GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Mario Savina

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Mario Savina, analista geopolitico, si occupa di Nord Africa e Medio Oriente. Ha conseguito la laurea in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, la laurea magistrale in Sviluppo e Cooperazione internazionale a La Sapienza, dove ha ottenuto anche un Master II in Geopolitica e Sicurezza globale. Su European Affairs scrive nella sezione Medio Oriente.

Azerbaigian-Armenia: continuano le accuse reciproche

SICUREZZA di

Il focolaio che si è riacceso qualche settimana fa non ha una causa chiara. Entrambi i Paesi si lanciano accuse su chi ha dato inizio alle ostilità. Intanto Ankara e Baku iniziano esercitazioni militari congiunte.

L’Azerbaijan e la Turchia in questi giorni hanno avviato esercitazioni militari congiunte nonostante l’alta tensione e gli scontri in corso nel Tavush/Tovuz tra azeri e armeni. Secondo il ministro della Difesa azero, la Turchia ha inviato aerei miltari F-16 in Azerbaigian per l’avvio delle esercitazioni.

La Turchia ha relazioni storicamente strette con l’Azerbaigian, da ciò deriva la presa di posizione di Ankara a favore di Baku appena si è riacutizzata la tensione al confine armeno. Erdogan, a differenza di tutti gli altri Paesi che hanno equamente cercato di richiamare entrambi le parti ad una tregua immediata, ha espresso in maniera decisa la sua solidarietà nei confronti del Paese alleato.

L’origine degli scontri non è molto chiara date le reciproche accuse fra le parti. Il fatto che i combattimenti abbiano luogo in una zona al confine meridionale e non nel Nagorno-Karabakh –  regione da sempre protagonista del conflitto tra i due Paesi –  lascia spazio a diverse interpretazioni sui motivi che hanno spinto i due rivali a riprendere i combattimenti.

Secondo il comunicato dell’Unione degli Armeni d’Italia, il tutto ha inizio “il 12 luglio quando militari azeri hanno tentato di penetrare in territorio armeno” con l’intento di prendere possesso della postazione armena nella provincia di Tavush/Tovuz. Secondo gli armeni, gli aggressori azeri hanno fatto uso di artiglieria pesante e bombardamenti mirati, che in alcuni casi avevano come obiettivi zone con residenti civili. Il tutto, sempre secondo il comunicato armeno, con l’intento di provocare una reazione da parte di Erevan.

Il comunicato prosegue indicando come responsabile dell’attuale situazione la politica autoritaria del Presidente azero Ilham Aliyev, che per distogliere l’attenzione dei suoi concittadini dai problemi interni, sta usando la politica estera come diversivo, in particolar modo una politica indirizzata contro il nemico storico armeno. Inoltre, per gli Armeni d’Italia si sta assistendo ad una “rozza manipolazione delle notizie da parte di alcuni organi di stampa chiaramente schierati”.

A tale comunicato è seguita la risposta dell’Ambasciatore azero a Roma, Mammad Ahmadzada, che rimanda tutte le accuse armene al destinatario, sia per quanto riguarda l’inizio degli attacchi militari che le critiche rivolte alle testate giornalistiche tacciate di essere manipolate dalle informazioni provenienti da Baku.

Intanto un aspetto molto interessante degli attuali scontri in corso è il ricorso massiccio all’utilizzo dei droni, sia da parte armena che azera. Mentre si assiste al valzer delle cifre che i due rivali dichiarano su morti e numero di droni abbattuti che fa parte di deliberate manovre di disinformazione, le forze armene cogliendo tutti di sorpresa nei giorni scorsi hanno organizzato una conferenza stampa nella quale sono stati mostrati i resti di droni azeri abbattuti in territorio armeno. La risposta azera arriva mercoledì scorso quando il Ministro della Difesa in una nota – con immagini allegate – ha dichiarato l’abbattimento di un drone armeno.

Anche se al momento sembra ci sia una “relativa calma” al confine, Armenia e Azerbiagian continuano a combattere verbalmente sia sui social che nei paesi stranieri in cui è forte la presenza delle due comunità. Molte sono le proteste in tutte le parti del mondo, da Londra a Los Angeles, dall’Ungheria alla Germania, che si sono trasformate in scontri fisici tra i due gruppi partecipanti.

Azerbaigian-Armenia: scontri nel Tovuz per le rotte energetiche

SICUREZZA di

I due Paesi hanno fatto passi indietro rispetto al processo di pace avviato negli ultimi anni. Mentre entrambi i Governi si accusano reciprocamente di aver dato inizio alle ostilità e di colpire zone con residenti civili, i morti sono arrivati a sedici (quindici militari e un civile).

Gli scontri, iniziati lo scorso 12 luglio, si stanno svolgendo nel Tovuz, territorio riconosciuto internazionalmente come azero, al confine tra i due Paesi. Il fatto che gli scontri si accendano non nel Nagorno-Karabakh – regione da sempre protagonista del conflitto – ma  sul confine meridionale, confermerebbe la tesi espressa da Elshad Nasirov, vicepresidente della società energetica statale azera Socar.

