GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Luca Marchesini - page 2

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Dalla Cambogia e dalla comunità hindu-americana si alzano voci in favore di Trump

Asia di

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, mentre la campagna elettorale più corrosiva che si ricordi si avvia alla conclusione in un clima di assoluta incertezza, il candidato Trump incassa il sostegno del premier della Cambogia e di un gruppo repubblicano Hindu. All’origine di queste prese di posizione, in entrambi i casi, sta il timore che una vittoria della Clinton possa determinare una politica estera contraria agli interessi di Cambogia e India. Andiamo per ordine.

Hun Sen, primo ministro cambogiano, uomo forte del piccolo paese del sud-est asiatico al potere da circa trent’anni, ha espresso oggi il proprio auspicio che sia Donald Trump a uscire vincitore dalle urne, martedì prossimo. Una sua elezione, sostiene Sen, garantirebbe un alleggerimento delle tensioni tra USA e Russia e il mantenimento della pace a livello globale. Hun Sen è sotto pressione in vista delle elezioni interne del 2018, accusato da USA, ONU e Unione Europea di non garantire il rispetto dei diritti umani nel paese e di scarso impegno sul fronte della lotta alla corruzione. Una vittoria di Trump porterebbe ad un ammorbidimento delle posizioni da parte degli Stati Uniti? Sen, evidentemente, se lo augura.

Durante un discorso all’accademia nazionale di polizia, il premier ha così spiegato il suo endorsement: “Per essere onesto, io vorrei veramente che Trump vincesse le elezioni. Se dovesse vincere, il mondo cambierà in meglio, perché Trump è un uomo d’affari e, in quanto tale, non vorrà mai la guerra”. Inoltre, il tycoon sarebbe un buon amico di Vladimir Putin e della Russia, a sua volta alleato strategico della Cambogia fin dalla caduta, nel 1979, del regime di Pol Pot.

La Clinton, con la quale Hun Sen si è incontrato diverse volte quanto ricopriva il ruolo di Segretario di Stato, rappresenterebbe invece un rischio per il futuro delle relazioni tra USA e Russia e sarebbe promotrice di una politica estera aggressiva su tutti gli scacchieri. L’intervento americano in Siria sarebbe stato determinato, secondo Sen, dalle pressioni esercitate dalla Clinton sul presidente Obama. Un precedente che darebbe la misura dei rischi rappresentati da una eventuale vittoria del fronte Democratico alle elezioni di martedì prossimo.

Le voci che si alzano da alcuni settori della comunità hindu negli USA in favore di Donald Trump sono meno autorevoli forse, ma comunque rappresentano un interessante elemento di analisi per capire come le diverse comunità del melting-pot americano guardino alle elezioni presidenziali attraverso la lente dei propri interessi specifici.

La Republican Hindu Coalition (RHC), un’ organizzazione filo-repubblicana di ispirazione Hindu, ha diffuso su doversi canali televisivi americani alcuni spot indirizzati contro Hillary Clinton, accusata di essere eccessivamente filo-pakistana. La Candidata democratica avrebbe indirizzato verso il nemico storico del’India miliardi di dollari in aiuti, avrebbe venduto armi al regime di Islamabad e accetterebbe finanziamenti da parte di individui e organizzazioni pakistane filo-islamiste. Infine, la RHC si scaglia contro il marito ed ex-presidente Bill Clinton, considerato troppo vicino alle posizioni Pakistane in relazione alla questione Kashmir, e contro l’assistente personale di Hillary, Huma Abedin, per metà indiana e per metà Pakistana, accusandola di sostenere indirettamente il terrorismo islamico. “Vota Repubblicano – recita lo spot – per te, per le relazioni USA-India e per l’America”.

Non tutta la comunità indo-americana è favorevole al candidato Trump, ovviamente. L’Indian American Supporters of Clinton ha attaccato lo spot dell’organizzazione rivale RHC, definendolo “Ingannevole, scorretto e falso.”

Sia fuori che dentro i confini americani, il mondo guarda alle elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016 esprimendo i suoi diversi punti di vista.

