GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Luca Marchesini - page 8

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Mar Cinese Meridionale: la grande disputa

Asia/Sud Asia di

Gli attori principali di questa storia sono 4: La Cina, le Filippine, gli USA e il Giappone. La posta in gioco è enorme: il controllo delle acque del Mar Cinese Meridionale, dove si incrociano gli interessi delle potenze in gioco.

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Ormai da mesi, gli Stati uniti sono impegnati in una escalation verbale con la Cina. Pechino, infatti, non nasconde le proprie mire espansionistiche sulla porzione di oceano che bagna le sue coste meridionali e sta costruendo isole artificiali per spostare in avanti di alcune decine di chilometri i limiti delle proprie acque territoriali. Un allargamento forzato dei confini che mette in agitazione anche Vietnam, Filippine e Malesia, che su quello stesso tratto di mare avanzano le proprie rivendicazioni.

La Cina ha più volte intimato agli USA di non esacerbare il clima sorvolando gli isolotti artificiali con i propri apparecchi e portando le navi della flotta a navigare in prossimità delle loro coste. Gli Stati Uniti hanno risposto seccamente, appellandosi al diritto marittimo internazionale, ed hanno assicurato ai propri alleati regionali la collaborazione della marina americana per il controllo delle posizioni cinesi.

Va tenuto a mente che, in questa zona di mondo, il controllo delle acque e la possibilità di mettere i propri vessilli su porzioni anche piccolissime di terra galleggiante ha un valore tutt’altro che simbolico. Di fatto, assicurarsi la possibilità di pattugliare determinate vie di comunicazione marittime, attraverso la costruzione di basi militari, permette di controllare direttamente il commercio navale e le vie di accesso a risorse fondamentali sul piano economico e strategico. Dal controllo di uno scoglio isolato o di un tratto di barriera corallina possono scaturire serie ripercussioni sul fronte della crescita economica e della stabilità politica.

Per la Cina è, prima di tutto, una questione di sovranità regionale, con inevitabili ripercussioni globali. Per gli Stati Uniti, la preoccupazione principale è rappresentata dalla libertà di navigazione nel Pacifico, dove gli USA hanno costruito la propria supremazia, dopo la fine della Guerra Fredda, grazie anche all’aiuto degli alleati regionali, in primis Giappone e Corea del Sud. La Cina ha però da tempo messo in discussione questo assunto, emergendo come nuova potenza nel Mar Cinese Meridionale ed esplicitando le proprie mire egemoniche sull’area. Una ridefinizione degli equilibri che per Washington rappresenta un serio problema.

La supremazia sulle acque è da sempre un elemento fondamentale della strategia americana sul piano globale. Il controllo dei mari, assicurato dal primato militare della US Navy, garantisce vie di commercio rapide e sicure per i beni diretti o provenienti dai porti americani e permette di spostare rapidamente ingenti quantità di truppe in caso di necessità, anche a grande distanza. Ma queste stesse esigenze sono diventate ormai vitali anche per la Cina, una potenza globale la cui economia è sempre più votata all’esportazione e che dunque necessita di un maggiore controllo sulle vie commerciali marittime, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, ricco di risorse ittiche e di gas naturale. La Cina sta dunque tentando di rimodellare lo status quo, approfittando della debolezza degli avversari regionali, incapaci di fronteggiare il gigante asiatico sul piano militare e delle incertezze del rivale americano, che non sembra disposto ad usare la forza per contenere le sue mire espansionistiche.

Ad ogni modo, le attività costruttive cinesi nel mezzo del Mar Meridionale hanno provocato la fortissima irritazione dei vicini del sud-est asiatico, a partire dalle Filippine che rivendicano la propria sovranità su molte delle piccole isole cementificate dalle attività costruttive cinesi. La Cina pensa però di poter tenere sotto controllo i paesi dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, agendo direttamente sull’organizzazione a livello politico ed azionando le proprie leve di influenza economica e militare nei confronti dei singoli interlocutori. Pechino confida altresì di poter gestire le reazioni di Washington, nella convinzione che gli USA eviteranno ogni escalation, temendo un conflitto diretto nelle acque del Mar Cinese Meridionale. I fatti, fino ad oggi gli anno dato ragione.

Resta da capire qual è la posizione del Giappone all’interno di questo puzzle. La potenza del Sol Levante è forse l’unico avversario che la Cina teme davvero, in questo momento. Per la prima volta dopo decenni, il Giappone sembra deciso ad assumere un ruolo più attivo nel pacifico e nel Mar Cinese Meridionale. Recentemente Tokio ha stretto nuovi accordi con Manila e con altri paesi dell’ASEAN per condurre operazioni congiunte e per facilitare le operazioni di rifornimento della sua flotta e dei suoi velivoli. Come contropartita, ha offerto alle Filippine e al Vietnam navi e velivoli per la marina e la guardia costiera. Il Giappone ha anche raggiunto un accordo con gli USA per svolgere operazioni congiunte di pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale, a partire dal prossimo anno.

