GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Matteo Ribaldi

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L’ATTENTATO DELLE RAMBLAS E LA MANCATA COOPERAZIONE EUROPEA

EUROPA di

Alla domanda “perché proprio la Spagna?”, come perché Nizza, Londra e via dicendo corrispondono diverse reazioni tipiche. Ci sono i complottisti che imputano, nel caso specifico, la responsabilità al Governo spagnolo, reo di non aver collaborato con le forze catalane per dimostrarne l’incompetenza, in vista del referendum per l’indipendenza annunciato (ma non confermato) per i primi ottobre. Ci sono i falchi pronti a lucrare sull’accaduto, politici e non, sui temi connessi alla migrazione, e poi c’è chi cataloga l’atto terroristico alla voce ‘casualità’ (della serie “prima o poi tocca a tutti”) senza studiarne le radici, i motivi e le modalità.

La Spagna non è un caso. C’è una storia passata rievocata dalla recente propaganda del Califfato che rimanda ai Mori (musulmani), con il richiamo al mito de “El Andalus”, nome dato alla penisola iberica quando vi si stabilirono dal 711 al 1492, per poi essere cacciati dalla riconquista cristiana della Spagna. C’è una storia più recente, legata al tremendo attentato di Madrid (2004) per cui furono arrestati 636 jihadisti, a dimostrazione della diffusione della rete di propaganda di Al-Qaeda ai tempi, come lo è quella dell’ISIS oggi. La Spagna credeva di aver pagato il suo coinvolgimento nella guerra in Iraq con quell’attentato, e invece non è stato così.

Secondo, la Catalogna non è un caso. Perché il mettere o meno barriere anti-sfondamento all’ingresso della Rambla (come di Via del Corso o di qualsiasi centro europeo) è una scelta; ma la mancata cooperazione e collaborazione tra lo Stato Centrale e la Catalogna, oltre al rimpallo di responsabilità al quale stiamo assistendo in questi giorni, sono uno scandalo.

Tre esempi su tutti. Primo, le autorità catalane ignoravano che l’Imam El Satty (peraltro già segnalato dalle autorità belghe per le sue prediche “violente”) era stato discepolo prediletto di un terrorista legato alle stragi di Atocha e Nassiriya, ritenendolo un predicatore comune. Secondo, è stato negato l’accesso agli artificieri della Guardia civile (spagnola) al luogo dell’esplosione di Alcanar, dove i terroristi stavano costruendo gli ordigni che avrebbero fatto saltare in aria la Sagrada Familia. I Mossos d’Esquadra (polizia catalana) hanno bollato l’esplosione come una banale fuga di gas senza consultare i più esperti colleghi “spagnoli”. Terzo, la richiesta del Governo catalano di essere incluso nell’Europol, è stata accolta da Madrid solamente di recente, senza che l’accordo raggiunto sia stato pienamente implementato.

Il caso spagnolo/catalano, nella sua particolarità e unicità legata alla battaglia indipendentista, è l’emblema di come le informazioni non vengano condivise tra i vari apparati, ed è solo l’ultimo esempio di come l’ISIS riesca ad infiltrarsi nelle falle dei nostri sistemi, nelle divisioni, nel mancato coordinamento. Il terrorismo è un fenomeno transnazionale, e in quanto tale non può essere contrastato a livello nazionale (figuriamoci regionale) ma almeno europeo, se non globale.

C’è la necessità di un maggior coordinamento in diversi campi, a partire da quello della giustizia come richiesto mercoledì scorso dal nostro Ministro, Andrea Orlando, al Commissario Europeo Vera Jourovà, e ai suoi omologhi Urmas Reinsalu (Estonia) e Rafael Català (Spagna). Il Ministro italiano ha richiamato l’importanza della collaborazione tra i sistemi di giustizia dei vari Paesi attraverso l’ampliamento delle funzioni della Procura Europea (oggi limitata alla difesa degli interessi finanziari). Cooperazione tra magistrature, forze di polizia e intelligence europee, è quello che ha chiesto anche il Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani.

A Bruxelles, grazie alle misure del nuovo Piano anti-terrorismo promosse dal Commissario per l’Unione della sicurezza, Julian King, si comincia a vedere qualcosa in materia di lotta alla radicalizzazione online e sul controllo delle frontiere esterne, mentre a livello nazionale sembra di vivere un déjà-vu perpetuo di messaggi di cordoglio, solidarietà e speranza da parte dei capi di Stato e di governo. Superare l’ottica “del mio giardino” credo sia la priorità assoluta.

 

di Matteo Ribaldi

Verso un’Europa a più velocità

EUROPA di

Martedì 9 maggio scorso l’Unione Europea ha festeggiato l’ennesima ricorrenza di quest’anno.                  Dopo i 60 anni dai Trattati di Roma è stata la volta dei 67 dalla Dichiarazione di Robert Schuman, all’epoca Ministro degli Esteri della Francia, che, mettendo fine al contrasto secolare con la Germania, pose le basi per la creazione della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, antesignana dell’Unione Europea.

