzo della superficie italiana. Nonostante l’impegno nel controllo del patrimonio forestale, il reato di incendio boschivo è in gran parte di origine dolosa e resta senza un colpevole. L’incendio colposo, anche grazie alle tecniche innovative di indagine, rappresenta un numero ridotto di casi.

     Nel 2016, tra tutti gli illeciti amministrativi inerenti ai reati ambientali contestati, l’8% ha riguardato gli ecoreati. Il paesaggio si connota contemporaneamente come bene ambientale e come bene culturale. Fra i reati previsti dal “Codice del paesaggio” (D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) sono stati analizzati i procedimenti collegati ai lavori edilizi, in totale difformità o assenza del permesso di costruzione o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione e le lottizzazioni abusive e/o opere di qualsiasi genere eseguite su beni paesaggistici in assenza di autorizzazione o in difformità da essa. Violazioni, queste, che incidono sull’uso del territorio e sono da ritenersi più gravi. I procedimenti penali per le lottizzazioni e le violazioni su beni con vincolo paesaggistico, che sono un tipo specifico di violazione edilizia grave, dopo un picco nel 2010, diminuiscono in valore assoluto negli anni. Tuttavia, la loro proporzione sul totale delle violazioni edilizie aumenta (17% del totale dei procedimenti nel 2006, 32,2% nel 2016). Soprattutto al Sud aumenta la percentuale dei procedimenti per violazione del vincolo paesaggistico (40,6% nel 2016). Il lavoro delle forze dell’ordine nel 2017 ha portato alla luce 3.908 infrazioni sul fronte “ciclo illegale del cemento”, una media di 10,7 ogni ventiquattro ore, e alla denuncia di 4.977 persone. Un dato in leggera flessione rispetto all’anno precedente, ma che testimonia come – dopo anni di recessione significativa – l’edilizia, e quindi anche quella in nero, abbia ricominciato a lavorare. Il 46,2% dei reati si concentra nelle quattro cosiddette regioni a tradizionale presenza mafiosa, ossia Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. Occorre ricordare come la natura profonda del crimine ambientale è economica e ha per principali protagonisti imprese e faccendieri, ma le mafie continuano a svolgere un ruolo cruciale, spesso di collante. I clan censiti da Legambiente finora e attivi nelle varie forme di crimine ambientale sono 331. Il 2018 è anno da record per lo scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazioni mafiose. Sedici i Comuni sciolti da gennaio, 20 nel 2017. Mentre i comuni attualmente commissariati dopo lo scioglimento sono 44 (ci sono anche alcuni sciolti nel 2016 e prorogati). Sono soprattutto i clan a minacciare gli amministratori pubblici che difendono lo stato di diritto e la salvaguardia dell’ambiente. Secondo i dati elaborati di Avvivo Pubblico, sono state 537 le intimidazioni nel 2017, se si considerano invece gli ultimi cinque anni il numero sale a 2.182.

Violenza domestica e violenza assistita, abbattiamo il muro del silenzio!

EUROPA di

Un padre rientra nervoso dal lavoro e incomincia a insultare la propria moglie. Nella sua mente non è stata una donna capace di sistemare la casa prima del suo rientro, non è stata capace di essere un perfetto robot delle pulizie ed è solo stata capace di “spendere soldi”. Le urla si fanno sempre più insistenti e si sente il fragore dei piatti che vengono lanciati. Dà la colpa di questo suo comportamento alla moglie: “sei tu che mi costringi”. Le colpe di cui viene accusata la moglie diventano sempre di più, non sarebbe capace di cresce il figlio secondo l’ideale del padre e ripete “mi fai schifo come madre, mi fai schifo come donna”. Urla che non gli frega nulla del figlio e se ne esce di casa sbattendo la porta. Nella stanza accanto, il bambino ascolta tutto nella penombra, forse cerca di tapparsi le orecchie per non ascoltare o forse cerca di nascondersi in un luogo che ritiene sicuro. Cerca di diventare invisibile o vorrebbe essere altrove. I suoi sfoghi diventano quei fogli dove dovrebbe disegnare i propri sogni e le proprie fantasie ma quei fogli diventano l’espressione dei propri disagi e incubi, oppure si sfoga strappando uno dei peluche che ha nella stanza. Possiamo solo avvicinarci alle emozioni che questo bambino sta passando. Potremmo pensare a quelle volte che litighiamo con qualcuno che amiamo o a quando abbiamo visto maltrattato un nostro amico o amica per capire il malessere che c’è dopo ma non sarebbe abbastanza. Questa, è la storia fatta di urla e violenza che troppo spesso diventa la storia silenziosa di molte case e di molte famiglie. Save the Children conta in Italia 427 mila bambini, in soli 5 anni, testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme e quasi sempre per mano dell’uomo; sono più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. A questo proposito è stata avviata l’iniziativa di sensibilizzazione “Abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su una piaga invisibile “Violenza assistita” che ha conseguenze devastanti sulla vita e sul futuro dei minori. A questo proposito dal 5 al 7 luglio, a Palazzo Merulana a Roma, vi è una installazione immersiva per provare in prima persona il dramma che tanti bambini vivono quotidianamente.

     A questa si accompagna la pubblicazione, dopo un’indagine complessa, del rapporto “Abbattiamo il muro del silenzio” che cerca di analizzare la questione e riguardo al tema e all’iniziativa abbiamo intervistato Antonella Inverno, responsabile Policy and Law Save the Children e curatrice del rapporto.

EA: come nasce l’iniziativa “abbattiamo il muro del silenzio” e la mostra annessa?

Antonella Inverno: Noi abbiamo diversi servizi sul territorio che si occupano di mamme, abbiamo degli spazi mamme che sono dei centri aggregativi dove le mamme con i loro figli possono andare per ricevere un supporto, fare delle attività e anche per fare dei corsi di genitorialità positiva o rivolgersi ai nostri sportelli legali. Oltre a quello abbiamo un progetto sparso sul territorio nazionale che si chiama “fiocchi in ospedale” e che prevede un intervento precoce direttamente al momento del parto. Insomma, quindi un’osservazione precoce e un supporto per quelle donne che risultano essere più a rischio. Attraverso queste attività noi abbiamo un centro dedicato alle mamme vittime di violenza con figli e attraverso queste attività abbiamo constatato che il fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi. Da lì c’è venuta un’idea di fare un’iniziativa per sensibilizzare prima di tutto le mamme stesse e per non farle sentire sole ma anche per l’opinione pubblica e le istituzioni competenti.

EA: secondo lei per quale motivo spesso le stesse madri sono omertose e perché non se ne parla a livello di opinione pubblica? Come si interpretano i dati riguardo alla fascia di età e delle periferie urbane?

Antonella Inverno: Io più di omertà parlerei di Solitudine. Nel senso che le donne sono restie laddove si ritrovano isolate e non sono indipendenti economicamente e non vedono un’alternativa dentro quella casa dove stanno e subiscono la violenza. Proprio questo è il fattore su cui dovremmo tutti cercare di intervenire, nel senso che bisogna parlare di più. Purtroppo, l’Italia è un paese dove la condizione delle donne e delle mamme in particolare, è una condizione svantaggiata. Noi abbiamo pubblicato qualche mese fa un altro rapporto che si chiama “Le Equilibriste” e che parla proprio del difficilissimo lavoro che fanno le mamme in Italia. Sono donne che non riescono a conciliare il lavoro con la vita privata perché non ci sono adeguati servizi e che molto spesso vengono espulse dal mercato del lavoro quando diventano mamme e che si ritrovano a subire tutto il carico familiare sulle spalle. Non solo le cure dei figli ma anche quella dei propri genitori. Quindi questo è chiaro che le rende più deboli di fronte a una situazione di violenza perché non hanno modo di uscire, non c’è un sostegno per loro e per i loro figli. Per questo noi chiediamo che i servizi di sportelli, anche dei centri antiviolenza, siano strutturalmente rafforzati e che siano dedicate loro più risorse e che possano essere anche numericamente più consistenti sul territorio. Rispetto ai dati sui padri e sulle vittime diciamo che la percentuale è di poco maggiore in periferia che in centro, il dato che volevamo evidenziare è che è un fenomeno trasversale ovunque. Parliamo di pochi punti percentuali e tra l’altro il dato sul centro e periferia si riferisce solo alle risposte delle cittadine italiane, non anche a quelle straniere ed è un dato che però ci fa riflettere rispetto al fatto che spesso si è portati a pensare che la violenza sia un fenomeno legato alla povertà o all’ignoranza, alla non istruzione. Invece i dati dimostrano proprio che è un fenomeno trasversale. Ci sono nel rapporto anche i dati sul titolo di studio e si vede che non si salva nessuno. Dai reati, alle persone che hanno la quinta elementare, da chi vive in periferia, a chi vive al centro. Anche al centro delle città sono presenti queste situazioni che molto spesso rimangono anche meno visibili perché si preserva di più il buon nome e l’identità sociale che ci si è costruiti come nucleo familiare.

EA: A livello di istituzione, sia europee che italiane, cosa si potrebbe fare per il futuro e per quella che comunque ci  ha descritto come una violenza generalizzata?

Antonella Inverno: In questo momento, sul tavolo del sottosegretario alle pari opportunità, al suo vaglio, c’è il piano nazionale contro la violenza di genere. Noi auspichiamo che questo percorso di introduzione di questo strumento possa andare avanti e dobbiamo però essere consapevoli che siamo tutti coinvolti. Le scuole sono un fattore fondamentale nella rivelazione dei disagi che i bambini possono presentare quando vivono una situazione di violenza dentro casa. Nessuno dovrebbe girarsi dall’altra parte quando sente delle urla nella casa del vicino. Noi pensiamo veramente che una maggiore attenzione a quelli che sono i segnali di violenza possa portare anche a un intervento sicuramente tempestivo, e questo fa molto nel caso dei bambini, ma anche più in rete tra i tanti attori coinvolti.

     Violenza assistita significa guardare, ascoltare, vivere l’angoscia, esserne investiti, contagiati e sovrastati senza poter far nulla. Significa esporre un bambino a qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative all’interno di ambienti domestici e familiari. È un fenomeno ancora sommerso, quasi “invisibile”, contraddistinto da segnali plurimi, i cui effetti possono essere devastanti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale dei bambini. L’esposizione alla violenza all’interno delle mura domestiche può provocare una grave instabilità emozionale nei bambini e tradursi in molteplici sentimenti negativi, come ansia, paura, angoscia, senso di colpa, insicurezza. Può inoltre provocare disturbi del comportamento, tra cui l’isolamento, la depressione, l’impulsività e l’aggressività e può portare gravi disturbi nell’alimentazione. Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children, ha dichiarato che “La casa dovrebbe essere per ogni bambino il luogo più sicuro e protetto e invece per tanti si trasforma in un ambiente di paura e di angoscia permanente. Per un bambino assistere ad un atto di violenza nei confronti della propria mamma è come subirlo direttamente. Moltissimi bambini e adolescenti sono vittime di questa violenza silenziosa, che non lascia su di loro segni fisici evidenti, ma che ha conseguenze devastanti: dai ritardi nello sviluppo fisico e cognitivo alla perdita di autostima, da ansia, sensi di colpa e depressione all’incapacità di socializzare con i propri coetanei. Un impatto gravissimo e a lungo termine che tuttavia, nel nostro Paese, è ancora sottovalutato. Ề indispensabile mettere in campo un sistema di protezione diffuso capillarmente che non lasci mai da sole le donne ad affrontare il complesso e doloroso percorso di liberazione dalla violenza domestica e che si prenda cura immediatamente dei bambini fin dalle prima fasi in cui questa emerge, senza attendere la conclusione degli iter giudiziari. Ề poi fondamentale che tutti gli adulti che sono a contatto con i minori – a partire dalle scuole e dai servizi sanitari – assumano una responsabilità diretta per far emergere queste situazioni sommerse, attrezzandosi per riconoscere tempestivamente ogni segnale di disagio, senza trascurarlo o minimizzarlo”.