Perché questo inedito attivismo? Il Giappone è un isola e dispone di poca terra e di poche risorse naturali. Tokio deve dunque necessariamente salvaguardare i propri interessi sui mari, per garantire la sussistenza dell’economia nipponica, ed ha compreso che il nuovo espansionismo cinese rappresenta una minaccia che non può restare senza risposte.

Dal punto di vista di Pechino, la nuova politica di Tokio rappresenta un problema di difficile soluzione, sopratutto se il Giappone agisce in sinergia con gli Stati Uniti per la creazione di una forza congiunta nel Mar Cinese Meridionale. La risposta per ora è diplomatica. Attraverso diversi canali Pechino sta cercando di convincere Washington a non impegnarsi a fianco del Giappone, suggerendo che Tokio starebbe perseguendo unicamente i propri interessi nell’area. In prospettiva, la Cina paventa anche una possibile escalation militare con le Filippine, sostenute dal Giappone, per il controllo delle isole contese. Uno scenario che metterebbe gli USA nella spiacevole condizione di dover scegliere se intervenire o meno a fianco del proprio alleato, con tutte le conseguenze che la scelta comporterebbe sul piano militare e politico.
Luca Marchesini

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Corea del Nord: congresso Partito Comunista nel 2016

Asia di

Dopo la parata per i 70 anni dalla sua fondazione, il Partito Comunista nordcoreano ha annunciato che il settimo congresso si terrà nel 2016. L’ultimo risale al 1980. Dai possibili annunci in campo economico al rafforzamento del ruolo del presidente Kim Jong-Un: gli analisti internazionali si interrogano sui motivi della convocazione dell’assemblea.

 

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La Corea del Nord ha annunciato la convocazione, per il prossimo anno, del settimo congresso unitario del Partito del Lavoratori. L’evento è particolarmente significativo in considerazione di due elementi: l’ultimo congresso organizzato dal Partito Comunista nordcoreano risale al 1980, oltre 35 anni fa; in tale occasione Kim Jong-Il, padre dell’attuale presidente Kim Jong-un, fece il suo debutto politico, con un’apparizione  che sancì la linea di successione al vertice del paese. Il passaggio di poteri si concretizzò solo alcuni anni più tardi, nel 1994, con la morte del Presidente eterno Kim Il Sung.

Il settimo congresso dovrebbe avere luogo nel maggio del 2016, secondo quanto riportato giovedì scorso dalla KCNA, l’agenzia di stampa del regime. Ufficialmente, la riunione plenaria è stata indetta per ponderare  “le esigenze del Partito e dello sviluppo della rivoluzione”, all’indomani delle celebrazioni che hanno salutato il settantesimo anniversario della fondazione del Partito comunista nordcoreano con sfarzose parate militari. Di fatto, la notizia ha generato un’ondata di speculazioni da parte degli analisti internazionali e sudcoreani circa le effettive implicazioni dell’evento.

Il Congresso potrebbe servire a riaffermare il ruolo centrale del Presidente Kim Jong-Un nella gestione del potere, e fungere da palcoscenico per l’annuncio di riforme economiche o di nuove relazioni diplomatiche, tali da ridurre l’isolamento del paese sulla scena internazionale. In tale circostanza si potrebbe altresì procedere a un rimpasto nel partito, con la sostituzione di alcuni dirigenti con figure più vicine al dittatore.

Una seconda ipotesi riguarda invece un possibile spostamento degli equilibri interni, con una cessione di potere da parte dell’esercito a favore del Partito, in un paese da sempre contraddistinto da un dualismo politico-militare nel quale le forze armate svolgono il ruolo fondamentale di motore economico. In tal caso, il presidente potrebbe decidere di eliminare il sistema della “Commissione di Difesa Nazionale”, che da sempre gioca un ruolo chiave nella gestione degli affari di Stato, trasferendo le sue funzioni dall’esercito agli uffici del partito.

In ogni caso, è possibile ipotizzare cambiamenti significativi che potrebbero incidere sulla stessa fisionomia teorica della Juche, l’ideologia basata sulla autosufficienza ed il nazionalismo su cui il comunismo nordcoreano ha costruito la sua specificità, in opposizione all’internazionalismo socialista di stampo marxista-leninista.

 

Luca Marchesini

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La Cina dice stop alla politica del figlio unico

Sud Asia di

Il 18° Plenum del Partito Comunista Cinese, che ha delineato i tratti del piano quinquennale che porterà il gigante asiatico alle soglie del prossimo decennio, è destinato a passare alla storia per le decisioni relative alle politiche demografiche. I 200 membri del Comitato Centrale del partito, riuniti giovedì scorso, hanno infatti sancito la fine della ultra-trentennale politica del figlio unico.

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Già nel 2013 le maglie delle restrizioni si erano allargate ed era stato concesso alle coppie composte da figli unici di avere fino a due bambini. Da oggi, questa possibilità sarà concessa a tutti, senza in correre in multe e sanzioni da parte delle autorità.

