GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Domenico Martinelli

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Una velocissima riflessione sulla dimensione esterna dell’UE.

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Ho letto da poco l’ormai ennesimo statement del Consiglio dell’Unione europea circa il tristissimo e vicinissimo conflitto in Ucraina. 

Negli scorsi mesi mi è capitato spesso di leggere numerose dichiarazioni di differenti istituzioni unionali (o, comunque, di altre organizzazioni, think tank, agenzie e centri di ricerca collegati all’Unione europea e da questa finanziati in tutto in parte).

Ma l’ultima dichiarazione dell’Unione che ho letto recava dei commenti e dei giudizi di valore – tutt’altro che benevoli – sulle elezioni locali e regionali in Russia. 

Con questo statement il Consiglio dell’Unione europea ha ribadito la sua totale condanna verso l’occupazione Russa in Ucraina e non fa alcun mistero di non riconoscere assolutamente la validità di dette elezioni, specie nei territori abusivamente e violentemente occupati. 

Vieppiù, viene reiterata con forza la richiesta di immediato ritiro delle truppe Russe dai territori occupati. 

La questione, però, non mi ha colpito per il merito quanto, piuttosto, per la forma

Sono rimasto piacevolmente sorpreso di come l’Europa oggi si esprima quasi alla stregua di un’organizzazione internazionale “matura”, “anziana”, “esperta” quando si tratta di questioni che attengono alla sicurezza internazionale e alla politica estera in generale. 

Qualcuno dirà che ho scoperto l’acqua calda. 

È vero, ma nelle ultime dichiarazioni riguardanti il conflitto in corso, ho davvero notato un grande salto di qualità, una nuova rivelazione di autorevolezza, un maggiore slancio nonché la totale assenza di “timidezza”.

Quasi a voler rimarcare come l’Unione non sia più un’organizzazione internazionale con una primaria vocazione economica ma come, anzi, essa rappresenti ormai un attore sovranazionale importante, anche negli scenari globali e securitari e di come agisca più quale un attore politico che come un mero organismo macroeconomico.

Leggere posizioni nette, a tratti intransigenti e scomode, mi ha fatto intendere come la politica estera dell’Ue sia chiara, decisa e rapida. 

Si percepisce che le decisioni in ambito politico internazionale vengono prese in maniera più veloce (non certo precipitosa), perché su questi dossier gli Stati membri e le Istituzioni unionali appaiono essere sempre sulla stessa scia, anche se non sempre completamente all’unisono.

Un bel traguardo, questo, se pensiamo che l’Ue è un’organizzazione internazionale non più giovanissima, ma ancora abbastanza neofita per le questioni securitarie. 

È un risultato ancora più ragguardevole, se pensiamo ai problemi che quotidianamente sentiamo e leggiamo circa le sfide che l’Unione deve affrontare al suo interno. 

Problemi di stabilità economica, questioni di sicurezza interna, “viscosità” nel processo decisionale per quanto riguarda il Regolamento di Dublino e la gestione delle migrazioni, sono solo alcuni esempi.

Qualche opinionista registra malumori e dissapori anche sul possibile futuro allargamento, sempre più a est, verso i Balcani.

Da europeista convinto, quindi, auspico che l’Ue e le sue istituzioni possano operare in maniera sempre più rapida, decisa, veloce, sicura e meticolosa anche per le questioni che attengono alla sicurezza ed al mercato interni, ad un sempre maggiore miglioramento del coordinamento con i governi nazionali, a delle politiche economiche e sociali più vicine ai cittadini. 

Operando anche sul fronte interno con la stessa speditezza e schiettezza utilizzata per le questioni internazionali, “il messaggio” europeo ed europeista – risultando vincente e persuadendo i popoli dell’Unione della sua bontà – non potrà che perpetuarsi e perpetuare la stabilità, la sicurezza e la prosperità del vecchio continente.

Ogni tanto un po’ di ottimismo ci vuole no?.   

Il Consiglio dell’Unione europea

Non soltanto una valigia di cartone. Storie di migranti Italiani. Approfondimento sul libro di Amerigo Fusco.