Durante una teleconferenza, Nasirov ha spiegato che alcune infrastrutture energetiche di grande importanza si trovano nelle vicinanze delle zone coinvolte dalle attuali operazioni militari che vedono coinvolti militari azeri e membri dell’esercito armeno. L’azero ha specificato che gli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyhan, Baku-Supsa, Baku-Tbilisi-Erzrum e altre infrastrutture di grande importanza strategica sono localizzate non lontano dai territori caldi. L’intera infrastruttura per la distribuzione delle risorse energetiche dell’Azerbaigian nei Paesi occidentali e nel mercato mondiale si trova nel distretto di Tovuz. Nasirov ha fatto anche riferimento al Gasdotto Transadriatico (TAP). In fase di costruzione, il gasdotto dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, sul versante adriatico. Quest’ultima infrastruttura è ritenuta fondamentale anche dall’Europa, perché il suo completamento e la sua operatività – prevista tra ottobre e novembre di quest’anno – ridurrebbe la dipendenza dalle forniture di gas russe.

Il Ministero degli Esteri azero ha rilasciato una dichiarazione qualche giorno fa in cui denunciava i tentativi di attacco da parte delle forze militari armene su basi dell’Azerbaigian, bombardando strutture civili nei villaggi di Aghdam, Dondar Gushchu e Vahidli, sempre nel Tovuz, con armi di grosso calibro e artiglieria. Sempre nel comunicato rilasciato dal Ministero azero si legge: “La leadership armena, nel tentativo di nascondere la sua fallita politica interna, tenta di rafforzare la sua  politica estera aggressiva e di distogliere l’attenzione della comunità internazionale dalla responsabilità dell’occupazione dei territori azerbaigiani, ma deve rendersi conto che l’Azerbaigian non accetterà mai l’occupazione dei suoi territori riconosciuti a livello internazionale e non un centimetro della nostra terra sarà lasciata sotto occupazione. L’Azerbaigian ha sempre dichiarato il suo sostegno a una soluzione politica al conflitto, ma ciò non deve essere inteso come una continuazione senza fine dei negoziati. L’Azerbaigian sostiene colloqui orientati ai risultati e si aspetta che gli sforzi di mediazione dei co-presidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE siano in questa direzione. La leadership armena è pienamente responsabile della tensione sul fronte e di tutte le conseguenze che può causare”.

Qualche giorno fa il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo azero, Elmar Mammadyarov (rimosso il giorno dopo e sostituito dal Ministro della Pubblica istruzione). Al centro della conversazione la lotta alla pandemia di coronavirus e le tensioni che si stanno registrando con l’Armenia. In linea con gli appelli lanciati dal Segretario Generale dell’Onu, dell’Unione Europea e dell’Ocse, Di Maio ha incoraggiato ogni possibile iniziativa per favorire un ritorno al dialogo politico e la fine delle ostilità.

Intanto i Paesi vicini mostrano preoccupazione per l’evolversi della situazione. L’Iran ha espresso interesse ad assumere un ruolo attivo nel processo negoziale: il Ministro degli Esteri iraniano Zarif avrebbe sentito entrambi le parti per incoraggiare un riavvio dei colloqui e del negoziato di pace. La Turchia di Erdogan avrebbe espresso il pieno sostegno all’Azerbaigian, definendo quello armeno un “attacco deliberato contro gli azeri e una violazione illegittima dei confini”. Anche la Russia, attraverso il capo della diplomazia Lavrov, ha fatto appello al buonsenso dei due governi, sollecitando un immediato cessate il fuoco.

Partenariato strategico Cina-Iran: non una novità

MEDIO ORIENTE di

L’ampio partenariato tra i due Paesi spianerebbe la strada a miliardi di investimenti cinesi, complicando tutti gli sforzi del presidente Trump di isolare Teheran e le sue ambizioni nucleari e militari. La cooperazione militare tra Cina e Iran non è però una novità.

Secondo il Wall Street Journal, l’Iran e la Cina avrebbero raggiunto un importante accordo militare e commerciale. L’intesa lascerebbe spazio a investimenti cinesi per circa 400 miliardi di dollari nei settori chiave dell’energia e delle infrastrutture della Repubblica islamica nei prossimi 25 anni. L’intelligence statunitense è preoccupata che l’accordo possa prevedere l’installazione di basi militari cinesi nel paese mediorientale: se così fosse la geopolitica dell’intera regione subirà un cambiamento radicale.

La bozza dell’accordo, come riporta la testata giornalistica americana, parla di una forte espansione cinese in Iran (dalle banche, alle Tlc, dalle ferrovie ai porti); in cambio Teheran dovrebbe fornire una quantità regolare di petrolio a Pechino nel prossimo quarto di secolo.

L’intesa prevedrebbe anche un approfondimento della cooperazione militare tra i due Paesi, con addestramento ed esercitazioni congiunte, ricerca e sviluppo nel settore e condivisione dell’intelligence. Questa “collaborazione militare” avrebbe l’obiettivo di contrastare il terrorismo internazionale, traffico di droga e di essere umani e crimini transazionali.

L’accordo sarebbe stato promosso dal presidente cinese, Xi Jinping, durante la sua visita nella capitale iraniana nel 2016, per poi essere approvato dal presidente iraniano, Hassan Rouhani nelle ultime settimane. Tuttavia, non è stato ancora presentato al Parlamento iraniano, sebbene i funzionari di Teheran abbiano più volte dichiarato che con la Cina esiste un progetto in sospeso. Questa  alleanza arriva in un periodo alquanto difficile per l’Iran, sia a causa delle sanzioni statunitensi  che della pandemia di coronavirus.