Il premier Giapponese si fida di Trump

AMERICHE/Asia di

“Sono convinto che Trump sia un leader affidabile”. Dopo l’incontro di giovedì nella Trump Tower di Manhattan, il premier giapponese Shinzo Abe, primo leader mondiale ad incontrare il presidente-eletto Trump, si è detto certo che la nuova amministrazione americana si dimostrerà un partner affidabile per il suo paese. Di fronte ai cronisti il premier giapponese ha definito come “franco e sincero” il suo incontro con Trump.  “Il colloquio – ha dichiarato – mi ha convinto che possiamo costruire una relazione di fiducia reciproca.”

Probabilmente il governo giapponese sperava in una vittoria di Hillary Clinton alle elezioni americane dello scorso 8 novembre, anche in ragione delle dichiarazioni poco rassicuranti fatte da Trump in campagna elettorale. Abe aveva registrato con un certo allarme alcune affermazioni del candidato Trump circa la necessità per il Giappone di contribuire maggiormente, in termini economici, all’assistenza delle truppe americane sul suolo nipponico e di dotarsi di un arsenale nucleare come deterrente alle minacce della Corea del Nord. Un altro punto problematico emerso durante la campagna elettorale riguarda l’opposizione dichiarata da Trump all’accordo commerciale di Partnership Trans-Pacifica, su cui invece il governo giapponese ha fortemente puntato. Abe ha dunque voluto incontrare Trump per esprimere le proprie preoccupazioni e, al contempo, ribadire l’impegno del suo governo per rafforzare l’alleanza con gli USA, oggi più che mai centrale per il Giappone in termini diplomatici e strategici, soprattutto per contenere la Cina e le sue mire egemoniche sull’area del pacifico.

Il premier Abe non ha però fornito troppi particolari sui contenuti del colloquio. Sostanzialmente si è trattato di un incontro preliminare, di reciproca conoscenza, nel quale i due leader hanno evitato di scendere nel dettaglio. E’ stato però concordato che dopo il 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, verrà concordato un nuovo incontro per “coprire un’area più vasta di questioni in modo più approfondito”. “Ogni ulteriore approfondimento – ha ribadito Kellyanne Conway, influente membro del team elettorale di Trump – circa le relazioni politiche tra Giappone e Stati uniti dovrà attendere fino al momento dell’inaugurazione (della nuova amministrazione)”.

Sembra comunque che l’incontro sia servito a ridimensionare le preoccupazioni giapponesi sulle future iniziative del nuovo presidente USA sullo scacchiere asiatico. Katsuyuki Kawai, consigliere del presidente Abe, ha incontrato a Washington diversi membri del transition team e alcuni legislatori, ricevendo rassicurazioni sul futuro delle relazioni USA-Giappone. “Non dobbiamo prendere ogni parola pronunciata pubblicamente dal sig. Trump in senso letterale”, ha dichiarato dopo il tour di colloqui.

L’incontro, nelle dichiarazioni dei protagonisti, è dunque servito a ribadire la solidità del legame tra i due alleati. Alcuni analisti considerano però prematura l’iniziativa del primo ministro giapponese, dal momento che Trump non ha ancora assunto ufficialmente la presidenza ed è completamento assorbito dalla formazione della propria squadra di governo. Koichi Nakano, politologo della Sophia Univesrity intervistato dalla CNN, ha espresso il suo scetticismo sulla mossa di Abe: “Cosa ci vuole guadagnare? Non ne ho idea. Non ha neanche parlato con un vero presidente, allo stato attuale”.

Meno categorico Jeffrey Kingston, direttore del dipartimento di Studi Asiatici alla Japan’s Temple University, che, interpellato nuovamente dalla CNN, ha dato una lettura positiva del colloquio, quanto meno dal punto di vista del primo ministro giapponese. Secondo Kingston infatti, Abe avrebbe una particolare simpatia per una certa categoria di leader, alla quale lo stesso Trump rischia di appartenere. “Se guardiamo alle figure che Abe ammira, a livello mondiale, vediamo che gli piacciono i leader forti come Putin, Modi e Erdogan, quelli che anno tendenze dispotiche”.

Al di là delle simpatie personali, la nuova amministrazione Trump dovrà guardare con grande attenzione all’Asia nei prossimi anni e si troverà a fronteggiare una Cina sempre più forte. In tale contesto l’alleanza col Giappone rivestirà un ruolo strategico ed imprescindibile.