BOOKREPORTER/STORIA di
La copertina del libro

Nel mondo veloce e globalizzato di oggi, in cui i nostri smartphone e i nostri nuovi pc sono ormai quasi obsoleti rispetto alla quantum technology dei computer che tra qualche anno invaderanno anche le nostre case, talvolta noi italiani, noi europei ma forse, in generale, noi cittadini di tutto il mondo dimentichiamo le nostre origini.
Noi italiani in particolare, dopo la pandemia che ha sicuramente fiaccato il nostro spirito, siamo profondamente obnubilati dalla perfidia della retorica politica, siamo drogati dai talkshow, siamo ubriacati dai social media: insomma, siamo imbarbariti e instupiditi dalla necessità di sembrare più che di essere.
Per fortuna, nel nostro Paese, esistono delle persone che ogni tanto si sono guardate indietro, cercando un insegnamento per migliorare sé stessi e, possibilmente, anche gli altri.
È il caso di Amerigo Fusco, della cui amicizia mi onoro ormai da tempo.
Amerigo è un servitore dello Stato, appassionato di storia, di diritto e di sport estremi.
Ma non c’è nessuna di queste sue passioni che non sia intrisa di senso istituzionale, di amor di Patria, di dovere, di onestà e di giustizia.
Ovviamente, ripeto, è un mio amico: ho avuto varie prove di tutte le sue virtù nei bei momenti che hanno scandito la nostra amicizia.
Ma l’ultima dimostrazione me l’ha data una delle sue fatiche letterarie, che ho avuto il privilegio di leggere, sebbene con molto ritardo, ovviamente per colpa mia.
Mi riferisco al libro “Non solo una valigia di cartone. Storie di migranti italiani”. Scritto per i tipi di “La strada per Babilonia”, nel maggio del 2021 e acquistabile qui, ma non solo. Era stato intervistato anche dal nostro Direttore Alessandro Conte, sempre per la rubrica bookreporter a questo link. Non è il classico racconto di sofferenza e di povertà che hanno contraddistinto l’emigrazione italiana nel secolo scorso.
Questo libro è anzitutto la punta di un iceberg di un’immensa opera di ricerca, con una minuzia di particolari, di dati ed informazioni che, forse, avrebbero potuto impegnare svariate equipe di dottorandi all’università.
Il lavoro di analisi ed il successivo lavoro di sintesi di Amerigo Fusco è veramente impressionante.
Tuttavia, egli stesso riconosce come il suo lavoro sia parziale, perché, sulla base di pochi dati iniziali in possesso, ha cercato di approfondire lo spaccato delle realtà migratorie italiane negli Stati Uniti, in Australia, in Sudamerica, e in alcune parti dell’Europa, concentrandosi solo su alcuni piccoli paesi dell’Italia meridionale che sono saltati alla sua attenzione per la vasta portata del fenomeno. Del resto, è impossibile raccontare l’emigrazione italiana in un solo volume. Eppure, ritengo che – secondo il metodo usato da Fusco – egli abbia sicuramente scritto tutto quanto fosse possibile sulle specifiche realtà che ha scelto.
In sostanza, egli ha scelto alcune piccole comunità dell’Italia meridionale, in diverse regioni e ha studiato come i cittadini di quei paesini si siano trasferiti talvolta in massa in altri continenti o in altri territori della nostra Europa.
Non è il solito racconto, ripeto.
Anche qui si parla di miseria, di miniere, di agricoltura, di self made men e di storie di successo, ma anche di morti e di alcuni insuccessi.
Tutto ciò che è alla base del fenomeno migratorio italiano – sofferenza sudore e lacrime – si dà per scontato.
Chi si accosta a questa lettura deve necessariamente possedere un minimo background culturale tale da fargli intendere, dietro le righe, quali fossero le condizioni dei nostri emigranti all’estero.
Non esisteva tutela sociale, non esisteva la gender-equality, non esistevano l’inclusione e la diversity.
Esistevano solamente il lavoro duro, il lavoro nero, il razzismo e lo sfruttamento.
Sfruttamento che talvolta era considerato assolutamente legittimo ed era persino istituzionalizzato.
Alcuni italiani ce l’hanno fatta; alcuni italiani sono riusciti. Moltissimi no.
Molti sono tornati in Patria, molti altri si sono stabiliti con le loro famiglie e con le generazioni successive alla loro nei territori che inizialmente avevano varcato con incertezza e solitudine.
Alcuni sono diventati manager e imprenditori di successo, altri rimangono affermati in una categoria della borghesia media o medio-alta.
Il fattor comune è che molti emigrati all’estero conservano la cittadinanza italiana, molti altri pensano all’Italia e non si sono mai del tutto separati da essa, anche se sanno benissimo che non vi torneranno più.
Il trait d’union talvolta è la cucina, molto più spesso è la lingua.
Questi italiani, non sempre di seconda o terza generazione, ma alcuni ancora in vita dalla prima migrazione del secondo dopoguerra, ricordano perfettamente le strade dei loro paesi, le usanze, gli alimenti, le bevande, le cerimonie religiose.
Amerigo Fusco, armato di curiosità, passione e pazienza è riuscito a intervistare un discreto numero di italiani all’estero, ci ha parlato utilizzando i mezzi tecnologici a disposizione, specie in periodo di pandemia, è riuscito ad accreditarsi presso quelle famiglie e quelle comunità.
Ha spiegato il suo intento di ricercatore e di persona affamata di conoscenza e di valori, e ne ha fatto un libro.
Ha incontrato sindaci, ha incontrato emigranti, ha visitato luoghi remoti della nostra Italia, spesso molto lontani dalle principali città anche dell’Italia meridionale e dove una ritualità contadina o comunque agropastorale è ancora in vita (per fortuna).
Si parla di Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia.
Ma anche di Belgio, Germania, Stati Uniti, Argentina, Venezuela, Australia…
Senza nascondere un brevissimo e lieve momento autobiografico, assolutamente minimo rispetto all’immensa opera nel suo insieme, Amerigo ha dimostrato che fuori dall’Italia esiste un’altra Italia ancora, fatta di altri italiani, fatta di altre storie.
Fatta di tanti sacrifici, ma anche di tante soddisfazioni.
Insomma: un vero elogio delle virtù italiche, ma con una retorica completamente diversa, un metodo particolare, un punto di vista eccezionale.
Che dire?
Consigliatissimo e commovente. 

E, come dico sempre, “Bravo Amerigo!”

Domenico Martinelli

 

Articolo dello stesso autore comparso anche sulla rivista scientifica euNOMIKA a questo link.

Morte tra le reliquie. Pubblicato il nuovo romanzo del criminologo e poliziotto Carlo Bui.

