GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Author

Giulia Treossi - page 2

Giulia Treossi has 76 articles published.

Jan Kubis è il nuovo inviato speciale ONU in Libia

AFRICA di

Nella sera del 15 gennaio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la nomina del diplomatico slovacco Jan Kubis come inviato speciale della Missione di Sostegno in Libia (UNSMIL), secondo quanto riferito da fonti interne al Paese. L’annuncio formale da parte delle Nazioni Unite è atteso nelle prossime ore, così da permettere l’insediamento del neonominato entro il primo febbraio prossimo.

Kubis è noto per aver ricoperto l’incarico di Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Slovacca, nonché per il ruolo di coordinatore speciale ed inviato speciale svolto in Libano, Afghanistan ed Iraq per conto delle Nazioni Unite. Il nome del diplomatico di Bratislava è stato proposto dallo stesso Segretario Generale Antonio Guterres, al fine di sostituire l’ex-inviato delle Nazioni Unite in Libia Ghassan Salamé, il quale si è dimesso dall’incarico il 2 marzo scorso, dopo circa tre anni dall’assunzione dello stesso. Le motivazioni all’origine di tale scelta riguardavano le sue condizioni di salute, aggravate dall’eccessivo carico di stress derivante dalla missione stessa, in virtù delle difficoltà riscontrate dal diplomatico libanese nel raggiungere la pace e la stabilità nel Paese. Da allora, Salamé è stato sostituito dalla sua vice, Stephanie Williams, che ha svolto il ruolo di inviata ad interim. La nuova nomina del Consiglio di Sicurezza è stata frutto di quasi undici mesi di estenuanti trattative, seguite alla decisione di Salamè di ritirarsi dal suo incarico. Prima di optare per la figura di Kubis al vertice della missione UNISMIL, infatti, nel mese di dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva proceduto alla nomina del diplomatico bulgaro Nickolay Mladenov, il quale, tuttavia, pochi giorni dopo la sua designazione aveva annunciato di non poter assumere l’incarico, a causa di “motivazioni personali e familiari”.

 

La nomina di Kubis come nuovo inviato speciale nel Paese africano si colloca in un contesto piuttosto complesso ed articolato. Dal punto di vista militare, in Libia è attivo un cessate il fuoco stabilito lo scorso 23 ottobre, a seguito dell’incontro tra le delegazioni libiche dell’LNA e del GNA, riunitesi a Ginevra nel quadro del Comitato militare congiunto 5+5.  Dal punto di vista politico, invece, in seguito a mesi di negoziati, il 17 dicembre scorso, è stata formata una Commissione legale e costituzionale, volta a guidare la Libia verso nuove elezioni, previste a dicembre 2021. Al momento, inoltre, è in corso a Ginevra un nuovo round di colloqui del Libyan Political Dialogue Forum, iniziato lo scorso 13 gennaio, con l’intento di raggiungere un’intesa tra le parti libiche sui meccanismi di nomina dei futuri organismi esecutivi, il Governo unitario ed il Consiglio presidenziale. Il primo Round negoziale del Forum risale al 9 novembre 2020, pochi giorni dopo la conclusione dell’accordo di cessate il fuoco da parte delle due fazioni belligeranti. Da allora, le Nazioni Unite e l’inviata speciale ad interim, Stephanie Williams, hanno promosso una serie di incontri volti a realizzare la transizione democratica auspicata all’interno del Paese africano. Nelle ultime settimane, tuttavia, il percorso politico è stato caratterizzato da una fase di stallo, che ha rischiato di compromettere lo stesso processo di transizione democratica verso nuove elezioni. 

Tale impasse è stata, dunque, all’origine del nuovo round negoziale sotto l’egida dell’Onu attualmente in corso a Ginevra, nell’auspicio che le controversie in merito ai meccanismi di nomina dei membri della futura leadership libica possano essere superate, trovando soluzioni condivisibili sulle questioni rimaste in sospeso. 

 

Dopo 13 anni termina UNAMID, la missione di pace ONU in Darfur

AFRICA di

La missione di pace congiunta delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, nota come UNAMID, da 13 anni attiva nella regione del Darfur, in Sudan, è stata dichiarata conclusa giovedì 31 dicembre. Dal primo gennaio 2021 è dunque iniziato il ritiro graduale dei circa 8.000 membri della missione, tra personale militare, civile e di polizia, che si protrarrà durante un arco temporale di sei mesi.

La fine della missione, originariamente avviata dal 2007, è stata decretata la scorsa settimana dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, attraverso l’adozione unanime della risoluzione 2559 che, oltre a sancire il termine di UNAMID, lascia al governo di transizione del Sudan il compito di mantenere la pace e la sicurezza nel Darfur.