     Dal rapporto emerge che tra le donne che in Italia hanno subito violenza nella loro vita (oltre 6,7 milioni secondo l’Istat), più di 1 su 10 ha avuto paura che la propria vita o quella dei propri figli fosse in pericolo. In quasi la metà dei casi di violenza domestica (48,5%), inoltre, i figli hanno assistito direttamente ai maltrattamenti, una percentuale che supera la soglia del 50% al nord-ovest, al nord-est e al sud, mentre in più di 1 caso su 10 (12,7%) le donne dichiarano che i propri bambini sono stati a loro volta vittime dirette dei soprusi per mano dei loro padri. Per quanto riguarda gli autori delle violenze, i dati sulle condanne con sentenza irrevocabile per maltrattamento in famiglia – più che raddoppiate negli ultimi 15 anni, passando dalle 1.320 nel 2000 alle 2.923 nel 2016 – evidenziano che nella quasi totalità dei casi (94%) i condannati sono uomini e che la fascia di età maggiormente interessata è quella tra i 25 e i 54 anni, l’arco temporale nel quale solitamente si diventa padri o lo si è già. Il tasso di occupazione in Italia varia sensibilmente non soltanto al genere, ma anche rispetto al fatto di essere o meno genitori e al numero di figli. Essere madre significa riuscire a conciliare la vita lavorativa con quella famigliare con tutte le sfide che questa società impone. Investire sul futuro significa garantire che i genitori, e in particolare le madri, siano sostenuti da adeguate politiche che favoriscono la genitorialità e la conciliazione tra vita privata e professionale, a partire da forme di lavoro flessibile, congedi parentali e di paternità e una adeguata copertura dei servizi educativi per l’infanzia. Ma a questo occorre aggiungere che sono oltre 1,4 milioni le madri che nel corso della loro vita hanno subito maltrattamenti in casa da parte dei loro mariti o compagni. Tra queste, più di 446.000 vittime vivono ancora con il partner violento e spesso non vedono possibili vie di uscita dalla relazione, spesso anche perché non indipendenti dal punto di vista economico. 174.000 mamme che hanno subito violenza dal loro attuale compagno dichiarano che i figli hanno visto o subito direttamente i maltrattamenti. Si tratta, in particolare, di donne che nel 97% dei casi sono sposate, nel 71% sono italiane, nel 41% hanno tra i 30 e i 49 anni, nel 40% dei casi sono casalinghe e in quasi 4 casi su 10 (34%) hanno il diploma superiore. Prendendo invece in considerazione le oltre 455.000 madri che non vivono più con l’ex partner violento e che hanno dichiarato che i propri bambini hanno visto o subito la violenza, 7 su 10 sono separate o divorziate, 8 su 10 sono italiane, nel 42% dei casi hanno 30-49 anni di età, mentre più di 1 su 3 (34%) è dirigente, imprenditrice, libera professionista, quadro o impiegata, e quasi la metà (46%) ha conseguito il diploma superiore.

     La famiglia dovrebbe essere il luogo dell’amore e degli affetti ma c’è un lato oscuro che porta a dire che “la violenza fra i membri della famiglia probabilmente è tanto diffusa quanto l’amore”. Il problema è caratterizzato dal fatto che in molti uomini vi è la concezione del dominio maschile all’interno del matrimonio. Gli uomini con una visione tradizionale o non egualitaria nei confronti dei ruoli di genere all’interno delle relazioni, sono più disposti ad accettare l’uso della violenza nei confronti delle mogli. Gli episodi di violenza hanno maggiori probabilità di verificarsi nelle famiglie in cui il potere decisionale si concentra nelle mani del marito. Quando le donne dispongono di maggiori risorse sociali ed economiche, come ad esempio un lavoro che permetta loro di essere indipendenti economicamente, hanno probabilità minori di subire abusi e più possibilità di lasciare un uomo che abusa di loro. A ciò si aggiunge che una donna con pochi contatti con persone diverse dal coniuge ha minori possibilità di definire tale abuso come ingiustificato e di chiedere aiuto. Del totale di donne che in Italia hanno ripetutamente subito forme di violenza domestica per mano di partner o ex partner – più di 1,6 milioni di donne secondo i dati elaborati dall’Istat per Save the Children – solo il 7% (pari a 118.330 vittime) si è mostrata molto consapevole del reato subito e ha attivato dei percorsi di uscita dalla violenza. Si tratta, in particolare, di donne che in ben il 75% dei casi sono anche madri e che sono state vittime di violenze fisiche molto evidenti: nell’81% dei casi hanno riportato ferite, nel 36% hanno subito maltrattamenti durante la gravidanza, in più del 19% delle situazioni il partner era in possesso di un’arma e in oltre il 43% era sotto l’effetto di alcool o sostanze stupefacenti. Su queste donne, molto gravi  sono state poi le conseguenze stesse dei maltrattamenti: 1 su 4 ha fatto ricorso ai medicinali, 2 su 5 sono andate in terapia psicologica o psichiatrica, circa 1 su 5 (22%) ha pensato al suicidio e a forme di autolesionismo o non è riuscita a portare avanti le normali attività quotidiane o andare al lavoro per un certo periodo; presentano, inoltre, difficoltà nella gestione dei propri figli (35%), hanno sviluppato forme d’ansia (70%) e disturbi del sonno e dell’alimentazione (65%).Di queste donne, quasi 9 su 10 considerano la violenza subita un reato e nella quasi totalità dei casi (99%) hanno denunciato la violenza subita, ricevendo conseguentemente il supporto necessario per attivare percorsi di uscita dalla violenza che in oltre il 58% dei casi le hanno portate a lasciare il partner violento. Accanto a queste donne fortemente consapevoli delle violenze subite, tuttavia, ce ne sono moltissime – più di 548.000, il 33% del totale di coloro che hanno subito ripetutamente la violenza domestica –  che, nonostante riportino ferite o altri segni di maltrattamenti e subiscano le conseguenze, anche a lungo termine, dei soprusi perpetrati da partner o ex partner, faticano a dichiarare che i propri figli hanno assistito alle violenze, preferiscono chiudersi nel silenzio e non denunciare quanto subito. Di queste, più della metà (56%) ha figli o convive ancora con il marito o il partner violento, quasi 6 su 10 (57%) considerano la violenza subita solo come qualcosa di sbagliato, ma non un reato, e solo nel 4% delle situazioni hanno sporto denuncia e nel 2% si sono rivolte a un medico o a un consultorio.

Raffaella Milano ha poi affermato che “Ề impressionante il numero di donne con bambini, che pur in presenza di continue violenze non denuncia. Questo dato interpella le istituzioni e la comunità civile sulla necessità di garantire ad ogni mamma un clima di fiducia e un sostegno concreto e tempestivo, tale da spezzare la catena della violenza e consentire di riconquistare una vita autonoma e serena. Troppe mamme, ancora oggi, continuano a subire in silenzio con i loro bambini perché si sentono in trappola e non vedono alternative. In questo senso, è più che mai urgente e necessario strutturare una strategia di contrasto alla violenza assistita, a partire dal pieno rispetto della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata nel 2013. Occorre creare una vera e propria rete di prevenzione, emersione e protezione che coinvolga istituzioni, enti locali, scuole, servizi territoriali e associazioni. Allo stesso tempo, è necessario potenziare su tutto il territorio nazionale la rete antiviolenza e i servizi psico-sociali territoriali. Ề importante inoltre il coinvolgimento delle scuole, sia sul piano educativo nei confronti dei bambini e dei genitori, che per il riconoscimento precoce delle vittime della violenza domestica, attraverso percorsi formativi qualificati. Ề inoltre essenziale garantire la protezione giuridica dei minori coinvolti nella violenza per consentire l’avvio tempestivo di una presa in carico volta al recupero dei danni subiti, senza attendere l’iter dei processi”.

Per contrastare la violenza assistita, a fine 2016, Save the Children ha avviato nel territorio di Biella il progetto “I Germogli”: un intervento integrato di accoglienza, prevenzione, sostegno e accompagnamento all’autonomia di nuclei mamma- bambino vittime di violenza assistita. Il progetto consiste in una comunità mamma-bambino in cui vengono ospitate e supportate in un percorso di autonomia e reinserimento sociale, mamme vittime di violenza domestica, ed in un centro polifunzionale che offre percorsi laboratoriali, educativi e di supporto alla genitorialità per le donne del territorio. Il progetto “Germogli” si inserisce all’interno della più ampia azione dell’Organizzazione di sostegno alle famiglie e ai bambini che si trovano in condizioni di vulnerabilità sociale, educativa ed economica, realizzata attraverso la rete di Punti Luce, Spazi Mamme e Fiocchi in Ospedale attivati da Save the Children su tutto il territorio nazionale.

L’installazione “La stanza di Alessandro” è possibile visitarla a Palazzo Merulana giovedì 5 luglio dalle ore 18 alle ore 20venerdì 6 luglio dalle ore 14 alle ore 20sabato 7 luglio dalle ore 14 alle ore 20.
Per partecipare è necessario prenotarsi cliccando qui. L’installazione immersiva è stata ideata dall’agenzia di comunicazione The Embassy, in collaborazione con ECCETERABC TODAY e con il coinvolgimento degli studenti della “Scuola Politecnica di Design”.

 

Patricia Gualinga Montalvo incontra il municipio VIII di Roma: Serayaku contro lo sfruttamento petrolifero nei territori indigeni

AMERICHE/CRONACA di

Il 4 luglio Patricia Gualinga Montalvo ha incontrato Roma, organizzazioni sociali italiane e il presidente del Municipio di Garbatella Amedeo Ciaccheri, che ha aperto le porte all’esperienza e alla storia del popolo Quechua di Sarayaku per un gemellaggio tra le due comunità all’insegna delle forme di iniziativa dal basso.

     Patricia Gualinga Montalvo parla la lingua Quechua ed è la rappresentante del popolo di Serayaku che consiste in una minoranza rispetto al territorio. La comunità conta di 1350 abitanti e occupa solo il 5% di un territorio che conta 135 mila ettari. Il villaggio è raggiungibile solo con due metodi: per via Fluviale, impossibile se in secca, o con 25 minuti per via aerea, in questo caso sono frequenti gli incidenti aerei. La comunità di Serayaku è la dimostrazione che anche un piccolo e disperso popolo può lottare e vincere se ha delle convinzioni forti nella tutela dei diritti umani e dei diritti ambientali. La comunità non ha ristoranti o alberghi e vive di pesca, caccia, coltivazioni di iuca e platano verde, hanno case con tetti di foglie e pavimenti in terra per mantenere il fresco. I Serayaku sono conosciuti come un popolo ribelle che agli inizi del 2000 ha iniziato il combattimento contro l’entrata arbitraria di un’azienda argentina e che ha portato avanti una causa di giustizia internazionale. La causa è durata 10 anni passati tra l’opinione pubblica e le fatiche nel sostenere e portare le prove ma alla fine ha visto la vittoria del popolo di Serayaku. Questa vittoria è importante e di ispirazione per tutte le altre comunità del continente è consiste nella sentenza della Corte interamericana dei diritti umani. In quell’occasione, armonia, libertà e pace vennero messe a rischio dal governo, che non aveva consultato la comunità prima di autorizzare la compagnia petrolifera argentina CGC a fare prospezioni sul territorio per valutare l’ampiezza dei giacimenti sotterranei. La compagnia petrolifera offrì 15 dollari a persona per togliere il disturbo. Secondo gli standard internazionali, i progetti di sviluppo, le leggi e le politiche che hanno un impatto sullo stile di vita delle comunità native devono ottenere il consenso preventivo, libero e informato degli interessati. Questo avviene attraverso la messa a disposizione di informazioni oggettive, in una modalità loro accessibile e un coinvolgimento, sin dall’inizio, nella fase decisionale. L’obiettivo di questa lunga lotta era chiamare le autorità ecuadoriane a rispondere della mancata consultazione e ottenere garanzie di non ripetizione di una decisione presa senza il loro consenso. Coi loro legali i Sarayaku hanno portato il caso fino a San José, Costa Rica, sede della Corte interamericana dei diritti umani. La sentenza gli ha dato ragione.

