GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Dicembre 2018 - page 2

20 anni di Chavismo: il Venezuela e il suo inarrestabile declino

AMERICHE di

Nicolas Maduro si confronta in questi giorni con i leader alleati, ad un mese dal rinnovo ufficiale del suo mandato, cercando di affrontare il rifiuto di una parte significativa della comunità internazionale. L’incontro con il suo omologo russo, Vladimir Putin, è l’ultima esibizione della sua limitata accettazione della situazione critica e della ricerca di cooperazione  per far fronte alla crisi economica del paese latinoamericano.

Dopo 20 anni di chavismo al potere, il paese è in rovina e al governo manca sia il supporto interno che esterno. La popolarità di Maduro è scesa ai livelli più bassi da quando il tenente Hugo Chávez aveva vinto le elezioni presidenziali, il 6 dicembre del 1998. Maduro è stato eletto il 14 aprile 2013, un mese dopo la morte del suo leader, con quasi il 51% dei voti contro il 49% dell’oppositore Henrique Capriles. A novembre di quest’anno, il politico aveva a malapena il 20% dell’elettorato a favore, secondo il sondaggio Omnibus della società Datanalisis. Parte di questo rifiuto è direttamente attribuito al collasso finanziario del paese sudamericano, una delle nazioni con la maggior parte di risorse petrolifere  del pianeta.

Il Venezuela è, d’altronde, tra le economie con il rendimento peggiore del mondo, con uno dei più alti tassi di povertà, secondo gli ultimi dati. La causa principale è l’iperinflazione. I dati ufficiali sono occultati dal governo venezuelano, ma la sfortuna finanziaria, accompagnata da un deterioramento istituzionale, trabocca la realtà. Il Fondo Monetario Internazionale, senza andare troppo lontano nel tempo, prevede che i prezzi cresceranno nei prossimi anni a un tasso inimmaginabile del 10.000.000%.

Molti sono quelli che hanno votato Chavez e che all’inizio del suo mandato potevano vivere una vita più che dignitosa, ma che ora riescono a malapena a mangiare due volte al giorno. Per alcuni sociologi, la causa del disagio economico è da ricercarsi nel modello chavista, che ha avuto al centro la campagna denominata “Plan Socialista de la Nación”, dove la linea strategica è stata basata su una sostituzione  della proprietà privata con la proprietà pubblica. Fin dal principio il Presidente aveva annunciato che avrebbe impiantato nel paese il socialismo del XXI secolo. Tra il 2005 e il 2011 c’è stata un’ondata di espropri da parte dello Stato, che oggi è in possesso di 576 aziende, di cui almeno 441 sono state create o acquisiti con diversi modalità, tra cui la confisca e la nazionalizzazione durante i governi prima di Chavez e poi di Maduro, secondo un rapporto della ong Transparency International. Pochi imprenditori trovano redditizio operare nel paese. Molte multinazionali e compagnie aree hanno lasciato il paese dal 2005, fra queste Parmalat, Pirelli, Kellogg, Kraft e Heinz.

Da quando Maduro, all’incirca tre mesi fa, ha attuato un piano di recupero, si continua a non vedere nessun tipo di miglioramento dal punto di vista economico e non solo. Secondo molto analisti, il 20% dei negozi non aprirà battenti nel prossimo anno. Le conseguenze dell’iperinflazione si riscontrano nella devastazione dell’apparato produttivo. Il governo non offre cifre per poter indicizzare il salario dei venezuelani e ciò accentua il declino del potere d’acquisto. Inoltre, molte aziende hanno un calo delle richieste di prodotti, naturalmente. Il panorama futuro non è positivo: è necessario generare credibilità per creare fiducia e, secondo molti, questo governo fa solo annunci che poi non realizza. A giudizio di molti economisti, questo processo di aumento senza fine dei prezzi viene definito come il più dannoso dell’America Latina degli ultimi anni: solitamente l’iperinflazione porta ad un cambio della politica economica o ad un cambio dei politici che detengono il potere. Queste situazioni hanno una “media di vita” di 20 mesi (nel caso del Nicaragua 5 anni), mentre nel caso venezuelano non si sa quanto durerà, ma l’unica certezza al momento è che sia diventata già qualcosa di storico.