Dal 2003 la regione in questione è stata teatro di un sanguinoso conflitto civile che affonda le sue radici nella storica avversione tra la popolazione nera originaria della regione e quella nomade, di origine araba. Un’avversione che risale a tempi arcaici, ma che dal 1956- anno dell’indipendenza del Sudan- è andata crescendo fino ad arrivare al 2003. E’ in questo anno che nascono le milizie Janjawid, militanti islamisti reclutati tra i nomadi arabi – noti come baggara- che nel giro di poco tempo, potendo contare sul consenso non dichiarato di Khartoum, avviarono una vera e propria carneficina ai danni della popolazione nera originaria del Darfur. Si formeranno allora l’esercito di liberazione del Sudan ed il Movimento per l’Uguaglianza, le due principali forze di opposizione ai Janjawid. Dal 2003, secondo le stime dell’Onu, sono morte in combattimento oltre 300mila persone, mentre quelle sfollate sfiorano i tre milioni.

Attraverso la risoluzione 1769 del 31 luglio 2007, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizzò, sulla base di quanto previsto dal Capitolo VII della Carta Onu, la costituzione della missione ibrida UNAMID (African Union-United Nations Hybrid Operation in Darfur), nell’intento di sostenere il processo di pace nella regione. Nel corso di questi anni, il termine della missione è stato prorogato più volte dal Consiglio di Sicurezza, l’ultima nel giugno scorso, parallelamente alla stesura di un progetto per la creazione di una nuova missione integrata di assistenza alla transizione nel Paese. L’obiettivo è dunque quello di evitare il verificarsi di un “vuoto di sicurezza”, all’interno di una regione in cui continuano ad operare diversi gruppi di milizie.

La nuova missione, nota come  UNITAMS (United Nations Integrated Transition Assistance Mission in Sudan), è stata quindi istituita con la risoluzione 2524 per un periodo iniziale di 12 mesi, con il mandato di assistere il processo di transizione del Paese africano verso una governance democratica, sostenendo, al contempo, la protezione e la promozione dei diritti umani.

Mogadiscio rompe le relazioni diplomatiche con Nairobi

AFRICA di

Dopo mesi di crescenti tensioni tra Somalia e Kenya, il governo di Mogadiscio ha deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con il vicino del Corno d’Africa, richiamando i diplomatici in loco e ordinando ai diplomatici kenioti in Somalia di lasciare il Paese entro sette giorni.

La decisione del governo federale somalo nasce in risposta alle “intromissioni keniote negli affari politici interni del Paese, e alle ricorrenti e palesi violazioni perpetrate contro la sovranità somala”, ha dichiarato il Ministro dell’Informazione Osman Abukar Dubbe, nel corso di una trasmissione televisiva dell’emittente statale SNTV.

A far scatenare la scintilla sarebbe stato l’incontro tenutosi a Nairobi il 13 dicembre, tra il presidente keniota, Uhuru Kenyatta, e il leader dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland, Muse Bihi Abdi. Il Somaliland è la regione nord-occidentale della Somalia che, nel 1991, ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza da Mogadiscio, senza, tuttavia, ottenere il riconoscimento da parte della comunità internazionale. L’incontro tra Kenyatta e Muse Bihi Abdi è stato dunque letto da Mogadiscio come un’intromissione negli affari interni somali, tanto più in vista delle tanto attese, quanto delicate, elezioni in programma per il 2021.

Gli accordi siglati dai due leader in quell’occasione sono quindi considerati dalle autorità somale come “un’intollerabile provocazione”.

In base alle intese, il Kenya ha stabilito l’apertura di un consolato ad Hargheisa, capitale del Somaliland, entro la fine di marzo 2021, mentre le autorità dell’autoproclamata Repubblica hanno deciso di elevare al rango di consolato lo status dell’ufficio di collegamento stabilito in Kenya. Secondo quanto convenuto, inoltre, la compagnia aerea Kenya Airways dovrebbe volare direttamente, sempre entro fine marzo, da Nairobi ad Hargeisa.

“I due leader riconoscono l’impegno del Kenya per una Somalia pacifica, stabile, forte e prospera, in cui tutte le voci del popolo somalo hanno l’opportunità di esprimere la loro volontà sovrana”, si legge nel comunicato firmato al termine dell’incontro. L’annuncio ha innervosito il governo somalo e il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, altresì noto come Farmajo, che considerano il Somaliland parte integrante del territorio della Somalia.

Lo scorso 15 dicembre il portavoce del Ministero degli Esteri keniota, Cyrus Oguna, ha dichiarato che il governo di Nairobi ha istituito un comitato “per cercare una soluzione alla controversia diplomatica”, specificando che la nazione è stata “molto gentile e accomodante con i circa 200.000 somali che vivono nei vasti campi profughi situati nell’Est del Kenya”.