BOOKREPORTER di
La copertina del libro

È stato pubblicato da qualche settimana, per i tipi del Centro Studi Criminologici Giuridici e Sociologici , “Morte tra le reliquie”, il nuovo romanzo di Carlo Bui.
Ancora una volta, un racconto molto affascinante ed avvincente.
Rispetto alla precedente esperienza letteraria dello stesso autore, “Morte tra le rovine” (di cui abbiamo già scritto qui), il plot narrativo (ed investigativo!) di questa più recente fatica letteraria si dimostra molto più complesso ed articolato, soprattutto per tutto ciò che ruota all’oggetto di indagine del romanzo: la figura di Maria Maddalena.
Personaggio storico e spirituale studiato, venerato e raccontato in tutto il mondo, la Maddalena è stata ed è tuttora al centro di studi e dissertazioni che riguardano la sua vita e, non a caso, le sue reliquie.
Nel nuovo romanzo di Carlo Bui si intrecciano accadimenti del passato e spiritualità ed una costante riflessione nel presente sul significato storico e religioso delle reliquie.
Nei vari capitoli – tra omicidi efferati, scene cruente ed episodi di follia – il lettore si troverà a riflettere sulla possibile e concreta esistenza dei resti della Maddalena in Europa.
Inevitabile porsi l’interrogativo se quello che si stringe tra le mani sia un romanzo o un saggio.
In realtà si tratta di entrambe le cose, perché è un testo che si può leggere in varie modalità. Rileggendolo, inoltre, si percepisce ogni volta un particolare diverso, un possibile punto di vista differente da quello che ci si era fatti inizialmente.
Ma non solo: ci sono informazioni inedite ed intuizioni sulla storia del cristianesimo, sull’esoterismo, sulla criminalistica e sulle scienze forensi, tanto che uno dei temi ricorrenti è il continuo accostamento tra fede e scienza, perché – in certi tratti – sembra che l’autore riesca a dimostrare l’indimostrabile ed a rendere possibile l’impossibile.
Non è un’iperbole: è la realtà dei fatti. Accanto ai dubbi che da sempre hanno attanagliato i fedeli, i curiosi, i collezionisti (anche morbosi) e gli storici di Maddalena si affiancano fatti realmente accaduti, evidenze scientifiche, pubblicazioni e personaggi realmente esistenti.
In un viaggio tra cattedrali e abazie, isole e città, in vari luoghi dell’Italia e della Francia (ma non solo), la vicenda dei personaggi – investigatori che erano i protagonisti anche del suo precedente romanzo – si declina anche attraverso indagini scientifiche e giudiziarie, ricerche sul DNA e dati biometrici.
In questo libro si possono trovare descrizioni dettagliate di luoghi, panorami e patrimoni storico-artistici spesso reconditi e dimenticati, ma pur sempre alla portata e sotto gli occhi di tutti.
Difficile continuare a raccontare il libro senza svelare qualche particolare fondamentale.
Meglio augurarvi buona lettura.
Il libro è in vendita direttamente sul sito del Centro per gli Studi Criminologici (a questo link), su Amazon (a questo link) e, presto, nelle migliori librerie.
Esistono anche una pagina Facebook sull’opera, curata dall’editore, e – ovviamente – anche il sito web dell’autore.

Domenico Martinelli

 

Dalla quarta di copertina:
Il dubbio di morti sospette che si intrecciano con le conoscenze storiche. Il culto di Santi e reliquie, tra emulazione e possesso.
Una indagine complicata, dai risvolti sorprendenti il cui filo conduttore è il fascino carismatico di una donna di 2000 anni fa, Maria di Magdala, la Maddalena.
Un criminologo a riposo e un investigatore in carriera. L’Aquila, il lago di Bolsena, Brescia, la Francia e i Longobardi.
La logica e l’esoterismo, la Chiesa e le superstizioni, la scienza e la fede si fondono in questo romanzo corposo e leggibile secondo metodi e registri differenti.
Tutto è storicamente documentato e scientificamente accertato, eppure…
Non è un saggio, né un romanzo storico, né di formazione scientifica. Non è un thriller, né un romanzo giallo.
Ma potrebbe essere tutte queste cose.
Una summa di saperi poco conosciuti, eppure sotto gli occhi di ogni lettore attento.
Tutto questo è molto altro é… ‘Morte tra le reliquie!’

Nota biografica:
Carlo Bui (Brescia 1960), dirigente generale tecnico della Polizia di Stato, è consigliere ministeriale presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
Scienziato forense e analista criminale (è stato il primo direttore dell’Unità per l’Analisi del Crimine Violento, UACV, del servizio Polizia Scientifica e per anni docente di analisi criminale e di criminalistica) riveste attualmente numerosi incarichi istituzionali orientati alla ricerca e alla innovazione tecnologica applicate alla sicurezza interna e alle indagini di polizia.
E’ autore del romanzo ‘Morte tra le rovine’ , edito nel 2006 dalla CSE, Centro Scientifico Editore.

Analoga recensione è presente sulla rivista www.eunomika.com
 

 

Quando tutto sarà finito. Ancora sulla necessità sociale di rivalutare lo strumento militare.

Senza categoria/SOCIETA' di

Esattamente un anno fa, soffermandomi sulla immane tragedia del coronavirus, che ha impattato su tutto il mondo e – primo tra tutti – sul nostro Paese, avevo analizzato con questo articolo, in maniera volutamente prolissa e polemica, il ruolo sociale dello strumento militare e l’assoluta necessità di rivalutarlo e riconsiderarlo in maniera più benevola al termine della pandemia. Leggi Tutto

Che cos’è la sostenibilità digitale? Ce lo spiega il libro del prof. Stefano Epifani.

