GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Ottobre 2018 - page 2

Visti umanitari per i rifugiati: la proposta alla Commissione UE

EUROPA di

Il Parlamento europeo è composto da diverse commissioni di eurodeputati, permanenti e temporanee, ed ognuna ha una propria specializzazione.

La commissione LIBE – Libertà civili, giustizia e affari interni – è responsabile della maggioranza della legislazione e del controllo democratico delle politiche di giustizia e affari interni a livello europeo. Con ciò, garantisce il pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione Europea, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del rafforzamento della cittadinanza europea. Tale commissione svolge il suo lavoro interagendo con la Commissione europea e il Consiglio dei ministri, per poi cooperare strettamente con i parlamenti nazionali.

Le politiche in materia di giustizia e affari interni sono volte ad affrontare questioni di interesse comune a livello europeo, quali la lotta contro la criminalità internazionale e il terrorismo, la protezione dei diritti fondamentali, la protezione dei dati e della vita privata nell’era digitale, la lotta contro la discriminazione basata sull’origine etnica, la religione, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
Nella riunione della commissione LIBE del 10 ottobre 2018, i membri hanno affrontato diverse questioni: il progetto di relazione sulle norme per le minoranze nell’UE, con il relatore József Nagy (PPE) e i visti umanitari, con il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D); l’uso dei dati degli utenti di Facebook da parte di Cambridge Analytica e l’impatto sulla protezione dei dati, con il relatore Claude Moraes (S&D).

In particolare, nell’ambito dei visti umanitari, è emerso che:

– i detentori dei visti avrebbero accesso al territorio dell’Unione al solo scopo di richiedere protezione internazionale;

– i visti sarebbero da rilasciare presso le ambasciate e i consolati dell’UE all’estero;

– il 90% di quelli che hanno ottenuto protezione internazionale nell’UE è arrivato con mezzi irregolari;

– circa 30.000 persone sono morte cercando di raggiungere l’Europa dal 2000.

Dunque, con 39 voti favorevoli e 10 voti contrari, il Comitato per le libertà civili ha approvato la richiesta alla Commissione europea di presentare entro il 31 marzo 2019 una proposta legislativa che istituisca un visto umanitario europeo, che dia accesso al territorio europeo, in particolare allo Stato membro che rilascia il visto, al fine di presentare una domanda di protezione internazionale.

Nel corso dell’incontro, i deputati hanno sottolineato che, nonostante numerosi annunci e richieste di percorsi sicuri e legali per i richiedenti asilo in Europa, l’Unione Europea non dispone di un quadro preciso di procedure di ingresso. I rifugiati, attraverso i visti umanitari, avrebbero accesso al territorio dell’Unione Europea così da poter richiedere protezione internazionale.

Si ritiene infatti che i paesi dell’Unione Europea dovrebbero essere in grado di rilasciare visti umanitari presso ambasciate e consolati all’estero, così da consentire ai rifugiati in cerca di protezione di accedere all’Europa senza rischiare la vita.

Gli obiettivi di tale richiesta sono: tagliare il bilancio delle vittime, combattere il contrabbando e migliorare l’uso dei fondi di migrazione. Secondo la commissione LIBE, i visti umanitari contribuirebbero a far fronte al numero intollerabile di vittime nel mar Mediterraneo e quindi nelle rotte migratorie verso l’Unione Europea; inoltre, i visti servirebbero per combattere il contrabbando di esseri umani che si è creato e per gestire gli arrivi, l’accoglienza e il trattamento delle domande di asilo in un modo migliore. Attraverso i visti umanitari, si dovrebbe anche contribuire all’ottimizzazione da parte degli Stati membri e del bilancio dell’Unione Europea in materia di asilo, per le procedure di applicazione della legge, il controllo delle frontiere, la sorveglianza, la ricerca ed infine il soccorso.

Per poter ottenere il visto umanitario, i rifugiati beneficiari dovranno dimostrare un’esposizione o un rischio di persecuzione nel paese di origine ben fondati e non essere già parte di un processo di reinsediamento; prima di ottenere il visto, ogni candidato verrà sottoposto ad uno screening di sicurezza, attraverso le relative banche dati nazionali ed europee, per garantire che questo non costituisca un rischio per la sicurezza.

Il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D) ha dichiarato: “Nel contesto di un bilancio delle vittime inaccettabile nel Mediterraneo, il Parlamento Europeo deve dare risultati. Il voto di oggi è un passo limitato, ma comunque un segnale politico molto importante per la Commissione europea. Dobbiamo fare di più per aiutare quegli esseri umani bisognosi, poiché attualmente non esistono abbastanza percorsi legali e sicuri per l’UE per coloro che cercano protezione internazionale”.