The Japanese prime minister trusts Trump

Americas/Asia @en di

“Trump is a trustworthy leader.” After Thursday’s meeting in the Trump Tower in Manhattan, Japanese Prime Minister Shinzo Abe, the first world leader to meet President-elect Trump, said he’s confident that the new US administration will prove to be a reliable partner for his country. In front of reporters the Japanese Prime Minister has described as “frank and sincere” his meeting with Trump. ” The talks – he said – made me feel sure that we can build a relationship of trust”

Probably the Japanese government was hoping for a victory of Hillary Clinton to the US elections last November 8, also because of some alarming statements made by Trump during the election campaign, about the need for Japan to contribute more, in economic terms, to assist American troops on Japanese soil and to acquire a nuclear arsenal as a deterrent to North Korea’s threats . Another problematic point emerged during the campaign concerns the opposition declared by Trump to the Trans-Pacific Partnership trade deal, on which the Japanese government strongly pointed, instead. Abe therefore wanted to meet Trump to express his concerns and, at the same time, reaffirm the commitment of his government to strengthen the alliance with the US, more than ever central today to Japan in diplomatic and strategic terms, especially to contain China and its hegemonic aims on the Pacific area.

Prime Minister Abe did not provide too many details on the talks content. Basically it was a preliminary meeting, for mutual knowing, in which the two leaders have avoided going into detail. It’s been, however, agreed that after January 20, the day of the settlement of Trump at the White House, will be scheduled a new meeting to ”  to cover a wider area in greater depth”. ” Any deeper conversations about policy and the relationship between Japan and the United States – reiterated Kellyanne Conway, an influential member of the electoral team of Trump – will have to wait until after the inauguration”.

It seems however that the meeting served to resize the Japanese concerns about future initiatives of the new US president on the Asian chessboard. Katsuyuki Kawai, an adviser to President Abe, has conducted talks with several members of the transition team, and some legislators, receiving assurances about the future of US-Japan relations. ” We don’t have to take each word that Mr. Trump said publicly lite rally”.

The meeting, in the protagonists declarations, thus served to reaffirm the strength of the bond between the two allies. Some analysts, however, consider premature the initiative of the Japanese Prime Minister, since Trump has not officially assumed the presidency and is completely absorbed by the formation of his government team. Koichi Nakano, a Sophia Univesrity political scientist interviewed by CNN, expressed his skepticism about Abe’s move: ” What is there to gain, I have no idea?” Abe) is not talking to a president yet.”

Less categorical was Jeffrey Kingston, director of Asian Studies at Japan’s Temple University, who, when asked again by CNN, gave a positive reading of the interview, at least from the Japanese prime minister’s point of view. According to Kingston, in fact, Abe would have a particular sympathy for a certain category of leaders, which Trump is likely to belong to. ” If you look at who Abe admires around the world, he likes strong leaders like Putin, Modi and Erdogan, who have despotic tendencies “.

Beyond the personal sympathies, the new administration Trump will have to look very carefully to Asia in coming years and will face a China increasingly strong. In this context, the alliance with Japan will play a strategic and indispensable role.

From Cambodia and the Hindu-American community voices are raised in favor of Trump

Americas/Asia @en di

A few days before the US presidential elections, while the more corrosive election campaign in living memory come to end, in an atmosphere of absolute uncertainty, the candidate Trump collects the support of Cambodia’s prime minister and a Republican Hindu group. The origin of these positions, in both cases, is the fear that a Clinton victory could lead to a foreign policy contrary to the interests of Cambodia and India. Let’s order.

Hun Sen, cambodian Prime Minister, strong man of the small country in South-East Asia, in power for nearly three decades, today expressed its wish to be Donald Trump to emerge victorious from the polls next Tuesday. His election, argues Sen, would guarantee an easing of tensions between the US and Russia and the maintenance of peace globally. Hun Sen is under pressure ahead of internal elections of 2018, accused by US, UN and the European Union of not ensuring respect for human rights in the country and lack of commitment in the fight against corruption. A Trump victory would lead to a softening of positions by the United States? Sen, obviously, wishes it.

