Breve riflessione sul ruolo dello stato nell’economia

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L’articolo di questa settimana vuole essere una breve riflessione sul ruolo dello stato dell’economia ed è ispirato anche dalla mia personale esperienza lavorativa all’interno di una direzione organizzazione di un importante multinazionale delle partecipazioni statale.

Come noto le teorie keynesiane sostengono che lo Stato deve intervenire in economia, per sostenere la domanda e questa tesi economica ha dato origine al modello di economia che viene definita mista.

Tutto quanto sopra in contrasto e in polemica con le teorie liberiste del laissez faire, che propugnavano che le libere forze di mercato dovessero essere lasciata libere di agire, senza subire l’intervento delle politiche di bilancio e monetarie dello stato.

Keynes nei suoi trattati sosteneva che lo stato deve fare per l’interesse pubblico quello che i privati non vogliono e non sanno fare, difatti affermando che il mercato da solo non era in grado di soddisfare tutti i bisogni della collettività.

Anche in italia a partire dalla crisi del 29 e dal conseguente collasso del sistema bancario e industriale abbiamo assistito alla nascita dell’IRI, istituto per il salvataggio e gestione delle banche e industrie del sistema italiano, che erano entrate in quegli anni in crisi quasi irriversibile (non è questa la pagina per illustrarne le ragioni).

Intervento statale nell’economia dell’IRI che è stato proseguito e ampliato anche con l’avvento della repubblica ed è durato fino a quasi l’inizio degli anni 2000 e ha consentito il consolidarsi di un industria di stato che in particolare nel settore delle telecomunicazioni (Telecom, Stet, Poste etc) ha rappresentato l’infrastruttura fondamentale e strategica di tale settore dell’economia italiana.

Inoltre nel dopo guerra per volontà e straordinaria visione di Ernico Mattei si è vista la nascita dell’ENI la principale multinazionale italiana non solo pubblica (anzi di iniziativa pubblica), che ha garantito al paese l’accesso a quelle fondamentali risorse energetiche, che hanno permesso lo sviluppo e il decollo industriale del nostro sistema economico.

Strategicità del settore energia per il nostro paese confermato dal fatto che l’Italia pur essendo il secondo paese manifatturiere dell’europa non dispone di risorse energetiche proprie ma deve necessariamente acquisirle sui mercati esteri.

Tale fu l’importanza in quegli anni dell’ENI che Mattei il suo presidente condusse quasi un’ autonoma politica estera verso i paese arabi produttori di petrolio anche contrasto con le famose sette sorelle del mercato petrolifero, proponendo accordi vantaggiosi per tali paesi ma nel contempo garantendo alla nostra nazione le risorse energetiche necessarie al suo sviluppo economico e senza le quali il miracolo economico italiano non si sarebbe avverato.

Inoltre da sempre l’ENI ha garantito al tesoro suo azionista di riferimento dei ricchi dividendi e quella necessaria liquidità per le esangue casse statali, grazie all’ oculata gestione dell’ente effettuata da Mattei e dai suoi successori.

Stesso discorso per il mondo delle industrie in mano pubblica delle tele comunicazioni che hanno cablato e messo in comunicazione il nostro paese e che hanno anche loro garantito nel tempo ricchi dividendi per l’IRI e il ministero del tesoro, tante è vero che la STET era definita allora dai giornali la gallina dalle uova d’oro delle partecipazioni statali.

Analogo discorso vale per l’ENEL che nacque a seguito dalla nazionalizzazione  dell’energia elettrica fino a loro in mano a monopoli regionali, che consentì alle industrie e ai consumatori di avere la disponibilità di energia elettrica a buon prezzo e concorrenziale con quella degli altri paesi occidentali.

Insomma l’intervento dello stato nell’economia ha consentito attraverso l’utilizzo di denaro e investimenti pubblici, di creare quelle economie di scala e finanziarie che garantissero la creazione di quelle infrastrutture sistemiche e strategiche così vitali e necessarie per lo sviluppo del nostre paese.

Certo che poi dagli anni settanta in poi con la fine del miracolo economico e con la crisi economica del nostro paese conseguente allo shock petrolifero, l’IRI, in particolare, trasformò parzialmente la proprio mission anche in quella di salvataggio delle imprese in crisi spesso in realtà anche decotte, nel miraggio così di salvaguardare l’occupazione e l’interesse sociale della collettività.

Insomma come si disse allora più avanti da parte degli storici commentando quella stagione del paese di cui sopra, lo stato si era messo a produrre gelati e panettoni e non più solo a garantire le infrastrutture e know how strategico per il paese.

Fu certamente una politica sbagliata che caricò di perdite l’IRI, non sufficientemente compensata dai dividendi dei settori trainanti (come detto ad esempio come detto le telecomunicazioni).

Oggi diversamente anche per impulso delle direttive europee sappiamo che è inutile difendere con aiuti di stato le imprese decotte e obsolete tecnologicamente e che invece le risorse statali e pubbliche vanno concentrate sui settori innovativi ed emergenti, perché sono quelli che creano ricchezza e soprattutto occupazione.

Poi arrivò negli anni 90 il vento del supposto cambiamento che portò a una stagione poi rivelatasi fallimentare dove si credeva che l’intervento dello stato fosse deleterio in toto nell’economia e che quindi bisognasse prontamente e a qualunque costo disfarsi delle partecipazioni statali financo dei suoi gioielli che rendevano fior di dividendi (vedi STET e Telecom).