La rottura delle relazioni diplomatiche tra Nairobi e Mogadiscio ha segnato il culmine di un progressivo deterioramento dei legami tra i due Paesi, le cui radici risiedono in una disputa sui confini terrestri e marittimi tra i due vicini del Corno d’Africa. L’istanza era stata anche presentata dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2014, dopo che le negoziazioni sui 100.000 km² di tratto di fondo marino conteso dalle due parti erano state interrotte. I toni della polemica, però, si sono riaccesi a febbraio, quando la Somalia ha accusato il Kenya di aver messo all’asta alcune aree marittime contese per l’esplorazione di gas e petrolio. Da quel momento, le relazioni tra i due Paesi africani si sono notevolmente raffreddate, fino ad arrivare alla recente rottura diplomatica. Già il 30 novembre scorso, infatti, la Somalia aveva espulso l’ambasciatore del Kenya e richiamato il proprio inviato da Nairobi, accusando il Paese di interferire nel processo elettorale nello Jubbaland, uno dei suoi cinque Stati semiautonomi confinante con il Kenya.

Anche il Marocco riconosce lo Stato di Israele, il ruolo della mediazione USA

AFRICA di

Il Regno del Marocco è il quarto Paese arabo, in quattro mesi, ad avviare la normalizzazione dei rapporti con Israele nell’ambito dei cosiddetti Accordi di Abramo, sponsorizzati dall’amministrazione Trump.

Lo scorso 10 dicembre, infatti, i due Paesi hanno concordato la normalizzazione delle relazioni reciproche, stipulando un accordo che prevede, tra le altre cose, il riconoscimento statunitense del territorio conteso del Sahara occidentale come parte del Marocco. Questa regione del Nord Africa, ex colonia spagnola, è contesa da decenni tra Rabat e il Fronte Polisario, movimento separatista sostenuto dalla vicina Algeria, che mira all’ottenimento dell’indipendenza per la creazione di uno Stato autonomo. Nel suo annuncio su Twitter, Trump ha parlato di “un’altra svolta storica”, definendo l’accordo come “un enorme passo avanti per la pace in Medio Oriente”.

 

Ho sempre creduto in questa pace storica, e ora sta accadendo sotto i nostri occhi. Voglio ringraziare il presidente Trump per i suoi sforzi straordinari per portare la pace in Israele e in Medio Oriente”, ha commentato il primo ministro Israeliano, Benjamin Netanyahu, assicurando che ci sarà “una pace molto calorosa” tra i Paesi. In base all’accordo,  Marocco e Israele ristabiliranno relazioni diplomatiche ufficiali, con l’immediata riapertura degli uffici di collegamento a Rabat e Tel Aviv. Nell’ottica di facilitare gli scambi economici – e non – tra i due Paesi, viene concesso agli aerei israeliani di entrare nello spazio aereo marocchino, aprendo tratte di volo dirette tra i due Paesi.

Quanto al riconoscimento della sovranità di Rabat sulla regione del Sahara occidentale, alcuni osservatori hanno ritenuto la decisione degli USA come “merce di scambio” per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha definito il Sahara Occidentale come un “territorio conteso” e da anni cerca di organizzare un referendum di autodeterminazione, invano. Il riconoscimento da parte degli Stati Uniti rafforza quindi la posizione del Marocco, come emerge dal testo della dichiarazione della Casa Bianca, in cui si legge: “gli Stati Uniti credono che uno Stato saharawi indipendente non sia un’opzione realistica per risolvere il conflitto, e che la vera autonomia sotto la sovranità marocchina sia l’unica soluzione fattibile”, esortando le parti “ad impegnarsi in discussioni senza indugio, utilizzando il piano di autonomia del Marocco come unico quadro per negoziare una soluzione reciprocamente accettabile”.

Parlando ai giornalisti, Jared Kushner, genero di Trump e suo consigliere su molte materie, compresa la politica estera, ha dichiarato che è ormai inevitabile che anche l’Arabia Saudita, principale potenza araba della regione, riconosca Israele seguendo l’esempio di EAU, Bahrein, Sudan e Marocco. L’amministrazione Trump ha esercitato numerose pressioni sul regno saudita a questo scopo, per ora senza successo. Solo la scorsa settimana il Ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, ha dichiarato che Riad potrebbe prendere in considerazione una tale mossa solo se un accordo di pace tra israeliani e palestinesi “prevedrà la nascita di uno stato palestinese con dignità e con una sovranità praticabile e accettabile da tutti i palestinesi”.