During a speech in front of the national police academy, the prime minister has thus explained his endorsement: Frankly speaking, for me, I really want to see Trump win the election. If Trump wins, the world will be changed and will be better because Trump is a businessman and as a businessman he never wants war,”. In addition, the tycoon would be a good friend of Vladimir Putin and Russia, strategic ally of Cambodia since the fall, in 1979, of the Pol Pot regime.

Clinton, with whom Hun Sen met several times when she served as Secretary of State, would represent a risk to the future of relations between the US and Russia and would promote an aggressive foreign policy on all international theaters. The American intervention in Syria would have been determined, according to Sen, by the pressure from Clinton on President Obama. A precedent that would give the measure of the risks posed by a possible Democratic victory at next Tuesday elections.

The voices raised by some sectors of the Hindu community in the US in favor of Donald Trump are less influential, perhaps, but still represent an interesting element of analysis to understand how the different communities of the American melting-pot fare watching to the presidential election through the lens of their specific interests.

The Hindu Republican Coalition (RHC), a ‘pro-republican organization of Hindu inspiration, released on American TV channels a commercial directed against Hillary Clinton, accused of being too pro-Pakistani. The Democratic Candidate, when she was Secretary of State, would have directed to the historic enemy of India billions of dollars in aid, would have sold weapons to the Islamabad regime and would now accept funding from Pakistani pro-Islamist individuals and organizations. Finally, the RHC lashes out against her husband and former president Bill Clinton, considered too close to the Pakistani positions on the Kashmir issue, and against Hillary’s personal assistant, Huma Abedin, half Indian and half Pakistani, accusing her of indirectly supporting Islamic terrorism in the sub-continent. ” Vote Republican – great for you, great for US-Indian relations and great for America.”

Not all of the Indo-American community is in favor of candidate Trump, of course. The Indian American Supporters of Clinton attacked the RHC organization’s commercial, calling it ” misleading, incorrect and false.”

Both inside and outside US borders, the world looks to the presidential elections of 8 November 2016 expressing its different points of view.

FILIPPINE: DUERTE ACCUSATO DI ESSERE IL MANDANTE DI CENTINAIA DI OMICIDI

Asia/BreakingNews di

 

Rodrigo Roa Duerte, classe 1945, nel maggio del 2016 vince le elezioni presidenziali delle Filippine dopo una campagna elettorale dai toni esaltati nella quale spende la propria reputazione di uomo forte e inarrestabile, costruita dal 1988 in poi occupando la poltrona di Sindaco di Davao, Capitale della grande isola di Mindanao, nel sud dell’Arcipelago.

Oggi, la dichiarazione rilasciata davanti all’assemblea legislativa del Senato da parte di un ex-appartenente ad uno squadrone della morte lo chiamano in causa come ispiratore e mandante di centinaia di uccisioni, durante gli anni in cui ha ricoperto la carica di Primo cittadino di Davao.

Salito al potere con il 39% delle preferenze, Duerte non ha mai rinnegato i soprannomi che la stampa gli aveva attribuito: Giustiziere, Punisher ed altri appellativi da B movie americano facevano evidentemente riferimento ad i metodi brutali e arbitrari con i quali l’ex sindaco Duerte aveva condotto la sua personale battaglia contro la corruzione e la droga. In diverse occasioni le organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali avevano espresso sconcerto e preoccupazione per le centinaia di esecuzioni extragiudiziarie condotte nella città di Davao durante i lunghi anni del suo governo, delle quali erano rimasti vittima pusher, consumatori di stupefacenti, ma anche semplici cittadini.

Nonostante fossero giunte critiche addirittura dal Vaticano, i Filippini, profondamente cattolici, hanno deciso di concedere la propria fiducia a Duerte, il cui cavallo di battaglia in campagna elettorale è stata la promessa di uccidere 100 mila spacciatori e malviventi nel corso dei primi sei mesi di presidenza. A cinque mesi dalle elezioni, la quota 100 mila è ancora molto lontana ma le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’uccisione di circa 3 mila persone ed una sostanziale sospensione dello stato di diritto in ampie zone del paese. La polizia, che sembra ormai godere di un’impunità quasi totale, ha di fatto confermato queste cifre.

La popolarità di Duerte, durante questi cinque mesi di sangue e violenza, ha continuato a crescere, impermeabile alle denunce delle ONG e alle tante testimonianze che dimostrerebbero l’uccisione di civili incensurati, compresi alcuni bambini, nel corso delle operazioni condotte dalle autorità di pubblica sicurezza.