Il collasso di Pdvsa. Il fallimento di Petróleos de Venezuela (Pdvsa) è fondamentale in questo labirinto di errori. Chávez, assediato da uno sciopero petrolifero, ha licenziato i più alti funzionari del settore, nel 2002. E non tutti i nuovi membri si sono distinti per la loro professionalità, ma soltanto per la loro fedeltà nei confronti del presidente. Il nuovo presidente della compagnia petrolifera, Manuel Quevedo, un militare senza esperienza nel settore energetico, è stato scelto, dopo che Maduro aveva accusato l’ex consiglio di corruzione nel 2017. Ad occhio niente sembra essere cambiato in questi anni.

Il petrolio era diventata una bandiera per Chavez. Il governo con il suo slogan “ahora Pdvsa es de todos”(ora Pdvsa appartiene a tutti) voleva dimostrare  che la distribuzione del petrolio avrebbe fruttato introiti per l’intero paese, ordinando di diversificare le funzioni dell’industria petrolifera che doveva farsi carico anche dei programmi sociali. Nel 2008, i prezzi del greggio hanno superato i 120 dollari a barile, ma lo Stato non ha approfittato del reddito milionario in entrata per investire nel settore stesso. Contrariamente a ciò che si pensava durante il “periodo positivo”, il gioiello del paese è caduto in disgrazia portandosi dietro anche la maggior parte dei venezuelani. Nel 2014, Maduro  ha escluso una crisi causata dalla diminuzione del costo del barile: “Un governo rivoluzionario con potere economico, come quello che presidio, ha piani per sopravvivere a qualsiasi situazione, così che possono diminuire i prezzi quanto vogliono”, cambiando idea soltanto pochi mesi dopo, accusando il ribasso dei prezzi come causa della crisi venezuelana.

Oggi, a distanza di anni, la situazione è ancora critica. Il danno all’industria petrolifera è impossibile da nascondere o giustificare, il che ha portato il governo ad ammettere che sono stati commessi errori.

Di Mario Savina

Omicidio Kashoggi: la Turchia ordina l’arresto per due collaboratori di Bin Salman.

MEDIO ORIENTE di

Il procuratore di Istanbul ha emesso mandati di arresto questo mercoledì contro due stretti collaboratori del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohamed Bin Salman, che si ritiene coinvolto nell’organizzazione dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Nel dettaglio si tratta del generale Ahmed al Asiri, vice capo dell’intelligence saudita, e Saud al Qahtani, consigliere del principe nel campo della comunicazione e uno dei responsabili della politica di segnalare e rendere pubblici quelli che vengono considerati nemici del regime wahhabita. Entrambi sono stati sollevati dalle loro posizioni mentre le investigazioni sul caso avanzavano, commesso nel consolato saudita a Istanbul, e mentre si rendeva sempre più chiaro che Kashoggi fosse stato ucciso seguendo un piano premeditato e ben organizzato. Nessuno dei due è stato accusato nell’inchiesta aperta nel loro paese d’origine, a differenza degli undici membri della squadra di esecuzione che era arrivata a Istanbul e lo stesso giorno se ne era ritornata in patria: per cinque di loro, il procuratore generale saudita ha chiesto la pena di morte.

Tuttavia l’accusa turca ritiene che Al Asiri e Al Qahtani “fanno parte della squadra che ha pianificato il tutto” ed accusati di aver partecipato ad un “omicidio intenzionale e premeditato, in modo crudele e con la volontà di voler torturare la vittima”, per questo se ne richiede l’arresto. La Turchia ha tentato, senza molto successo, di convincere l’Arabia Saudita a estradare tutti i soggetti coinvolti nel caso affinché vengano giudicati dalla giustizia turca, con esplicito rifiuto da parte di Riyadh.