Per entrambi i Paesi, si tratta di una mossa strategica di grande importanza, non solo per espandere i propri interessi nella regione, ma anche per contrastare la politica di Washington. Il progetto con l’Iran mostra come la Cina, a differenza di altri Paesi, ritiene di essere in grado di sfidare gli Stati Uniti. Dall’altra parte, la Repubblica islamica, abituata ad intese di solo carattere commerciale con i Paesi europei, per la prima volta, stringe un’alleanza con una grande potenza mondiale.

Tra i vari investimenti nel settore delle infrastrutture, molta importanza acquista l’eventuale costruzione di un porto a Jask, appena fuori dal Golfo di Hormuz. Un porto cinese a Jask consentirebbe a Pechino di avere una posizione strategica in una tratta nella quale transita gran parte del petrolio mondiale. Tale ipotesi preoccupa molto la Casa Bianca che considera il passaggio di fondamentale importanza strategica.

L’accordo in sé rappresenta un duro colpo per l’amministrazione guidata da Donald Trump e la sua politica aggressiva nei confronti della Repubblica islamica da quando ha abbandonato l’accordo nucleare raggiunto nel 2015 dal suo predecessore Barack Obama e dai leader di altre sei nazioni dopo oltre due anni di estenuanti negoziati. Le rinnovate sanzioni statunitensi sono riuscite a soffocare l’economia iraniana e spingere Teheran tra le braccia di Pechino.

La collaborazione militare tra Iran e Cina non è cosa nuova. All’inizio degli anni Novanta intensi rapporti erano in atto tra i due Paesi. Durante la guerra tra Iran e Iraq, la Cina fornì all’Iran il 22% del totale delle importazioni iraniani di armi, e nel 1989 divenne il suo maggiore fornitore. Inoltre la Cina partecipò attivamente agli sforzi iraniani, esplicitamente dichiarati, di acquisire armi nucleari in passato. Dopo un primo “accordo iniziale di cooperazione sino-iraniano”, nel gennaio del 1990 i due paesi raggiunsero un’intesa decennale in materia di cooperazione scientifica e trasferimento di tecnologia militare. Nel settembre del 1992 il presidente Rafsanjani si recò in Pakistan e quindi in Cina, dove firmò un altro accordo di cooperazione nucleare. Nel febbraio del 1993 la Cina acconsentì a costruire in Iran due reattori nucleari 300-MW. In ossequio a tali accordi, la Cina trasferì informazioni e tecnologia nucleare all’Iran, addestrando inoltre ingegneri e scienziati. Nel 1995, dietro forte pressione statunitense la Cina fu costretta a “sospendere” la vendita dei due reattori. Pechino è stato anche fornitore di missili e tecnologia missilistica all’Iran, come i Silkworm (via Corea del Nord).

Iran: per Rouhani un “anno difficile”

MEDIO ORIENTE di

Secondo il presidente iraniano la pandemia di Covid-19 ha accentuato le difficoltà create dalle sanzioni americane. Ad Abu Dhabi colloquio tra USA ed EAU per la stabilità della regione.

Domenica scorsa, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha dichiarato che il suo paese sta affrontando il periodo più duro degli ultimi anni a causa delle sanzioni statunitensi e della pandemia di coronavirus.

La scorsa settimana il rial iraniano è sceso al suo valore più basso rispetto al dollaro Usa, mentre l’economia del paese mediorientale continua ad essere colpita dalla pandemia che ha aggravato la già difficile situazione causata dalle sanzioni imposte da Washington nel 2018.

“Viviamo un anno difficile a causa delle sanzioni economiche imposte dal nostro nemico e dalla pandemia”, ha affermato Rouhani in un discorso televisivo. “La pressione economica, iniziata nel 2018, è aumentata, e oggi è il periodo più duro per il nostro paese”, ha continuato il presidente iraniano.

L’Iran ha visto un forte aumento del numero di contagiati e di decessi da coronavirus nelle ultime settimana, in parte causate anche dalla revoca a metà aprile delle misure restrittive per arginare la diffusione del virus. Il bilancio delle vittime ha superato la quota di cento al giorno, per la prima volta dopo due mesi.

Circa 2.490 nuovi casi sono stati registrati nelle ultime 24 ore, portando il totale ad oltre 222.670 contagi. Secondo la portavoce del ministero della Salute, Sima Sadat, i morti avrebbero raggiunto la cifra di 10.508.

Il presidente Rouhani ha detto che indossare la mascherina diventerà obbligatorio per le prossime due settimane in alcune parti del paese considerate ad alto rischio. Funzionari iraniani hanno avvertito che le restrizioni precedentemente revocate potrebbero essere reintrodotte qualora non venga rispettato il distanziamento sociale e le altre misure di sicurezza. Il paese ha lanciato la campagna “#Iwearmask” per motivare il pubblico riluttante a utilizzare i dispositivi sanitari di sicurezza. Il viceministro della Salute, Iraj Harirchi, ha supplicato i suoi concittadini di prendere sul serio la malattia ed evitare qualsiasi comportamento che possa mettere a repentaglio la propia salute o quella degli altri. Secondo lo stesso Harichi, in Iran “ogni 33 secondi una persona viene infettata dal coronovirus, e ogni 13 minuti muore un contagiato”.