     Il governo dell’Ecuador ha spostato tutta la sua attenzione economica nel petrolio e chiama tutti gli investitori esteri per lo sfruttamento e la comunità Serayaku ha chiesto il rispetto della sentenza della corte interamericana dei diritti umani e di rimanere nei propri territori. Il tema dell’incontro è stata la crescente tensione in Ecuador tra le comunità indigene ed ENI. Nel 2010 il governo ha rinegoziato il contratto con ENI – Agip per lo sfruttamento petrolifero del Blocco 10 nella foresta amazzonica, senza applicare il diritto di consultazione previa, libera e informata dei popoli, delle comunità e delle nazionalità indigene. Tale diritto è espressamente riconosciuto e tutelato dalla Costituzione ecuadoriana (art.57) – oltre che dalla Convenzione n.169 dell’ILO – e riguarda tutti i processi decisionali relativi all’implementazione di piani e programmi di prospezione, sfruttamento e commercializzazione di risorse non rinnovabili presenti nei territori indigeni e che possano avere impatto dal punto di vista ambientale o culturale sulle comunità. La situazione vede però altri importanti blocchi come il 75 e l’85 ad altra presenza Cinese, il blocco 28 sfruttato dall’Ecuador, dalla Bielorussia e dalla Thailandia e anche la presenza del Cile che sfrutta le zone petrolifere e le risorse minerarie. La denuncia da parte di Patricia Gualinga Montalvo consiste nel fatto che ENI ha perseguito lo sfruttamento della zona per 20 anni in silenzio ed estromettendo la comunità dai processi di informazione e contrattazione, cercando di ampliarsi man mano che si esaurivano le riserve di petrolio e coinvolgendo delle zone che includevano ben 5 popolazioni indigene e pozzi di petrolio molto grandi. Dopo le minacce del 5 gennaio da parte di sconosciuti, le donne di Serayaku si sono messe in marcia con le “Mujeres Amazonas” e hanno denunciato le azioni degli ultimi 20 anni. Il risultato è consistito in un’udienza dal presidente dell’Ecuador. Ciò ha segnato un forte impatto mediatico, delle forti tensioni tra le donne e l’ENI ma anche all’interno della stessa comunità. Quest’ultimo accade perché alla consegna di ogni blocco lo stato non fornisce i servizi di base ma di questi se ne occupano le aziende private tramite la contrattazione. In questo momento le donne possono essere considerate le colpevoli per una possibile sospensione dell’erogazione dei servizi base da parte di ENI. Al momento, in generale, le varie comunità si stanno esprimendo per uno stop totale allo sfruttamento della zona e queste problematiche investono molte comunità di tutto il continente dell’America Latina. La stessa comunità però si è fatta promotrice di proposte poiché, a detta di Patricia Gualinga, vengono trattati come se fossero i responsabili del consumo di petrolio. Come comunità, i Serayaku hanno visto i fallimenti dei progetti di conservazione naturale e, tramite una risoluzione, propongono la “KAWSAK SACHA-SELVA VIVIENTE”. Questa è una categoria di conservazione dal punto di vista indigeno e gestito dal punto di vista indigeno, estromettendo tutto ciò che è esterno. Porta avanti la Cosmovisione indigena che vede da difesa degli spazi ambientali in quanto casa degli esseri viventi che reggono e abitano lo stesso ambiente contro i processi delle problematiche ambientali. Questi sono gli esseri della natura che detengono il ruolo di mantenitori dell’equilibrio. Questa è l’essenza della lotta indigena che vede la sua particolarità in quanto può essere compresa solo da chi ha vissuto e vive a stretto contatto con la natura. Tutto ciò serve per ripensare il rapporto con la natura.

     Secondo il rapporto di Amnesty international, in Ecuador, leader di comunità native, difensori dei diritti umani e personale delle ONG hanno subìto procedimenti giudiziari e vessazioni, in un contesto di continue restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione e d’associazione. Alle popolazioni native non è stato garantito il diritto a esprime un consenso libero, anticipato e informato. Il progetto di legge per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne è rimasto in attesa della revisione dell’assemblea nazionale. A maggio, la situazione dei diritti umani dell’Ecuador è stata analizzata secondo l’Upr delle Nazioni Unite. L’Ecuador ha accettato le raccomandazioni riguardanti l’adozione di un piano d’azione nazionale su attività produttive e diritti umani, la creazione di un meccanismo efficace di consultazione per le popolazioni native, l’allineamento della legislazione nazionale con gli standard internazionali in materia di libertà d’espressione e d’associazione, la garanzia di misure di protezione per i giornalisti e i difensori dei diritti umani e provvedimenti che avrebbero garantito la tutela dalla discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. L’Ecuador si è impegnato a farsi carico della creazione di uno strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale sul tema dei diritti umani e delle società multinazionali. Delle 182 raccomandazioni espresse durante l’Upr, l’Ecuador ne ha accettate 159, ha preso atto di altre 19 e si è riservato di riesaminarne quattro. A luglio, si sono svolte davanti alla Commissione interamericana dei diritti umani (Inter-American Commis­sion on Human Rights – Iachr) le audizioni riguardanti la violenza e le vessazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani e relative alle industrie estrattive e al diritto all’identità culturale delle popolazioni native dell’Ecuador. La Iachr ha espresso preoccupazione per l’assenza di rappresentanti dello stato a entrambe le audizioni.

Siria: Bombardate le scuole supportate da Save the Children

MEDIO ORIENTE di

Il conflitto armato siriano dura da sette anni e tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno commesso impunemente crimini di guerra, altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e violazioni dei diritti umani. Per esempio, le forze governative e le forze loro alleate, comprese quelle russe, han­no compiuto attacchi indiscriminati e attacchi diretti contro la popolazione civile e obiettivi civili, effettuando bombardamenti aerei e lanci di artiglieria, anche con armi chimiche e di altro genere vietate dal diritto internazionale, provocando centinaia di morti e feriti. Inoltre, hanno mantenuto lunghi assedi su aree densamente popolate, limitando l’accesso di migliaia di civili agli aiuti umanitari e ai soccorsi medici. Secondo l’Ngo Physicians for Human Rights le forze governative hanno lanciato raid aerei contro tre ospedali nel governatorato di Idleb, attacchi aerei nelle ore diurne contro un grande mercato ad Atareb e raid aerei e attacchi d’artiglieria contro i civili stretti d’assedio a Ghouta Est. A ciò si aggiunge che il 30 giugno, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha concluso che in questo attacco la popolazione di Khan Sheikhoun era stata esposta al sarin, un agente nervino vietato. Però la Russia ha continuato a bloccare i tentativi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di perseguire la giustizia e l’accertamento delle responsabilità. Il 12 aprile, la Russia ha posto il veto a una risoluzione che condannava l’uso di armi chimiche in Siria e chiedeva il perseguimento giudiziario dei responsabili. Il 17 novembre, ha posto il veto a una risoluzione che estendeva il mandato dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche-Meccanismo investigativo congiunto delle Nazioni Unite, creato sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2015, con l’incarico d’indagare sugli attacchi con armi chimiche e di accertare la responsabilità per l’uso di queste armi in Siria. Poi le forze governative e i governi esteri hanno negoziato accordi su base locale che hanno determinato lo sfollamento forzato di migliaia di civili, in seguito ai prolungati assedi e gli attacchi illegali. Le forze di sicurezza hanno arrestato e continuato a detenere decine di migliaia di persone, compresi attivisti pacifici, operatori umanitari, avvocati e giornalisti, molti dei quali sono stati sottoposti a sparizione forzata, tortura e altro maltrattamento, talvolta con esiti letali. I gruppi armati d’opposizione hanno bom­bardato indiscriminatamente e stretto in lunghi assedi aree abitate prevalentemente da civili, limitando l’accesso delle agenzie umanitarie e dei soccorsi medici. Il gruppo armato Stato islamico (Is) si è reso responsabile di uccisioni illegali e lanci d’artiglieria pesante contro i civili, utilizzandoli anche come scudi umani. Le forze della coalizione a guida statunitense hanno lanciato attacchi contro l’Is nei quali sono rimasti uccisi o feriti civili e che in alcuni casi si sono configurati come violazione del diritto internazionale umanitario. A fine 2017, il conflitto aveva causato almeno 400.000 morti; le persone sfollate internamente alla Siria o che avevano cercato rifugio in altri paesi erano complessivamente più di 11 milioni.

     In questo contesto una scuola supportata da Save the Children a Dara’a e frequentata da circa 536 studenti è stata gravemente danneggiata in un attacco aereo avvenuto poche ore dopo che le lezioni erano state sospese per motivi di sicurezza a seguito di una escalation della violenza. A questa si aggiunge anche un’altra scuola e, nella settimana, un’aula allestita in una tenda gestita da Olive Branch. La tenda è stata distrutta durante un bombardamento che ha colpito un campo di sfollati. Tutte le 52 strutture educative gestite dai partner di Save the Children nel sud della Siria sono state costrette a chiudere temporaneamente a causa di attacchi aerei diffusi e della crescente instabilità. Nella scorsa settimana un attacco aveva distrutto varie parti di un “Centro di apprendimento alternativo”, che forniva l’istruzione a bambini tra i 3 e i 15 anni. Il centro era un servizio di vitale importanza per la comunità locale essendo di fatto una scuola per l’infanzia e per i corsi di recupero per i bambini che non hanno più la possibilità di frequentare le normali scuole e che spesso hanno perso anni di istruzione a causa del conflitto. Secondo le Nazioni Unite almeno 50.000 persone, molte delle quali donne e bambini, sono dovute fuggire dalle loro case e molte altre saranno costrette a farlo nei prossimi giorni.

Sonia Khush, Direttore per la Siria di Save the Children, riguardo alla situazione ha dichiarato: “Le scuole sono pensate per essere un rifugio sicuro per i bambini, anche in zone di guerra. Questi centri hanno fornito istruzione essenziale a centinaia di bambini vulnerabili, molti dei quali sono già stati costretti a perdere mesi o anni di scuola a causa del conflitto e ora sono ridotti a un cumulo di macerie. I bambini della Siria meridionale stanno affrontando il terrore e l’incertezza a causa dei pesanti bombardamenti in alcune aree e decine di migliaia di persone sono state costrette a fuggire. È essenziale che i civili siano protetti e che le armi esplosive non vengano utilizzate nelle aree popolate, dove i bambini e le strutture su cui fanno affidamento sono più vulnerabili agli attacchi. Se le violenze continueranno, saremo costretti a sospendere i nostri programmi e ad assistere ad altre scuole distrutte dagli attacchi”.

     Save the Children chiede un immediato cessate il fuoco, in linea con l’accordo negoziato per il sud della Siria da Russia, Giordania e Stati Uniti proprio l’anno scorso. Tutte le parti devono rispettare il diritto internazionale umanitario e proteggere dagli attacchi le scuole, gli ospedali e le altre infrastrutture civili di vitale importanza. I bambini sono particolarmente vulnerabili quando si tratta di armi esplosive e tutte le parti in conflitto dovrebbero fare un particolare sforzo per proteggerli. Occorre ricordare che questi episodi segnano una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni e che hanno posto delle regole alla guerra. Se questo non viene più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, vi è un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di morti ma anche di persone che perdono la casa e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. In questi anni abbiamo assistito a guerre che colpiscono di proposito la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Viene sempre più a mancare il rispetto alla vita umana e la possibilità che i giovani possano avere un futuro nel proprio paese poiché li si traumatizza e gli si preclude ogni possibilità di educazione e infanzia. Save the Children lavora nel Paese dal 2013 fornendo aiuti salvavita, cibo, acqua pulita, ripari temporanei e fa tutto il possibile per proteggere i bambini. Inoltre, portano avanti programmi sanitari attraverso la gestione di cliniche mobili, centri di cure primarie, un reparto maternità e la realizzazione di campagne di vaccinazione contro la poliomielite e il morbillo. A ciò si aggiunge l’aiuto ai più piccoli per affrontare i traumi quotidiani in Spazi a Misura di Bambino attraverso il sostegno psicologico e le attività ludico-ricreative.

Minori Stranieri non accompagnati: una valutazione dei minori, di AGIA e UNHCR

EUROPA di

Recentemente è stata diffusa l’anticipazione del rapporto “Minori stranieri non accompagnati: una valutazione partecipata dei bisogni: una relazione sulle visite nei centri emergenziali, di prima e seconda accoglienza in Italia realizzata congiuntamente dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (AGIA), Filomena Albano, e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (UNHCR). Al momento sono 15 i centri coinvolti, 134 i minori incontrati, 21 le nazionalità rappresentate nelle attività di ascolto e 17 anni l’età media dei ragazzi. Le visite proseguiranno fino a fine 2018, dopo di che sarà diffuso il rapporto conclusivo. Nei casi di Minore straniero non accompagnato il “superiore interesse del minore” è una considerazione permanente poiché lo si considera come “il benessere del minore” per circostanze individuali e decisioni assunte sulla base di diritti e bisogni specifici. Questo è un diritto sostanziale in quanto ha diritto che sia valutato, è un principio legale poiché deve essere scelta l’interpretazione più efficace a tutelare il suo interesse e una regola procedurale in quanto ogni decisione deve prima valutare ogni possibile impatto sul minore. Ciò trova la sua logica nell’articolo 12 della convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che inquadra il concetto di partecipazione dei minori e degli adolescenti poiché gli stati contraenti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa tendo conto dell’età e del suo grado di maturità. Questo rappresenta il passaggio fondamentale per cui i bambini e gli adolescenti passano dall’essere “oggetti” a essere “soggetti”, attivi e informati, di diritto. Ciò si esprime attraverso due diritti cardine sanciti dalla convenzione: il diritto del minore di esprimere un’opinione e il diritto di vedere riconosciuto a questa il dovuto peso. Su questi presupposti si basa la ricerca intrapresa da AGIA e UNHCR.

