Striscia di Gaza: almeno 13 bambini hanno perso la vita dall’inizio delle proteste, 1.000 quelli rimasti feriti

in MEDIO ORIENTE by

Sul piano internazionale, la storia della Striscia di Gaza imbarazza poiché tutti gli attori (Stati uniti e Unione Europea in primis) che si dicono paladini della “pace in Medio Oriente” non vogliono (i primi) e non possono (la seconda) muovere un dito per affrontare radicalmente la questione. Che viene così trascurata, attenuata ogni tanto con discorsi di “investimenti”, di “sostegno allo sviluppo”, di “interventi” che non hanno alcun impatto significativo per sedare la rabbia di chi nasce, sopravvive e muore in quel pezzo di terra recintata. Le ragioni delle proteste iniziate da più di 6 settimane nella striscia di Gaza sono diverse: l’embargo di Israele verso la Striscia di Gaza (che dura da più di dieci anni), l’assenza di prospettive e di lavoro con un tasso di disoccupazione al 44%, il risentimento verso la classe dirigente palestinese, il 30% del taglio dei salari agli abitanti di Gaza solo nell’ultimo anno o anche il fatto che periodicamente mancano acqua, cibo, medicinali, elettricità e carburante. Le proteste hanno visto 108 morti di cui 60 solo nella giornata del 14 maggio. Gli scontri hanno visto da una parte i Palestinesi che cercavano di “abbattere” il muro o di lanciare pietre (pietre che hanno assunto il simbolo del dolore della popolazione palestinese), mentre dall’altra parte del muro vi erano i tiratori scelti israeliani. Amnesty International ha dichiarato che è “aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro i civili disarmati” mentre l’esercito israeliano si è difeso dicendo che tra i 60 caduti vi erano 14 che cercavano di scavalcare il muro o di lanciare molotov o ordigni improvvisati e altri 24 che facevano parte delle brigate di fondamentalisti. In questi scontri non è stato risparmiato nessuno, sono almeno 13 i bambini che hanno perso la vita a Gaza dall’inizio delle proteste mentre il numero di persone rimaste ferite ha ormai superato quota 10.000di cui almeno 1.000 sono minori.  Quella del 14 maggio, sottolinea Save the Children è stata una delle giornate più sanguinose dalla guerra del 2014, con 6 bambini che hanno perso la vita e più di 220 rimasti feriti, tra cui, secondo i dati del Ministero palestinese per la Salute a Gaza, più di 150 colpiti da colpi d’arma da fuoco. Lo stesso Ministero, del resto, conferma che circa 600 bambini sono stati finora ricoverati in strutture ospedaliere, mentre secondo le informazioni diffuse da un’agenzia impegnata nella protezione dei civili almeno 600 minori hanno attualmente bisogno di supporto psicosociale. Inoltre, Anche prima dell’inizio delle proteste, gli ospedali di Gaza erano quasi al collasso con il 90% dei posti letto già occupati. L’afflusso di nuovi feriti ha significato che tante persone vengono curate nei corridoi o dimesse prima di essere adeguatamente curate. A peggiorare ulteriormente la situazione, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, solo a pochissimi feriti viene permesso di lasciare Gaza per cercare assistenza medica, il che aumenta le probabilità di complicazioni e impedisce ai bambini di ricevere le cure di cui hanno bisogno. Nel frattempo, Germania e Regno unito pretendono un’inchiesta indipendente, richiesta che al consiglio di sicurezza è stata bloccata dagli Stati Uniti che riconoscono ad Israele “il diritto di difendere il loro confine”. A ciò si aggiunge il riaprirsi della frattura diplomatica tra Israele e Turchia. La Turchia ha espulso l’ambasciatore di Ankara mentre Netanyahu ferma l’importazione dei prodotti agricoli turchi e rimanda a casa il console a Gerusalemme. I palestinesi sono abituati da sempre a dare grande importanza al dibattito internazionale che si è creato intorno alla loro causa. La nuova amministrazione americana ha nominato un ambasciatore in Israele molto vicino al movimento dei coloni e soprattutto ha deciso di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, una città contesa da decenni fra israeliani e palestinesi. Una decisione che ha convinto molti palestinesi che la soluzione ai loro problemi sia sempre più lontana, per cui l’autorità palestinese ormai non considera più Washington come un mediatore imparziale.