Eppure questo 2017 non è stato caratterizzato da sole celebrazioni. Olanda e Francia, i due Paesi che dodici anni fa votarono contro il progetto costituzionale europeo, hanno respinto la minaccia anti-europeista, eleggendo rispettivamente Mark Rutte ed Emmanuel Macron. Quest’ultimo, tra l’altro, nella sua prima visita ufficiale, ha incontrato la Cancelliera Angela Merkel, nel segno di un ritrovato asse franco-tedesco, assopitosi durante la Presidenza Hollande.

E qual è dunque il problema? Si può parlare di fine della crisi? Jean Monnet aveva predetto che l’Europa sarebbe nata da situazioni di crisi e sarebbe stata forgiata, nel tempo, dalle soluzioni ad esse date. Ma il problema risiede proprio nel fatto che, a livello comunitario, le soluzioni scarseggiano.

Se la recente Dichiarazione di Roma, seppur celebrativa e rinnegata in patria da curiose propagande anti-europeiste (avanzate da alcuni firmatari della stessa) è stata considerata come un documento politico impegnativo (in termini di sicurezza, diritti, occupazione, ruolo internazionale), il Libro Bianco sull’Unione Europea, presentato dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker come contributo al Vertice di Roma, non può essere definito come tale, configurandosi come mero esercizio espositivo. Voci di corridoio giustificherebbero questo documento annacquato in nome di una strategia attendista e neutrale rispetto alle recenti e prossime tornate elettorali, fondamentali per il futuro dell’UE: le già citate elezioni olandesi e francesi oltre a quelle tedesche di settembre.

Tra i cinque scenari delineati per il futuro dell’Unione, è facile scartarne subito alcuni, palesemente inattuabili al momento, mentre la tendenza sembrerebbe quella di propendere verso il terzo, cioè il principio per cui “chi vuole di più, fa di più”, ribadita “morbidamente” nella Dichiarazione di Roma:

 

“Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente. La nostra Unione è indivisa e indivisibile”

 

Questa opzione consentirebbe, agli Stati che lo desiderano, di dar vita a coalizioni ristrette in ambiti specifici come la difesa, la sicurezza interna, o su questioni sociali e/o fiscali. Proprio in relazione alla Difesa, il tema è talmente “affascinante” politicamente che è stato ripreso da molti esponenti politici, anche di diversa fazione, che però non hanno fornito alcuna indicazione sulla fattibilità del progetto. Alle difficoltà pratiche (si pensi ad un ripensamento dell’industria bellica europea e alla creazione di economie di scala) ed ideologiche (difficoltà di coniugare l’autonomia strategica con la dipendenza dalla NATO), si aggiungono alcune intrinseche contraddizioni in termini di legittimità democratica e di responsabilità decisionale ma soprattutto rispetto al processo di integrazione dell’Europa a 27.

In passato abbiamo già assistito a diverse forme di integrazione “à la carte” o a geometria variabile, dallo spazio Schengen all’Euro, dove, tra l’altro, assistiamo anche oggi a diverse velocità: quella tedesca (e olandese), rispetto a quella mediterranea. Corsi e ricorsi storici. Da Khol che nel 1994 propose un’Europa di Serie A ed una di Serie B in relazione alla moneta comune (che portò ad una frattura con l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), passando per il celebre discorso di Sarkozy sulle due velocità, arrivando all’odierna multi-velocità Merkeliana, magari spalleggiata dalla nuova Francia “en Marche”.

Certe scelte, così come certe dichiarazioni rimangono nella memoria collettiva, rimarcando ed incentivando fratture già esistenti, dal Gruppo di Visregard (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), al cosiddetto Club-Med (spesso guidato dalla Grecia), dai Paesi Baltici ai Paesi Nordici, oltre ad acuire la propaganda anti-europeista di alcuni governi nazionali (ungherese e polacco fra tutti) e confermare se non il fallimento definitivo, un’ulteriore sconfitta della politica di allargamento.

Al momento la cooperazione rafforzata sembra essere l’unica opzione. Tale scelta può essere interpretata come un atto di realismo di chi riconosce che un’Europa a più velocità esiste già, o forse è la solita via di fuga rispetto al progetto di Unione Federale.

Di Matteo Ribaldi

Il difficile ruolo dell’Alto Rappresentante UE Federica Mogherini

EUROPA di

Federica Mogherini ha un lavoro impossibile? La risposta è semplicemente si.

L’Alto Rappresentate UE per la politica estera e di sicurezza incarna una figura unica. Federica Mogherini oltre ad indossare il doppio cappello di Vice-Presidente della Commissione e Presidente del Consiglio Affari Esteri (il cosiddetto “Pattana”, cioè un mix di Pattern e Solana), deve coniugare la più classica funzione diplomatica con le diverse dimensioni della politica estera: dalla difesa alla cooperazione allo sviluppo, dalle politiche di allargamento al commercio. Il tutto senza per altro disporre, per sua scelta e in controtendenza rispetto ai suoi predecessori (Ashton e Solana), di un sistema di delegation che sarebbe necessario vista la fitta agenda.