La copertina del libro “Perché la SOSTENIBILITÀ non può fare a meno della trasformazione DIGITALE”

La sostenibilità digitale […] rappresenta un elemento di supporto che deve arricchire la sostenibilità ambientale, quella economica e quella sociale, rappresentando un elemento abilitante e – nel contempo – una chiave di lettura della tecnologia […]”

Lo ammetto: recensire il libro “Perché la sostenibilità non può fare a meno della trasformazione digitale“, scritto qualche mese fa dal prof. Stefano Epifani per i tipi del Digital Transformation Institute non è una cosa affatto semplice.
E non perché il testo sia complesso, tutt’altro: è scritto in maniera molto lineare, comprensibile e leggera, rendendo peraltro appetibili anche ai meno esperti del settore una serie di temi piuttosto complessi ed interdisciplinari, rifuggendo da particolari o nomenclature tecniche.
E, infatti, del libro di Stefano Epifani si comprende anzitutto questo: non occorre essere dei tecnici per capire le nuove tecnologie, ma bisogna aprirsi a ciò che nuovo e – quanto meno – provare a diventare dei tecnologi, nella consapevolezza che l’uomo del nostro tempo non può far finta di nulla e voltarsi dall’altro lato, quando si tratta di nuovi strumenti che impattano inevitabilmente sulle nostre vite.
Partendo dalla definizione di “sostenibilità“, che subito – com’è giusto che sia – ci fa pensare a questioni ambientali, il prof. Epifani ci introduce ai concetti, più articolati, di sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Non ci soffermeremo sulle definizioni ma, come recita il testo di cui stiamo parlando, occorrerà sempre ricordare come “il sistema economico, quello sociale e quello ambientale sono – sempre – strettamente collegati tra loro: qualsiasi cosa si faccia agendo su uno di essi ci saranno impatti sugli altri“.
In termini estremamente sintetici e assolutamente non esaustivi: la sostenibilità – come principio guida delle tecnologie e delle scienze umane – può consentire un uso virtuoso dell’ambiente, dell’economia e della società in maniera da impiegarli e viverli al meglio nel presente; essa però prevede che l’uomo di oggi preservi il loro uso e godimento nelle migliori condizioni anche per le generazioni future.
A corollario di tutto, non potendo ignorare quanto succede alla tecnologia ormai da molti anni, la sostenibilità digitale si pone come strumento di perfezionamento, di integrazione, di miglioramento ed ottimizzazione dei tempi, delle dinamiche e dello studio dei vari macro-temi che sottendono alla sostenibilità in generale.
Anzi, dopo la lettura di questo testo, è facile comprendere come la sostenibilità digitale non sia un corollario ma, ormai, sia divenuta la base – o quanto meno, un punto fermo – della sostenibilità in senso generale.
Percorrendo anche gli albori ed i primi passi delle “nuove” tecnologie (ormai non tutte così “nuove”, come internet), questo libro ci guida in maniera ordinata verso le varie pietre miliari che hanno scandito il percorso dell’uomo tecnologico e ci guida, gradualmente, verso l’internet delle cose, i big data o l’intelligenza artificiale, spiegandoci tutto senza formule o enunciazioni di leggi fisiche o chimiche.
Ma non solo: in un succedersi di dicotomie volte a meglio comprendere le tecnologie e la sostenibilità digitale (reale/virtuale, sicurezza/libertà, privacy/controllo, apertura/chiusura, possesso/consumo, utente/attore) è possibile capire le differenze e, talvolta, anche i tranelli – non solo semantici – che si nascondono dietro alcune espressioni che tutti crediamo di possedere e di padroneggiare.
Il rischio, però, è quello di essere sbugiardati: siamo davvero sicuri di conoscere “compiutamente” i concetti di sharing economy, di car sharing, di home restaurant, di social eating, di copyright o copyleft (e l’elenco potrebbe continuare…)?
Passando dai social media agli smart grid, dagli smart whatch allo smart farming, questi termini – solo per citarne alcuni – ci sembrano apparentemente noti e chiari, ma in realtà nascondo insidie: il libro di Epifani cerca però di aprire gli occhi, di confutare il complottismo ed il timore che ultimamente si è ingenerato nelle nuove tecnologie; esso ci insegna, invece, a non preoccuparci delle “insidie“, ma a comprendere e ad utilizzare le nuove tecnologie in maniera consapevole, proprio per non averne paura e per produrre dei benefici per chi verrà dopo di noi.
Insomma: nel libro si fondono storia, tecnologia, sociologia, antropologia, comunicazione.
Ma è anche un racconto, non necessariamente fantascientifico: per porre il lettore nelle migliori condizioni di comprendere quanto sta per leggere, ogni capitolo è preceduto da una specie di tale immaginario, che ipotizza – ai giorni nostri – personaggi contemporanei alle prese con le nuove tecnologie e ne racconta, nel bene e nel male, i pensieri e le sensazioni. Come reagiranno un tassista, un giornalista, un medico o un agricoltore di fronte alle innumerevoli svolte tecnologiche ormai possibili ed accessibili per tutti?
Il libro, sostanzialmente, ci illustra una nuova filosofia, ma non trascura nemmeno il diritto (internazionale e non): il particolare fondamentale da noi finora omesso, infatti, è che l’analisi di Epifani muove in parallelo con i vari task ed obiettivi di sviluppo sostenibile assegnati “all’umanità” dall’Agenda 2030 e tiene in considerazione anche la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, i Millennium Development Goals, il Manifesto per la Sostenibilità Digitale e quello sulle Fake news… il tutto partendo dal Red Flag Act promosso dalle autorità del Regno Unito per “ostacolare” lo sviluppo dell’automobile e favorire cocchieri e carrozze nella Londra di quasi due secoli fa.
Un testo consigliatissimo, un manuale per comprendere – anche da profani – le nuove tecnologie, uno spunto di approfondimento per ulteriori riflessioni e un “vaccino” per evitare paure e fobie verso il mondo che verrà.
Disponibile su carta e, ovviamente, in formato digitale, oltre alla ricca bibliografia il testo vanta un’introduzione a cura di Alberto Marinelli (direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale – CoRis – de “La Sapienza”), la prefazione a cura di Enrico Giovannini (portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile e professore dell’Università “Tor Vergata”) e la postfazione a cura di Sonia Montegiove (direttrice editoriale di Tech Economy 2030).