Come è finito il Libyan Political Dialogue Forum: le conclusioni dell’inviata ONU Williams

AFRICA di

Il Libyan Political Dialogue Forum, svoltosi a Tunisi dal 9 al 19 novembre, ha riunito settacinque personalità libiche sotto gli auspici della Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), nell’intento di delineare il futuro assetto politico ed istituzionale del Paese. Contrariamente a quanto auspicato, il LPDF si è concluso senza un accordo sul nuovo esecutivo libico, ma ha portato, parallelamente, alla definizione di una road-map con cui il Paese nordafricano giungerà alle prossime elezioni, la cui data è stata fissata per il 24 dicembre 2021.

Ora abbiamo una chiara road-map per lo svolgimento delle elezioni il 24 dicembre 2021“, ha detto l’inviata ad interim del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, anticipando che i partecipanti al dialogo politico si riuniranno nuovamente in videoconferenza entro una settimana, per discutere di alcune questioni controverse ed ancora irrisolte.

Confidando nel fatto che il dialogo politico sia “l’unica soluzione alla crisi libica”, il nuovo incontro sarà finalizzato a limare le divergenze esistenti tra i rappresentanti delle tre regioni della Libia –Tripolitania, Fezzan e Cirnaica –, in modo da raggiungere un accordo sui meccanismi di selezione dei nuovi membri del Consiglio di presidenza, del Governo di unità nazionale e sui nomi delle personalità che assumeranno le cariche più alte nel Paese. L’obiettivo principale del Forum di Tunisi era, infatti, quello di ridisegnare i futuri assetti istituzionali del Paese, stabilendo un meccanismo per l’elezione del nuovo governo, a tre settimane dal raggiungimento dell’accordo per un cessate il fuoco permanente tra le fazioni rivali.

Al momento, tuttavia, essendo fallito il primo tentativo di nominare un governo di unità nazionale, non è possibile individuare chi avrà il compito di guidare la fase di transizione che culminerà con le elezioni presidenziali e legislative.
Secondo quanto affermato dall’inviata speciale dell’Onu Stephanie Williams, il Forum ha comunque raggiunto dei risultati soddisfacenti, ottenendo un’intesa proficua su alcuni fascicoli fondamentali. Infatti, oltre ad aver individuato una data per le elezioni del 2021, stabilendo così una “tabella di marcia verso la democrazia”, e all’accordo raggiunto sulla separazione tra il Consiglio di Presidenza e il Primo ministro, le parti si sono dette concordi sulla necessità di apportare un cambiamento storico nel Paese Nord-africano, ponendo fine al conflitto che da anni non concede tregua alla popolazione libica.

Secondo quanto dichiarato dall’inviata speciale ONU, nel corso dei dialoghi del LPDF è stato evidente che la maggior parte dei 75 delegati, rappresentanti delle circoscrizioni e delle parti politiche libiche, non accetti lo “status quo”, considerando l’attuale situazione in Libia come un’alternativa che non è più possibile sostenere.
In una conferenza stampa tenutasi nella tarda serata di domenica 15 novembre, l’inviata ONU ha invitato la classe politica libica ad aderire al movimento per il cambiamento («حركة التغيير»), sottolineando che non verrà consentita alcuna ostruzione al processo in corso, profilando, inoltre, la possibile l’individuazione di sanzioni internazionali per chi dovesse tentare di opporsi alla formazione del nuovo esecutivo.

Devono attenersi ai desideri dei libici per continuare il dialogo politico”, ha aggiunto Williams, indirizzando il suo discorso all’attuale classe politica libica.

Gli EAU sono il primo Paese arabo ad aprire un consolato nel Sahara Occidentale: significato e conseguenze di una decisione storica

AFRICA di

Gli Emirati Arabi Uniti hanno inaugurato il 5 novembre scorso un consolato generale nella contesa regione del Sahara Occidentale, precisamente nella città di Laayoune, nell’area de iure parte dell’ex colonia spagnola del Sahara e de facto attualmente governata dal Marocco. La cerimonia di inaugurazione dell’ufficio consolare è avvenuta alla presenza del Ministro degli Esteri di Rabat, Nasser Bourita, e l’ambasciatore degli UAE in Marocco, Al-Asri Saeed Ahmed Aldhaheri.

Le relazioni tra gli Emirati Arabi e il Marocco, il quale rivendica i territori del Sahara Occidentale, sono solide e stabili, come dimostra il recente incontro telefonico avvenuto tra il principe ereditario di Abu Dhabi ed il sovrano marocchino, alla vigilia dell’inaugurazione. In quest’occasione il re Mohammed VI ha espresso profonda gratitudine nei confronti degli UAE per la “storica decisione di aprire un proprio consolato nelle province meridionali del Regno”, auspicando che l’esempio emiratino venga seguito da altri Paesi arabi.

Gli UAE, infatti, sono il primo Paese arabo ad aver istituito una sede consolare nella contesa regione del Sahara Occidentale, dando così sostegno e riconoscimento internazionale al regno marocchino per l’assoluto controllo della zona contesa.