Nell’80% dei 15 centri visitati sono risultate carenti informazioni e orientamento, nel 53% di essi emerge la mancanza di attività di socializzazione, nel 47% delle 15 strutture coinvolte la permanenza in centri di prima accoglienza o emergenziali vanno ben oltre i 30 giorni previsti dalla legge. La problematica più segnalata dagli enti gestori è stata quella dei tempi gravosi per la nomina dei tutori. Ragazzi ed enti insieme hanno tra l’altro fatto rilevare l’impossibilità per i minori stranieri non accompagnati di tesserarsi con la Federazione gioco calcio. Nell’ambito della ricerca sono stati evidenziati i cosiddetti “Protection Gaps”, ovvero fattori di rischio, elementi di vulnerabilità e bisogni di tutela. Tra le problematiche di carattere sistemico vi è la permanenza dei minori nelle strutture di prima accoglienza, anche di carattere temporaneo, oltre i 30 giorni fissati dalla normativa e che si protrae nella maggior parte dei casi sino al compimento della maggiore età, comportando il mancato accesso ai progetti di seconda accoglienza della rete SPRAR, e ai servizi di assistenza e integrazione espressamente previsti per questa categoria di soggetti vulnerabili. In Italia, quasi il 60% dei circa 9.000 minori non accompagnati ospitati nei centri di accoglienza diventeranno maggiorenni nel 2018. La preoccupazione crescente è che, senza opportunità di istruzione o formazione professionale nonché privi di informazioni sui loro diritti e responsabilità, correranno un alto rischio di essere coinvolti in attività illegali e di sfruttamento. A questo si aggiunge l’assenza di procedure definite e omogenee per la Relocation e il Ricongiungimento Familiare ai sensi del regolamento Dublino III dei Minori non accompagnati. La mancanza di informazioni adeguate e credibili comporta il rischio di produrre disorientamento e sfiducia, provocando l’aumento dell’incidenza degli abbandoni volontari dalle strutture. Inoltre, il protrarsi indefinito dell’attesa e nelle incertezze sulle modalità ed esiti delle procedure comporta un ulteriore elemento di frustrazione e angoscia in cui il minore non sa se partirà e in che paese andrà. Ciò non permette al minore, magari, di imparare una lingua per integrarsi nel paese di destinazione. Poi, limitatamente alle strutture di accoglienza temporanea, viene sempre più richiesta la necessità di garantire il regolare svolgimento di attività di informazione e orientamento a misura di minore. A ciò si aggiunge la necessità di garantire percorsi coerenti di integrazione, a partire da una progettualità individuale che consenta l’individuazione dei bisogni specifici e delle risorse e competenze individuali per evitare il disorientamento sul proprio futuro dopo il compimento della maggiore età.

Alle problematiche di carattere sistemico si aggiungono quelle particolari di ogni centro che vedono i minori collocati in strutture destinate agli adulti e in cui non hanno i propri spazi; restrizioni della facoltà di movimento per proteggere le potenziali vittime di tratta; mancate garanzie di condizioni di vita adeguate riguardo alla protezione, al benessere e allo sviluppo sociale del minore o la mancanza del soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze del minore. Si sono registrati casi in cui un minorenne ha dovuto scegliere come spendere i propri 15€: se telefonare la madre o comprare scarpe più adatte all’inverno. Un’altra problematica è legata nell’eccessivo isolamento delle strutture che creano impossibilità nelle attività ricreative e di socializzazione ma anche di difficoltà per poter raggiungere i luoghi di istruzione. Spesso per poter raggiungere un centro abitato occorre percorrere una strada provinciale senza illuminazione o marciapiedi, comportando un enorme rischio alla sicurezza. Quello che sembra risultare è che molte delle problematiche siano legate all’esistenza di una normativa contraddittoria e a problemi infrastrutturali che vedono posti isolati privi di trasporti. Durante la ricerca sono stati gli stessi minori ad avanzare delle proposte come quelle di sostegno all’integrazione personalizzato; incontro con le comunità locali per combattere episodi di razzismo; contatto con famiglie per conoscere la cultura italiana; corsi di italiano; possibilità di socializzare con i coetanei e tutori volontari in grado di attivare un rapporto di conoscenza.

         Nel rapporto si sottolinea la necessità di garantire e promuovere spazi protetti di ascolto per i minorenni che giungono in Italia da soli e che hanno dunque specifiche esigenze di protezione, tanto più se fuggono da conflitti o da persecuzioni. A tribunali e garanti si raccomanda di assicurare informazioni esaustive sulla figura e i compiti dei tutori, dei quali è stata sollecitata ancora una volta la nomina.  Si chiede di chiarire e uniformare su tutto il territorio l’applicazione della procedura di ricongiungimento familiare dei minori non accompagnati ai sensi di Dublino III. La pubblicazione dell’anticipazione vuole sollecitare i responsabili a far in modo che le permanenze nelle varie strutture siano contenute nei tempi strettamente necessari. Altra raccomandazione è quella di attivare le procedure di accertamento dell’età solo qualora ci siano fondati dubbi su di essa e sempre su disposizione della Procura presso il Tribunale per i minorenni. Ai servizi sociali, infine, è stato chiesto di vigilare su chi realizza, a livello locale, gli interventi sociali.

La garante Filomena Albano ha affermato che “l’Autorità̀ garante deve essere il ponte tra la persona di minore età e le istituzioni nell’obiettivo di perseguire il diritto all’uguaglianza. Attraverso l’ascolto istituzionale, si intercettano le richieste e i bisogni, traducendoli in diritti e si individuano le modalità̀ per renderli esigibili, portando le istanze di bambini e ragazzi davanti alle istituzioni”. Felipe Camargo, rappresentante dell’UNHCR per il Sud Europa, ha aggiunto che “l’ascolto delle persone di minore età è indispensabile per far emergere i loro bisogni e le loro opinioni, e quindi, assicurare il rispetto dei loro diritti. Con questa importante iniziativa, vogliamo assicurare a questi bambini e adolescenti in condizioni di particolare vulnerabilità misure di protezione adeguate a soddisfare le loro specifiche esigenze di protezione e sviluppo. In particolare, dalle attività fin ora realizzate con i minori, è emerso con forza, il bisogno di essere supportati nel loro percorso di integrazione, in un contesto di accoglienza che deve essere dignitoso e rispettoso del loro superiore interesse”.

          Il 15 giugno AGIA e UNICEF hanno firmato un Protocollo di intesa, della durata di due anni, per sviluppare azioni congiunte di sostegno ai minorenni migranti e rifugiati in Italia con l’obiettivo di facilitare il processo di potenziamento e le attività di inclusione sociale, partecipazione, promozione dei loro diritti. In questo modo le associazioni si impegnano a collaborare per promuovere e realizzare attività di informazione e sensibilizzazione rivolte ai minori stranieri non accompagnati (MSNA) a proposito dei diritti sanciti dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC). La comunicazione farà uso di un linguaggio “a misura di bambino/adolescente”, e sarà proposta in un’ottica di valorizzazione delle diversità culturali attraverso azioni che promuoveranno in modo permanente il confronto, l’ascolto e la partecipazione dei bambini e degli adolescenti in tutte le occasioni e sedi opportune, anche e soprattutto a livello istituzionale. Tramite la sottoscrizione del Protocollo di intesa l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e l’UNICEF si impegnano in particolare a diffondere l’uso della piattaforma digitale U-Report on the Move , già sperimentata da UNICEF in oltre 40 Paesi e sviluppata in Italia per favorire l’ascolto e l’accesso alle informazioni dei giovani migranti e rifugiati (U-Reporters). La piattaforma digitale consente ai giovani che si iscrivono di esprimere la propria opinione, in forma anonima, sulle tematiche per loro più rilevanti. In Italia, il progetto U-Report on the Move è stato lanciato dall’UNICEF nel 2017 a sostegno dei minorenni migranti e rifugiati e conta più di 600 iscritti.

Ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani

EUROPA di

Il 18 giugno il Centro studio Roma 3000 ha tenuto il convegno “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi” ed è stata l’occasione per riflettere con ospiti importanti su ciò che succede e su cosa occorrerebbe fare. Le aree di crisi sono ovunque e di molti tipi. Possiamo pensare ai conflitti armati che si svolgono nel mondo, agli scenari dovuti all’economia e alle crisi economiche o a ciò che succede dopo i disastri ambientali. Il filo conduttore vede disagi, necessità di assistenza, diritti negati che hanno bisogno di tutela per uomini, donne e bambini.

     Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), ha sottolineato che ormai nella nostra società è sempre più importante e inevitabile porre l’attenzione alle relazioni internazionali e ai fenomeni collegati. A ciò si collega la necessità di coinvolgere e rendere partecipe l’opinione pubblica poiché certi fenomeni, come i conflitti che cadono in larga misura nel nord africa e nel Medioriente, assumono carattere di cronicità. Nella maggior parte dei casi vi sono attori che hanno interesse a mantenere il caos in casi come quelli del conflitto arabo-israeliano, quello siriano e quello libico. In questi contesti, come ha evidenziato Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), si aggiungono questioni come la pericolosità per gli operatori umanitari. A riguardo abbiamo scambiato qualche rapida domanda:

EA: ultimamente viene messo in risalto la sicurezza degli operatori sanitari, cosa sta accadendo?

Rosario Valastro: ci troviamo in un periodo in cui veramente sembra che le norme del vivere civile abbiano avuto un’involuzione clamorosa di oltre un secolo e mezzo. Abbiamo delle problematiche di pericolo di tutela degli operatori sanitari dove esistono dei conflitti in questo momento. La Siria è quella che purtroppo va alla ribalta per la quantità dei numeri, abbiamo circa 90 tra volontari e operatori che hanno perso la vita in questi anni. Anni in cui anche l’ONU ha perso il conto di quanti civili sono stati uccisi durante la guerra. Ma quello della Siria, ripeto, è alla ribalta per l’enormità dei numeri ma questo accade anche in Yemen, accade anche altrove e pone un serio problema circa la reale volontà delle parti di tutelare la popolazione civile. Noi sappiamo che la tutela degli operati sanitari, delle strutture sanitarie e del materiale sanitario è funzionale alla cura della popolazione civile e alla cura dei soldati feriti. Per questo le strutture sanitarie di per sé sono riconosciute come neutrali, non sono riconosciute come parti del conflitto e vanno tutelate. Se viene a mancare, come sta venendo a mancare, con gli esempi che ho fatto e con altri che si possono fare, allora anche la guerra diventa qualcosa di non più governabile nei confronti delle popolazioni inermi.

EA: può dirci a cosa può essere legata questa escalation?

Rosario Valastro: certamente c’è una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni. Cioè la guerra, chiunque parli della guerra, ha nel suo immaginario qualcosa che non ha delle regole. In realtà, la guerra ha delle regole che sono state costruite nel corso di questo secolo e mezzo dalle convenzioni di Ginevra in poi. Se questo non è più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, e quindi comunque l’obiettivo è vincere a discapito dei morti che riesco a fare, allora queste escalation producono un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di vittime, quindi morti, ma anche di persone che perdono le case e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. Un aumento esponenziale di vulnerabilità che ben poco ha a che vedere con la guerra. La guerra è, come noi sappiamo, colpisci le zone strategiche del nemico, colpisci i depositi di armamenti, colpisci quartier generali. Non colpisci la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Se tu lo fai, come è stato anche fatto durante alcuni conflitti in Europa negli anni ’90, lo fai con delle idee di genocidio, di pulizia etnica, che sono fuori dall’orbita umanitaria.

 

Nel corso dell’intervento ha poi sottolineato che il diritto internazionale umanitario è nato per garantire l’incolumità di operatori umanitari, civili e feriti di guerra ma ad oggi sembra essere ritornati a quei tempi in cui tutto ciò non era garantito. È messo tutto in discussione e stiamo registrando l’imbarbarimento delle condizioni di vita dei civili nelle zone di guerra. Dobbiamo ricordarci che senza gli operatori umanitari si indeboliscono i civili poiché viene meno il rispetto della vita umana, ovvero la condizione principe per il rispetto del diritto dell’uomo.

Grazie all’intervento di padre Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia) è stato possibile approfondire la questione e affrontare il tema delle migrazioni di cui noi assistiamo solo il fenomeno più visibile, quello degli sbarchi. Il tema degli sbarchi è un tema divisivo della politica e dei rapporti tra stati e all’interno degli stati. È un tema che richiama la necessità di adeguate misure di accoglienza per persone che altrimenti rimangono senza futuro, senza storia e senza la possibilità di dare un futuro ai propri figli. A questo proposito abbiamo potuto chiedere un commento sui recenti fatti dell’Aquarius:

EA: può dirci, secondo lei, cosa può significare quello che è successo con la nave Aquarius?