Domenico Martinelli

Profilo sintetico dell’autore:
Stefano Epifani è docente di Internet Studies in Sapienza, Università di Roma, dove insegna dal 2003. Giornalista e advisor internazionale sui temi di sostenibilità digitale, dal 2010 collabora con agenzie delle Nazioni Unite ed altre istituzioni sul tema degli impatti della trasformazione digitale applicata i processi si sviluppo urbano sostenibile.
Nel 2012 ha fondato Tech Economy, oggi Tech Economy 2030: il primo magazine digitale italiano dedicato alla sostenibilità digitale. Nel 2015 ha fondato il Digital Transformation Institute, istituto di ricerca di cui è tutt’oggi presidente.

 

Recensione pubblicata dallo stesso autore sulla rivista euNOMIKA a questo link. 

 

“Homo Googlis”. In libreria il nuovo libro dell’avv. Gianni Dell’Aiuto.

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La copertina di “Homo Googlis”, ultimo libro di Gianni Dell’Aiuto.

E’ uscito – per i tipi delle Edizioni Efesto – “Homo Googlis”, il nuovo libro di Gianni Dell’Aiuto.
Un volume in cui l’autore riesce a tipizzare e descrivere una nuova strana figura di abitante del pianeta terra e che sembra avere preso il posto dell’Homo Sapiens, il suo predecessore.
L’Homo Googlis è una razza che vive costantemente in rete, non a caso definita il suo habitat naturale dentro il quale è riuscito a svilupparsi e compiere la sua evoluzione (o involuzione?); il suo primo gesto al mattino è controllare le notifiche sullo smartphone, non solo quelle di lavoro.
L’Homo Googlis è colui che fornisce anche il carburante con cui funziona internet, vale a dire i suoi dati personali che vengono letteralmente regalati alle multinazionali che operano online per permettere lodo di profilare ogni singolo utente.
Questa nuova razza è afflitta da malattie che non esistevano prima dell’ingresso di internet nel nostro quotidiano, come la dismorfia da snapchat e le fobie da disconnessione, si informa chiedendo sui social o su wikipedia e, grazie a questa illusione di sapere, si può dichiarare sui suoi profili social “laureato all’università della vita” e, pertanto, vuole dire la sua su tutto e contro tutti, giungendo a farsi beffe della scienza.
L’autore, Gianni Dell’Aiuto, è un avvocato, toscano di origine, che vive e lavora a Roma. Da sempre è attento alle tematiche non solo strettamente legali che si muovono sulla rete; in questo suo libro passa da Manzoni a Zuckerberg, da Bill Gates a Kipling, descrive il signor Beppe Stizzosetti, un tipico Homo Googlis e tocca addirittura Platone e la filosofia Greca, ingenerando forti dubbi se non un senso di inquietudine nel lettore sui danni che possono derivare da un cattivo uso di un cellulare, non a caso paragonato ad un arma.
Nella prefazione, di Francesco Saverio Vetere, ci si sofferma sui richiami filosofici del testo: che cosa c’entra la scienza fondativa della ragione con questo strano uomo frutto di un uso incontrollato di internet?
La risposta c’è, e partendo dal mito della caverna e, anche attraverso Don Ferrante de “I promessi sposi“, si arriva a Google e ai suoi creatori, che sono riusciti a generare l’Homo Googlis in meno di un quarto di secolo.
A madre natura erano occorsi millenni per la sua evoluzione.
Dello stesso autore – che collabora anche con European Affairs Magazine – ricordiamo le seguenti fatiche letterarie (reperibili qui) di taglio professionale e non:

  • La protezione dei dati personali. Tra GDPR e altri rischi della rete
    Gianni“, Edizioni Efesto, 2019;
  • Regolamento europeo della privacy. Vademecum per aziende e liberi professionisti. Come sopravvivere al GDPR ed essere in regola” (scritto a quattro mani con Alessandro Papini), Edizioni Efesto, 2019;
  • È successo a te“, Edizioni Efesto, 2017;
  • Cronache da ultima pagina“, Edizioni Guida, 2009.

 

Recensione comparsa anche sulla rivista euNOMIKA, a questo link.