Per ciò che riguarda i prossimi step, questa iniziativa legislativa sarà sottoposta a votazione da parte del Parlamento europeo nella seduta plenaria di novembre. Se adottata in seduta plenaria a maggioranza qualificata, la Commissione dovrà fornire una risposta motivata alla richiesta del Parlamento.

Amnesty in vista dell’abolizione totale della pena di morte: che cessi il trattamento crudele dei condannati!

EUROPA di

In occasione della giornata mondiale contro la pena di morte, che si tiene il 10 ottobre, Amnesty International ha dichiarato che i prigionieri condannati a morte devono essere trattati con umanità e dignità, oltre che ad essere detenuti in condizioni rispettose delle norme e degli standard internazionali dei diritti umani. In occasione del 10 ottobre Amnesty ha lanciato una campagna in Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia affinché i rispettivi governi pongano fine alle inumane condizioni dei condannati a morte e assumano iniziative in favore dell’abolizione totale della pena capitale.

Nel 2017 Amnesty International ha registrato 993 esecuzioni in 23 paesi, il quattro per cento in meno rispetto al 2016 e il 39 per cento in meno rispetto al 2015. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ma questo dato non tiene conto delle migliaia di esecuzioni avvenute in Cina, dove le informazioni sull’uso della pena di morte restano un segreto di stato.  Stephen Cockburn, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International, ha dichiarato che “A prescindere dal crimine che possa aver commesso, nessuno dovrebbe essere costretto a subire condizioni inumane di detenzione. Invece, in molti casi, i condannati a morte sono tenuti in rigido isolamento, vengono privati delle cure mediche di cui necessitano e vivono nella costante ansia di un’imminente esecuzione. Il fatto che alcuni governi notifichino l’esecuzione ai prigionieri e ai loro familiari pochi giorni, se non addirittura pochi minuti prima, aggiunge crudeltà alla situazione. Tutti i governi che ancora mantengono la pena di morte dovrebbero abolirla immediatamente e porre fine alle drammatiche condizioni di detenzione che troppi condannati alla pena capitale sono costretti a subire”.

La dichiarazione universale dei diritti umani all’articolo 3 dice che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Il diritto alla vita è inerente alla persona umana e deve essere protetto dalla legge in quanto nessuno può e deve essere privato arbitrariamente della vita.  La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con il protocollo numero 6 ha fatto enormi passi in avanti verso l’abolizione della pena di morte. All’articolo 1 dichiara che la pena di morte è abolita in quanto nessuno può essere condannato alla pena capitale o essere giustiziato. Rimaneva però la possibilità per lo  stato di prevedere nella propria legislazione la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminenti di guerra solo nei casi previsti dalla legislazione. A questo si accompagnava l’obbligo di comunicare al segretario generale del Consiglio d’Europa le disposizioni in materia della legislazione nazionale. Il protocollo numero 6 è stato il primo strumento giuridico obbligatorio in Europa e nel mondo che ha sancito l’abolizione della pena di morte in tempo di pace, non essendo permesse deroghe in situazioni di emergenza né riserve. L’ulteriore passo in avanti è stato fatto con il protocollo numero 13 relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza (maggio 2002). Gli stati firmatari del protocollo, determinati a compiere il passo definitivo al fine di abolire la pena di morte in qualsiasi circostanza, hanno vietato qualsiasi deroga e riserva alla norma sull’abolizione della pena di morte. In Italia la pena di morte, invece, era stata abolita già nel 1948 all’articolo 27 della costituzione, per reati comuni e per i reati commessi in tempo di pace. Poi con la legge 589 del 1994 è stata disposta l’abolizione dal codice militare di guerra e dalle leggi militari di guerra. Ad oggi, l’articolo 27 della costituzione, semplicemente, stabilisce che “non è ammessa la pena di morte”.