Presenza sul campo e coordinamento sono sicuramente i due elementi che contraddistinguono il suo mandato. Sempre in prima linea nel presiedere i tavoli dei Ministri degli Affari Esteri e della Difesa, Federica Mogherini si è fatta promotrice di un coordinamento estremo con tutti gli apparati dell’Unione, dalla NATO all’Agenzia europea della Difesa, dal Parlamento Europeo (Strasburgo e Bruxelles) allo stretto rapporto con i due Commissioners a lei più prossimi in termini di dossier: Cecilia Malmstrom (commercio) e Johannes Hahn (allargamento).

Risulta veramente complicato assegnare dei voti al lavoro della Mogherini, costretta dalla stessa natura del suo incarico, ad oscillare tra una funzione “comunitaria e sovranazionale”, nel ruolo di Vice-Presidente della Commissione, ad un ruolo “intergovernamentale”, come rappresentante delle 28 diplomazie nazionali. A livello comunicazionale l’Alto Rappresentante svia le domande relative a questa contraddizione con una metafora musicale:

 “non serve un’unica voce per l’UE, serve cantare la stessa canzone; ogni geografia, come ogni strumento, aggiunge qualcosa all’UE”.

Molto significativa ma forse troppo semplicistica, specialmente quando si è nel campo della politica estera e di difesa, fortemente caratterizzato da una miscela di sovranismi e interessi nazionali talvolta difficilmente conciliabili.

Ci ha provato Politico.eu,[1] in occasione del giro di boa del mandato dell’Alto Rappresentante, a valutare il lavoro svolto finora, alternando giudizi positivi, ad esempio in relazione al ruolo dell’UE nella descalation nucleare dell’Iran (da condividere con Kerry), a voti intermedi riguardanti il rapporto con la Russia (e le criticate sanzioni), ma anche negativi per l’eccessiva lentezza e passività nei confronti del vicinato balcanico.

Quanto alla Global Strategy, resa nota pochi giorni dopo la Brexit, c’è chi la considera vuota in termini sostanziali, ma prima di dare giudizi sul merito bisognerà attendere l’interpretazione della stessa in fase d’implementazione (seguendo le linee guida del Piano d’Azione pubblicato nel Novembre 2016). Sicuramente Federica Mogherini si è tolta una soddisfazione personale considerando che l’ultima Strategia europea risale al 2003 (relativa ai rapporti USA-UE sulla questione irachena e afgana) e visti i precedenti fallimenti di Solana (che tentò di rinnovarla nel 2007, riuscendoci parzialmente un anno dopo) e di Ashton (2013).

 A mio avviso sul giudizio di fine mandato peseranno le future e prossime scelte su due dossier Libia e Siria. Spesso si tende a dimenticare ciò che è stato fatto sul fronte Meridionale, a partire dallo sforzo per spostare l’attenzione dal versante Est a quello Sud, passando per la capacità di coordinare un’azione partecipata nel Mediterraneo a servizio della missione marittima Sophia (25 Stati membri) all’interno di una strategia migratoria a lungo termine che prevede alcune concessioni (attraverso Accordi di Partenariato) ai paesi di origine e di transito in cambio di una gestione collaborativa del fenomeno migratorio. Quanto alla Siria l’Unione Europea ha l’opportunità di giocare un ruolo importante di mediatore fra Trump e Putin, facendo da garante al cessate il fuoco alla ricerca di una stabilizzazione sul piano politico, anche se dovrà fare i conti se’ stessa e con l’accordo di convenienza” firmato con un Erdogan uscito rafforzato dal voto referendario, per quanto concerne la questione migratoria (da Est) e il flusso siriano.

Tornando al ruolo, dato l’ampio raggio d’azione, ha una forte caratterizzazione personale. Nonostante le critiche iniziali, dovute più che altro al grado di seniority oltre a trascurabili dibattiti interni di partito (PD), la Mogherini è riuscita a stupire in un periodo segnato dalla minaccia terroristica e dal voto britannico. Meno interventista di Solana (ex Segretario Generale della NATO) ma sicuramente più attiva e presente di Lady Ashton, la Mogherini sta plasmando un ruolo molto delicato con stile e sobrietà. Ad un’interpretazione pro-attiva e presenzialista del ruolo deve però coincidere un cambiamento a livello strutturale. Il continuo richiamo all’Unione come primo attore economico e commerciale e primo donatore di aiuti monetari dà un lato denota una strategia di comunicazione prettamente renziana volta all’esaltazione delle conquiste, dall’altro una totale mancanza dell’altra faccia della medaglia: il cosiddetto “hard power”. L’obiettivo a medio e lungo termine al quale dovremmo mirare, non per avere un’Europa militarizzata o per sostituirsi alla NATO, ma per dare concretezza e valorizzare il cosidetto “soft power“, integrando lo strumento militare con quello economico, diplomatico e civile in una strategia europea lungimirante e al servizio della pace.

di Matteo Ribaldi

[1] R. HEAT, Mogherini’s mid-term report card, Politico.eu , 4/12/17 4/18/17

Matteo Ribaldi
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