Eureca: forum sul Natale con Don Paglia, Brunetta ed o sindaci di Cortina e Sorrento

BreakingNews di

Sara’ certamente un Natale difficile, molto diverso dal solito, ma forse proprio per questo le regole che dovremo rispettare e le rinunce che dovremo accettare costringeranno tutti a riflettere a fondo sul significato e l’importanza di questa festa.
E’ da questa considerazione che nasce l’iniziativa di EURECA, Idee per l’Italia e l’Europa, per affrontare questo tema sotto aspetti e con interlocutori diversi per cultura e competenze professionali.
‘Che Natale sarà: per i cattolici, le famiglie, il turismo e l’economia’, questo titolo e sottotitolo dell’evento in programma on line martedi’ prossimo alle 17.  Diversi i partecipanti.
L’arcivescovo Vincenzo Paglia, oltre a ricordare il significato di questa ricorrenza religiosa, farà il punto sui provvedimenti anticovid assunti anche per le funzioni religiose e esprimerà’ la sua opinione sulla proposta, finalizzata a scongiurare assembramenti e avanzata in alcuni ambienti politici, di anticipare di qualche ora la nascita di Gesù.
I sindaci di Cortina d’Ampezzo Gianpietro Ghedina, e di Sorrento, Massimo Coppola spiegheranno invece come queste due importanti località turistiche si preparano ad affrontare un periodo di festa che vede albergatori, ristoratori, commercianti e tutte le persone impiegate nel settore sciistico costretti a rinunciare a gran parte dei loro guadagni, vuoi per la chiusura totale di alcune di queste attività, vuoi per la forte limitazione di altre e infine per il divieto di passare da una regione all’altra. Provvedimenti sui quali discuteranno e si confronteranno Andrea Romano, esponente del Partito Democratico e Renato Brunetta, responsabile economico di Forza Italia.
Inevitabile che si parli anche del sostegno in Parlamento dato pochi giorni da tutto il centrodestra nel voto sullo scostamento di bilancio. Rappresenta un’eccezione o, sia pure con responsabilità’ e ruoli diversi, apre la strada a una collaborazione tra maggioranza e opposizione?
E questo quali effetti politici potrebbe avere nel proseguo della legislatura? Domande inevitabili e che Angelo Polimeno Bottai, presidente di Eureca e vicedirettore del Tg1, metterà’ sul tavolo della discussione.
Il webinar, che come sempre si avvarrà della coordinamento tecnico di Claudio Verzola, sara’  visibile in diretta su assoeureca.eu e su radioradicale.it.

Quis contra Nos? Fiume d’Italia e i 100 anni della Carta del Carnaro.