Oggi, però, la testimonianza rilasciata di fronte al senato da Edgar Matobato, ex-membro di uno squadrone della morte Di Davao, apre scenari ancora più inquietanti e mette il presidente Duerte in una posizione estremamente scomoda.

I Lambada Boys, come si faceva chiamare il gruppo di sicari di cui era membro Matobato, 57 anni e cinquanta omicidi all’attivo, sarebbero responsabili di centinaia di esecuzioni mirate, perpetrate a Davao nel corso degli ultimi decenni. Il testimone, chiamato a parlare di fronte all’aula riunita dalla senatrice Leila de Lima, ex direttrice della commissione per i Diritti Umani delle Filippine, ha dichiarato che Duerte sarebbe stato il mandante di queste esecuzioni, di cui sarebbero rimasti vittime sia molti esponenti della malavita locale che oppositori politici dell’allora sindaco. Matobato ha parlato di corpi dati in pasto ai coccodrilli, di ventri squarciati per non far riemergere i cadaveri sepolti in mare e di altre brutalità riconducibili agli ordini impartiti direttamente da Duerte, la cui immagine appare oggi più vicina a quella di un gangster che a quella di un politico di successo.

Leila de Lima, grande oppositrice del Presidente e, secondo Matobato, bersaglio mancato nel 2009, quando la squadra di sicari non riuscì a portare a termine il suo omicidio, intende utilizzare la testimonianza per mettere sotto accusa Duerte e per creare un legame logico e simbolico tra la violenza che ha insanguinato la città di Davao durante il suo mandato, tra il 1988 ed il 2013, e l’odierna sospensione dei più basilari diritti umani, alla base della guerra voluta dal Presidente per estirpare il narcotraffico e sterminare gli esponenti della piccola criminalità legata al mondo dello spaccio di stupefacenti.

Duerte per ora non ha voluto rispondere alle accuse, ma i suoi portavoce hanno già iniziato ad erigere un muro difensivo, mettendo in dubbio la credibilità di Matobato e sostenendo che de Lima, che dovrà presto presentarsi di fronte ad una commissione di inchiesta parlamentare, sia invischiata in attività illecite legate al traffico di droga.

Lo scontro si sposta dunque in campo aperto e sono in molti a temere che un Duerte ferito, ma ancora forte del sostegno popolare, possa reagire in modo scomposto, trascinando il paese con se in una nuova stagione di violenza e sospensione dei diritti.

The Philippines: Duerte accused of hundreds of murders

Asia @en/BreakingNews @en/Far East di

Duerte Rodrigo Roa, born in 1945, in May of 2016  won the presidential elections in the Philippines after a campaign by the exalted tones in which he spent its reputation of strong and unstoppable man, built from 1988 onwards occupying the chair of the Mayor of Davao, Capital the large island of Mindanao, in the southern archipelago.

Today, the statements released by a former death squad member, in front of the legislative assembly of the Senate, called Duerte into question as the inspirer and instigator of hundreds of killings during the years when he held the post of First Citizen of Davao.

Came to power with 39% of the votes, Duerte never rejected the nicknames that the press had attributed to him: Executioner, Punisher and other American B movie titles were obviously referring to the brutal and arbitrary methods with which the former mayor Duerte led his personal battle against corruption and drugs. On several occasions the local and international organizations for human rights expressed dismay and concern for the hundreds of extrajudicial executions carried out in the city of Davao during the long years of his government, whose victims were pusher, drug users, but also simple citizens.

Despite criticisms came even from the Vatican, the Filipinos, deeply Catholic, decided to grant their trust in Duerte, whose workhorse during the election campaign was the promise to kill 100,000 drug dealers and criminals in the first six months of Presidency. Five months after his elections, the 100,000 goal is still far away but organizations for Human Rights denounced the killing of about 3000 people and a substantial withdrawal of the state of law in large areas of the country. The police, which now seems to enjoy almost total impunity, has actually confirmed these figures.

The popularity of Duerte, during these five months of blood and violence, continued to grow, waterproof to complaints from NGOs and the many testimonies that prove the killing of civilians with clean records, including children, in the course of police operations.