Incontro tra USA ed EAU

Sempre ieri, lo sceicco Abdullah bin Zayed al Nahyan, ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato Brian Hook, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran e consulente politico presso il Segretario di Stato, per discutere le questioni regionali di interesse comune e i modi per rafforzare la cooperazione bilaterale tra i due Stati. Al centro degli argomenti trattati la minaccia alla sicurezza posta dall’Iran e gli sforzi congiunti per creare una regione mediorientale più stabile e sicuro.

Mandato di arresto per Trump

Il procuratore di Teheran, Ali Qasi Mehr, citato dall’agenzia di stampa statale IRNA, ha affermato che 36 funzionari politici e militari statunitensi “coinvolti nell’assassinio” del generale Qasem Soleimani “sono stati indagati e nei loro confronti è stato emesso un mandato di arresto”. In cima alla lista ci sarebbe il presidente Donald Trump. Lo stesso procuratore avrebbe richiesto all’agenzia internazionale di polizia Interpol di emettere i mandati di arresto nei confronti di Trump e degli indagati, ma l’Interpol avrebbe chiarito che la sua costituzione impedisce  di “intraprendere qualsiasi intervento o attività di carattere politico, militare, religioso o razziale”. L’organizzazione di polizia internazionale ha dichiarato di non aver ricevuto nessun tipo di richiesta dall’Iran, e che non sarebbe in grado di ottemperare a una richiesta del genere qualora le venisse recapitata.

Di Mario Savina

 

 

IRAN: dalle proteste di novembre alla pandemia, con le denunce dell’OMPI e la condanna dell’UE

MEDIO ORIENTE di

Secondo l’Organizzazione dei Mojahedin del popolo iraniano l’emergenza pandemica ha permesso al regime di rafforzare il proprio potere nonostante gli errori commessi e soprattutto far passare in secondo piano il malessere del popolo. Qalibaf eletto Presidente del Parlamento. L’Unione Europea condanna le dichiarazioni su Israele di Khamanei.

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USA-Iran: petrolio e Venezuela fanno risalire la tensione

MEDIO ORIENTE di

Tra Iran e USA risale la tensione. Questa volta il motivo è il petrolio inviato da Teheran con destinazione Caracas. Una mossa vista come una provocazione per Washington.

Le cinque petroliere inviate dall’Iran con 1,5 milioni di litri di benzina stanno arrivando in Venezuela, violando l’embargo imposto dall’amministrazione a stelle e striscie, con lo scopo di aiutare  il Paese ad alleviare la carenza di carburante che ha sofferto in questi mesi, aggravata anche dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di coronavirus. Fortuna, il nome della prima nave entrata in acque territoriali venezuelane, è arrivata nella mattinata di lunedì nei pressi della raffineria di El Palito, sulla costa centrale del Paese sudamericano. Le altre si stanno avvicinando alle strutture di Puerto La Cruz, a nord ovest, e Amuay, sul lato occidentale. L’operazione ha causato un aumento della tensione tra i due Paese “alleati” e gli Stati Uniti di Trump.

Il ministro della Difesa venezuelano, Vladimir Padrino Lopez, ha annunciato che le navi iraniane sarebbero state scortate da elicotteri e aerei delle forze armate fino a raggiungere i porti. Il ministro degli Esteri, Jorge Arreaza, il numero due del partito chavista Diosdado Cabello, e altri leader politici e militari hanno ringraziato il sostegno alle autorità iraniane e attribuiscono il risultato alla “diplomazia pacifica” condotta da Nicolas Maduro.

L’alleanza politica tra Teheran e Caracas risale ai tempi dell’amicizia tra gli ex presidenti di entrambe le nazioni, Hugo Chavez e Mahmud Ahmadineyad. Maduro aveva annunciato a inizi gennaio la sua solidarietà alle Repubblica islamica dopo che un attacco missilistico portato a segno dagli statunitensi aveva assassinato il leader della Guardia Rivoluzionaria iraniana Qasem Soleimani a Baghdad. Uno dei principali attori in campo della gestione ufficiale venezuelana per ottenere questo importante contributo petrolifero è stato l’attuale vicepresidente dell’Economia, Tareck El Aissami, venezuelano ma di origine libanese.

I settori radicalizzati dell’opposizione venezuelana al governo speravano che Trump avrebbe impedito il passaggio delle navi per colpire maggiormente Maduro in un momento di totale collasso dei servizi pubblici e dell’economia generale del Paese: non è successo, nonostante il dispiegamento militare statunitense nell’area dovuto alla battaglia sempre più intensa contro il narcotraffico. Da Teheran, invece, il Presidente Hassan Rouhani aveva avvertito gli Stati Uniti che un atto ostile nei confronti della flotta iraniana avrebbe avuto conseguenze gravi.