STORIA di

L’8 settembre è normalmente ricordato per la firma dell’armistizio del 1943, che pose fine alla seconda guerra mondiale e che diede il via ad una sanguinosa e tragica guerra civile nel nostro Paese, i cui effetti – ahinoi! – si vedono ancora oggi.
Ma l’8 settembre del 2020 si festeggia una ricorrenza più importante per altri motivi, di natura sicuramente più nobile, dal valore storico inenarrabile e dal significato giuridico senza pari.
Stiamo parlando del centenario della promulgazione della Carta del Carnaro, che ricorre oggi.
La Carta del Carnaro – così denominata dai più – era la Costituzione, la legge fondamentale di cui si era dotata la Reggenza Italiana del Carnaro: una città-stato, di forma repubblicana, inizialmente auto-annessasi al Regno d’Italia e poi dichiaratasi di fatto indipendente, nel corso dello svolgersi dei vari capitoli dell’impresa dannunziana di Fiume d’Italia.
Non ci soffermeremo affatto sull’epopea fiumana o sul mito, la leggenda, la figura e l’inimitabile vita di D’Annunzio.
Solo l’ingresso a Fiume d’Italia, il primo capitolo di questa avventura, meriterebbe svariati volumi per essere raccontato con adeguata passione e con il rigore storico che merita.
Per non parlare di quello che Fiume d’Italia è stata, nei mesi successivi alla “Santa Entrata”, da un punto di vista militare, politico, sociale, ideologico, spirituale e via discorrendo.
La premessa fondamentale, a proposito di ideologia, è che Fiume d’Italia ed il dannunzianesimo non c’entrano assolutamente nulla con il fascismo.
Il militarismo e l’arditismo, ed anche la violenza, che hanno caratterizzato i pochi mesi di vita di questa città libera ed indipendente, nulla hanno a che fare con i colori, i miti, i motti ed i costumi del fascismo.
Fu Mussolini a copiare in toto la simbologia e la mitologia militarista e superomistica di D’Annunzio e dell’esperienza fiumana. Pensate solo a “eja eja alalà”… che era un motto di guerra, rispolverato dal Vate per galvanizzare i suoi legionari e che egli stesso aveva ripreso dal mito greco dell’Alalà: una divinità che aleggiava sui campi di battaglia, figlia di Pòlemos, invocata dagli opliti prima della guerra.
Il corollario a questa premessa è che Mussolini fu sicuramente, per sua convenienza e solo inizialmente, un sostenitore della causa fiumana e di D’Annunzio. Ma D’Annunzio non fu mai fascista e -come è noto – durante il ventennio fu confinato ed isolato dal regime, che lo aveva di fatto depauperato della sua immagine, con cui il Vate ben avrebbe potuto mettere in ombra quella del duce.
Ma torniamo a noi: la Carta del Carnaro.
Fu scritta dal famoso sindacalista Alceste de Ambris, interventista e di cifra socialista.
Ovviamente anche D’Annunzio, il Comandante, ci mise mano e conferì alla carta costituzionale quel sapore poetico e lirico che probabilmente non esiste in altri documenti di matrice giuridica.
Se pensiamo a quanto successe in Italia negli anni successivi all’ esperienza fiumana – anni di censura, di omicidi di Stato, di guerra, di liberticidi – la carta di Fiume d’Italia assume ancora maggiore importanza e dovrebbe costituire un monito per il Legislatore, anche per quello di oggi.
Ma stiamo parlando del 1920!
Fino ad allora, non era esistita una legge fondamentale che fosse così improntata al rispetto della libertà e, diciamocela tutta, dell’amore nel senso più elevato del temine.
Gli articoli della carta parlavano di democrazia diretta, di autonomia, di sovranità dei cittadini.
I cittadini erano uguali, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione e censo.
Si parlava già di decentramento, di salario minimo, di istruzione primaria obbligatoria e di assistenza in caso di malattia e disoccupazione.
Ma esisteva anche il principio dell’inviolabilità del domicilio, della proprietà privata, del risarcimento in caso di errori giudiziari o di abuso di potere da parte dello Stato.
Preso in prestito dalla Common Law, esisteva anche diritto all’habeas corpus, ossia il diritto – per un cittadino arrestato o detenuto – di essere portato innanzi ad un giudice che verificasse il suo stato di salute e valutasse la legittimità della sua detenzione.
Esistevano la libertà di religione, il suffragio universale ed una suddivisione della società in corporazioni (che, solo in parte, fu ripresa dal corporativismo di stampo fascista negli anni successivi).
Esisteva la figura del Comandante, un reggente temporaneo, che governava con pieni poteri lo Stato solo in caso di estrema urgenza e necessità.
Per il resto, esistevano dei ministeri, un apparato giudiziario molto articolato e complesso – e dalla lettura della carta si evince chiaramente quale e quanto fosse l’interesse di quel Legislatore verso un corretto funzionamento della giustizia – ed un notevole interesse era riposto anche nell’istruzione.
Non parliamo della difesa della Patria e del sistema militare di Fiume d’Italia. Dovremmo scrivere un poema. Ma davvero un poema nel senso letterale del termine.
Come tutti sappiamo, con il “Natale di sangue”, la vita di Fiume d’Italia finì molto presto, troppo presto. Le convenienze politiche e le questioni politiche internazionali dell’epoca preferirono la ragion di stato al senso di patriottismo e di coesione nazionale.
Tuttavia, oggi, di Fiume d’Italia e della sua legge fondamentale rimane l’idea.
Quest’idea – unica ed originalissima in tutte le sue sfaccettature – proprio perché si tramutò in una costituzione repubblicana liberale e democratica ante-litteram va studiata ed approfondita.
Molte idee ed ideali di democrazia che la carta propugna sono di difficile e concreta attuazione ancora oggi.
Personalmente, dopo aver letto svariate pubblicazioni su D’Annunzio, sull’esperienza fiumana, sulla vita a Fiume d’Italia, penso che – nella pur breve parentesi di questa esperienza tutta italiana – la costituzione dell’epoca fosse stata applicata in pieno, in termini di libertà, senso di appartenenza alla comunità, costumi e spiritualità.
Fiume d’Italia fu anche la sede della Lega internazionale dei popoli oppressi e si fece promotrice e creatrice di una rete di attivisti nel campo dei diritti e

del desiderio di rivalsa di altre Nazioni (non Stati, non paesi, ma “Nazioni”), anche molto lontane dall’Italia, ma che già allora pretendevano il giusto riconoscimento, le giuste libertà, ed il giusto rispetto.
Leggete di Fiume d’Italia, leggete di D’Annunzio, leggete la Carta del Carnaro: non potrete far altro che abbeverarvi ad una fonte libertà e di idee, di amor di Patria, di civismo, di amore di sé e di cultura.

 

Domenico Martinelli

Qualche riflessione per prepararci al prossimo 2 giugno

Politics di

Una delle tante evoluzioni delle Frecce Tricolori

Tra qualche giorno in occasione del 2 giugno,  festa della Repubblica, le Frecce Tricolori – orgoglio nazionale – sorvoleranno i cieli d’Italia. 
La consueta parata militare non si potrà tenere per ovvi motivi di sicurezza dei militari che sfilano e del pubblico che potrebbe assembrarsi per ammirarli.
Sicuramente il volo delle frecce tricolori sarà criticato da qualche antimilitarista, più o meno sabotatore della politica di difesa nazionale, che lamenterà il costo esoso del carburante dei velivoli e che coglierà l’occasione per ribadire quanto sia costosa oggi la difesa in Italia, gli F35, e in generale tutto ciò che sia riferibile allo specifico comparto (diceva il Vate: “non timeo culices!”)
La parata non si terrà, e direi anche giustamente. 
Mi rattrista però pensare che, qualora non ci fosse stata l’epidemia, la parata si sarebbe tenuta con l’ormai consueta e trendy dimostrazione di austerity. 
Mi spiego meglio: da tanti anni ormai la parata si celebra con sempre meno reparti militari in campo, sempre meno carri armati, sempre meno missili, e sempre più componenti civili che sfilano unitamente agli appartenenti al comparto difesa e sicurezza. 
In pratica, bisogna far vedere a tutti che abbiamo delle Forze Armate, ma bisogna vergognarsi di far vedere quante ne abbiamo, quante indennità di missione siano state liquidate al personale per intervenire alla parata, e comunque bisogna mostrarsi militari, ma non troppo bellicosi e non troppo combattivi.
Come se una squadra di rugby esibisse giocatori sottopeso o smilzi per fare in modo che non si dica che il rugby è uno sport che richiede prestanza fisica, sacrificio, una certa muscolatura ecc. ecc.. 
Tralascio al riguardo considerazioni politiche, ma lascio al lettore intendere quale sia la contraddizione – purtroppo non solo in termini – di voler organizzare una parata militare, che però non sia troppo militare.
Difficile anche da concepire filosoficamente.