Padre Mussie Zerai: La settimana appena trascorsa, il fatto che l’Aquarius con tutto il suo carico umano è stata respinta, non è un segnale positivo. Non era il modo di gestire o di fare un braccio di ferro con l’unione europea o con malta per arrivare a una soluzione perché usare persone già provate dal viaggio, persone in cerca di protezione e di sicurezza, usate come “armi di ricatto” verso l’Europa non è il modo di fare politica, non è il modo gestire le cose umanamente e civilmente. Io spero che sia una forma provocatoria e isolata che però al tavolo dell’unione europea alla fine mese, in cui i vari paesi o ministri che si incontreranno, troveranno una soluzione complessiva e basata soprattutto sulla solidarietà e non sulle chiusure ed esternalizzazione delle frontiere o su tentativi di scaricare il peso su paesi già fragili sia economicamente che politicamente. Perché scaricare tutto sui paesi del nord africa o dell’africa subsahariana, pesa in tutti i sensi perché quei paesi sono già democraticamente fragili e alcuni addirittura non garantiscono il minimo standard del rispetto dei diritti umani. Vuol dire consegnare queste persone nelle mani di chi violerà questi diritti. Abbiamo visto anche gli accordi fatti con la Libia e i Lager che ci sono nella Libia, sono la chiara testimonianza.

EA: Tramite questa criminalizzazione delle ong e con questo gioco di forza su associazioni che non rappresentano un governo, viene messo in dubbio quel principio di sussidiarietà del privato, ovvero viene messa in discussione anche la nostra capacità di portare il nostro contributo li dove lo stato non riesce o non aiuta dove mette in difficoltà le stesse associazioni?

Padre Mussie Zerai: questo è il tentativo di scaricare le proprie responsabilità perché le ong sono intervenute li dove gli stati hanno lasciato un vuoto. Dopo la chiusura di mare nostrum, si è creato un vuoto da colmare perché la gente continuava a morire. Ecco, la società civile, anche con la presenza delle ong, è venuta in soccorso. Anche tramite l’aiuto delle ong che hanno soccorso, l’Italia, oltre che ha potuto continuare a salvare le vite umane, ha anche risparmiato un miliardo di euro che altrimenti avrebbe dovuto spendere per sforzarsi a salvare vite umane se non si vuole lasciar morire queste persone. Quindi sia sull’aspetto morale etico e civile ma anche sull’aspetto economico, la presenza delle ong per l’Italia e l’Europa è stato di grande aiuto. Criminalizzarli vuol dire scaricare su di loro le proprie responsabilità. Bisognerebbe chiedere agli stati perché hanno lasciato quel vuoto, perché nessun altro programma simile al mare nostrum è subentrato a fare quel lavoro che mare nostrum faceva. Ricordiamo che mare nostrum è nato dopo due grandi tragedie successe a distanza di una settimana nel 2013, il 3 ottobre e successivamente l’11 di ottobre. Che cosa si doveva continuare a vedere? Si voleva continuare a raccogliere cadaveri? Non è quello status che l’Unione Europea, la sua fondazione e i suoi valori  gridati corrispondevano a quella realtà che stavamo assistendo per cui il mediterraneo è diventato un cimitero a cielo aperto e quindi le ong hanno salvato la faccia e l’onore di tutta l’Europa. Criminalizzarli significa essere responsabili.

Padre Mussie Zerai ha poi sottolineato che il diritto dei deboli è di fatto un diritto debole perché non viene rispettato tanto che oggi parliamo di dover tutelare le leggi e le convenzioni. 27 anni fa padre Mussie è arrivato come minore non accompagnato e venne affidato al comune di Roma ma ricevette aiuti non previsti dalla legge. Ad oggi molti minori scappano dai centri perché si sentono in gabbia e non vedono una prospettiva per il proprio futuro, in molti spariscono e non si sa che fine fanno. È quello che succede a chi arriva per mare nei casi di respingimento, soprattutto nei casi di respingimento in Libia dove non sono assicurati i diritti umano e dove le persone (soprattutto chi migra) possono essere soggette a trattamenti inumani e degradanti. A ciò si aggiunge che la corte internazionale dovrebbe pronunciarsi dato che l’ONU ha recentemente condannato uno di quei comandanti con cui ci si sono fatti accordi per contenere i flussi migratori. È una di quelle persone che di giorno indossano la divisa e di notte lavorano con e come trafficanti. È un fenomeno che per poter essere risolto ha bisogno di prevenzione e lavoro costante nel lungo termine. L’Eritrea è l’esempio che anche la dittatura crea dei rifugiati. Una dittatura che usa la presenza di un vicino scomodo come giustificazione per costringere i giovani a una leva obbligatoria indeterminata che non dà futuro. In Eritrea non vi è una costituzione che tutela i cittadini, non vi è una stampa libera, non vi è libertà di movimento o libertà religiosa. Tutto questo produce una fuga di massa verso il paese più vicino ma spesso trovano condizioni peggiori e, non potendo tornare a casa, proseguono il viaggio. Una delle poche soluzioni perseguibili è quello di risolvere, certamente nel lungo termine, i conflitti ma spesso vi è un’immobilità politica. Per esempio, l’Etiopia ha comunicato di voler fare pace con l’Eritrea ma l’Italia, che è tra i garanti per la pace di Algeri, non ha fatto alcuna mossa. Se si facesse questa pace cadrebbe ogni alibi del regime e finirebbe l’esodo di giovani e giovanissimi che scappano prima che scatti l’obbligo della leva. Ultimamente si parla di istituire degli Hotspot dell’Unione Europea in Africa, campi di identificazione, ma non si tiene conto che ci sono tanti campi rifugiati che hanno un problema di sicurezza. Anzi, gli stessi campi sono il centro del traffico degli esseri umani come accade tra il Sudan e il Sinai: il campo era sotto gestione dell’UNHCR ma i militari sudanesi, addetti alla sicurezza, erano pagati dai trafficanti. I militari la notte facevano entrare i trafficanti che sceglievano le persone da vendere o a cui togliere gli organi per il traffico di organi. Le prove si hanno grazie al lavoro di BBC e CNN che ha documentato il ritrovamento dei corpi abbandonati nel deserto e che, dopo un’attenta autopsia, riportavano l’estrazione di organi.

L’Africa non ha bisogno di aiuto in denaro, è ricco di risorse già di suo, ma serve aiuto per trasformare la ricchezza in democrazia e diritti. L’Africa perde 190 miliardi in risorse naturali e umane ogni anno e ne riceve 30 dai donatori. Il vero peso delle migrazioni è quindi nei paesi di partenza poiché il costo del viaggio può essere sostenuto solo da pochi. Per esempio, in Etiopia un visto per l’Italia costa 10.000 dollari, un visto Schengen costa 15.000 dollari, mentre la tratta che fanno milioni di persone per arrivare da noi costa 5.000 dollari. Occorre che quei 190 miliardi siano trasformati in dignità, diritti e futuro. Occorre, poi, ricordare che la guerra in Libia non è stata una guerra libica ma una guerra tra stati dell’Europa, i libici sono stati sotto Gheddafi per 42 anni. Lo stesso vale per la guerra in Sud Sudan in cui combatte chi ha investito nelle pipeline per portarle nel Mar Rosso o nel Mar Indiano. Ciò che va sottolineato è che nessuno paese africano produce armi e che queste vengono comprate da paesi come la Russia, la Germania, la Cina, gli Stati Uniti e dalla stessa Italia (solo per citarne alcuni) e che andrebbe vietata la vendita di armi in queste zone.

     Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia) ha portato sul piatto della discussione anche i conflitti che sono ancora aperti nella nostra Europa e di cui si parla troppo poco come quello in Ucraina e nella regione del Donbass (a riguardo il Centro Studi Roma 3000 ha tenuto un convegno a novembre). L’ambasciatore spera che quella che viene chiamata “guerra silenziosa” non diventi la “guerra dimenticata” poiché sono state riscontrate gravi violazioni di diritti umani nella penisola della Crimea dove avvengono sistematiche restrizioni alle libertà di espressione, di credo, di riunione e di partecipazione. In questo senso vi è un’impossibilità di avere un’educazione o una formazione nella propria lingua (tataro o ucraino), vi è la chiusura dei mezzi di informazione e vi sono 64 cittadini prigionieri politici tra tatari e registi e scrittori ucraini che dal 2014 sono in condizioni paragonabili ai Gulag sovietici. Oltre a questo vi è il reclutamento di giovani ucraini da parte dei russi. Il 14 giugno il parlamento europeo ha votato una risoluzione per cui chiede il rispetto dei principi democratici e la libertà per Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia.

In tutti queste problematiche vi sono anche i bambini, come l’intervento di Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”) ha sottolineato. Un miliardo e 500 mila bambini ad oggi non hanno una protezione, cioè più della metà dei bambini al mondo, e 357 milioni di bambini vivono in aree di conflitto (1 bambino su 6), ciò rappresenta un aumento del 75% dagli anni Novanta. Queste guerre lunghe e croniche colpiscono i bambini e spesso vengono colpiti volontariamente per tattica. Colpire loro vuol dire colpire l’infanzia, le famiglie, la comunità e il futuro. Le guerre vedono concentrare i propri obiettivi sulle scuole e gli ospedali, quelli che una volta erano i luoghi sacri di protezione e assistenza a civili e ai feriti. La relatrice recentemente è stata nel campo profughi di “Zaatari” dove si sono rifugiati i bambini o dove sono nati. Solo in questo campo nascono 80 bambini a settimana e la permanenza media è di 15 anni. Le persone che vi ci sono rifugiate all’inizio pensavano di tornare in Siria in breve tempo, poi sono state prese dallo sconforto e infine hanno sviluppato la resilienza. I genitori intervistati nei campi pensano che dare un’educazione ai bambini è un’arma per poter tornare a casa, in Siria, dove il sistema scolastico e quello sanitario è collassato completamente. In questo senso è importante lavorare anche dopo la guerra dato che deve essere stimolata e assistita la resilienza delle persone in modo da poter avere un futuro e una prospettiva.

Nei contesti di crisi, come evidenziato da Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”) nel suo intervento, può essere importante l’apporto delle aziende. In questo senso è importante l’aspetto privatistico che emerge nel rapporto “datore di lavoro – lavoratore”: i datori di lavoro, ancora prima del rapporto stesso, non devono avere una condotta discriminatoria verso le persone per etnia, religione o orientamento sessuale. Tutto ciò rientra anche a livello internazionale tramite l’impegno dell’ILO nel dettare linee guida per le aziende come quella che riguarda la tutela e la libertà di associazione e sindacati in quanto necessari per tutelare i propri diritti. Nelle linee guida vengono prese in considerazioni tematiche quali il lavoro minorile e le categorie vulnerabili come migranti, donne incinte o donne di ritorno dalla maternità. Inoltre, è importante l’aspetto pubblicistico rappresentato dal rapporto “Azienda – Stato”. In questo senso deve esserci una responsabilità sociale delle imprese che da una parte, tramite l’esportazione di lavoro all’estero, hanno opportunità di business e dall’altra possono portare forme di sviluppo economico per quei paesi in via di sviluppo o in crisi. L’apporto di imprese rispettose dei diritti umani è importante per evitare quei fenomeni che vanno dal disastro del Rana Plaza ai campi di Rosarno, in cui lo sfruttamento e la violazione dei diritti umani viene fatta in nome del profitto. Oltre a questi aspetti le imprese che lavorano in aree di crisi, magari essendo imprese di ricostruzione edile o di ristorazione, possono apportare il proprio sostegno alle varie Ong.

In Afghanistan sono morti 10.000 civili, in Yemen 50.000, in Siria non ci sono dati ufficiali dell’ONU ma la Croce Rossa Italiana conta la morte di 70 operatori umanitari, nel 2017 Save the Children ha perso 4 persone in un attacco kamikaze nel centro operativo in Afghanistan, in Donbass negli ultimi 3 anni si contano più di 10.000 vittime e di 1 milione e 700 mila persone spostane nel proprio paese. A questi numeri si aggiungono quelli che vedono la nascita, solo quest’anno, di 18.000 bambini nei campi profughi e nelle pessime condizioni dei campi. Questi sono numeri ma i vari interventi hanno trovato un punto fondamentale di incontro, dietro a questi numeri ci sono le storie di persone, di uomini, di donne, di bambini e di famiglie. Dall’incontro esce la volontà di voler parlare innanzitutto delle persone e delle vite delle persone e si ricorda che l’assistenza ai più deboli è richiesta degli stessi pilastri dell’unione europea e della nostra cultura. Questi pilastri ci impongono di aiutare chi è in difficoltà, di mettere le persone al centro del dibattito, di mettere il singolo con la propria storia di fronte all’enormità del numero e di mettere al centro le persone e non il profitto. Parlare di persone nei vari casi dibattuti ci permette di lottare la disumanizzazione che spesso viene fatta anche involontariamente e di tutelare il diritto dei più deboli per renderlo il diritto più forte perché spesso si fa abuso della parola sicurezza ma sono i più vulnerabili ad averne bisogno. Occorre ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani e rispettare la vita, perché tutte le vittime che abbiamo ricordato sono vittime della mancanza di rispetto alla vita.