Si tratta, in effetti, di un passo fondamentale, capace di spostare “la questione del riconoscimento della sovranità marocchina nel Sahara Occidentale della dimensione africana a quella araba”, secondo le parole del Ministro degli Esteri marocchino, soprattutto in virtù del ruolo centrale giocato da Abu Dhabi nella regione del Golfo e a livello internazionale.

In totale, la regione del Sahara occidentale ha assistito all’apertura di 16 missioni diplomatiche dalla fine del 2019, perlopiù da parte di Paesi africani che hanno stabilito le proprie rappresentanze a Laayoune e a Dakhla, città portuale situata più a sud.

Come evidenziato dallo stesso Ministro degli Esteri marocchino, l’iniziativa degli Emirati Arabi è “tutt’altro che un’azione priva di significato”, ma anzi, appare “dotata di un preciso valore politico, legale e diplomatico”, in grado di rafforzare la sovranità e “l’identità marocchina” del Sahara Occidentale.

La disputa in quest’area ha avuto inizio nel 1975 quando, in seguito al ritiro del dominio spagnolo, il Marocco ha annesso una parte della regione, situata sulla costa Nord-occidentale dell’Africa. In risposta, nel 1976, il Fronte Polisario, costituitosi come movimento il 10 maggio 1973, ha annunciato la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi (SADR), instaurando un governo in esilio in Algeria ed intraprendendo una guerriglia per l’indipendenza durata fino al 6 settembre 1991, anno in cui venne dichiarato un cessate il fuoco, promosso dalla Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale (MINURSO).

Ad oggi, il governo di Rabat rivendica la propria sovranità sull’80% del Sahara Occidentale, mentre il Fronte Polisario, che già controlla una striscia desertica dell’area ad est delle mura di difesa del Marocco, continua a battersi affinché venga indetto un referendum per l’autodeterminazione del proprio territorio, dove risiedono circa mezzo milione di individui.

Nel corso della cerimonia di inaugurazione del consolato, l’ambasciatore emiratino ha evidenziato come tale decisione di istituire un consolato in quella zona attesti la vicinanza del Paese del Golfo al Regno marocchino per le “giuste cause” in cui si batte, all’interno di fora regionali ed internazionali. Il ministro degli Esteri di Abu Dhabi, Sheikh Abdullah bin Zayed al-Nahyan, intervenuto nella cerimonia di inaugurazione, ha affermato che la mossa si fonda sulla decisione di una leadership “saggia”, che testimonia il legame storico ed il “partenariato strategico” tra i due Paesi. A tal proposito, gli UAE si sono detti desiderosi di rafforzare ulteriormente le relazioni con il partner marocchino, aprendo ulteriori canali di dialogo e di cooperazione, con il fine di promuovere lo sviluppo e la crescita di entrambi i Paesi, oltre che pace e stabilità a livello globale.

Il nuovo consolato di Laayoune svolgerà quindi un ruolo significativo nel promuovere nuove opportunità di cooperazione in aree di mutuo interesse, rafforzando i legami culturali, economici, commerciali e di investimento tra Marocco ed Emirati Arabi Uniti.

L’apertura del consolato emiratino mostra, quindi, da un lato il sostegno di Abu Dhabi all’integrità territoriale marocchina e allo sviluppo di una cooperazione reciproca più stretta, mentre, dall’altro, è indice del successo della politica adottata dal re marocchino, Mohammed VI, desideroso di instaurare legami pacifici con gli altri Paesi della regione, preservando, al contempo, la propria integrità territoriale e nazionale.

 

 

Libia: al-Serraj ritira le dimissioni. No ad ogni rischio di “political vacuum” nel Paese

AFRICA di

Dopo aver annunciato la volontà di cedere il proprio mandato ad una “nuova autorità” poco più di un mese fa, il Capo del Consiglio Presidenziale libico, Fayez al-Serraj, ha ritirato le sue dimissioni il 30 ottobre scorso.
La decisione, comunicata ufficialmente dal portavoce del GNA Galib al-Zaklai, è stata frutto di una serie di richieste e pressioni avanzate nei confronti del leder del GNA, affinché egli mantenesse il proprio incarico. Sul versante interno, tali pressioni sono provenute dal Parlamento di Tripoli e dall’Alto Consiglio di Stato, mentre, sul versante esterno, da parte del Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas e della Missione ONU in Libia (UNSMIL), nell’intento di evitare un vuoto politico ed istituzionale, salvaguardando così la “continuità istituzionale ed esecutiva” del Paese.
La richiesta di rinvio delle dimissioni avanzata dall’Alto Consiglio di Stato libico, per il tramite del suo leader Khaled al-Mishri, è stata presentata sulla base di alcune clausole contenute nell’accordo politico relativo agli Accordi di Skhirat. Tali accordi, conclusi il 17 dicembre 2015, avevano sancito l’istituzione del GNA, in contrapposizione al governo di Tobruk, affiliato all’Esercito Nazionale Libico (LNA) e al generale Khalifa Haftar.