Il mese scorso, Istanbul ha reso pubblici i primi risultati delle indagini, secondo cui Kashoggi è morto per asfissia, dopo essere entrato il 2 ottobre all’interno del consolato saudita, dopodiché il suo corpo è stato smembrato per farlo sparire. Nonostante siano passati due mesi, la polizia turca non è stata in grado di trovare un indizio che possa portare a scoprire qualche traccia del corpo, il che fa pensare che sia stato sciolto nell’acido. Al contrario, il governo turco ha ammesso di essere in possesso di alcune registrazioni che dimostrerebbero l’omicidio e che queste siano state condivise con i servizi segreti di altri paesi.

Fra quelli che hanno visto le prove turche c’è Gina Haspel, direttore della CIA, che il martedì scorso è apparsa davanti ad una Commissione del Senato per spiegare ciò che il suo governo conosce sul caso. Altri elementi, come il Presidente della Commissione Affari Esteri al Senato, Bob Corker, ha spiegato che Mohamed Bin Salman sarebbe stato processato e condannato in mezzora da una qualsiasi giuria. Altri ancora, come Lindsey Graham, sono sicuri che le probabilità che il principe ereditario non sia coinvolto nel caso sono pari a zero. Tuttavia, gli alti ufficiali dell’amministrazione Trump sostengono che non ci sono prove che collegano direttamente il principe saudita alla morte di Kashoggi.

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha chiesto, lo scorso mercoledì, di avviare un’inchiesta internazionale per tentare di chiarire l’accaduto: “Penso sia particolarmente necessario per scoprire cosa sia realmente accaduto e chi siano i responsabili di questo terribile omicidio”. Il Ministero degli Esteri turco ha risposto che non esiterà a prestar tutta la collaborazione possibile qualora venga avviata un’iniziativa del genere. Non ci resta che aspettare.

Di Mario Savina

Attacco Russo nel Mare d’Azov: il destino dei catturati marinai ucraini

EUROPA di

Il 25 novembre la guardia costiera russa ha sparato contro le navi ucraine nel Mar Nero in acque internazionali e, di successivamente, ha catturato le tre navi e i marinai ucraini che erano a bordo. Sei marinai ucraini sono rimasti feriti. Le navi sono state portate nel porto di Kerch, i marinai catturati si trovano anch’essi sulla penisola occupata di Crimea.L’UCMC ha raccolto delle informazioni sul loro destino che vi  raccontiamo.

I prigionieri ucraini Hanno lo status dei prigionieri di guerra. In base alle Convenzioni di Ginevra del 1949 i marinai ucraini catturati il 25 novembre dalla Federazione Russa sono ritenuti prigionieri di guerra. Si tratta di 24 persone inclusi i due ufficiali di controspionaggio del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina. La maggioranza dei prigionieri sono persone giovani: da 18 a 27 anni. Sono provenienti da diverse regioni ucraine.

I nomi, la lista completa.

 Il 27 novembre Anton Naumlyuk, giornalista del servizio russo della Radio Liberty ha pubblicato la lista completa delle 24 persone ucraine catturate nel mare dalle forze russe. Tre marinai ucraini si trovano nell’ospedale n.1 a Kerch, dove sono stati sottoposti ad interventi chirurgici.

Le confessioni sotto pressione.

Il 26 novembre il Servizio di Sicurezza della Federazione Russa (il FSB) ha pubblicato un video affermando che i tre marinai ucraini – Volodymyr Lisovyi, Ivan Drach e Serhiy Tsybizov avrebbero confessato di aver tentato di attraversare la frontiera russa illegalmente.

Nella registrazione è visibile che i marinai leggano la propria “testimonianza” da un pezzo di carta, descrivendo la rotta delle navi ucraine e ripetendo che “sono entrate nelle acque territoriali della Russia” mentre stavano navigando.

Il 27e 28 novembre il “tribunale” della Simferopoli occupata ha arrestato tutti i 24 catturati marinai ucraini. Il 28 novembre il de facto tribunale delle autorità d’occupazione ha arrestato nove marinai ucraini, incluso un impiegato del 7° direttorato del Direttorato principale del controspionaggio militare del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina, primo luogotenente Andriy Drach e il commandante del motoscafo corrazzato ucraino “Nikopol” Bohdan Nebylytsia.