Today, however, the testimony given before the Senate by Edgar Matobato, former member of a Davao death  squadron, opens even more disturbing scenarios and puts the president Duerte in an extremely awkward position.

The Lambada Boys, as the group of hit men was called, of which Matobato, 57 and fifty murders on his record, was member, would be responsible for hundreds of targeted killings, perpetrated in Davao in the last decades. The witness, called to speak in front of the gathered Senate by Senator Leila de Lima, former director of the Committee for Human Rights of the Philippines, said that Duerte was the instigator of these executions, whose victims were many local criminals and political opponents of the Mayor Duerte. Matobato spoke of bodies thrown to the crocodiles, torn bellies to prevent the appearance of the bodies buried in the sea and other brutalities attributable to orders came directly from Duerte, whose image appears now closer to that of a gangster then to that of a successful politician.

Leila de Lima, a great opponent of President and, according Matobato, missed target in 2009, when the hitmen team failed to complete her murder, will use the testimony to impeach Duerte and to create a logical and symbolic link between the violence that bloodied the city of Davao during his tenure, between 1988 and 2013, and today’s suspension of basic human rights, the basis of the war of the President to eradicate drug trafficking and exterminate the members of the small crime linked to the world of drug dealing.

Duerte, for now, did not answer the charges, but his spokesman have already begun to erect a defensive wall, questioning the credibility of Matobato and claiming that de Lima, who will soon have to appear before a parliamentary committee of inquiry, is embroiled in illicit activities related to drug trafficking.

The battle moves, therefore, in the open field and there are many who fear that a Duerte wounded, but still strong of popular support, could react in a disorderly way, dragging the country with him in a new era of violence and suspension of rights.

 

Luca Marchesini

Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

Asia/BreakingNews/Sud Asia di

Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

South China Sea: what scenarios after The Hague ruling

Asia @en/BreakingNews @en di

The forecasts have been met: The Permanent Court of Arbitration based at The Hague, called by the Philippines in defense of their fishing areas, has expressed yesterday in a ruling that meets Manila requests and disregards the Beijing claims on the islands of the South China Sea. The Court ruled that the Chinese expansion violate the United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), an international agreement that regulates the right of the states on the oceans, signed by 166 nations, including China.

How was equally predictable, given the statements of Chinese leaders before the verdict, the Asian giant does not intend to respect the ruling of the Court, to which it never wanted to recognize any jurisdiction over the maritime dispute involving the major countries of Southeast Asia, as well in Japan, the US and, to a lesser extent, Australia.

The so-called “Nine-dash line” claimed by Beijing covers 90% of the South China Sea and finds its shaky historical justification in the control of the archipelago of Paracelsus Islands, militarily withdrawn from Vietnam in 1974. China, over the past three years, has strengthened unilaterally its position by building artificial island along the coral reefs, where then installed civilian and military outposts and asphalt airstrips for the landing of its aircrafts.

In fact, the judgment further stirs the waters in a geopolitical theater already subject to frequent storms. China is convinced that no act of the court will ever questioning its national interests in the area. Moreover, the Hague International Court has no binding instrument to force Beijing to respect its judgment. The Chinese government, however, is concerned that the judgment favorable to the Philippines may trigger a domino of appeals from other countries whose coasts are on the disputed stretch of sea, among the most strategic globally by fishing and commercial point of view. The US, meanwhile, could use the ruling to reaffirm the  freedom of navigation principle, the banner that Washington carries out to safeguard their own economic and military interests in the area.

Beijing’s response is likely to be more important than the ruling itself and could point the way for future relations between the hegemonic power of the area and the bloc of nations that attempts to contain its expansion. The question is: what will China do? It will try to direct the development of events in his favor, or try other unilateral actions, even at the cost of exacerbating tensions?

Beijing could decide to be accommodating and, without publicly accept the principles of the judgment, could mitigate its positions, stopping the construction of artificial islands and recognizing the right of fishing in the disputed waters for its neighbors. In the long run, a conciliatory attitude could benefit the growth of the country, ensuring peace and contributing to the emergence of an international legal system more sensitive to its interests.

The events may, however, take the opposite direction. China may reject the ruling and, with it, reject UNCLOS principles, accelerate the construction of artificial islands and strengthen the military outposts, showing muscles to the Philippines and other ASEAN countries.