Si diceva sempre che la vendita delle partecipazioni statali avrebbe consentito di ripianare il debito pubblico accumulato a partire dagli anni 70; debito che con i suoi interessi gravava così pesantemente sul bilancio italiano.

Insomma si confuse il fatto che l’IRI era gravata dal peso di aziende oramai decotte acquisite per salvaguardare l’occupazione (o almeno così si credeva), con l’intenzione insensata di vendere i ngioielli delle partecipazioni statali come ad esempio la Telecom, che rappresentavano invece quelle infrastrutture e know how strategico, che doveva diversamente rimanere in mano pubblica (o almeno nel suo controllo), per tutelare l’interesse pubblico strategico.

Aziende e gioielli delle partecipazioni statali che furono svendute ai mercati finanziari se non agli amici di politici, come appunto il caso della Telecom che addirittura fu comprato con i debiti (cosiddetto management buy out) dalla cordata guidata dall’imprenditore Colannino.

Sulla vendita della Telecom un grande intellettuale ed economista come Guido Rossi tuonò dalle pagine di repubblica che la presidenza del consiglio del governo stava funzionando come una merchant banck e aggiungo neanche tanto efficiente visto che i nostri gioielli delle partecipazioni statali furono di fatto svenduti.

Lo stesso Guido Rossi osservava che la Deutch Telecom tedesca era invece rimasta saldamente in mano al settore pubblico ed era il centro nevralgico e il motore propulsivo dell’innovazione del mondo della telecomunicazione e tecnologico di quel paese progredito che è la Germania.

Similmente anche in Francia lo stato ha agevolato in questi anni la nascita e il consolidamento di industrie di stato (o comunque con golden share in mano allo stato) campioni nazionali nei settori infrastrutturali e strategici dell’economia francese, vigilando anche che le aziende di rilevanza strategica nazionali e il loro know how non finissero in mano straniera.

Settore delle reti di telecomunicazione infrastrutturale e strategico che sarà sempre e ancora più importante nel futuro per l’avvento della banda larga e del 5G che collegheranno non soltanto milioni di persone, ma anche decine di milioni di computer e miliardi di oggetti per l’avvento della cosiddetta era dell’Internet of things.

La crisi della Telecom italiana in mano private e straniere (vedi gruppo vivendi del finanziere Bollorè) di questi anni è l’evidenza della mancanza oramai da trenta anni di una reale e fattiva politica industriale, per la nostra economia da parte dei vari governi che si sono avvicendati al potere in questi anni.

Fortunatamente negli ultimi tempi sembra che si stia verificando un’ inversione di tendenza ad esempio proprio, con l’acquisizione di una quota del 9,81% di Telecom da parte della nostra nuova finanziaria di partecipazione cassa depositi e prestiti (la nuova IRI??), che sta cercando di formare un cartello fra i vari azionisti per rilanciare Telecom e i suoi progetti di banda larga per la sua rete infrastrutturale di telecomunicazione.

Cassa Depositi e Prestiti che anche facendo aggio delle enormi risorse finanziarie in suo possesso. per la sua gestione dei depositi di Poste Italiane, dovrà proprio fungere da finanziaria di partecipazione e polo di controllo delle aziende strategiche, per il nostro paese sia dal punto di vista infrastrutturale che del know how, preservandone il controllo in mano pubblico e supportandone finanziariamente lo sviluppo.

Stesso discorso vale anche per ITA la compagnia di bandiera nata dalle ceneri della gloriosa Alitalia, che deve garantire l’infrastruttura dei trasporti a supporto dello sviluppo e valorizzazione del nostro turismo e commercio estero, nella speranza che questa volta i sindacati siano collaborativi con la nuova proprietà statale e cooperino nel portare i livelli di produttività di piloti e personale di assistenza a livello di quello delle altre compagnie estere, rendendo così la nuova compagnia finalmente competitiva a livello mondiale.

Altro settore fondamentale e infrastrutturale è quello dell’acciaio e dell’ILVA in particolare colosso del settore, per la quale anni fa con il piano Bondi si garantiva con appena un miliardo di euro la sua riconversione ecologica e che invece fu ceduta in modo fallimentare alla cordata straniera ArcelorMittal e che ora finalmente tornerà in mano pubblica ma i cui costi di riconversione ecologica sono nel frattempo quintuplicati, con grave danno per l’erario.

Insomma come nei corsi e ricorsi storici dopo la sciagurata stagione della svendita dei gioielli delle nostre partecipazioni degli anni 90, si è tornata a comprendere che lo stato deve intervenire nell’economia e  favorire la crescita e sviluppo di aziende campioni nazionali nei settori infrastrutturali e strategici del nostro paese e tutelarne il possesso del relativo know how e controllo in mani pubbliche o almeno italiane.

Quindi anche quando lo stato decida una parziale privatizzazione delle nostre aziende partecipate pubbliche (come è avvenuto per ENI, Poste ed Enel), è sempre necessario che ne mantenga il controllo economico o almeno abbia a disposizione una golden share, così come avviene in tutti i paese occidentali, nella giusta difesa dell’interesse nazionale.

 

 

 

Bookreporter Settembre

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