Va ricordato, tra le altre cose, che nella settimana antecedente all’annuncio di al-Serraj, le delegazioni libiche rivali riunitesi a Ginevra, nel quadro del Comitato militare congiunto 5+5, hanno ufficialmente siglato l’accordo di cessate il fuoco permanente in tutto il Paese. Si tratta di uno dei più importanti risultati raggiunti dalla cosiddetta conferenza di Berlino, il meeting svoltosi nel gennaio 2020 sotto l’egida dell’ONU in cui i diversi attori internazionali hanno tracciato il cammino da percorrere per giungere ad una soluzione pacifica del conflitto in Libia. Quello terminato il 23 ottobre a Ginevra è stato il quarto round negoziale successivo all’incontro di Berlino, mentre il penultimo aveva avuto luogo nel mese di settembre in Egitto.
La Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia ha definito “storico” il risultato cui si è giunti, evidenziando come questo sancisca un punto di svolta “decisivo e coraggioso” verso il raggiungimento della pace e della stabilità in Libia.
Oltre al Forum sul dialogo politico, in programma a Tunisi il prossimo 9 novembre per fissare la data delle prossime elezioni legislative e presidenziali, si attendono ora nuove sessioni del Comitato 5+5, con l’obiettivo di proseguire le negoziazioni necessarie per stabilire i dettagli sulla partenza dei mercenari stranieri in loco, avviando, al contempo, l’unificazione delle forze armate del Paese.

In questo contesto, appare chiaro che le prossime settimane saranno cruciali per la definizione di un nuovo assetto per lo Stato nordafricano, teatro di una lunga guerra civile dal febbraio 2011. La necessità di una leadership forte, evitando ulteriori elementi di destabilizzazione politica all’interno del Paese, ha spinto al-Serraj a cedere alle pressioni sul rinvio delle sue dimissioni, almeno fino a quando non saranno istituiti nuovi organismi politici in grado di guidare efficacemente il Paese africano verso nuove elezioni.

Che cos’è #EndSARS, il movimento di protesta nigeriano contro la brutalità della polizia

AFRICA di

Da settimane in Nigeria si protesta contro le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine, in particolare contro la cosiddetta SARS, acronico di Special Anti-Robbery Squad. Si tratta di un’unità speciale della polizia nigeriana da anni accusata di abuso di potere e violazione dei diritti umani.
In tutte le principali città del Paese i cittadini sono scesi in strada con un obiettivo ben preciso: mettere fine alla violenza arbitraria delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Il movimento di protesta è nato online, in particolare su Twitter, con l’hashtag #EndSARS, che ha accompagnato tante testimonianze e prove video che mostrano arresti arbitrari, uccisioni, rapine, stupri, torture e detenzioni arbitrarie da parte della SARS.

La Special Anti-Robbery Squad venne istituita nel 1992 come unità del Dipartimento di Intelligence e Investigazione Criminale della Nigeria, con l’obiettivo di contrastare l’ascesa della criminalità violenta nel Paese. Si tratta di un corpo di polizia che agisce a volto coperto contro crimini quali rapine a mano armata e rapimenti, e che, tuttavia, si è progressivamente trasformato in una forza repressiva pericolosa, che agisce nella più totale impunità.
Amnesty International monitora l’operato di SARS da anni, considerandola altresì responsabile di diversi abusi a danno dei detenuti nelle carceri. A maggio di quest’anno, l’Organizzazione ha diffuso un rapporto che documenta le torture subite da almeno 82 persone rinchiuse nei centri di detenzione SARS, tra gennaio 2017 e maggio 2020. Si tratta prevalentemente di giovani di età tra i 18 e 35 anni, per lo più appartenenti ai gruppi più vulnerabili della società nigeriana, vittime di esecuzioni, torture e sevizie. Questo spiega perché uno degli slogan principali delle proteste sia “We can’t be the future of our Nation if we are dead“.
Le fattispecie documentate dall’Organizzazione internazionale sono note da tempo in Nigeria, tanto che nel 2017 una petizione per l’abolizione di SARS raggiunse il parlamento di Abuja, con il sostegno di un analogo movimento di protesta pacifico nelle principali città del Paese. Le violenze e i soprusi ai danni della popolazione nigeriana, tuttavia, non si sono conclusi.