Questo senza nulla togliere a chi presta servizio civile, o magari appartiene a corpi civili o non armati dello Stato – penso alla Protezione Civile ed ai Vigili del Fuoco o alla Polizia Municipale – che svolgono un lavoro degnissimo, indispensabile, troppe volte sottovalutato e senza il quale la nostra Repubblica sarebbe davvero persa. 
La parata militare dovrebbe essere semplicemente, orgogliosamente ed anche spocchiosamente una parata militare.
Superato questo fin troppo lungo inciso sulla sfilata, ritengo sarebbe giusta una riflessione sulla necessità di non disperdere il senso di patriottismo che buona parte degli italiani hanno ritrovato, riscoperto o conosciuto ex novo in questo periodo di tragica pandemia. Francamente in questi giorni io non ho mai cantato l’Inno d’Italia – chiamato così da tutti, ma ben sappiamo che il nostro inno si intitola “Canto degli Italiani” – perché mi sembrava un’esternazione troppo goliardica di un momento, quale quello del canto dell’inno nazionale, che dovrebbe essere connotato da maggiore rispetto e sacralità. 

Durante l’esecuzione dell’inno non si balla, non si gesticola, si resta fermi, si ascolta o si canta… senza la mano sul cuore (non siamo americani!).
Tuttavia ho apprezzato l’iniziativa  ed anche quella di esporre tricolori un po’ dappertutto.

Patriottismo e coronavirus (fonte: www.lasesia.vercelli.it)

Il patriottismo che ha permeato i nostri cuori in questi giorni non è né di destra né di sinistra: non tutto ciò che è nazionale è beceramente  “fascista”, e non tutto ciò che è internazionale è beceramente “comunista”. 
Ragionare secondo questi schemi categorici, ora come allora, è stupido, ipocrita e anacronistico. 
Sarebbe bello che ognuno conservasse questo attaccamento all’idea di Nazione, di Patria, di tricolore e di italianità.
Ritengo sia molto sbagliato ricorrere ai nostri simboli nazionali solo durante un incontro di calcio o solo ed esclusivamente quando sia capitato qualche guaio, quando si senta collettivamente il bisogno di appellarci a qualcosa che ci unisca tutti. 
Guardate proprio gli americani: siano essi repubblicani o democratici, i nostri cugini d’oltremare sono tutti estremamente nazionalisti – in senso buono – e mettono i loro colori, i loro simboli unitari, il loro inno, l’esaltazione delle Forze Armate davvero dovunque e dappertutto. 
Sarebbe bello che, asciugate le lacrime per i nostri innumerevoli morti, figli d’Italia che hanno pagato lo scotto di una minore conoscenza di questo perfido virus, tutti portassimo con noi questo sentimento di appartenenza nazionale.
Sarebbe bello che tutti – dopo aver imparato ad utilizzare Zoom, Google meet, l’identità digitale ed il sito dell’Inps – imparassimo ad utilizzare quotidianamente questo fiero sentimento di orgoglio nazionale e di patriottismo per migliorare il nostro lavoro, la nostra famiglia, la nostra società.
La parola patriottismo, spesso associata solo a movimenti di destra, dovrebbe essere invece una parola totalmente priva di colore politico. 
Il patriottismo non è fanatismo fazioso, non dovrebbe appartenere solo a pochi (spesso solo ai militari!), ma dovrebbe contraddistinguere ogni cittadino italiano a prescindere dal suo credo politico e dalle sue abitudini di vita.

Carabinieri a cavallo in parata sui Fori Imperiali

Se tutti condividessimo questo senso patriottico di appartenenza alla Nazione saremmo ancora uniti nel cantare il nostro inno e nello sventolare la nostra bandiera, ricordandoci di questi simboli anche in questi ultimi giorni, in cui ci è stato concesso di uscire, di incontrarci, di avviare una forma moderata di socialità e di viaggiare all’interno delle Regioni.
Dovremmo cercare tutti di non disperdere i sentimenti e l’orgoglio di appartenenza nazionale, di italianità, di speranza nei destini della nostra Patria anche quando il coronavirus sarà solo un lontano ricordo.
Ricordiamoci invece di quanto i nostri simboli ed i nostri colori ci abbiano unito e ci abbiano fatto sentire vivi e fiduciosi che tutto sarebbe andato bene.

Ripartono i workshop di approfondimento in “Psicologia giuridico forense”

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Ripartono i workshop di approfondimento in “Psicologia giuridico forense” L’emergenza coronavirus non ha fermato l’attività didattica del Centro per gli Studi Criminologici Giuridici e Sociologici di Viterbo.
È infatti indetto il nuovo ciclo 2020 dei workshop di approfondimento in “psicologia giuridico forense”.
I corsi saranno erogati in modalità interamente on-line, così come previsto dalle recenti disposizioni volte a garantire la sicurezza dei discenti e dei formatori. Leggi Tutto

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