Il comitato organizzatore della protesta si era impegnato a garantire una grande manifestazione non violenta in modo da favorire la partecipazione delle famiglie. In cinque luoghi diversi della Striscia, a circa un chilometro di distanza dalla recinzione, sono stati montati ampi tendoni per i manifestanti. Qui migliaia di persone hanno mangiato e bevuto insieme mentre gli altoparlanti trasmettevano musica leggera. Però qualche centinaio di metri più in là, a poca distanza dalla recinzione, l’atmosfera era molto diversa. A piccoli gruppi provano ad avvicinarsi sempre di più al confine israeliano per lanciare pietre, bruciare copertoni e danneggiare la recinzione. Alcuni di loro sono giovani manifestanti senza particolari affiliazioni politiche mentre altri hanno legami con Hamas. La giornata del 14 è particolare che passa tra il sorriso di Ivanka Trump e il massacro dei palestinesi: mentre delle persone morivano sotto i colpi dei fucili di precisione, a Gerusalemme si teneva la cerimonia in pompa magna per l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense. Trump ha ventilato per mesi la possibilità di partecipare lui stesso alla cerimonia ma alla fine ha mandato sua figlia Ivanka e il marito Jared Kushner. Inoltre, la data è stata scelta con precisione in quanto coincide con i 70 anni dalla nascita dello stato israeliano. Ivanka Trump ha inaugurato la sede dell’ambasciata dicendo: “A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell’ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d’Israele. Inoltre, come è stato detto: “Prevale una versione della storia della Palestina con una costante rimozione: nella terra promessa c’è un altro popolo che sente quella terra come propria per il semplice fatto che ci vive da secoli e secoli. Una contraddizione irrisolta tra il mito del focolare ebraico, dove far tornare un popolo a lungo perseguitato, e la realtà di un progetto coloniale di insediamento: Gerusalemme capitale dello stato israeliano significa anche questo”. Il 15 maggio, anniversario dei 70 anni della Nakba, era previsto come il giorno in cui le azioni di protesta sarebbero state più intense ma è stata una giornata di funerali.

Lo Status di Gerusalemme

Lo scorso 6 dicembre Donald Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Gli Stati Uniti non hanno sempre sostenuto il movimento sionista (movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno Stato ebraico). Per esempio, Roosevelt aveva capito il rischio nel supportare uno stato Israeliano in un momento in cui il mondo arabo mostrava affinità con il socialismo sovietico e possedeva la maggior quantità di petrolio. Truman invece era un simpatizzante sionista e doveva, in parte, la sua elezione alla comunità ebraica americana quindi, una volta diventato presidente, spinse molto per lo Stato di Israele, per questo gli Stati Uniti furono il primo paese a riconoscere il neonato stato ebraico. Nel 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite (che allora contava 52 Paesi membri), dopo sei mesi di lavoro da parte dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) approvò la Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 181 che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500 000 ebrei e 400 000 arabi) e di uno Stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800 000 arabi e 10 000 ebrei). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, sarebbero dovuti diventare una zona separata sotto l’amministrazione dell’ONU. Nella sua relazione l’UNSCOP giunse alla conclusione che era “manifestamente impossibile” accontentare entrambe le fazioni ma che era “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico. Le reazioni alla risoluzione dell’ONU furono diversificate. La maggior parte degli ebrei accettarono pur lamentando la non continuità territoriale mentre i gruppi più estremisti erano contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano “la Grande Israele”, nonché al controllo internazionale di Gerusalemme. Tra la popolazione araba la proposta fu rifiutata, con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico; altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso né sulla principale risorsa idrica della zona, il Mar di Galilea); altri ancora erano contrari perché agli ebrei, che allora costituivano una minoranza (un terzo della popolazione totale che possedeva solo il 7% del territorio), fosse assegnata la maggioranza (56%, ma con molte zone desertiche) del territorio (anche se la commissione dell’ONU aveva preso quella decisione anche in virtù della prevedibile immigrazione di massa dall’Europa dei reduci delle persecuzioni della Germania nazista); gli stati arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due governi. Tra il dicembre del 1947 e la prima metà di maggio del 1948 vi furono cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Venne messo a punto Il piano che aveva come scopo la difesa e il controllo del territorio del quasi neonato Stato israeliano, e degli insediamenti ebraici a rischio posti di là dal confine di questo. Questo prevedeva, tra le altre cose, la possibilità di occupare “basi nemiche” poste oltre il confine (per evitare che venissero impiegate per organizzare infiltrazioni all’interno del territorio), e prevedeva la distruzione dei villaggi palestinesi espellendone gli abitanti oltre confine, ove la popolazione fosse stata “difficile da controllare“. Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, un giorno prima che l’ONU stessa, come previsto, ne sancisse la creazione. Il giorno successivo (15 maggio 1948) gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, attaccarono l’appena nato Stato di Israele ma l’offensiva venne bloccata dall’esercito israeliano. Nel corso della guerra, Israele distrusse centinaia di villaggi palestinesi e fu la concausa dell’esodo degli abitanti. La guerra terminò con la sconfitta araba nel maggio del 1949, e produsse 711 000 profughi arabo-palestinesi. Dall’amministrazione Truman in poi abbiamo assistito a differenti linee guida con i democratici e i repubblicani. L’unica caratteristica che è rimasta stabile nelle differenti politiche è la soluzione a due stati, di fatto nessun presidente ha mai apertamente sostenuto la possibilità che Israele possa annettere automaticamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nella presidenza Reagan invece vi è stato il momento più forte di supporto a Israele, sotto la sua amministrazione Tel Aviv ha guadagnato il titolo di “major non-NATO ally” e che si è tradotto in grandi quantità di denaro e di armi in arrivo da Washington. Con la fine della Guerra fredda il supporto a Israele è diventato più una posizione di politica interna. Inizialmente, dopo la caduta del muro di Berlino, gli Stati uniti hanno cercato di avvicinarsi al tema dei diritti dei palestinesi per cercare alleanze con il mondo arabo che non godeva più del supporto dell’unione sovietica. Ma con gli attacchi alle Torri Gemelle del 2001 e la retorica del terrorismo, l’appoggio per la causa palestinese ha assunto sfumature diverse.  Le due amministrazioni Bush e, in parte, quelle di Obama hanno mostrato una forte vicinanza a Israele ma hanno usato il tema dei diritti dei palestinesi e della difesa dei loro territori come uno strumento per farsi vedere vicini ai temi arabi.