 

Durante il convegno sono intervenuti: Alessandro Conte (presidente Centro Studi Roma 3000), Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”), Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia), Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia), Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”).

 

Coordinate per l’estate: il Caso Aquarius

EUROPA/POLITICA di

Era una notte buia in cui, da una parte, era difficile distinguere dove fosse il mare e dove iniziasse il cielo notturno, e, dall’altra, il sole si stava preparando ad albeggiare. In questi frangenti un rimorchiatore si adopera per il soccorso di due gommoni ma la situazione si fa critica non appena una delle due imbarcazioni si distrugge, facendo cadere 40 persone in acqua. Alla fine, sono 229 le persone recuperate, delle luci rosse illuminano le facce dei sopravvissuti: c’è chi festeggia, chi sa o pensa che non è ancora finita, c’è chi bacia i bambini e cerca di dargli il proprio affetto. Queste sono state le persone che l’Aquarius ha salvato il 10 giugno e a queste si aggiungono le 400 persone soccorse dalla Marina Militare Italiana, dalla Guardia Costiera e da navi mercantili. È una notte intensa, in totale vengono raccolte 629 persone: tra loro 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte, soccorse attraverso 6 diverse operazioni. Il ministro degli interni, con l’aumento delle partenze nei giorni precedenti, aveva dichiarato che avrebbe impedito alle Organizzazioni Non Governative (ong) che operano nel mediterraneo di continuare a svolgere il loro “ruolo di taxi del mare”. A questa dichiarazione segue una lettera urgente al governo di Malta, con cui si dichiarano chiusi i porti italiani e si dice che il porto di “Valletta” (capitale maltese) è il più sicuro. Malta risponde che però non è sua competenza in quanto il soccorso è avvenuto nella Search and Rescue area (la SAR) libica con il coordinamento del centro di Roma. Per Malta devono sbarcare in Libia, in Tunisia o in Italia per una questione di principio: la necessità che vengano rispettate le regole. Il ministro degli Interni italiano dichiara che questa è “un Italia che comincia a dire no, al traffico di esseri umani, al business dell’immigrazione clandestina e che l’obiettivo è quella di garantire una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia”. Aggiunge che nel mediterraneo ci sono navi con bandiera olandese, spagnola, britannica o di Gibilterra, che ci sono Ong tedesche e spagnole, che c’è Malta che non accoglie, che c’è la Francia che respinge alla frontiera e una Spagna che difende i confini con le armi. Intanto si procede verso Nord in attesa dell’assegnazione di un porto sicuro. Cala la sera e arrivano le istruzioni dal coordinamento della Guardia Costiera italiana di rimanere in Standby a 35 miglia Nautiche dall’Italia e 27 da Malta.

     Questa è un primo riassunto di ciò che è successo il primo giorno del “Caso Aquarius”, il seguente vede le persone a bordo unite nella preghiera mattutina ancora ignari dello stallo diplomatico, donne incinte, persone con gravi ustioni chimiche, medici che lavorano a pieno regime per garantire le cure a tutti, diversi pazienti con sindrome di annegamento e ipotermia, nonché paura per le scorte che scarseggiano. Passa il tempo e, tra le dichiarazioni del primo ministro Spagnolo acquisite dai media all’interno della nave e per mancanza di ufficialità da parte del MRCC italiano, arriva il momento di avvisare le persone a bordo. Gli operatori mostrano sulla cartina dove sono fermi e riportano della chiusura dei porti. Crescono ansia e disperazione a bordo, c’è chi minaccia di buttarsi in mare per paura del rimpatrio in Libia. Nel frattempo, in Italia, Il ministro degli Interni tiene una conferenza stampa dove dichiara di voler creare un fronte di discussione in cui ci deve essere il primo segnale per non sostenere il peso, si esprime la disponibilità di trasbordare donne e bambini che si trovano a bordo e che si vuole gestire la situazione, in futuro, salvando le persone prima delle partenze. Durante la conferenza stampa sottolinea di voler operare sui costi dei “finti profughi” dichiarando che solo 6 su 100 sono rifugiati politici e che altri 4 su 100 sono possibili titolari di protezione sussidiaria. Il discorso continua dicendo che il costo è di 35€ cada uno e che deve scendere alla media europea, dichiarando, anche, che vuole “vedere se con meno soldi queste associazioni saranno ancora così generose”. Il ministro degli interni vuole lavorare anche sui tempi poiché dallo sbarco fino al termine della procedura di accertamento della domanda passano 3 anni e di voler lavorare su tutte quelle forme che definisce tutte italiane per garantire “ai rifugiati veri assistenza e che sono vittime degli sprechi di denaro”.

Commentando la situazione, Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia, ha dichiarato: “I bambini e gli adolescenti e le persone più vulnerabili che sono a bordo della nave Aquarius di SOS Mediterranée non possono rimanere vittime di una disputa tra stati. Le condizioni di sofferenza, privazioni e paura che hanno certamente vissuto in Libia e durante nel viaggio non possono essere ingiustamente prolungate. È necessario e urgente garantire loro un approdo sicuro senza ulteriori indugi. Le dispute tra stati vanno risolte in sede diplomatica senza prendere in ostaggio donne e bambini”.

Elisa De Pieri, ricercatrice di Amnesty International sull’Italia, ha così commentato la situazione: “Chiudendo i loro porti, Italia e Malta non solo stanno voltando le spalle a oltre 600 persone disperate e in condizioni vulnerabili, ma stanno anche violando i loro obblighi di diritto internazionale. Gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell’Aquarius hanno rischiato la vita in viaggi pericolosi per fuggire dalle terribili violenze in suolo libico solo per finire in mezzo a un’inconcepibile disputa tra due stati europei. Tenere le navi delle organizzazioni non governative ferme in mare in attesa di un porto dove approdare significa solo che meno navi di soccorso sono operative per aiutare chi può trovarsi in difficoltà proprio in questo momento. Italia e Malta devono aprire i loro porti e gli altri stati dell’Unione europea devono condividere la responsabilità di offrire protezione, soccorso e procedure d’asilo”.

     Si avvicina di nuovo la sera, la situazione è statica e, nel frattempo, la nave Diciotti della marina militare italiana con 937 migranti si dirige verso Catania. Solo nella giornata successiva, dopo i rifornimenti ad opera delle autorità italiane, si ha una decisione e si procede per spostare alcune persone sulle navi italiane per formare una carovana verso la spagna. Il viaggio, come sappiamo, ha visto delle difficoltà legate alle condizioni del mare e si è concluso domenica a Valencia. La storia ha visto inoltre delle tensioni tra Francia e Italia (con Macron che ha definito “vomitevole” la decisione dell’Italia) e, come sembra, la volontà della Francia di prendere parte dei migranti attraccati in spagna. Qui, in ogni caso, si può leggere il resoconto presentato da Salvini al senato.

Il flusso migratorio

     Le decisioni di Italia e Malta, ma anche quella Spagnola, di certo non modificano le basi geopolitiche dei flussi migratori. Occorre, innanzitutto, riconoscere che non si tratta di “un’emergenza” poiché è una “realtà strutturale”, di cui gli sbarchi rappresentano solo la parte più visibile, e che si tratta di un flusso alimentato dalle condizioni avverse nei paesi di origine e non dalle ong. Gli esempi non parlano solo di guerra ma anche di profonde crisi umanitarie o di violazioni di diritti umani. Per esempio, in Eritrea è in vigore l’obbligo di prestare servizio militare a tempo indeterminato. Questo fenomeno continua nonostante i richiami da parte della comunità internazionale a limitare il periodo a 18 mesi e a non sottoporre i minori all’addestramento militare, che spesso avviene in campi militari in condizioni gravi e dove le donne subiscono forme di trattamento come la riduzione in schiavitù sessuale o la tortura. Altro caso può essere la Somalia che, oltre alle problematiche politiche, vede un flusso migratorio dovuto al cambiamento climatico, questo dovuto ad alluvioni e siccità che causano carestie ed epidemie. Ma anche fenomeni di terrorismo come quelli in Nigeria ad opera del gruppo armato di Boko Haram, o fenomeni che vedono esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e tortura dei detenuti. Va sottolineato, poi, che per sostenere i paesi di origine attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

     Per il momento, quindi, l’azione si è concentrata prevalentemente sugli accordi bilaterali o comunitari con stati o attori politici extraeuropei (come quello con la Turchia) che possono solo contenere le partenze o facilitare i rimpatri ma sono, inoltre, sempre a rischio rinegoziazione. Rischio che sembra concretizzarsi nel momento in cui, in coincidenza dell’entrata del nuovo governo Italiano, vi è un picco delle partenze dalla Libia, dove sembrerebbe siano ridotti i controlli e dove dovrebbe dirigersi il ministro degli interni italiano a fine giugno, come da lui stesso annunciato. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea, tra cui l’Italia, hanno attuato una serie di misure per sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e il mar Mediterraneo rafforzando la capacità della Guardia costiera libica di intercettare migranti e rifugiati e riportarli in Libia. L’Italia e altri stati dell’Unione europea hanno fornito alla Guardia costiera libica vario supporto, tra cui almeno quattro motovedette e la formazione del personale. All’inizio del 2018 la Guardia costiera italiana ha iniziato a trasferire a quella libica il coordinamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali vicine alla Libia: ciò è stato reso possibile solo dalla collaborazione delle navi e del personale in Libia della Marina italiana. Solo nell’aprile 2018, la Guardia costiera libica ha intercettato e riportato in Libia 1485 migranti e rifugiati, portando a 5000 (secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) il totale delle persone intercettate nei primi quattro mesi dell’anno. I migranti e i rifugiati intercettati vengono trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale. Questi centri sono tristemente noti per il carattere arbitrario e indeterminato della detenzione e, anche qui, per le violazioni dei diritti umani. I migranti e i rifugiati intervistati dai ricercatori di Amnesty International hanno denunciato terribili violenze tra cui torture, lavori forzati, estorsioni e uccisioni illegali da parte di funzionari libici, trafficanti e gruppi armati. Amnesty International ha denunciato queste pratiche e ha accusato i governi europei di essere complici fornendo attivo sostegno alle autorità libiche negli intercettamenti e nei trasferimenti nei centri di detenzione.

     A ciò si aggiunge che già nel 2012 l’Italia ha avuto la condanna definitiva dalla corte europea dei diritti dell’Uomo per la doppia violazione dell’articolo 3 della CEDU, per la violazione dell’articolo 4 del protocollo 4 della CEDU e per la violazione dell’articolo 13 della CEDU. Le violazioni riguardavano il fatto di aver esposto i ricorrenti al rischio di trattamenti inumani e degradanti in Libia, di averli esposti al rinvio nei paesi di origine per cui è stato ricordato il principio Refoulement indiretto (in caso di espulsione lo stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo stato verso cui rinvia offra garanzie sul fatto che non persegua trattamenti proibiti), perr aver impedito l’esame delle condizioni particolari dei ricorrenti e per non aver garantito l’acceso a un rimedio interno per fare ricorso al respingimento.  Si trattava del Caso Hirsi jamaa e altri c. Italia: era il maggio 2009 quando circa 200 persone su 3 barche dirette in Italia sono state intercettate dalle motovedette italiane nella zona SAR Maltese. Queste sono state trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia in conformità degli accordi Bilaterali con la Libia dell’allora Governo Berlusconi.

     In relazione alle azioni dell’ex ministro degli Interni Minniti, molte associazioni hanno sottolineato che queste mosse hanno portato alla contrazione dei flussi migratori a fronte dell’aumento della percentuale di morti o dispersi in mare. A maggio Save the Children ha reso noto che nel primo trimestre del 2018 vi è stato un ulteriore contrazione del flusso migratorio a partire da luglio 2017. I dati ufficiali del ministero dell’interno in questo periodo contavano 6296 sbarchi con una variazione negativa del -55% rispetto al trimestre precedente. L’organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) a maggio ha dichiarato che erano stati 383 i migranti morti nella rotta del Mediterraneo Centrale nei primi 4 mesi del 2018. Alla mattina del 7 maggio, il numero totale di migranti arrivati in Italia dall’inizio dell’anno è stato di 9567, un calo di circa il 76 % rispetto agli arrivi dello stesso periodo dell’anno scorso, quando i migranti soccorsi e arrivati in Italia furono 41165. Nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Inoltre, l’OIM nota come nel periodo di riferimento vi siano state anche le operazioni di soccorso realizzate dalla guardia Costiera libica: 4964 a fine aprile 2018. Ossia su ogni tre migranti che partono dalla Libia, uno è soccorso dalla guardia costiera libica e riportato indietro.