Da diversi mesi il governo Maduro sta lavorando con i tecnici di Petroleos de Venezuela (PDVSA), la compagnia petrolifera statale che prima della crisi era tra le principali esportatrici di benzina al mondo, per riparare le raffinerie di El Patito e Cardòn gravemente danneggiate. Per gestire al meglio il ripristino delle industrie, il Venezuela è stato assistito da tecnici iraniani arrivati nel Paese nelle ultime settimane. Sebbene i lavori di riparazione siano a buon punto, alcuni problemi tecnici  ne hanno ritardato la riapertura.

Il Venezuela, così come lo stesso Iran, è colpito da drastiche sanzioni decretate dagli Stati Uniti. Quelle contro la Repubblica islamica erano state parzialmente eliminate dall’amministrazione Obama per poi essere ripristinate dall’attuale Presidente Trump. Con l’embargo al Paese sudamericano, invece, si vuole mettere con le spalle al muro il governo di Maduro, considerato illegittimo e colpevole di abusi contro i diritti umani. Gli Stati Uniti continuano ufficialmente a riconoscere Juan Guaidò come rappresentante legittimo di Caracas. In preda a penurie di benzina, e di elettricità, il Venezuela aveva potuto contare fino a un paio di mesi fa sui fornitori russi della Rosneft, ma dopo le sanzioni inflitte alle filiali dell’azienda russa da parte di Washington il Cremlino sembra abbia affievolito il proprio sostegno al leader venezuelano.

Di Mario Savina

Il Senato USA approva il veto di Trump sull’Iran

MEDIO ORIENTE di

Una risoluzione del Congresso che cercava di limitare il potere presidenziale per attaccare la Repubblica islamica rimane paralizzata. 

Dopo il veto imposto mercoledì scorso da Donald Trump sulla risoluzione del Congresso che aveva limitato la sua capacità di usare la forza militare in Iran senza l’approvazione del Campidoglio, il Presidente degli Stati Uniti ha segnato una grande vittoria nella giornata di ieri grazie all’aiuto del Senato – a maggioranza repubblicana – che non è riuscito a bloccare quel veto. Il risultato del voto è stato di 49 voti contrari  e 44 a favore della risoluzione, quindi ben  lontano dai due terzi necessari per  scavalcare il veto presidenziale. L’iniziativa è stata promossa dai democratici e mirava a ridurre le tensioni politiche e militari tra Iran e USA. La risoluzione fallita chiedeva al Presidente di non mobilitare le forze armate  statunitensi contro la Repubblica islamica dell’Iran a meno che non fosse esplicitamente  autorizzato da una dichiarazione di guerra o da un’autorizzazione specifica per l’uso della forza militare.

Nei mesi di gennaio e febbraio, la Camera dei Rappresentati e il Senato avevano approvato una risoluzione che limitava la capacità del Presidente di usare la forza militare  in Iran senza l’esplicita approvazione  del Congresso. L’iniziativa legislativa è arrivata dopo il raid che ha portato all’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani. Trump ha quindi definito l’iniziativa “offensiva” e “parte di una strategia “ da parte dei democratici nella lotta per le elezioni presidenziali.

Soleimani, comandante dell’élite Al Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana, l’unità responsabile delle operazioni all’estero, è stato ucciso il 3 gennaio in un attacco di droni, nei pressi dell’aeroporto della capitale irachena Baghdad, effettuato dall’esercito americano per ordine dello stesso Presidente. La morte dell’architetto dell’intelligence  e delle forze militari iraniane negli ultimi vent’anni ha inferto un duro colpo a Teheran, che ha promesso vendetta e scatenato drammaticamente la tensione nella regione. L’Iran ha risposto giorni dopo la morte di Soleimani con un attacco missilistico contro due basi militari statunitensi in Iraq.

La decisione adottata a febbraio dal Senato, ricordiamo a maggioranza repubblicana, rappresentava un severo rimprovero per Trump che aveva dato il via libera all’attacco contro Soleimani senza consultare il Congresso, creando un pericoloso precedente che avrebbe significato troppa autonomia da parte del Presidente in alcune decisioni che potrebbero portare alla guerra.

Finora, Trump ha posto il veto per due volte alla restrizioni del Congresso sulle sue iniziative militari. Il precedente è stato contro una risoluzione per porre fine al sostegno degli Stati Uniti all’offensiva dell’Arabia Saudita nello Yemen.

Di Mario Savina

L’ISIS approfitta dell’emergenza sanitaria per guadagnare terreno

MEDIO ORIENTE di
Con i soldati iracheni mobilitati contro l’emergenza Covid19 e il ritiro di alcune truppe della coalizione, i jihadisti intensificano i loro attacchi.

In piena pandemia l’Iraq ha messo in campo una parte del proprio esercito per sostenere le misure adottate contro il coronavirus e ha sospeso i programmi di addestramento anti-jihadisti ricevuti dalla coalizione internazionale. Molti membri di quest’ultima hanno ritirato le truppe impegnate in questa missione. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno ritirato i propri militari da due basi a causa degli attacchi delle milizie filo-iraniane. Gli osservatori avvertono che lo Stato Islamico (ISIS) sta cercando di sfruttare questa crisi sanitaria per guadagnare terreno.