Beijing could also opt for a third way: do nothing and ignore the ruling. But to cement his leadership China needs to produce rules, not to ignore them, offering an image of reliability in terms of international law. A proactive approach is the only one that would convince other Asian countries to recognize to China a leading role in the medium and long term.

All actors involved should, therefore, openly or tacitly accept the principles underlying the judgment without pushing for a rapid implementation. China would take time to gradually adapt its initiatives to the new standards, in the name of political stability and for the affirmation of an international law which build its supremacy within.

At the moment, it is not easy to imagine such reasonableness, because the Asian giant also feeds itself with nationalism and revanchism against the western and pro-Western powers, which in the past have used the gauntlet to impose their interests to China. An official statement released just before the verdict came by the Minister of Defense, and wasn’t too conciliatory: “Chinese armed forces will firmly safeguard national sovereignty, security and maritime interests and rights, firmly uphold regional peace and stability, and deal with all kinds of threats and challenges.”

Today Beijing feels as strong as ever and could decide to challenge the common rules to force opponents to accept its own. In this case even peace itself would be at risk, because an increase in the construction of civil and military infrastructure in the South China Sea would strengthen deterrence but would multiply the chances of accidents with the US and its allies. The escalation, at that point, may be rapid and uncontrollable.

Bangladesh: proseguono le indagini dopo l’attentato

Asia/BreakingNews di

Continuano le indagini in Bangladesh per ricostruire la rete che ha fornito supporto logistico al commando di terroristi che nella notte di venerdì ha ucciso 20 civili, prevalentemente di nazionalità Italiana e giapponese, in un caffè della zona diplomatica della capitale Dacca.

L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico e sono state diffuse dalla stampa locale alcune foto che ritraggono il volto di 5 dei giovanissimi attentatori accanto alla bandiera nera di Daesh. I terroristi, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero in gran parte esponenti della borghesia di Dhaka, con un passato recente da studenti presso una rinomata università in lingua inglese della Capitale.

Le forze speciali erano intervenute sabato mattina, dopo quasi 12 ore di assedio, uccidendo sei membri del commando e riuscendo a portare in salvo 13 ostaggi. Cinque di essi sono ancora tenuti sotto custodia dalle autorità e nelle scorse ore sono stati interrogati dalla polizia per chiarire la loro posizione. Tra loro, secondo quanto riportato da fonti anonime della polizia, ci sarebbero un cittadino canadese di origini bengalesi ed un cittadino britannico nato in Bangladesh. Le autorità stanno svolgendo indagini ad ampio raggio interrogando anche amici e parenti delle persone trattenute.

La polizia vorrebbe chiarire soprattutto la posizione di un ostaggio Bengalese, rimasto intrappolato insieme a moglie e figli nel ristorante durante l’attacco. In alcuni video amatoriali ripresi dall’esterno del ristorante, si vedrebbe l’uomo parlare con alcuni degli attentatori prima di ricevere da questi l’autorizzazione ad allontanarsi con i familiari.

Si tratterebbe di un insegnante di un università privata di Dhaka, tornato in patria dopo 20 anni trascorsi in Inghilterra. La polizia sospetta che uno degli attentatori abbia studiato nello stesso dipartimento dove il professore tiene regolarmente le sue lezioni e vuole capire se i due potessero essere in contatto nel periodo precedente alla strage.

Inizialmente la polizia aveva insistito nel negare ogni collegamento tra il commando e i network del terrorismo internazionale. Dopo le prime rivendicazioni e la diffusione, su siti vicini a Daesh, di alcune foto che sembrano ritrarre gli interni dell’Holey Artisan Backery e la scena del massacro, la polizia ha cambiato parzialmente linea, dichiarando che le indagini in corso stanno cercando di stabilire se gli attentatori abbiano avuto legami con gruppi stranieri, negando però che l’attacco possa aver avuto una regia esterna.