La politica del figlio unico fu introdotta in Cina nel 1979, con lo scopo di ridurre la sovrappopolazione in un paese ancora povero e scarsamente industrializzato. In termini meramente numerici, le politiche di controllo demografico ebbero successo. Secondo alcune stime, hanno permesso di ridurre il numero di abitanti di 400 milioni, rispetto alle proiezioni legate al precedente tasso di natalità. Lo stretto controllo statale sulle nascite ha prodotto però anche effetti negativi. Negli ultimi 36 anni sono nati più maschi che femmine, in Cina, determinando un forte disequilibrio di genere e conseguenti tensioni sociali. Inoltre, la politica del figlio unico ha portato ad un progressivo invecchiamento della popolazione ed alla riduzione del numero di giovani in età da lavoro, a fronte di un aumento speculare della quota dei pensionati. Il rischio, per la Cina, era di invecchiare troppo prima ancora di raggiungere un benessere diffuso.

La decisioni prese dal Plenum avranno però effetti solo nel lungo periodo ed occorreranno decenni prima di invertire la tendenza e porre rimedio alle distorsioni determinate dal ferreo controllo demografico. E non è detto che i risultati saranno quelli sperati. La Cina è di fatto un paese diviso in due, sul fronte economico e sociale. 400 milioni di Cinesi vivono sulle coste, nelle regioni più sviluppate, dove il costo della vita è maggiore e dove risiede la gran parte della nuova classe media. Gli altri 900 milioni continuano a vivere nelle aree interne meno sviluppate, dove gli effetti della crescita economica hanno tardato ad arrivare. E’ probabile che le popolazioni di queste zone, con la fine della politica del figlio unico, cresceranno più rapidamente rispetto a quelle delle aree costiere, rendendo il solco tra le due anime della Cina contemporanea ancora più profondo.

Il problema è accentuato anche dal rallentamento dell’espansione economica. Durante gli anni in cui il PIL cresceva a due cifre, si riteneva che la Cina più povera avrebbe inevitabilmente beneficiato, sul lungo periodo, dell’onda lunga dello sviluppo. Per il prossimo quinquennio, però, il Plenum ha programmato una crescita “medio-alta”, nell’ordine del 6-7% annuo. La richiesta di manodopera a basso costo da parte delle zone costiere, di cui le regioni interne si sono sempre fatte carico, potrebbe diminuire di conseguenza. La riduzione dell’offerta di lavoro, parallelamente ad un nuovo slancio demografico, graverebbe dunque pesantemente sulle zone rurali più povere, con conseguenze sociali difficilmente prevedibili.
Luca Marchesini

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China says stop to the one-child policy

Asia @en di

The 18th Plenum of the Chinese Communist Party, which has defined the lines of the five-year plan that will bring the Asian giant at the turn of the next decade, is intended to go down in history for its decisions related to demographic policies. The 200 members of the Central Committee of the party, that have met last Thursday, have indeed marked the end of the over thirty-year one-child policy.

The 18th Plenum of the Chinese Communist Party, which has defined the lines of the five-year plan that will bring the Asian giant at the turn of the next decade, is intended to go down in history for its decisions related to demographic policies. The 200 members of the Central Committee of the party, that have met last Thursday, have indeed marked the end of the over thirty-year one-child policy.

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Already in 2013, restrictions was loosened and couples consisting of two only children were been granted to have up to two children. From today, this possibility will be available to all, with no risk of fines and penalties by the authorities.

The one-child policy was introduced in China in 1979, with the aim to reduce the overpopulation in a country still poor and poorly industrialized. In purely numerical terms, the population control policies have been successful. Some estimates they have reduced the number of inhabitants of 400 million, compared to projections related to the previous birth rate. But the tight state control over births produced also negative effects. Over the last 36 years more boys than girls are born in China, resulting in a strong gender imbalance and consequent social tensions. In addition, the one-child policy has led to an aging population and a reduction in the number of young working people, with a parallel increase in the share of pensioners. The risk, for China, was growing too old before reaching a widespread prosperity.

The decisions made by the Plenum, however, will have effect only in the long run and it will take decades to reverse the trend and to correct the distortions caused by the strict population control. And the results could be different than expected. China is in fact a country divided in two parts, from an economic and social point of view. 400 million Chinese live on the coasts, in the more developed regions, where the cost of living is higher and where the most of the new middle class lives. The other 900 million still live in the less developed inland areas, where the effects of economic growth have been slow in coming. It is likely that the populations of these areas, with the end of the one-child policy, will grow faster than the populations in coastal areas, making the gap, between the two souls of the contemporary China, still deeper.

The problem is accentuated by the slowdown in economic expansion. During the years of the GDP growth at double digits, it was believed that poorer China would have inevitably benefit, in the long run, from the long wave of development. For the next five years, however, the Plenum has planned a “medium-high growth “, in the order of 6-7% per annum. The demand for cheap labor from coastal areas, that the interior regions have always taken charge of, could decrease as a consequence. The reduction in labor offer, along with a new demographic rush, could therefore have and heavy relapse on the poorest rural areas, with social consequences which are difficult to predict.
Luca Marchesini

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