“Il coronavirus ha fortemente influenzato le operazioni contro l’ISIS, poiché la maggior parte delle truppe irachene si sono trasferite dalle valli e dai deserti ai centri urbani per imporre e gestire il coprifuoco”, secondo Hisham al Hashemi, consigliere del governo di Baghdad nella lotta ai gruppi terroristici. Tuttavia, Al Hashemi sottolinea che la riduzione delle forze straniere era già iniziata prima della diffusione del Covid19 e che i militanti dello Stato Islamico avevano ricominciato l’avanzata già dallo scorso anno.

In concomitanza con il declino delle attività di controinsurrezione, l’organizzazione jihadista è stata particolarmente attiva nel mese di marzo. A Khanaqin,  nel Governatorato di Diyala e vicino al confine iraniano, ha attaccato diversi basi delle forze di sicurezza causando alcune vittime. Ha anche attaccato con mortai in alcuni quartieri delle città di Tuz Khurmatu e Amirli (entrambe nel Governatorato di Saladino), cosa che non accadeva da un paio d’anni. Il timore è quello di un inizio di un nuovo ciclo di omicidi di leader locali con lo scopo di intimidire la popolazione.

Gli stessi propagandisti dell’ISIS si sono vantati delle loro intenzioni, come ha evidenziato nel suo blog Aymenn al Tamimi, ricercatore alla George Washington University. Al Tamini, che analizza dettagliatamente le pubblicazioni del gruppo, osserva un incoraggiamento verso i seguaci e sostenitori “a non mostrare misericordia nell’organizzazione di evasioni da prigioni e nel lancio di attacchi”. Secondo il ricercatore, l’ISIS “vede la pandemia come un’opportunità per sfruttare le divisioni e le debolezze dei suoi nemici; e allo stesso tempo, fornisce consigli utili sulla salute dei propri membri al fine di evitare il contagio.

Sebbene Daesh affermi di aver intensificato il numero di attacchi, in realtà non vi è stato alcun aumento significativo. Gli attacchi sono passati dalle centinaia lanciati nel 2014, quando il governo iracheno ha richiesto assistenza internazionale per fermare l’avanzata dei jihadisti, a una decina a settimana nell’ultimo periodo. Inoltre, con il supporto della coalizione si è riusciti a recuperare il territorio conquistato dall’ISIS precedentemente.

La maggior parte degli analisti concorda sul fatto che la minaccia non è la stessa. “C’è una ripresa dell’ISIS in alcune zone del’Iraq e della Siria,  ma è improbabile che possa lanciare una campagna territoriale come quella del 2014; è possibile inquadrarla come un’insurrezione di basso livello in particolare aree vulnerabili come Diyala”, sottolinea Hafsa Halawa, ricercatrice presso il Middle East Institute, in un recente seminario online, aggiungendo che “quello che abbiamo visto nel lavoro degli ultimi anni sul campo è che la popolazione è contro il settarismo”.

Secondo Farhad Alaaldin, presidente del Consiglio Consultivo iracheno (un’ong che fornice consulenza al governo iracheno), le operazioni dell’ISIS “sono limitate alla terra di nessuno rimasta tra le forze irachene  e i Peshmerga (truppe curde), che vanno da una dozzina di chilometri in alcune aree a poche centinaia di metri in altre”. Secondo Alaaldin, “il problema  non è l’assenza  delle forze statunitensi sul campo, dal momento che crede che l’Iraq abbia abbastanza truppe da combattimento, ma la condivisione delle informazioni e il supporto logistico, che deve continuare ed essere rafforzato”.

Il portavoce dell’esercito statunitense, il Colonnello Myles B. Caggins, sottolinea come le misure adottate dalla coalizione internazionale in seguito all’emergenza coronavirus possano comportare una diminuzione del sostegno alle forze irachene. Consapevoli della battaglia politica a Baghdad sulla presenza delle truppe straniere, i militari insistono sul fatto che il successo contro Daesh dipende dalla cooperazione tra le truppe locali e la coalizione.

Di Mario Savina

Hezbollah e la lotta al coronavirus

MEDIO ORIENTE di
Il partito della milizia sciita libanese annuncia la mobilitazione di migliaia di volontari con il tentativo di riconquistare la legittimità persa negli ultimi mesi.

Hezbollah ha dichiarato guerra al coronavirus in Libano. Un esercito di 25.000 persone in prima linea e quattro ospedali privati per vincere la battaglia contro il virus, una priorità dichiarata dal partito della milizia sciita libanese. La terminologia bellicosa permea i discorsi televisivi del segretario generale del partito, lo sceicco Hasan Nasralà, che non si riferisce alla milizia meglio equipaggiata della regione, ma al reggimento di medici, infermieri e volontari mobilitati nel Paese levantino. E’ la penultima mutazione di un movimento, denominato di resistenza islamica, in costante metamorfosi nell’ultimo decennio.

Hezbollah è passato dallo scontro con Israele, il nemico sionista, alla lotta contro i “tafkiris in Libano e Siria” – dal 2012 circa 10.000 miliziani libanesi  hanno combattuto nel Paese vicino a fianco di truppe fedeli a Bachar al-Assad e al sostegno di Teheran -, fino a trovarsi oggi ad affrontare la questione pandemia. A livello nazionale, ha cessato di essere un partito di opposizione  per entrare a far parte del governo appena creato, un governo fragile che ha preso vita insieme agli alleati sciiti di Amal e alla forza cristiana incarnata dal Movimento patriottico libero. Nella distribuzione dei ministeri, il partito islamista ha preteso quello della salute.