In Ghana i condannati a morte denunciano che spesso non ricevono le cure mediche necessarie per curare malattie o disturbi di lunga durata. Decine di prigionieri del braccio della morte, compresi sei con disabilità psicointellettiva certificata, hanno dovuto affrontare condizioni carcerarie deplorevoli, caratterizzate da sovraffollamento e da mancanza di assistenza medica e di opportunità educative e ricreative. Meno del 25 per cento dei reclusi del braccio della morte, intervistati da Amnesty International, era riuscito a presentare un ricorso in appello contro il verdetto di colpevolezza o la propria condanna. Pochi dei prigionieri intervistati sapevano come presentare appello o accedere a una rappresentanza legale d’ufficio, mentre la maggior parte di loro non poteva permettersi economicamente una consulenza legale privata. In Iran, Mohammad Reza Haddadi, nel braccio della morte da quando aveva 15 anni, ha dovuto subire la tortura di vedersi fissata e poi rinviata l’esecuzione almeno sei volte negli ultimi 14 anni. Le autorità iraniane continuano ad effettuare centinaia di esecuzioni di persone condannate al termine di processi iniqui e alcune delle esecuzioni sono avvenute in pubblico. A ciò si accosta una propaganda che definisce “antislamiche” le campagne pacifiche contro la pena di morte e le vessazioni e incarcerazioni di attivisti contrari alla pena di morte. Hoo Yew Wah ha presentato una richiesta di clemenza alle autorità della Malaysia nel 2014 ed è ancora in attesa di una risposta. La pena di morte è obbligatoria per alcuni reati tra cui il traffico di droga, l’omicidio e l’uso di armi da fuoco con l’intenzione di uccidere o di far del male in determinate circostanze. A novembre, il parlamento ha emendato la legge sulle droghe pericolose, dando alla magistratura la facoltà di decidere sull’obbligatorietà della pena di morte, nel caso in cui l’accusato fosse un corriere della droga e avesse cooperato con la polizia nel “fermare le attività del traffico di droga” anche se la disposizione includeva obbligatoriamente 15 colpi di frusta. Il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte in Bielorussia fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione preventiva ai prigionieri, alle loro famiglie o agli avvocati. Per esempio, ad aprile è stata effettuata l’esecuzione di Siarhei Vostrykau, che era nel braccio della morte da maggio 2016 e la a corte regionale di Homel ha ricevuto conferma della sua esecuzione il 29 aprile. L’ultima sua lettera ricevuta dalla madre era datata 13 aprile. Nel frattempo, Matsumoto Kenji, in Giappone, soffre di delirio molto probabilmente a causa del prolungato isolamento in cui trascorre l’attesa dell’esecuzione.

Amnesty International si oppone sempre alla pena di morte, senza eccezione e a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche del condannato e dal metodo usato per eseguire le condanne a morte. La pena di morte è una violazione del diritto alla vita,  è l’estrema punizione crudele, inumana e degradante.

Trump, The Donald

AMERICHE di

Donald Trump è uomo con indubbie qualità. Ha dimostrato di essere un imprenditore furbo e capace di fare soldi, ha condotto con successo un programma televisivo ed ha sedotto, da outsider, milioni di americani con un gradimento che, nonostante feroci attacchi di stampa e oppositori, sembra essere costantemente in ascesa.

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La Macedonia al voto per un futuro in UE e NATO

EUROPA di

Il 30 settembre 2018 i macedoni sono stati chiamati a votare sul cambio del nome del paese e non solo, poiché il risultato ha avuto conseguenze anche sul piano politico europeo: i cittadini che hanno partecipato al referendum  si sono trovati a dover scegliere per l’ingresso nell’Unione Europea e nella Nato della Macedonia, accettando l’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese. In particolare, la domanda sulle schede referendarie è stata «Sei favorevole a entrare nella NATO e nell’Unione Europea, e accetti l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?».

La questione è tutt’altro che semplice: l’instabilità che caratterizza il paese dei Balcani è dovuta anche alla disputa con la Grecia per il nome. Dall’indipendenza della Macedonia nel 1991, vi è stato un continuo scontro con la Grecia sul nome del paese, territorio dell’ex Jugoslavia. In particolare, Atene non accettava il nome “Macedonia” a causa della possibilità che poi la Macedonia potesse nutrire ambizioni espansionistiche sulla provincia greca. Il paese è stato indicato con l’espressione “Repubblica ex jugoslava di Macedonia”, e la Grecia ha sempre posto il veto su ogni accenno di volontà di Skopje di entrare a far parte dell’Unione europea o della Nato. La situazione sembra essere migliorata grazie al raggiungimento di un compromesso con l’accordo di Prespa nel giugno 2018 tra i due paesi, nel quale si è utilizzato il nome “Repubblica di Macedonia del Nord”, così da distinguere lo Stato con la provincia greca.