Proprio per questo la protesta si è riaccesa di recente, più precisamente lo scorso 7 ottobre, a seguito della diffusione di un video che testimonia l’omicidio di un ragazzo.
Le nuove manifestazioni contro la brutalità della polizia hanno ricevuto il supporto di numerose celebrità sportive e della musica in tutto il mondo; proprio grazie all’eco ricevuta, l’11 ottobre scorso, il Presidente Buhari ha dichiarato che avrebbe smantellato SARS, istituendo una nuova unità, la Special Weapons and Tactics (SWAT). Per i manifestanti, tuttavia, si è trattato solo di un mero cambio di denominazione, e la protesta è proseguita con la presentazione di 4 ulteriori richieste, nell’obiettivo di costruire “una società più equa e giusta, senza corruzione e prevaricazione”.
Si chiede il rilascio immediato di tutti i manifestanti arrestati, la creazione di un organo ad hoc che indaghi sulle denunce a carico della polizia, un esame psicologico di tutti gli ex membri della SARS prima dell’assunzione di nuovi incarichi nella polizia nigeriana, nonché la necessità di fare giustizia per tutte le vittime, prevedendo una compensazione per le loro famiglie.
Proprio due giorni fa Amnesty International ha denunciato  una nuova escalation di violenze in varie unità federali del Paese, tale da costringere alcuni governatori ad imporre un coprifuoco di 24 ore per arginare le proteste.

 

Libia: 8 ambasciatori europei presentano le lettere credenziali. Annunciata una nuova stagione di negoziati sotto l’egida dell’ONU

AFRICA di

In linea con la volontà dell’Unione europea di dare impulso al dialogo e agli sforzi di pacificazione in Libia, il 10 ottobre scorso il capo della delegazione dell’UE nel Paese africano e otto ambasciatori europei sono giunti a Tripoli per presentare le proprie lettere credenziali al Capo del Consiglio Presidenziale, Fayez al-Serraj, per la riapertura delle rispettive rappresentanze diplomatiche.

Si tratta degli ambasciatori di Germania, Belgio, Austria, Danimarca, Finlandia, Polonia, Spagna e Svezia, mentre la rappresentanza diplomatica ungherese risulta già operativa da qualche settimana.

Nel corso delle riunioni congiunte tra i diplomatici europei, al-Serraj e il Ministro degli Affari Esteri Mohammed Saiala, le autorità di Tripoli hanno ringraziato l’Italia per essere stata l’unico paese a non chiudere la propria ambasciata in loco dall’inizio delle ostilità, neppure durante l’attacco alla capitale avviato dal generale Haftar tra l’aprile 2019 e il giugno scorso. Le autorità libiche hanno riconosciuto il valore del gesto italiano, rinnovando l’auspicio che le altre ambasciate europee e la delegazione UE rientrino presto a Tripoli.

L’incontro si è prospettato come un’occasione per ribadire la volontà comune di continuare a dare seguito alle conclusioni adottate nell’ambito della Conferenza di Berlino, che nel gennaio 2020 ha tracciato il cammino da percorrere per una soluzione politica al conflitto libico. In quell’occasione, i governi di Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Repubblica del Congo, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e USA, insieme agli Alti Rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e dell’Unione Europea, sancirono il loro impegno per garantire la sovranità e l’integrità territoriale del Paese nordafricano, nella consapevolezza che solo un processo politico “guidato dai libici e dei libici”, potesse portare ad una pace duratura.

Nel corso delle riunioni, gli ambasciatori degli Stati europei hanno rinnovato la necessità di giungere ad un accordo di cessate il fuoco permanente, ripristinando il monopolio statale dell’uso legittimo della forza in tutto il Paese. Per il tramite degli ambasciatori degli Stati membri, l’Unione europea si è dichiarata pronta ad intensificare il proprio impegno per l’istituzione di un meccanismo di monitoraggio del cessate il fuoco, in stretto coordinamento con la missione delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL).

“Abbiamo sottolineato che l’UE, come avvenuto di recente con i cinque nuovi elenchi di sanzioni, è pronta ad adottare misure restrittive nei confronti di coloro che minano ed ostacolano il perseguimento degli obiettivi fissati alla Conferenza di Berlino, inclusa l’attuazione dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite in Libia”.

A tal proposito, la missione UNSMIL ha recentemente annunciato che la Tunisia ospiterà a inizio novembre il primo incontro in presenza del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), una volta concluse le consultazioni di preparazione allo stesso, il cui inizio è fissato al 26 ottobre prossimo. L’obiettivo del Forum sarà quello di creare consenso rispetto ad un quadro di governance unificato per il Paese, preparando le condizioni per arrivare ad indire elezioni politiche e presidenziali nel minor tempo possibile. Al LPD Forum parteciperanno i rappresentanti dei vari territori libici, sulla base dei principi di inclusione ed equa rappresentatività geografica, etnica, politica, tribale e sociale.