“La paura del virus ha riportato i libanesi nelle tradizionali strutture di solidarietà basate sul partito e sulla confessione, oggi in competizione per servire le proprie basi sociali”, ha affermato Maha Yahia, direttrice del Carniege Center for the Middle East, a Beirut. Le persone hanno perso la fiducia nelle istituzioni statali in cui il potere politico-economico è distribuito sulla base delle 18 religioni ufficiali. “Tra le parti, Hezbollah è semplicemente quello che offre il piano più completo avendo a disposizione più risorse”, sottolinea la Yahia. La milizia ha deciso di trasferire la sua capacità di mobilitazione militare sul piano sociale. Nei sobborghi di Dahie, periferia a sud di Beirut e feudo di Hezbollah, si trova l’ospedale Saint George Hospital, che il partito della milizia ha messo a disposizione come centro nevralgico per la cura dei pazienti infetti dal Covid-19: 1000 tamponi e 80 posti letto, 16 dei quali con respiratori, in un quartiere dove la popolazione è di 800 mila abitanti, secondo le informazioni che ha dato alla stampa il direttore del centro ospedaliero Hasan Oleik.

L’esecutivo libanese ha stabilito l’ospedale universitario Rafik Hariri come centro nevralgico per il trattamento degli infetti, con una capacità di 128 posti letto. Con 541 positivi e 19 decessi (dati risalenti alla settimana passata), gli esperti hanno già annunciato che il settore della sanità pubblica libanese non sarà in grado di far fronte a un aumento del numero degli infetti.

Nel seminterrato di una moschea di Dahie si può apprezzare la complessa rete sociale di Hezbollah: dozzine di volontari muniti di mascherine e guanti impacchettano diversi prodotti alimentari nelle scatole che poi distribuiranno alle famiglie più svantaggiate. Hanno a disposizione un budget di 1,8 milioni di euro “tra fondi propri e donazioni di affiliati”, affermano fonti del partito.

La pandemia di coronavirus arriva in piena crisi economica. Prima che il virus si diffondesse, la Banca Mondiale aveva avvertito che metà dei 4,5 milioni di libanesi sarebbe finita al di sotto della soglia di povertà. Dal 17 ottobre, giorno in cui le proteste antigovernative hanno iniziato a chiedere la caduta in blocco dei partiti tradizionali, oltre 220.000 persone hanno perso il lavoro. Ora questi stessi partiti stanno cercando di sfruttare questa minaccia sanitaria. Questo è il motivo per cui è stata lanciata una campagna strada per strada distribuendo aiuti economici e alimentari. I leader promettono donazioni milionarie agli ospedali seguendo la mappa demografica-confessionale, mentre il governo ha dovuto annunciare il primo default dovuto al proprio debito statale nella sua storia.

Di Mario Savina

La democrazia ai tempi del coronavirus: una quarantena pericolosa

POLITICA di

Le circostanze eccezionali dovute alla pandemia minacciano di facilitare la prolungata erosione delle libertà e delle garanzie in alcuni Paesi in cui lo stato di diritto è  debole.

La crisi sanitaria, sociale ed economica causata dalla pandemia del coronavirus non ha precedenti nella storia moderna. Il Covid-19 ha causato oltre 30.000 morti fino ad oggi in tutto il globo. Proprio la minaccia alla salute pubblica ha portato un buon numero di Paesi a prendere misure eccezionali, limitando le libertà individuali fondamentali ad un livello mai visto in tempo di pace: dall’Italia alla Spagna, dal Regno Unito al Canada, i governi con segni diversi hanno approvato più poteri per lo Stato e misure di controllo più restrittive per i cittadini. Nelle autocrazie o nei Paesi con fragili democrazie, i leader usano la pandemia per indebolire le istituzioni democratiche e rafforzare la sorveglianza e la censura, o per smorzare l’opposizione. Misure che potrebbero non sparire quando l’emergenza sarà svanita.

In Russia, l’uso della tecnologia per il controllo di massa è aumentato e sono state approvate nuove regole per contrastare le fake-news circolanti sul virus, che potrebbero portare a una maggiore persecuzione dei media indipendenti. Una formula che viene già applicata da Serbia o Turchia.  Con l’argomento della protezione della salute pubblica, la Moldavia e il Montenegro hanno superato seri ostacoli diffondendo i dati sanitari delle persone infette o sospettate di esserlo. In Israele, il partito di Netanyahu ha utilizzato l’emergenza sanitaria per impedire all’opposizione – che ha ottenuto la maggioranza dei seggi nelle elezioni del 2 marzo – di assumere il controllo delle procedure parlamentari.

La crisi provocata dal coronavirus sta dando nuova energia al populismo e un’opportunità per accumulare più potere nelle mani di pochi. L’Ungheria, membro dell’Unione Europea, è uno dei casi che ha generato più allarme. Il Primo Ministro, Victor Orban, primo ad associare stranieri e migranti alla diffusione del virus, ha dichiarato lo stato d’emergenza come molti altri Paesi, riuscendo a convincere il Parlamento – in cui possiede una larga maggioranza – a dare via libera ad un’estensione dei poteri straordinari derivanti dall’emergenza senza fissare un limite temporale. In poche parole, tale decisione gli permetterà di governare per decreto a tempo indeterminato senza alcun tipo di controllo, nemmeno parlamentare, per l’esecutivo.