Le indagini hanno scatenato una caccia all’uomo contro 6 membri di Jamaatul Mujahideen Bangladesh (JMB), un gruppo islamista locale, sospettati di aver collaborato all’organizzazione del massacro e di aver avuto un ruolo centrale nella fase di indottrinamento dei giovani terroristi, quasi tutti istruiti e provenienti dalla media e dall’alta borghesia bengalese. Mentre le forze dell’ordine tentano di individuare e fermare i 6 sospettati, 130 membri dell’organizzazione islamista arrestati in precedenza vengono interrogati dalle autorità giudiziarie alla ricerca di informazioni utili alle indagini.

La polizia ovviamente conta di ottenere informazioni fondamentali da due sospetti (anche se inizialmente si era parlato di uno) che avrebbero preso parte all’attacco e che ora sono piantonati in ospedale.
Mentre le indagini procedono, nel tentativo di stabilire la natura locale o globale dell’attentato, Il Bangladesh e i suoi quasi 160 milioni di abitanti, musulmani per il 90%, si interrogano sulle ragioni che hanno spinto un gruppo di giovani studenti provenienti da famiglie liberali ed istruite (solo uno era di umili origini), ad imbracciare spade e fucili per uccidere e sacrificare il proprio stesso futuro. L’attacco di venerdì scorso segna un drammatico cambio di paradigma, che va oltre il possibile coinvolgimento dello Stato Islamico.

In Bangladesh, la radicalizzazione islamista non fa più breccia unicamente nelle menti di giovani poveri e diseredati, la cui unica istruzione consiste negli insegnamenti fondamentalisti impartiti dalle scuole coraniche attive nelle zone rurali. L’islamismo militante ed il richiamo alla morte, la propria e quella del nemico, seducono anche i pupilli della borghesia occidentalizzata e si insinuano attraverso le parole, rilanciate dai social media, di predicatori stranieri che parlano da luoghi lontani. E’ una sorta di indottrinamento autodidatta difficile da capire, difficile da prevenire e difficile da controllare che indica nella violenza anti-occidentale la soluzione ai tanti problemi che affliggono uno degli stati più poveri e popolati del pianeta.

 

Luca Marchesini

Bangladesh: investigations after Dhaka attack

Asia @en/BreakingNews @en di

Investigations are continuing in Bangladesh to identify the network that has provided logistical support to the command of terrorists that on Friday night killed 20 civilians, mostly Italian and Japanese nationalities, in a coffee shop in the diplomatic area of ​​the capital Dhaka.

The attack was claimed by the Islamic State, and some photos that show the face of five of the young attackers next to the black flag of Daesh have been disseminated by the local press. The terrorists, according to preliminary reports, would be largely members of the middle class of Dhaka, with a recent past as students at a renowned university in English language in the capital.

Special forces intervened on Saturday morning, after nearly 12 hours of siege, killing six members of the commando and managing to rescue 13 hostages. Five of them are still being held in custody by the authorities, and in recent hours have been questioned by the police to clarify their position. Among them, according to reports from anonymous police sources, there would be a Canadian citizen of Bangladeshi origin and a British citizen born in Bangladesh. The authorities are in the meantime conducting wide-ranging investigations questioning even friends and relatives of the people detained.

The police would like first to clarify the position of a Bengali hostage, trapped with his wife and children in the restaurant during the attack. In some amateur videos taken from the outside of the restaurant, the man is talking to some of the bombers before receiving permission to move away from there with family members. He would be a teacher of a private university in Dhaka, returned to his homeland after 20 years in England. The police suspect that one of the attackers studied in the same department where the professor regularly holds its lessons and wants to verify if the two could be connected in the period prior the massacre.

Initially the police insisted in denying any connection between the command and the networks of international terrorism. After the first claims and dissemination, on sites close to Daesh, of some pictures that seem to portray the Holey Artisan Backery interiors and the scene of the massacre, the police has changed partially line, stating that the ongoing investigations are seeking to determine whether the terrorists have had links with foreign groups, but denied that the attack may have had an outside director.

The investigations have sparked a manhunt against 6 members of Jamaatul Mujahideen Bangladesh (JMB), a local Islamist group, suspected of having collaborated in the organization of the assault and to have played a central role in the process of indoctrination of young terrorists, almost all educated and coming from the middle and high Bengali bourgeoisie. While the police try to locate and stop the six suspects, 130 members of the Islamist organization previously arrested are interrogated by judicial authorities seeking information useful to the investigation.

 

Luca Marchesini

Luca Marchesini
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