Dal 1947 la questione cruciale dello scontro è lo status di Gerusalemme. Le nazioni unite hanno ripetuto a più riprese la soluzione che comprendeva l’esistenza di due stati e l’amministrazione sotto l’ONU della città di Gerusalemme. Ciò non riuscì ad evitare la divisione effettiva della città tra due gruppi opposti. Sono stati svariati i tentativi di stabilire giuridicamente il possesso della città. Uno dei casi più eclatanti è in seguito alla vittoria da parte di Israele della guerra dei sei giorni e la successiva annessione dei territori del Sinai, della West Bank e delle Alture del Golan. Infatti, immediatamente dopo l’occupazione, il ministro della difesa israeliana Dayan ha proclamato Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. La comunità internazionale non ha riconosciuto l’annessione della città e si è continuato a sottolineare la necessità del regime internazionale sull’area. Ci furono ripetuti tentativi dell’ONU e diverse investigazioni sulla violazione dei diritti umani. Sullo status di Gerusalemme, per esempio, ha dichiarato inammissibile l’acquisizione di un territorio attraverso l’uso della forza, secondo quanto stabilito dalla carta Onu, e ha richiesto il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati, nel riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere e del principio di sovranità. Nel 1980, però, lo stato israeliano ha emanato la Jerusalem Law, con cui si dichiarava Gerusalemme capitale. La dichiarazione venne immediatamente rifiutata dalle Nazioni Unite e dalle altre organizzazioni internazionali. Furono adottate due risoluzioni in quell’anno, la 465 e la 478, in cui Israele veniva accusata di violazione dei diritti umani e si invitava tutti i membri dell’ONU ad interrompere le missioni diplomatiche nella città. Nel corso degli anni le risoluzioni hanno sempre confermato lo status di Israele come forza occupante e il riconoscimento di violazioni dei diritti umani. Anche nella risoluzione del 2016 (Res 2334) è stato riaffermato l’obbligo di Israele di rispettare scrupolosamente i suoi obblighi e responsabilità legali ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra. Inoltre, sono state condannate tutte le misure volte a modificare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, compresa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione degli insediamenti, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e dislocamento di civili palestinesi, in violazione del diritto internazionale umanitario e relative risoluzioni. In relazione a Gerusalemme è stato ribadito che l’istituzione da parte di Israele di insediamenti nel territorio palestinese occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale e un ostacolo principale al raggiungimento della soluzione dei due Stati e un giusto pace duratura e completa. In sintesi, le Nazioni Unite continuano a sottolineare il regime internazionale di Gerusalemme e ad accusare Israele di occupazione illecita del territorio, soprattutto di Gerusalemme est (essendo quella ovest ormai considerata de facto israeliana). Come possiamo notare la soluzione di Trump ha dimostrato di avere pesanti conseguenze e porre una rottura sia con la politica estera americana che con le decisioni internazionali. In molti hanno cercato lo scopo della mossa del presidente degli Stati uniti. C’è chi ha trovato la motivazione nell’avvicinarsi delle elezioni di Mid Term. Trump, poiché sta perdendo consensi tra i moderati, avrebbe deciso di assolutizzare ancora di più il suo messaggio politico per poter raccogliere i voti nei poli più estremi del panorama politico. Inoltre, è stata vista come mossa per tenersi più stretti i cristiani evangelisti all’interno del partito repubblicano e che simpatizzano per la questione ebraica, per evitare che vadano su posizioni più vicine ai nemici interni al partito. Va anche detto che Trump sta cercando di mantenere le sue promesse elettorali non appena gli è permesso dalla situazione. Altre ipotesi che sono state analizzate sono quelle relative agli stessi consiglieri di Trump e anche all’ansia della Casa Bianca di distogliere l’attenzione mediatica dal cosiddetto Russiagate. Ciò che rimane sicuro è che le conseguenze per l’area sono gravi e profonde anche per gli stessi alleati del presidente, come l’Arabia Saudita e l’Egitto. Questi giorni risultano essere un successo non per Israele bensì per il primo ministro Benjamin Netanyahu, per la destra e per i nazionalisti. Questi sono giorni di vittoria per il loro percorso, quello della forza, e della loro fede, quella negli eletti che possono fare tutto ciò che vogliono.