Il 27 novembre il “tribunale” di Simferopoli ha emesso la decisione di arrestare 12 marinai ucraini per due mesi. Inoltre sono state scelte le misure cautelari – l’arresto fino al 25 gennaio, ai tre marinai che sono stati feriti durante l’attacco russo. Sono Andriy Artemenko, Andriy Eider e Vasyl Soroka.

Le autorità russe imputano ai marinai catturati l’attraversamento illegale della frontiera della Federazione Russa. A difendere i marinai saranno otto avvocati tataro-crimeani. Il capitano della nave “Berdyansk” Denys Hrytsenko sarà difeso dall’avvocato russo Nikolai Polozov.

Mentre si stava preparando questo materiale processuale, il 29 novembre sono arrivate le informazioni, dagli avvocati dei marinai ucraini, che fosse in corso il trasferimento di almeno una parte dei marinai dalla Crimea a Mosca.

Il Comandante delle Forze Navali dell’Ucraina Ihor Voronchenko ha enfatizzato che i marinai ucraini catturati sono stati forzati a dare le testimonianze false sotto pressione. “È stato rilasciato un video con i tre marinai che avevano testimoniato sotto pressione psicologica e fisica. Conosco questi marinai della nave “Nikopol”, sono sempre stati dei professionisti onesti. Quello che dicono adesso non è vero,” ha detto il Comandante. Ha aggiunto che due dei marinai catturati sono originari della Crimea, dove vivono i loro genitori. Questo potrebbe diventare un fattore aggiuntivo per esercitare pressione su di loro.

Inoltre il Comandante delle Forze Navali dell’Ucraina Ihor Voronchenko ha scritto una lettera aperta ai marinai catturati. Gli sarà stata passata attraverso i loro avvocati. Citiamo alcuni pasaggi di essa.

“Fratelli d’armi!

Lo so come vi è difficile adesso. Tutti i marinai militari prendono con comprensione le cosidette testimonianze che si sta tentando di ottenere da voi. I metodi nell’uso dai servizi della sicurezza della Federazione Russa non sono un segreto per nessuno. Ne sono stato sottoposto anch’io nel 2014 e so bene com’è essere in cattività e cosa c’è dietro le vostre parole durante un’interrogazione.

Il mio compito più urgente adesso è di farvi tornare a casa. L’Ucraina sta intraprendendo tutti gli sforzi possibili per liberarvi dalla cattività, coinvolta è anche la comunità internazionale. Per farvi liberare lavorano l’Amministrazione del Presidente dell’Ucraina, il Ministero per gli affari esteri, il Ministero per gli affari dei territori temporaneamente occupati, il Commissario parlamentare per i diritti umani, la Croce Rossa, i volontari e i difensori dei diritti umani. Siamo lo stesso equipaggio, una famiglia, lotteremo assieme a voi fino al vostro ritorno a casa (…)”

Il sostegno pubblico ai marinai.

In Crimea sono stati raccolti circa 140 mila rubli (più di 1.800 euro) per i bisogni dei marinai ucraini catturati dal FSB. Lo ha affermato un attivista tataro-crimeano Nariman Dzhelyal il 28 novembre. Quando si è venuto a sapere che non fosse stato permesso ai marinai di portare con se i loro effetti personali, la gente ha iniziato a raccogliere il denaro e portare al tribunale cibo,  prodotti per l’igiene personale e vestiti.

Osman Pashayev, giornalista ucraino tataro-crimeano, produttore esecutivo del canale televisivo pubblico ucraino “UA:Krym” (UA:Crimea) ha scritto il 29 novembre: “C’erano 857 le persone che avevano raccolto 324.000 hryvnia (più di 10.000 euro) per i marinai ucraini facendo donazioni alla mia carta bancomat.” Il giornalista aggiunge: “Per quasi cinque anni ero convito che, a parte i tatari crimeani, non ci fosse quasi più nessuno a sostenere l’Ucraina. L’eccezione è testimoniata dalle azioni dell’Arcivescovo Climent e dei suoi parrocchiani. Ieri quando si è presentata la necessità per un aiuto urgente, mi hanno scritto cosi tante persone dalla Crimea con cognomi slavi che sono rimasto sbalordito.”

 

Fonte: UACRISIS.ORG

Redazione
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