Il problema della SAR

     Secondo la conferenza dell’international Maritime Organization (IMO) del 1997 il mediterraneo è stato suddiviso in aree di responsabilità in cui l’area Italiana prevede 1/5 del mediterraneo, a cui si aggiunge la Convenzione di Amburgo del 1971 che prevede l’obbligo di istituire il servizio SAR (Search and Rescue) nelle aree di responsabilità. Oggi i salvataggi vengono spesso effettuati a ridosso delle acque territoriali libiche, dunque nella zona SAR della Libia. Essendo evidente che la Libia non possa essere considerata “luogo sicuro”, e con Malta che si tira indietro giustificandosi con l’impossibilità di accogliere nuovi migranti viste le dimensioni dell’isola (su cui abitano poco più di 430.000 persone), la responsabilità ricade sulle autorità italiane. Occorre ricordare che il nuovo attivismo della guardia libica è dovuto al memorandum di intesa di Minniti e che la Libia ha dichiarato la propria SAR ma non è ancora ufficialmente riconosciuta, anche se ha ratificato la convenzione. Quindi, ancora secondo la Convenzione di Amburgo, lo stato che Coordina le operazioni di soccorso deve stabilire il cosiddetto “Porto sicuro”. Il Place of safety è da intendersi come il luogo dove vengono fornite le garanzie fondamentali quali l’assistenza sanitaria e la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale. L’UNHCR ha spinto per una definizione di luogo sicuro anche come “geograficamente più vicino”, ma non sempre il luogo sicuro è lo Stato costiero più vicino al luogo ove avvengono le operazioni di soccorso. Non sono infatti considerati “sicuri” porti di paesi dove si possa essere perseguitati per ragioni politiche, etniche o di religione, o essere esposti a minacce alla propria vita e libertà. Al momento, però, l’assenza di una chiara definizione vincolante di luogo sicuro, e di un accordo su quali stati lo siano, crea incertezza anche rispetto alla recente posizione assunta dall’Italia.

In ogni caso, l’MRCC di Roma non può lasciare morire le persone in mare, salvare la vita in mare è un obbligo sia per il diritto del mare, per esempio con la Convenzione di Montego Bay, che per la costituzione Italiana. Nell’Articolo 2 della costituzione italiana si sancisce la solidarietà come dovere inderogabile in quanto “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Mentre all’articolo 98 della convenzione di Montego Bay si sancisce il dovere di ogni stato di esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e a procedere quanto più velocemente è possibile al soccorso. Inoltre, l’omissione di soccorso è un reato ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione. Ciò obbligherebbe in ogni caso le navi a prestare soccorso. Il contenzioso tra Italia e Malta ha visto l’Italia dire che lo sbarco non deve necessariamente avvenire nel paese che si è preso in carico del coordinamento e che si può stabilire anche un porto di diversa nazionalità, mentre la posizione di Malta è che lo sbarco è di totale competenza di chi si è preso in carico del coordinamento. In generale, Il singolo stato ha la facoltà di esercitare la propria sovranità chiudendo i porti, però tale facoltà non vale in caso di trasferimento di persone in pericolo o che hanno bisogno di cure urgenti. In caso di pericolo, giuridicamente, si andrebbe incontro alla violazione delle convenzioni sui diritti umani, la convenzione di Ginevra e la CEDU. Quindi la chiusura dei porti comporterebbe la violazione di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati, a partire dal principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Il rifiuto di accesso ai porti di imbarcazioni che abbiano effettuato il soccorso in mare può comportare la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) (proteggere la vita e garantire l’integrità fisica e morale), qualora le persone soccorse abbiano bisogno di cure mediche urgenti, nonché di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali), e tali bisogni non possano essere soddisfatti per effetto del concreto modo di operare del rifiuto stesso. Mentre il rifiuto, aprioristico e indistinto, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’articolo 4 del Protocollo 4 alla CEDU. Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica.

Protezione internazionale, protezione umanitaria e migranti economici

     Il ministro degli interni, in conferenza stampa, ha dichiarato che quelli che hanno diritto allo status di rifugiato sono solo una minima parte. Secondo i Dati del ministero dell’interno che riguardano le decisioni dei richiedenti asilo nell’anno di riferimento del 2017 vedono l’8% meritevoli dello status di rifugiato, l’8% dello status di Protezione sussidiaria, il 25% del permesso per protezione umanitaria e il diniego nel 58% dei casi totali esaminati (81527 domande esaminate, indipendentemente dalla data di richiesta di Asilo). Occorre qui specificare che solamente per quanto riguarda i meritevoli di protezione internazionale (Rifugiato e Protezione sussidiaria) la quota sarebbe già del 16%, mentre aggiungendo anche la protezione umanitaria (quella che Salvini definisce come forma “tutta italiana”) si sale a un consistente 41%. Occorre tenere in conto che questi dati sono relativi solo alle domande esaminate durante l’anno e che per lungaggini burocratiche possono essere presentanti molto tempo addietro. Occorre poi specificare che per la determinazione dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria o di protezione umanitaria esiste un’unica procedura e che lo status viene determinato solo alla fine. Inoltre, per quanto riguarda la dinamica dello sbarco e dei respingimenti, è impossibile distinguere a priori tra chi è un possibile detentore di queste forme di protezione dai migranti economici: resta pur sempre, a livello di normativa internazionale, il diritto all’esame della propria domanda e il diritto al ricorso in caso di diniego. All’articolo 1 della convenzione di Ginevra per “Rifugiato” si intende il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato (per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica) si trova fuori dal territorio dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale paese, oppure si intende un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o non vuole farvi ritorno. Occorre specificare che lo status di rifugiato non è strettamente correlato alla guerra, bensì alla persecuzione (anche se un’evoluzione recente della giurisprudenza tende a specificare che in contesti di violenza generalizzata i casi di persecuzione possono aumentare) riguardo individui o gruppi. Simile è la “Persona ammissibile alla protezione sussidiaria” per cui si intende il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel paese di origine o, nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva la precedente dimora abituale, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno. Tipologia prevista dal nostro ordinamento è la “protezione umanitaria” quando ricorrono “gravi motivi umanitari”. Questa subentra quando Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non possono essere adottati se ricorrono “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionale dello stato italiano”.  Per casi umanitari si intendono le condizioni di salute, familiari o di età, le pene sproporzionate per la retinenza alla leva e la diserzione o la punizione per la fuga del paese, ma anche carestie o epidemie. Occorre specificare che questo non è uno status ma un’autorizzazione al permesso di soggiorno valida due anni (a differenza dei cinque anni previsti dagli status di protezione internazionale) e che prevede molti meno diritti rispetto alla protezione internazionale. Quindi la protezione umanitaria non è una tutela prevista per i migranti economici, i quali vengono diniegati. Occorre poi dire che la determinazione dello status ha delle problematiche intrinseche alla natura delle persone esaminate. Per esempio, le persone esaminate possono essere state vittime di tortura o possono essere dei minori, per cui, soprattutto per quanto riguarda a persone con disturbi da stress post traumatico, è possibile che si venga diniegati ingiustamente (in quanto il racconto potrebbe essere soggetto a incoerenze o a buchi di memoria) e che si riceva una delle tre forme dopo il ricorso e un esame più attento.

     Ad oggi il resto dell’Unione europea non sta offrendo una azione di aiuto concreta e una soluzione al fenomeno in quanto non vi è una chiara e condivisa idea di come superare il regolamento di Dublino III. Elemento forte nella decisione di chiudere i porti consisterebbe il problema legato al criterio di primo ingresso. Il regolamento Dublino nasce per introdurre i criteri e i meccanismi di determinazione dello stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Per cui la paura secondo cui, per alcune retoriche, in Italia rimarrebbero comunque tutti gli immigrati economici è falsa dato che lo status viene deciso solo al termine della procedura e dato che il sistema Dublino decide lo stato che si prende in carico della procedura.  Ma come funziona in pratica il regolamento Dublino? Per prima cosa lo stato membro delega ad un ufficio specifico l’applicazione del regolamento e la trattazione dei casi; poi gli uffici si scambiano informazioni per applicare i criteri base per stabilire lo stato competente; infine si individua lo stato che “prende in carico” il richiedente e, in caso, si procede al trasferimento. Per procedere al trasferimento in un altro stato devono sussistere i cosiddetti motivi umanitari legati al “Ricongiungimento familiare” oppure vi può essere l’esercizio della clausola di sovranità, per cui lo stato decide autonomamente la presa in carico. Altrimenti il paese responsabile è il paese di prima accoglienza. Date le logiche geografiche i paesi sotto pressione sono i paesi del mediterraneo, dopo i picchi migratori del 2015-2016 ci si è mossi per ripensare il sistema Dublino e nel frattempo si è cercato di inserire un meccanismo di ricollocamento. L’impegno preso nel 2015 dall’Ue con l’Italia era quello di ricollocare circa 35.000 richiedenti asilo verso altri Stati membri entro settembre 2017. Al 27 giugno 2017, dunque a pochi mesi dalla fine del programma di ricollocamento, dall’Italia erano stati tuttavia ricollocati solo 7.277 richiedenti asilo (soprattutto verso Germania, Norvegia e Finlandia). Ma anche se l’Unione europea avesse mantenuto totalmente l’impegno sui ricollocamenti, avrebbe alleggerito l’Italia solo per il 10% del totale delle richieste d’asilo dal 2013 a oggi (circa 345.000). Il meccanismo è nato per poter rimediare alle storture prodotte dal regolamento Dublino ma da una parte l’Europa ha lasciato molto in mano all’Italia (con i paesi del gruppo di Visegràd che neanche si sono interessati), dall’altra non ha funzionato anche per colpa dell’Italia. Il nostro paese non è stato in grado di garantire tempistiche e logistica e non è stato in grado di controllare coloro che vengono respinti dalla richiesta di protezione.

In data 4 maggio 2016, la Commissione europea ha presentato la propria proposta per il nuovo Regolamento Dublino, che conteneva alcune novità ma al tempo stesso presentava numerose criticità.  La proposta della commissione prevedeva un miglioramento della definizione di famigliare, l’insistenza sul criterio di primo ingresso (anche irregolare), il filtro pre-dublino che il primo stato d’ingresso deve svolgere, l’inasprimento delle sanzioni per i movimenti irregolari ma soprattutto l’idea per elaborare un sistema di quote e la raccolta centralizzata delle domande di asilo a cui affiancare un meccanismo correttivo che scatta dopo che il paese ha superato il 150% della propria quota. Il lavoro del parlamento europeo integra la proposta con numerosi emendamenti, fino all’approvazione della relazione definitiva da parte della Commissione LIBE del Parlamento europeo in data 6 novembre 2017. Successivamente, la Plenaria del Parlamento ha autorizzato a larghissima maggioranza (390 voti a favore, 175 contrari, 44 astenuti) l’apertura del negoziato con il Consiglio e la Commissione nell’ambito del c.d. trilogo. Il progetto del Parlamento europeo vede: eliminare l’irrazionale e iniquo criterio dello Stato di primo ingresso; adottare un sistema di quote permanenti ispirato al principio di equa condivisione delle responsabilità (art. 80 TFUE) sulla base del rapporto PIL e popolazione; valorizzare in misura molto ampia i legami significativi (quali i legami familiari) tra un richiedente e uno Stato, al fine di velocizzare la procedura, risparmiare sui costi, ridurre gli incentivi a realizzare movimenti secondari, favorire il percorso di integrazione ove la domanda venga accolta; incoraggiare gli Stati a valorizzare i canali di ingresso legale da paesi terzi; configurare incentivi e disincentivi ragionevoli ed efficaci, sia per gli Stati membri che per i richiedenti asilo.