Con il referendum del 30 settembre è stato proposto di sostituire i nomi “Repubblica di Macedonia” ed “Ex repubblica jugoslava di Macedonia” – Fyrom, usato nelle organizzazioni internazionali – con “Repubblica della Macedonia del Nord”. Sebbene si sia raggiunto un accordo che sembra essere una soluzione alla questione ultradecennale, all’interno di entrambi i paesi la situazione è tutt’altro che tranquilla.

Fin dall’inizio, l’opposizione al governo socialdemocratico di Zoran Zaev si è schierata contro l’accordo e quindi anche contro il referendum in questione, facendo leva sull’identità nazionale in funzione antieuropeista, mentre il governo di centro sinistra, autore dell’accordo con la Grecia, ha fatto campagna per il sì, sperando che un superamento del quorum potesse essere anche una legittimazione popolare per il suo operato. Non si è arrivati ad un vero e proprio boicottaggio da parte dell’opposizione, tuttavia si è spinto verso un astensionismo che ha inciso molto sul risultato referendario. Il referendum è consultivo e non vincolante, dunque per ratificare l’accordo con la Grecia sarebbe comunque necessaria l’approvazione parlamentare con una maggioranza di due terzi. Tale referendum ha molta importanza anche a livello europeo: a dimostrazione di ciò, molte figure importanti dell’Unione Europea e della Nato hanno visitato Skopje durante la campagna referendaria.

All’indomani del voto, ci si rende conto di come il referendum sia stato un vero e proprio flop: l’affluenza alle urne non ha raggiunto il quorum necessario – 50% +1 – con una partecipazione ferma circa al 35%. Tra i voti ottenuti, il 90,8% degli elettori ha votato a favore del cambio del nome del Paese – e di tutto ciò che ne consegue – mentre vi è stato solo il 6,18% di voti contrari, poiché chi voleva esprimere una posizione contraria ha preferito astenersi, così da non far raggiungere il quorum per la validità del referendum. Secondo il primo ministro macedone, è stato il boicottaggio operato dall’opposizione a provocare una così bassa affluenza, causata anche dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, il nazionalista Gjorgje Ivanov, il quale considera l’accordo di Prespa come una violazione della sovranità nazionale macedone.

Si può quindi parlare di una vera e propria vittoria della destra e del centrodestra, ma il primo ministro Zaev sembra tutt’altro che scoraggiato: europeista convinto e fautore del referendum in questione, promette di continuare a lottare per garantire al paese balcanico l’integrazione in UE e NATO. La questione del referendum macedone ha avuto delle reazioni anche a livello europeo; l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini e il commissario europeo per l’Allargamento Johannes Hahn hanno infatti dichiarato che “la stragrande maggioranza di coloro che hanno esercitato il proprio diritto di voto ha votato sì all’accordo Grecia e al percorso europeo; ciò è un’opportunità storica per il Paese verso l’Unione Europea”. I due esponenti dell’UE hanno poi confermato il pieno sostegno di Bruxelles alla Macedonia, aggiungendo che “ora spetta a tutti gli attori politici e istituzionali agire seguendo le loro responsabilità costituzionali al di là delle linee politiche”.

Resta un dato di fatto che il referendum non è andato nel verso giusto rispetto a chi lo aveva proposto e promosso, poiché l’affluenza è rimasta molto al di sotto delle aspettative, mentre a festeggiare è stato il Partito Democratico per l’Unità nazionale (Vmro-Dpmne). Tuttavia, il premier Zaev si sofferma sull’importanza del risultato raggiunto, affermando che la volontà degli elettori dovrebbe trasformarsi in un’attività politica del Parlamento macedone; in caso contrario, si è disposti a procedere con delle elezioni anticipate. La già complessa situazione potrebbe allora continuare a complicarsi, alla luce del fatto che alle elezioni del 2016, il Vmro-Dpmne e i Socialdemocratici dovettero negoziare sette mesi per poter formare il governo.

La Macedonia potrebbe trovarsi di nuovo in una difficile campagna elettorale e la possibilità di entrare nell’UE e nella NATO si allontanerebbe ulteriormente.

La sfida UE sulle emissioni CO2: nuovi obiettivi delineati dal Parlamento Europeo

EUROPA di

I trasporti sono l’unico settore rilevante nell’ambito dell’Unione europea in cui le emissioni di gas a effetto serra continuano ad essere in aumento. Al fine di rispettare gli impegni sottoscritti alla COP21 di Parigi nel 2015, è necessaria un’accelerazione della decarbonizzazione dell’intero settore, con l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni inquinanti entro la metà del secolo.

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Francesca Scalpelli
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