La situazione dei bambini

Jennifer Moorehead, direttrice di Save the Children nei Territori palestinesi occupati ha detto: “L’uccisione dei bambini non può essere giustificata. Chiediamo con urgenza a tutte le parti di adottare misure concrete per garantire l’incolumità e la protezione dei bambini, nel rispetto delle convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario internazionale e delle leggi internazionali sui diritti umani. Chiediamo inoltre a tutte le parti di impegnarsi affinché tutte le proteste rimangano pacifiche, di affrontare le cause alla radice del conflitto e di promuovere dignità e sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi. Le famiglie che incontriamo ci dicono che stanno letteralmente lottando per sopravvivere, mentre cercano di prendersi cura dei propri cari che sono rimasti feriti. Spesso non possono permettersi cure e medicinali e ci raccontano di essere estremamente preoccupate per il futuro dei loro bambini, già devastati da più di 10 anni di blocco israeliano e dal sempre minore interesse da parte dei donatori. Le continue interruzioni di corrente e il congelamento degli stipendi dovuto alle continue divisioni tra l’Autorità Palestinese che governa la West Bank e l’autorità de facto di Gaza, inoltre, significa aggravare ulteriormente le condizioni di vita di famiglie già disperate”. Nella striscia di Gaza, le ostilità hanno esposto i bambini a livelli di violenza e distruzione senza precedenti. La povertà, le condizioni in cui cresce il bambino, la mancanza di istruzione, o il fatto di non avere cibo e acqua sono solo alcune delle problematiche in cui cresce un bambino nelle zone di guerra, queste problematiche hanno effetti sulla salute fisica e mentale del bambino. In questi contesti la personalità e l’intersoggettività del bambino viene distrutta e occorrono importanti cure mediche e piscologiche che spesso solo le ONG possono portare ma trovano ostacoli nel loro operato o perdono fondi per il disinteresse internazionale.  Il “rapporto 2017 – 2018 sulla situazione dei diritti umani nel mondo” di Amnesty International riporta che Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra imposto illegalmente da Israele sulla Striscia di Gaza mantiene in vigore le consolidate restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoponendo a punizione collettiva l’intera popolazione di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto e alle misure punitive imposte dalle autorità della Cisgiordania, il blocco di Gaza da parte d’Israele ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da interruzioni dell’erogazione dell’energia elettrica, passata da una media di otto ore al giorno a un massimo di due o quattro ore giornaliere, da una ridotta fornitura di acqua potabile con implicazioni igienico-sanitarie e da crescenti difficoltà d’accesso all’assistenza medica, rendendo Gaza progressivamente “invivibile”, secondo una definizione delle Nazioni Unite.

Bookreporter Settembre

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