Lo Stato di emergenza è una situazione giuridica speciale necessaria per affrontare crisi come questa, poiché consente ai governi di reagire più rapidamente. Ma è importante che tutte le misure adottate siano trasparenti, proporzionate e limitate nel tempo, e soprattutto che siano soggette a qualche forma di controllo da parte del Parlamento o di altri organi legislativi. Ma in Paesi come la Russia, dove tale supervisione e controllo indipendenti sullo Stato sono scarsi e deboli e l’opposizione manca di rappresentanza parlamentare, l’imposizione di ulteriori misure come le intercettazione telefoniche, quelle di posta elettronica o censure di altro tipo potrebbero supporre un pericolo. La pandemia ha raggiunto il Paese eurasiatico in un momento politico decisivo per il Cremlino: nel bel mezzo del caos globale, il Presidente Vladimir Putin sta tentando di garantirsi la possibilità di rimanere al potere grazie ad una riforma costituzionale. Fra i primi Paesi a chiudere i confini di fronte alla crisi che si stava affacciando al mondo, la Russia tesse le lodi delle proprie scelte che hanno portato ad una diffusione più limitata del coronavirus (secondo i numeri ufficiali), rispetto alle posizioni più liberali adottate dagli altri governi. Con circa 1.800 casi positivi e una dozzina di morti – numeri che hanno sollevato molti dubbi tra ong, analisti e funzionari russi – il Gabinetto di Putin sta utilizzando questa narrativa per difendere la propria visione del mondo contro ciò che considera una fragilità del globalismo ed il crollo dell’unità europea ed occidentale. La Russia ha scommesso principalmente sulla tecnologia autoritaria: a Mosca le migliaia di telecamere di videosorveglianza vengono usate per catturare chiunque infranga le regole; vengono tracciati i dati sugli spostamenti in auto; e prima dello scoppio della pandemia, quando ancora la Cina era la principale e quasi unica colpita, la polizia effettuava raid negli hotel, nelle residenze di studenti, negli appartamenti turistici e nei mezzi di trasporto pubblico per individuare le persone provenienti dalla Cina, costringendole a rimanere in isolamento. Inoltre, le autorità russe stanno utilizzando i dati forniti dagli operatori telefonici per geolocalizzare i casi positivi e rintracciare coloro che hanno avuto contatti con questi.

Rimanendo in tema di operatori telefonici, la Commissione Europea ha chiesto alle diverse società che operano in questo settore di fornire dati anonimi per analizzare gli spostamenti delle persone così da poter sviluppare modelli sull’evoluzione dei contagi. Una misura che ha alimentato il dibattito sul diritto alla privacy e sui potenziali rischi di una violazione delle protezione di tali dati. Molti sono i Paesi che utilizzano i dati telefonici in questa crisi: dalla Slovacchia, dove vengono tenuti sotto controllo i cellulari di tutti i casi positivi per assicurare il rispetto della quarantena; alla Polonia, dove vengono monitorati coloro che arrivano dall’estero tramite un’applicazione mobile.  In molti Paesi europei e non solo, come il Canada, queste misure hanno generato un intenso dibattito. Tuttavia, in Stati di natura democratica più vulnerabile e dove non esiste quasi una cultura della privacy sono stati attuati con poco o quasi niente clamore, sebbene queste misure possono non solo aprire la strada alla repressione di attivisti ed oppositori,  ma anche lasciare un’impronta permanente sulle modalità di governo.

In Cina, la censura e il controllo delle informazioni da parte dello Stato hanno contribuito nelle prime settimane alla diffusione dell’epidemia: i media cinesi avrebbero potuto informare il pubblico molto prima dell’aggravarsi della situazione, salvando così migliaia di vite ed evitando, forse, l’attuale pandemia. Per monitorare l’avanzamento del contagio, molte province cinesi hanno creato applicazioni mobili che stabiliscono i movimenti dei loro proprietari e determinano se sono stati a contatto con possibili aree a rischio, assegnando loro un codice sanitario: se verde, l’utente è sano, mentre l’utente rosso va in quarantena. Dato l’obbligo delle società tecnologiche  di condividere i dati con il governo cinese, il timore è che possa aumentare il controllo sulla popolazione, attraverso l’utilizzo di applicazioni del genere, anche quando l’emergenza sarà rientrata.

All’altro estremo, l’uso della sorveglianza ritenuta invadente è stata una delle chiavi della reazione “positiva” della Corea del Sud. Il Paese, una delle storie di successo – almeno per il momento – nella lotta al Covid-19, ha applicato rigorose formule che combinano test per rilevare l’infezione e l’uso esaustivo della tecnologia per rintracciare i movimenti delle persone infettate e di quelle ad esse vicine. Le decisioni prese del governo hanno suscitato uno scarsissimo dibattito sull’impatto di tali misure sulle libertà civili soprattutto grazie alla grande trasparenza nei confronti della popolazione e alla consapevolezza da parte della società civile della necessità di combattere quest’epidemia.

Di Mario Savina

Mario Savina
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