     Come previsto dal meccanismo decisionale, ora tocca al Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i ministri degli Stati membri, dove non è stata ancora raggiunta una posizione comune. Al consiglio dell’Unione Europea si è incominciato a discutere e il nodo centrale della riforma, che rappresenta il nodo della discordia, è proprio relativo all’introduzione delle quote di ripartizione dei richiedenti asilo all’interno dello spazio europeo e il superamento del principio di primo ingresso. Le quote di ripartizione sono sempre state osteggiate in particolare dai paesi dell’Europa orientale, il cosiddetto gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Nell’ultima incontro di giugno hanno detto no alla proposta Italia, Spagna, Germania, Austria, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Non si è espresso il Regno Unito, mentre gli altri paesi dell’Unione europea, non soddisfatti dalla proposta bulgara, hanno tuttavia lasciato la porta aperta al negoziato. Tra questi Grecia, Malta e Cipro che hanno sempre condiviso le stesse posizioni del governo italiano sulla necessità di introdurre le quote. Il problema odierno consiste nel fatto che ora l’Italia sembra cercare un alleato nell’Ungheria. I paesi guidati da governi nazionalisti come Ungheria e Polonia hanno sempre osteggiato la riforma del sistema d’asilo europeo, sostenuta invece dai paesi mediterranei come Italia e Grecia. Le ultime mosse dell’Italia sembrano spaccare il fronte del mediterraneo e cercare un alleato in Orbàn. Ad aprile Amnesty International ha lanciato l’allarme avvertendo che il Governo ungherese sta cercando di approvare leggi che renderanno impossibile alle Ong di proseguire con il loro lavoro di assistenza e protezione di chi ha bisogno. Secondo l’associazione l’obiettivo sarebbe quello di mettere a tacere le Ong indipendenti e apertamente critiche. Il 13 febbraio scorso sono state presentate al Parlamento una serie di leggi chiamate “Stop Soros”, che impongono un nulla osta di sicurezza nazionale e un permesso governativo per quelle Ong che il governo considera “a sostegno della migrazione”. In particolare, queste proposte colpiscono le organizzazioni che promuovono campagne, condividono materiale informativo, organizzano reti e reclutano volontari per sostenere l’ingresso e la permanenza in Ungheria di persone che cercano protezione internazionale. Queste leggi richiederebbero inoltre alle Ong di pagare una tassa pari al 25% di qualsiasi finanziamento estero volto a “sostenere la migrazione“. Il mancato rispetto di questi requisiti potrebbe portare a sanzioni esorbitanti, alla bancarotta e infine alla chiusura delle Ong prese di mira. Le proposte del governo ungherese rientrano in una più ampia campagna anti-immigrazione. Tutto ciò comporterebbe una delle direttrici più ambigue e oscure sulle politiche italiane che riguardano la migrazione, in quanto da una parte si vuole una maggiore ripartizione delle responsabilità mentre dall’altra sembra cercare alleati nelle schiere di paesi che non vogliono le quote o paesi che hanno alzato i muri come unica soluzione alla propria questione riguardante le migrazioni. Nel frattempo, a livello europeo si è parlato dei fondi per la sicurezza dei confini esterni e dei rimpatri.

Le Ong e prospettive per il futuro

     Il ministro degli Interni Salvini aveva già annunciato una stretta alle attività delle ONG e le dichiarazioni durante i giorni della questione Aquarius hanno confermato questa linea. Altro caso curioso è il fatto che Salvini in aula ha citato nella faccenda “Soros”, ritenendolo coinvolto nella faccenda delle migrazioni tramite gli investimenti e mettendo in dubbio, solo per questo, l’operato delle Ong. Il primo passo verso i controlli dell’operato delle Ong, però, è stato fatto a luglio del 2017 con l’adozione da parte di Minniti di un codice di condotta, la cui mancata sottoscrizione o inosservanza degli impegni comporta contromisure e sanzioni. Da quel momento le operazioni delle SAR di fronte a Tripoli passano alla Guardia costiera libica. Tra le misure previste dal Codice di condotta vi è l’impegno delle Ong a non entrare nelle acque territoriali libiche “salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata”, di non ostacolare l’attività di SAR della Guardia costiera libica, non devono fare comunicazioni finalizzate ad agevolare la partenza delle barche che trasportano migranti, devono informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita, non possono trasferire le persone soccorse su altre navi, “eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc) e sotto il suo coordinamento anche sulla base delle informazioni fornite dal comandante della nave”, si impegnano “a una cooperazione leale con l’autorità di pubblica sicurezza del previsto luogo di sbarco dei migranti”. Infine, si invita alla trasparenza delle fonti di finanziamento. Un punto di rottura sul codice di condotta era rappresentato dalla richiesta di uomini armati a bordo, motivo per cui delle associazioni non firmarono. A causa della stretta e del rapporto non facile con la Guardia costiera libica alcune Ong hanno deciso di interrompere le attività nel Mediterraneo. Nei periodi di massima crisi risalenti al 2015 e al 2016 le navi delle Ong che prestavano aiuto erano arrivate sino a 13 mentre oggi sono appena 3, a questo occorre tenere conto che sono diminuiti dei possibili testimoni di traffici, di respingimenti illegali in Libia o di naufragi. È logico attendersi che la maggiore incidenza di salvataggi in mare da parte di imbarcazioni delle Ong (passata dal 1% del 2014 al 41% nel 2017), assieme alla tendenza di queste ultime a operare nei pressi delle acque territoriali libiche (come rilevato dall’agenzia europea Frontex), possano aver spinto un maggior numero di migranti a partire, aumentando di conseguenza il numero di sbarchi. Ma i dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane. A determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori, tra cui per esempio le attività dei trafficanti sulla costa e la “domanda” di servizi di trasporto da parte dei migranti nelle diverse località libiche.

    In questi giorni, come detto da altri, abbiamo visto un festival della propaganda politica e diventa difficile distinguere tra propaganda e realtà. Oltre alle dichiarazioni nella politica, fatte spesso per slogan in cerca di voti, si sta instaurando una narrazione fatta di “Taxi del mare”, o “Vice-Scafisti”, che operano dal limite delle acque libiche all’Italia. Una narrazione che vede immigrati attirati verso il nostro paese da politiche miopi, dalla malavita in cerca di schiavi per l’attività di agricoltura, per la prostituzione o per lo spaccio di droga. Probabilmente non si tiene in conto che tutte queste dinamiche che vedono come protagonisti i migranti sono il risultato di un sistema di accoglienza debole, di una burocrazia per certi versi schizofrenica e di una mancata legalità nel nostro paese. Occorre ricordare che è il nostro paese che tramite la mancanza di legalità e la presenza di leggi ingiuste che fa scivolare nell’irregolarità. Possiamo pensare al fenomeno del “Lavoro in nero”, dove in molti lavorano senza contratto” o quello del “Lavoro in grigio”, caratterizzato da sotto-salario e irregolarità contributive. È un paese in cui la presenza di un contratto non rappresenta, soprattutto per il migrante, la garanzia di un equo rapporto di lavoro e dove spesso i contributi dichiarati sono risultati nettamente inferiori al numero di giornate lavorative effettivamente svolte. È un paese in cui vi è il problema della cosiddetta “Agromafia” ovvero le attività della criminalità organizzata nel settore agro-alimentare: un contesto che vede gli agricoltori onesti che abbandonano i campi e imprenditori di ogni tipo che lucrano nell’ombra e che cercano di impossessarsi dei fondi dell’Unione Europea prendendo il controllo delle Organizzazione dei produttori (OP) o dei mercati ortofrutticoli. È un paese in cui certe classi di persone vengono ghettizzate e l’unica alternativa che trovano sono le attività di manovalanza che le varie mafie offrono come la prostituzione, lo spaccio o anche lo stesso caporalato o che vede i migranti lavorare nei campi. Questo succede anche perché sono fortemente vincolati da uno stato di necessità, non solo per il denaro, ma per leggi che vincolano al contratto di lavoro o a un certificato di residenza. È il risultato di una burocrazia che chiede la residenza a chi vive per strada o subordina un documento a un contratto di lavoro nel paese del lavoro in nero. Per cui i diniegati dalle commissioni hanno solo 3 speranze: il ricorso in tribunale, la residenza e il contratto di lavoro. Da qui nasce un mercato nero tutto italiano dove vengono venduti contratti di affitto o contratti di lavoro a tempo determinato (per poi andare a lavorare in nero da un’altra parte).

Occorre poi notare che si viene a creare il mito del “Business dell’Immigrazione” ovvero un calderone fatto di trafficanti africani e libici, mal gestione emergenziale di alcuni centri di accoglienza per criminalizzare tutto il mondo italiano della solidarietà. È, poi, una narrazione che vede accettare i migranti trasportati sulla nave della Marina Militare ma non quelli imbarcati dalla guardia costiera sull’Aquarius. Molti di questi discorsi si basano su un pensiero che vede le Ong agire indipendentemente nelle operazioni di salvataggio. La realtà vede però la richiesta di azione alle “navi private” e viene coordinata dalla centrale operativa di Roma della guardia costiera alla quale perviene la segnalazione e autorizza agli sconfinamenti nelle acque territoriali libiche nei casi di emergenza. Questi sconfinamenti vengono visti da molti come la prova della complicità coi trafficanti ma, anche attraverso l’azione dei tribunali, non è mai emerso un legame di tale genere. Per esempio, recentemente il Tribunale del riesame di Ragusa ha dissequestrato le navi della spagnola Open arms “fermata” a marzo.

     Rimane il fatto che per controllare il fenomeno migratorio “illegale” (per evitare che ci siano ancora morti in mare) o per evitare tutti quei fenomeni legati alla tratta, occorre trovare soluzioni alternative. In questo senso possiamo pensare al progetto-pilota dei “Corridoi Umanitari” realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese, completamente autofinanziato. Il principale obiettivo è quello di evitare tutte le problematiche avanzate fino a qui e di fornire un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo. È un modo sicuro per tutti perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane. All’arrivo in Italia, i profughi sono accolti a spese delle associazioni in strutture o case, gli viene insegnato l’italiano e iscrivono i bambini a scuola per aiutare l’integrazione nel paese e ad aiutarli a cercare lavoro. Questi corridoi sono il frutto di un Protocollo d’intesa con il governo italiano: le associazioni inviano sul posto dei volontari, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del Ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi dunque solo per l’Italia. Una volta arrivati in Italia legalmente e in sicurezza, i profughi possono presentare domanda di asilo. Altre soluzioni potrebbero essere quelle di coinvolgere le varie associazioni (invece di criminalizzarle) che lavorano nel campo dell’assistenza per evitare un’azione frammentata e per poter garantire una soluzione più efficiente.

In ogni caso, il rischio è che il caso Aquarius rappresenti un precedente mortale. Nel momento in cui la nave “Aquarius” dell’organizzazione non governativa Sos Mediterranee ha fatto rotta verso il porto spagnolo di Valencia, la ricercatrice di Amnesty International sull’Italia Elisa De Pieri ha rilasciato questa dichiarazione: “Chiudendo i loro porti, i governi italiano e maltese hanno aggirato il principio del soccorso in mare e pregiudicato l’intero sistema di ricerca e soccorso. Se le cose proseguiranno in questo modo, l’azione di vitale importanza delle Ong verrà scoraggiata e compromessa e migliaia di migranti e rifugiati saranno lasciati alla deriva nel Mediterraneo. L’offerta del governo spagnolo di accogliere la nave ‘Aquarius’, se da un lato è un commovente esempio di solidarietà, dall’altro mette in evidenza la calcolata insensibilità delle autorità italiane e maltesi. Siamo di fronte a un precedente che inevitabilmente costerà vite umane”.

     Per concludere, in molti hanno parlato di vittoria ma la situazione, a livello italiano ed europeo, è la stessa. Si è dichiarato lo stop al business dell’Immigrazione ma il sistema di accoglienza è lo stesso. È una storia che ha visto una semplice presa di forza contro un Organizzazione non governative (quindi non contro un governo) e contro centinaia di persone che hanno sofferto, soffrono e soffriranno senza una vera accoglienza e con il clima discriminatorio delle parole. È una situazione che vede la messa in discussione del diritto al non respingimento, in cui viene messo in dubbio la stessa solidarietà e in cui viene messo in dubbio il principio di sussidiarietà dei privati (per cui noi possiamo fare qualcosa in mancanza dello stato). Viene messa in discussione la stessa nostra costituzione al cui articolo 10 dice: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Nei prossimi tempi occorrerà riflettere su cosa può succedere senza la protezione umanitaria: più rimpatri? Diminuiranno i costi? Ridurre forme di assistenza come il pocket money e qui famosi 35€ cosa comporterà realmente? Forse occorrerebbe, al di là di tutto, riflettere che trattare le persone in base ai costi comporta meno affiancamento dell’umano. Occorrerebbe riflettere che per queste persone sentirsi dire che sono un peso o che sono mantenute comporta una frustrazione e degradazione dell’animo. Occorre ricordare che il viaggio di ogni persona non finisce all’arrivo in un posto se l’anima rimane a casa ma finisce quando trova un posto tranquillo in cui si sente a casa. Occorre accogliere animi e non solo corpi per permettere anni di vita a persone che ne hanno bisogno e per permettere vita negli anni. Forse non possiamo svincolarci da riflessione sui costi ma iniziare un approccio di questo tipo, pensato sulle persone, può essere un passo importante. Il Consiglio europeo di fine giugno potrà offrire all’Italia l’occasione per contestare le normative vigenti in Europa in materia d’asilo per poter offrire una soluzione concreta. Comunque sia, le direttrici che si seguiranno sembrano essere già decise con il caso Aquarius.

Rainer Maria Baratti
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