Di recente, infatti, gli sforzi della comunità internazionale per raggiungere una soluzione politica al conflitto libico si sono intensificati, come dimostra l’incontro in videoconferenza del 5 ottobre scorso tra le delegazioni di Tripoli e Tobruk, nel quadro del cosiddetto “Berlino 2”, un incontro volto a dar seguito al meeting del 19 gennaio scorso. Organizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite e della Germania, il meeting ha visto la partecipazione dei Paesi membri del cosiddetto “Comitato internazionale di follow-up”, composto dai Paesi e dalle Organizzazioni internazionali che presero parte all’incontro di gennaio, e di tutti i Paesi confinanti con la Libia, sotto la presidenza del Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas e del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres.

Al via il tour nordafricano del Segretario alla Difesa USA contro l’influenza di Mosca e Pechino

AFRICA di

Il 30 settembre scorso il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Mark Esper, ha iniziato un tour in Nordafrica, nell’obiettivo dichiarato di “rafforzare le vecchie alleanza e stabilirne di nuove”. Tunisi è stata la prima tappa capo del Pentagono, seguita dalla visita in Algeria e in Marocco.

Qui, come pure in Tunisia, le visite di funzionari militari statunitensi avvengono di frequente, vista la consolidata cooperazione tra i due Paesi e Washington nel settore della difesa. Diverso è invece il caso dell’Algeria. Infatti, da quasi 15 anni un Primo segretario alla Difesa statunitense non giungeva ad Algeri, in ragione della vicinanza tra l’ex Presidente Bouteflika e i governi di Mosca e Pechino. L’ultimo Segretario alla Difesa USA a visitare il Paese era stato Donald Rumsfeld nel 2006.

Nel corso della visita in Tunisia, Esper ha incontrato il presidente Kaïs Saied ed il ministro della Difesa Ibrahim Bertagi, con il quale ha sottoscritto una Roadmap decennale per la cooperazione bilaterale in campo militare. Il focus è posto sul potenziamento delle capacità operative delle forze armate tunisine, con primo riferimento alla lotta al terrorismo e alla stabilizzazione di un’area geopolitica complessa, nella quale, oltre alla crisi libica e alla perdurante instabilità del Sahel, si è aggiunto il recente colpo di Stato in Mali.

Maggiore attesa c’era per la tappa in Algeria, e l’incontro con il presidente Abdelmadjid Tebboune, giunto alla guida del Paese alla fine dello scorso anno, con la vittoria alle elezioni dopo vent’anni, ovvero quattro mandati, targati Abdelaziz Bouteflika. Le sue dimissioni, pronunciate il 2 aprile 2019, sono state lette da Washington come un’opportunità. A tale proposito, il Segretario USA ha dichiarato la volontà di “approfondire la cooperazione con l’Algeria su questioni chiave, come la sicurezza regionale e la minaccia dei gruppi estremisti”. Analogamente, Stephen Townsend, capo del Comando USA per l’Africa noto come AFRICOM, ha dichiarato che l’Algeria è per gli USA “un partner fondamentale” nella lotta al terrorismo, ribadendo la necessità di rafforzare la collaborazione reciproca, dando avvio ad una nuova alleanza “che guardi a sud, verso l’instabilità del Sahel, e a nord, verso le acque calde del Mediterraneo”.

Oltre a rafforzare i legami con la Tunisia ed allontanare l’Algeria dalle mani della Russia, l’obiettivo del tour nordafricano di Esper è anche quello di contrastare la crescente influenza cinese, ormai contraddistinta da un discreto hard power nella regione. Da circa tre anni a Gibuti c’è una base militare cinese, e l’Algeria, il sesto importatore d’armi al mondo, dai dati dell’autorevole istituto svedese Sipri, figura come la terza destinazione dell’export militare di Pechino, come pure di Mosca.

Eppure, alla fine del 2019, dopo l’annuncio sul ritiro di militari USA dalla Siria, emersero indiscrezioni su un piano del Pentagono per ridurre l’impegno in Africa rispetto ai circa settemila militari presenti, per lo più impegnati nel contrasto al terrorismo internazionale. Un’intenzione confermata lo scorso gennaio dallo stesso Esper, nell’ambito di una “revisione complessiva” degli impegni all’estero, che trovò l’opposizione del generale Townsend, da poco più di un anno alla guida di AFRICOM, che evidenziò il rischio delle mire di Russia e Cina per l’estensione delle proprie intese militari e commerciali nel Continente.

Non è possibile predire se tale consapevolezza si tradurrà in un passo indietro rispetto alla riduzione della presenza militare americana, ma, ciò che è certo, è che l’esito del tour nordafricano del capo del Pentagono giocherà un ruolo fondamentale nella decisione definitiva.

Giulia Treossi
0 £0.00
Vai a Inizio
×